Traduci

Visualizzazione post con etichetta Marinella Correggia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Marinella Correggia. Mostra tutti i post

venerdì 17 agosto 2018

Le donne della Siria e la loro resistenza quotidiana


Storie siriane 2018 (3)

raccolte da Marinella Correggia

ordine.laprovincia.it/  5 agosto 2018

Samarcanda, la canzone di Roberto Vecchioni, sembra ispirata dalla storia che Om Ahmad sta raccontando. Robusta, foulard a fiori in testa e abito nero, seduta sui cuscini che fungono da divano nello spoglio appartamento affittato nel quartiere Masaken Barzeh, spiega che lei, il marito meccanico e i loro tre figli maschi vivevano a Douma, l’area più tradizionalista della regione Ghouta orientale. «Oltre cinque anni fa, mentre diverse formazioni di musallahin - gruppi armati islamisti, ndr – stavano arrivando a controllare l’area, chiudemmo casa e arrivammo qui a Damasco, dove avevamo conoscenze». Guarda il suo secondogenito Rabee, sedici anni, in carrozzella. «Un giorno di tre anni fa, lui e mio marito erano nel garage…. che fu centrato da uno dei missili che colpivano Damasco partendo proprio dall’area che ci eravamo lasciati alle spalle». Letale: il padre di Rabee morì nell’esplosione, e al ragazzo dovettero amputare le gambe maciullate. Tirano avanti con aiuti pubblici e privati. Rabee va a infilarsi le gambe. Con le protesi cammina, ma solo aiutato dal girello: l’amputazione è avvenuta al di sopra delle articolazioni. Ahmed mostra sul cellulare la loro casa a Douma («ci hanno detto che adesso è distrutta»), mentre sua madre dice: «Ho un unico desiderio ormai: che mio figlio possa avere le protesi migliori». E’ probabilmente il sogno di 30.000 amputati di guerra, in Siria.

Ma le donne rimaste a Douma come hanno vissuto gli ultimi mesi di scontri acerrimi fra esercito siriano da una parte e la galassia islamista dall’altra? Dove vivono adesso, visto che così tanti palazzi bombardati sono inabitabili? La nostra visita insieme a Sulaf Maki, giovane siro-sudanese studentessa di cinema impegnata in interviste tutte al femminile in giro per il paese, è stata troppo breve per convincere a parlare almeno una di quelle figure oscure incrociate per strada sotto un sole cocente davvero inadatto alla loro mise: cappotti neri e volto, testa, collo, spalle, talvolta anche gli occhi coperti da stoffe ugualmente nere. Nemmeno le poche infermiere di un ospedale hanno voluto parlare, forse intimorite dalla macchina da presa. Forse molti mariti e figli di queste figure mute combattevano insieme agli islamisti. Ma adesso il governo ricontrolla l’area e nessuno lo ammetterebbe. Chi è rimasto ha accettato di deporre le armi nella cosiddetta riconciliazione. Nondimeno, differenze e diffidenze rimarranno a lungo.

Samar è fra quei 150.000-200.000 abitanti (sul milione e mezzo dell’anteguerra) a non essersi mai mossi dalla Ghouta orientale, ampia area agricola. Vive nella cittadina di Kafarbatna ed è moglie di un agricoltore i cui terreni hanno continuato a produrre ortofrutta e legumi durante la guerra, pur pagando pesanti tangenti in natura ai gruppi armati. Samar ricorda i rischi degli ultimi mesi di guerra: «Ecco, lì, quell’edificio distrutto proprio dall’altra parte della strada, era occupato dai musallahin, l’aviazione lo ha bombardato. Quel giorno ci siamo rifugiati in cantina, ma non abbiamo voluto andare via». I gruppi islamisti che lei chiama «terroristi occupanti» lasciavano a stecchetto la popolazione: «Una volta che sono andati via, si è scoperto che avevano i magazzini pieni degli aiuti alimentari e medici arrivati da fuori Ghouta». Ora nell’area e nei campi degli sfollati si susseguono racconti così, opposti a quelli di chi denunciava un assedio affamante e bombardamenti indiscriminati da parte del governo siriano. Ma in guerra la narrazione è polarizzata.

Per la video intervista, Samar ha indossato il niqab, che lascia vedere solo gli occhi. Impossibile non confrontarla con la donna dietro la telecamera: Sulaf, che sopra i pantaloni e la casacca di maglina lunga porta il velo hijab a coprire testa e collo, «ma sono del tutto laica, lo faccio solo perché mia madre mi ci obbliga, finché non sarò economicamente indipendente, poi basta…».  Disapprova sia le donne murate di Ghouta sia quelle ragazze che a Damasco mettono il velo su magliette iper-aderenti con biancheria imbottita e fuseaux. E sgrana gli occhi a una scena che dal bus intravvede su un marciapiede della capitale: un’ombra alta e imponete in nero totale, con guanti pure neri e due strette feritoie nel niqab. Cosa avrà mai risposto all’uomo male in arnese che le chiedeva non si sa che?

Portano l’hijab e lunghi soprabiti neri anche donne che nemmeno fanno il ramadan (il digiuno religioso dall’alba al tramonto, un mese all’anno). Come Sarah el Hawi, panettiera nel quartiere damasceno di Jaramana; con la famiglia ha lasciato anni fa l’area di Deir Ezzor per sfuggire all’arrivo di gruppi islamisti. O come donne appartenenti a gruppi politici progressisti: Rabab Sweid del Fronte popolare per la liberazione della Palestinavive e milita nel quartiere Rock Eddin sulle alture intorno a Damasco, insieme a cinquemila palestinesi fuggiti negli anni dal campo di Yarmouk, a lungo controllato prima da islamisti e poi da cellule dello Stato islamico. Ma «mi pare indiscreto parlarle dei suoi abiti; forse le servono a essere accettata, in una comunità tradizionale» fa notare la giovane economista agraria Dima Hasan che nel tempo libero fa volontariato presso gli sfollati. Ventinovenne, capelli corvini e abbigliamento tranquillo privo di eccessi, Dima abita da sola a Damasco, in un seminterrato nel quartiere Bab Tuma, popolato da molti cristiani: «Sono nata e cresciuta nella regione di Tartous, in un villaggio sul mare; i miei primi e in fondo unici contatti con gli islamisti sono stati i missili lanciati da Ghouta e Jobar, la capitale ne è stata bersagliata dal 2012 a pochi mesi fa.»

La guerra ha coinvolto in modo ben più pesante Hayat Awad, madre di un soldato di leva ucciso anni fa a Deraa. A Homs dove vive, percorre il quartiere Khalidia distrutto dagli scontri, impolverandosi la camicia e i pantaloni neri del suo lutto prolungato, e arriva nella via Share el Zon, dove la famiglia Jabour è tornata a casa. Erano partiti nel febbraio 2012 «perché questo palazzo è proprio all’angolo con la cosiddetta via della morte, una specie di linea di confine. Ecco là la carcassa di un carro armato fatto esplodere due giorni dopo la nostra fuga, siamo miracolati» spiegano Norma e sua figlia Victoria. I Jabour, per anni sfollati dai nonni in campagna, dal 2016 stanno ricostruendo la parte superiore della casa, accampati intanto a pianterreno. Il tetto per fortuna è a posto. Ricordano come all’improvviso si ruppe la convivenza fra loro, cristiani, e i vicini musulmani. «La nostra casa fu poi occupata dai musallahin, da qui sparavano contro l’esercito». Ma adesso sono ottimisti. Victoria studia farmacia, «la Siria era e tornerà a essere una grande produttrice di medicinali con un buon servizio sanitario».

La forza delle donne rimaste tenacemente in Siria è anche quella di Naham, studentessa ora reclutata in un ospedale pediatrico perché «almeno il 30% dei medici del paese è andato all’estero e chi è rimasto deve fare per tutti». O di Bushra Jawed, irachena di Nassirya. Da sola, nel 2007, lasciò l’Iraq preso fra l’incudine dell’occupazione statunitense e il martello del crescente terrorismo al qaedista. Come altre centinaia di migliaia di iracheni trovò asilo nell’allora tranquilla Damasco, nel quartiere Jaramana dove aprì un ristorantino. Dopo il 2011, «questo quartiere è stato bersagliato dai missili dei terroristi, ne ho vista morire di gente», dice senza scomporsi mentre nella via stretta un’autobotte rifornisce d’acqua il serbatoio del palazzo.  
Il cammino verso la normalità è ancora lungo. 

venerdì 27 luglio 2018

Ad Aleppo la ripresa fa anche up-cycling e si chiama Heart made!



Storie siriane 2018 (2)


raccolte da 

Marinella Correggia











L'upcycling o riuso creativo è l’utilizzo di materiali di scarto, destinati a essere gettati, per creare nuovi oggetti dal valore maggiore del materiale originale.
E una specie di upcycling tessile appare fra le storie della ricostruzione in Siria, nello specifico la ricostruzione dell'economia e del tessuto lavorativo e sociale nella città di Aleppo. Malgrado un periodico ritorno alla violenza nei quartieri periferici colpiti da ordigni lanciati da gruppi armati arroccati a ovest della città, ad Aleppo la vita quotidiana (acqua, elettricità, disponibilità di beni essenziali) è migliorata molto dopo anni terribili; ma la situazione economica è difficilissima, con un tasso di disoccupazione molto alto, il costo della vita elevato e i salari molto bassi. La maggioranza delle famiglie ha tuttora bisogno di aiuti materiali, come scrive nella sua Lettera da Aleppo n.33 il dottor Nabil Antaki, volontario dei Maristi blu.

In questa tipica situazione di post-guerra, ecco un progetto dalla bella valenza sociale ed ecologica appunto basato sul riutilizzo tessile.




Leyla Antaki, volontaria dei Maristi blu, spiega il progetto Heart Made ad Aleppo:  «Questo progetto di trasformazione di abiti fuori moda in pezzi unici, ideato insieme ad alcune delle nostre giovani volontarie, ha diversi obiettivi. Il primo è dare lavoro a donne sfollate o comunque in stato di bisogno. Sono dieci le donne che ci lavorano, mettendo in pratica quanto appreso nei corsi di taglio e cucito. Ma l'altro scopo è educativo: recuperare tessuti contro lo spreco. Dunque, ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. E con i ritagli, le maniche, i jeans dei pantaloni facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle. Le donne cuciono cinque giorni a settimana in un ambiente familiare, negli spazi dei Maristi. Abbiamo preso in affitto un negozietto in città per vendere i nostri articoli affinché il progetto diventi autosufficiente. I nostri prezzi sono molto contenuti.»

Auguriamo che il marchio Heart Made ottenga tutto il successo di vendite che merita.

mercoledì 7 febbraio 2018

Aleppo. La ricostruzione…dei corpi

Storie siriane 2018 (1)

raccolte da Marinella Correggia

Testimonianza di Naim Marachly, protesista ad Aleppo (*)

Ad Aleppo, la mia città, mentre studiavo lettere incontrai per strada un bambino poliomielitico che mendicava. La mia vita cambiò in quel momento. Cominciai con un piccolo gruppo a impegnarmi nel volontariato.

Andai a studiare in Svizzera, con l’obiettivo di tornare in Siria e mettere su un laboratorio ortopedico, per aiutare le persone a camminare. E così feci, nel 1985, una volta finiti gli studi. Non fu facile trovare altri con lo stesso amore per questo lavoro. Finalmente fui contattato dalle suore francescane che lavoravano a Raqqa e Assakè. Ogni due mesi visitavamo i bambini più poveri, prendendo le misure per costruire loro corsetti e altri dispositivi. Intanto continuavo a seguire i miei pazienti ad Aleppo: soprattutto bambini che colpiti da poliomielite o da scoliosi. Ho realizzato anche protesi per diabetici.

Tutto funzionava come…un orologio svizzero. Fino a quando, nel 2012, la guerra non arrivò anche qui ad Aleppo. Dopo un po’, per forza di cose ho cominciato a lavorare su una nuova categoria di pazienti: gli amputati di guerra…

Non ne conosco il numero preciso nel mio paese, dopo tutti questi anni, né ci sono cifre ufficiali, ma si stima che possano essere 30.000. Un numero enorme. Uomini, donne, giovani, bambini…hanno perso soprattutto gli arti inferiori, gambe amputate al livello della tibia o del femore; spesso sono amputati di due arti.

Lavorando durante questi anni di sofferenze ho potuto aiutare 186 pazienti, fra i quali 19 bambini, 13 donne, e, fra gli uomini, tantissimi giovani di meno di venti anni. E’ molto difficile fare qualcosa per gli arti superiori. Le persone che li hanno persi in tutto o in parte si illudono che potranno tornare a lavorare con le mani come prima. Ma qui, per ora, è possibile solo fare mani con un’articolazione semplice, o estetiche. ed è dura farglielo accettare. Per le protesi relative agli arti inferiori, va meglio. Ma per gli arti superiori è difficile! Poi occorre educare il paziente, riparare in caso di guasti…

All’inizio della guerra alcuni donatori locali, per esempio commercianti, pagavano le protesi per persone rimaste prive di tutto. Le organizzazioni umanitarie in genere si occupano solo di cibo e alloggio. Non ci sono programmi speciali per finanziare le protesi. E i donatori hanno quasi smesso, è difficile proseguire. Una giovane donna siriana che vive all’estero mi ha contattato per aiutarmi; adesso finanzia i costi relativi ad alcune protesi destinate a bambini di meno di quindici anni…E poi c’è la Chiesa latina che aiuta per alcuni casi, soprattutto di bambini.

La gente è diventata povera; il costo di un tutore, di un apparecchio correttivo, di una protesi è elevato per tanti. Vengono numerosi, ma poi pochi riescono a pagare. E le persone cercano protesi sofisticate, vengono a chiedere, ma il prezzo è troppo alto per loro, e se ne vanno.

Diciamo che malgrado le sanzioni, si arriva a far passare il materiale per le protesi…

Il mio sogno? E’ lo stesso di quando tornai dalla Svizzera… servire le persone, ora rovinate dalla guerra. Offrire loro protesi adatte ed efficaci e sofisticate, e gratuitamente!

L’ultimo caso che ho trattato mi ha fatto soffrire molto. Un giovane che ha perso la gamba a causa di una mina. Con l’aiuto di diverse persone abbiamo trovato il denaro per la protesi. L’abbiamo messo in piedi, si è riabituato a camminare. Aveva iniziato a lavorare come portinaio in una scuola. Ma ecco che il moncone si è rattrappito, è diminuito di volume. Non può più camminare. E’ di nuovo a terra, in attesa di trovare i soldi per rifare tutto…

Ecco solo uno dei casi.

Abbiamo bisogno di sognare, finché il sogno non diventerà realtà.

E intanto, come un lupo un po’ solitario, continuo a battermi per rimettere in piedi il maggior numero possibile di pazienti.

(*) Naim sta curando, fra gli altri, il piccolo Mahmoud che in questa guerra ha perso non solo il papà soldato (disperso) ma anche le sue due gambe, mentre era già nato senza braccia.

domenica 11 giugno 2017

Suor Arcangela e le altre: le eroine di Aleppo

mons. Antoine Audo vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria:
"In questi anni di guerra le donne sono state vere eroine.

 Non vedo direttamente un intervento sociale o politico delle donne: non si trova questo in Siria, a causa della struttura del Paese, ma penso che la donna sia simbolo della “resistenza” della vita. La donna è dignità, la donna è continuità; capace di soffrire e di rimanere in piedi, di stare accanto alla famiglia e ai bambini. Per me la donna è veramente un’eroina nella guerra in Siria.

di: Marinella Correggia da Aleppo
L'Ordine.La ProvinciadiComo,  4 giugno 2017

A Herat, nell’Afghanistan occidentale, il supervisore dell’organizzazione di sminatori Said Karim aveva allestito un «museo degli orrori»: esemplari delle migliaia di mine, granate e altri ordigni estratti e disinnescati nella bonifica dei suoli restituiti alla vita. Il museo voleva aiutare la memoria post-bellica. Era fiorente anche l’attività di un fabbro che ricavava zappe e vanghe dai rottami ferrosi.

Forgeranno le loro spade in vomeri.
Ad Aleppo, Siria, suor Arcangela Orsetti coltiva una forma di arte dal riciclo che potremmo definire anti-bellica. Religiosa lucchese delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, vive nella città siriana da più di 40 anni e con cinque consorelle gestisce l’ospedale Saint Louis. Nel suo inesistente tempo libero in lunghi anni di guerra, suor Arcangela si è ingegnata a «trasformare oggetti di morte in simboli di vita e riscatto». Un enorme bossolo metallico contiene un ramo d’ulivo. Le mani della suora («fervide come la sua fantasia», osserva sorridendo suor Thèrese) hanno unito proiettili a formare scritte di pace in varie lingue, simboli cristiani classici, rosari, una colomba. Arredi sui muri e sulle finestre dell’ospedale. Pezzi di ordigni e ferraglia assortita si sono trasformati in portacandele, assai utili in questi ultimi anni di black-out, quando l’ospedale era interamente affidato al generatore a diesel – e nelle settimane più difficili non arrivava nemmeno quello, in città.
«Ho cominciato all’inizio della guerra, perché erano piovuti sulla terrazza dell’ospedale, in giardino e nei dintorni proiettili e pezzi di mortaio sparati dai musallahin (così in arabo sono definiti gli uomini armati che non fanno parte di un esercito regolare, ndr). Poi il personale ospedaliero, visto cosa stavo facendo, nel tragitto fra la casa e qui ha cominciato a raccogliere per me pezzi non pericolosi».
L’ospedale nasce nel 1912, ma le prime suore arrivano in Siria dalla Francia nel 1856, a dorso di asinello. Sono obbligate a partire durante la prima guerra mondiale. Ma durante quest’ultima guerra mondiale a pezzi, le suore di San Giuseppe non si sono mai mosse da Aleppo in questi anni di pericolo talvolta estremo, a partire dal 2012: «Mi dicevano: “Tu che non sei siriana sei rimasta qua mentre tanti sono andati via”. Del resto, Gesù ci ha detto “non c’è gioia più grande che donare la vita per coloro che amiamo. E io amo questo popolo. E poi San Giuseppe là sul tetto ci ha protetti al meglio», dice semplicemente suor Arcangela.
Sul cellulare conserva foto per lei preziose: un sacerdote ortodosso grande e grosso le regala una rosa mentre lascia l’ospedale, guarito; un bambino calzolaio fa i compiti per terra fuori da un portone; una donna pulisce verdure sul balcone di casa, niente di speciale se non fosse che tutto intorno sono rovine.
Negli ultimi anni, di guerra, ad Aleppo «abbiamo sofferto, sì, e rischiato; non andavamo nel rifugio, nelle ore più pericolose, per rispetto verso gli ammalati in corsia». Al Saint Louis, il programma «Feriti di guerra» portato avanti insieme all’organizzazione dei Fratelli Maristi ha curato negli anni centinaia di persone. Si calcola che nel Paese gli amputati di guerra siano ormai 30mila. E in questa parte occidentale di Aleppo, che essendo sotto il controllo governativo non è mai stata sotto i riflettori internazionali, 15mila persone sono morte dal 2012 colpite dai razzi, dalle esplosioni, dalle bombole del gas ripiene (chiamate «bombe dell’inferno») lanciate dai jihadisti asserragliati in Aleppo Est; là, interi quartieri sono distrutti da una guerra i cui fronti erano ravvicinati, dentro la città.
Al primo piano del Saint Louis, suor Lydia cura fra gli altri un uomo al quale - a causa di una mina - è stata tagliata una gamba; l’altra è in brutte condizioni; «oggi è meno depresso, perché dopo un mese lontano dalla famiglia ha rivisto moglie e figlia». Se le si chiede «Che cosa vorrebbe dire o chiedere all’Occidente?», la suora libanese aggrotta la fronte e risponde secca: «Sì, da anni ho una domanda: come mai lì da voi combattete gli integralisti e qui li avete aiutati, se non lo fate ancora? Sono gli stessi, con altre etichette».
Mirna detta Mimì è una aiuto infermiera etiope, di Addis Abeba, «vicino all’aeroporto» precisa. Lavora nell’ospedale da 10 anni per mandare denaro a casa. Come hai fatto in questi anni, quando tutta la notte anche quest’area di Aleppo era bersagliata di colpi e scossa dalle esplosioni? «Certo la vita non è stata facile, ma non ho avuto molta paura». E adesso, che era arrivata una parvenza di normalità, ecco il presidente statunitense con i suoi missili…«Trump, crazy!», taglia corto Mimi. 
Anita è filippina; faceva la domestica presso una famiglia abbiente che è partita lasciandola come custode della casa; là si annoia, così arrotonda venendo ad aiutare in cucina. Nel corridoio passa, sorridente sotto il velo, una lavoratrice indonesiana appena arrivata. Per compensare qualcuno che ha lasciato Aleppo. Il personale non siriano è sempre più necessario, anche se, pagato in dollari, costa adesso di più; il cambio lira siriana-dollari è stato sconvolto dalla guerra.
Come tutta l’economia. E su questo crollo si innestano, come un cauterio su una gamba di legno, le sanzioni economiche occidentali contro la Siria. Il loro effetto ce lo spiega suor Thérèse, percorrendo un’ala vuota dell’ospedale: «Il cateterismo cardiaco è in questo momento fuori uso; finché non avremo i pezzi di ricambio richiesti». Il fatto è, dice la libanese suor Samia, che «per esempio, un’attrezzatura dalla Germania che prima arrivava direttamente in aeroporto e andavamo a sdoganarla, ora deve arrivare a Dubai, poi a Beirut, poi fin qua via terra. Sempre che non si perda». Eppure, le sanzioni non riguardano le attrezzature sanitarie…«sarà, ma si ripercuotono su tutto, lo sperimentiamo noi», conferma la religiosa.
La Siria è una grande produttrice di farmaci, ma non di certe apparecchiature mediche, e non è per oggi l’indipendenza economica in quel campo. Forse potrebbe andare un po’ meglio nel settore energetico. Sui tetti a terrazza dell’ospedale, vicino alla statua di San Giuseppe ecco i pannelli solari termici per il riscaldamento dell’acqua. Ne è dotata anche la vicinissima moschea. Sotto, nelle strade, semafori e rotonde funzionano con il fotovoltaico. Forse le nuove energie avranno un posto nella ricostruzione della Siria.
Ma, intanto, «la guerra non è certo finita», dice suor Samia. I colpi di cannone che si sentono in lontananza lo confermano. Dice Suor Arcangela: «Il percorso per una duratura pace è ancora lungo; i fronti aperti sono tanti». 
In una lettera ai benefattori scritta in piena guerra, le responsabili dell’ospedale scrivevano: «I grandi del mondo vogliono non la pace ma i loro interessi geopolitici ed economici. E la sofferenza è raddoppiata per la disinformazione sui vostri media, che ci arriva fin qua».

domenica 14 maggio 2017

Aleppo, dialoghi e sogni

«... e quando vi descrivono la Siria come il più grande fra i piccoli paesi del mondo, è che la storia dell’umanità là si riassume sotto i vostri occhi, in una continua e stupefacente scoperta»
Dalla guida illustrata Syrie, Ministero del turismo della Repubblica araba siriana, 2008

di  Marinella Correggia 
ordine.laprovincia.it   30 aprile 2017

Gli sguardi che si posano sul mercato antico e sulla cittadella di Aleppo, ormai, sono molto diversi da quelli di «prima»: «Prima di tutta questa distruzione, prima del 2012, qui era un andirivieni di turisti da tanti paesi; adesso vedi solo noi aleppini. Viviamo in altri quartieri della città, quelli non distrutti dalla guerra, e veniamo a scuotere la testa su questa povera città vecchia, che fino a pochi mesi fa era sulla linea del fronte»: Yaser, tecnico elettronico che non è disoccupato di guerra solo perché ha un lavoro statale, inforca gli occhiali per vederci meglio mentre entra con suo zio Hassan nel buio dissestato e bruciato di quello che era il luccicante suq coperto della seconda città della Siria. « I suq di Aleppo, dieci chilometri di lunghezza, i primi delle città arabe musulmane per bellezza, dimensioni e autenticità, ogni area specializzata in un tipo di artigianato, dai profumi ai tessuti, dagli argenti ai saponi, dalle spezie alle ceramiche» (descrizione nella guida Syrie).

Zio e nipote si inoltrano, attenti a dove mettono i piedi fra montagnole di terra e detriti; dentro non c’è altro. Rivedono luoghi sfigurati, rimasti per anni inaccessibili: nei cunicoli, decine di negozi erano stati dati alle fiamme già nell’ottobre 2012; in altri, fino alla riconquista di Aleppo da parte dell’esercito nazionale lo scorso dicembre, si erano trincerati i miliziani dell’opposizione armata. «Terroristi venuti da fuori, ci hanno mandato questa feccia l’Arabia saudita, il Qatar, i turchi…»: per Mahmoud, un ex commerciante tornato a vedere il suo negozio - ormai solo uno spazio annerito -, il giudizio sui jihadisti è senza appello: «Volevano che ci convertissimo all’Islam? Ma noi, siamo già musulmani; loro no, sono criminali». Nella mancanza di lavoro che affligge ormai tanti come lui, la ricca cultura alimentare del paese sopravvive zoppicando e gli ha dato una provvisoria fonte di reddito: «Faccio l’ambulante, vendo zaatar» (la pizza libanese al timo e sesamo).

Yaser e Hassan escono a rivedere il cielo terso sopra la Cittadella. «Believe in Aleppo», invita un enorme pannello davanti alla maestosa fortezza di pietra sulla collina, rimasta sotto il controllo dell’esercito, che vi manteneva l’accesso tramite tunnel sotterranei. E’ miracolosamente in piedi, solo un bastione è lesionato: del resto, « nella storia la Cittadella non fu mai espugnata dagli assalitori, i Mongoli la presero solo con l’inganno », spiega l’ex guida turistica Joseph Mistrih, autore di La cittadella di Aleppo, saggio ante-guerra.

Quanti fotografi, quanti turisti hanno immortalato l’imponenza del luogo? Poi, dal 2012, la guerra è entrata nel cuore di Aleppo. Nelle immagini scattate in questi ultimi anni, la zona della Cittadella appare sfigurata, il cielo polveroso di detriti da scoppi, i pendii della collina senza più erba.

Ora va meglio. La piazza di accesso alla fortezza è circondata da edifici distrutti ma è ripulita e netta; un po’ di erba è tornata; pietre sparse fanno da sedile a donne più o meno velate, ragazzini girano in bici. Tutti aleppini. Salvo Marguerite, detta Margot, una signora libanese che però vive da tempo nella città siriana, se ne sente parte e non se ne è mai andata: «Povera Aleppo, tirata per i capelli. Tutta questa tragedia, questi morti, per cosa alla fine? Sulle teste dei siriani, una guerra voluta da fuori…».

Mohamed, 12 anni, abbronzato dall’aprile mediorientale, si aggira vendendo merendine industriali made in Syria, si legge «senza Ogm» – là sono vietati. Costano 100 lire siriane trattabili. Per un confronto, una corsa in bus ne costa 50; 50 lire anche 1,5 kg di pane arabo sovvenzionato dallo Stato; 225 lire un litro di benzina; 500 un pacchetto di sigarette (vizio nazionale che alcuni sono riusciti a mantenere). «Dall’Italia, eh?», chiede Mohamed; alla risposta accenna il tipico sorriso di chi immagina cose fuori dalla propria portata. Credendosi non più osservato, il piccolo venditore bacia la banconota da 500 lire; non ne vede quasi mai.

In quella scena da quiete dopo la tempesta passa un’auto incongrua, musica a tutto volume, «scommetto che sono quelli andati a passare la guerra sulla costa dove tutto era tranquillo, e ora sono tornati, freschi e senza danni»: Haydar, critico -come molti- verso chi non è rimasto ad Aleppo nei tempi duri, alla Cittadella portava i turisti, era una guida in inglese. Alcuni suoi colleghi si sono riciclati in accompagnatori per giornalisti; altri sono andati via. Insomma anche le guide non sono più le stesse e così, nel quartiere Salahuddin, in parte distrutto perché sulla linea del fronte, in parte popolato e resiliente, chi ci accompagna per pura cortesia e curiosità è un ragazzino, Yasen. Grazie a questa piccola guida di guerra si possono fare incontri surreali. Un internet point spartano, un assemblatore di computer, un venditore di materiale edile. E Mona, rientrata nel suo appartamento in una via malandata e bruciacchiata; così non paga più affitti altrove. Suo figlio ha scritto sul muro annerito: «Che la vita e il mondo siano più teneri».

Non lontano dal minareto della moschea degli Omayyadi, XI secolo, distrutto da una carica esplosiva o da tiri di cannoni (chissà), una bella porta storica non ha più la sua casa ed è appoggiata sulle macerie. Per contrasto viene in mente il film – premiato al Torino Film Festival - Houses without Doors, Case senza porte, di Avo Krapealian. Regista siriano di origini armene, dalle finestre di casa nel quartiere al Midane - per anni bersagliato da razzi e mortai provenienti da Aleppo Est - ha sbirciato le strade a partire dal 2012, mentre la guerra si impadroniva della città.

Ad Aleppo la vita sembra ripresa, in certi quartieri è anche tornata l’acqua corrente. Verrebbe da pensare a una prossima ricostruzione, e alla ripresa delle attività culturali. Anche alla riapertura del museo: i suoi reperti sono stati trasferiti tempo fa, per evitare il saccheggio stile Baghdad o Mosul - per non dire di Palmyra. All’esterno dell’edificio, le grandi strane statue della civiltà di Mari con gli occhi sgranati sono protette da enormi assi.

Ma prima di toglierle deve finire la guerra. E invece. Pochi giorni fa, nel sobborgo di Rashdien un’auto al tritolo ha ucciso oltre centoventi civili evacuati dalle cittadine di Foua’ e Kafraya. E a Salahuddin, il quartiere della guida improvvisata Yasen, e di Mona, un’esplosione ha fatto sei morti e trenta feriti. Aveva detto Yaser a mo’ di congedo, là davanti all’antica fortezza aleppina: «Finché arriveranno soldi e armi a califfi e terroristi, la pace sarà un sogno e la realtà un incubo».

domenica 14 settembre 2014

Come si combatte l'Isis?

«Chi ha fatto salire l’asino sul minareto, lo faccia scendere»



Intervista a padre George Abu Khazen, vicario apostolico di Aleppo


Padre George Abu Kha­zen, liba­nese, è vica­rio apo­sto­lico dall’anno scorso di Aleppo, la straor­di­na­ria e sto­rica città per le sue vesti­gia cul­tu­rali, ora deva­stata dalla guerra civile in corso. Il vica­rio vive nella città siriana dal 2004. Lo abbiamo incon­trato a Roma.

Il pre­si­dente degli Stati uniti Barack Obama ha costruito un’«alleanza con­tro il calif­fato» che com­prende oltre a vari paesi della Nato, le petro­mo­nar­chie arabe. L’idea è bom­bar­dare anche la Siria…cosa ne pensa?
Nei paesi arabi c’è un pro­ver­bio: «Chi è riu­scito a far salire l’asino sul mina­reto, saprà anche come farlo scen­dere». Ebbene, chi lo ha fatto salire? In fondo lo ha detto la stessa Hil­lary Clin­ton: «Adesso com­bat­tiamo quel che abbiamo creato».
 Per fer­mare l’Isis e gli altri ter­ro­ri­sti, biso­gna prima di tutto imporre ad Ara­bia sau­dita, Qatar, Tur­chia e anche Usa di tagliare qua­lun­que rifor­ni­mento o finan­zia­mento agli assas­sini, anche quelli per vie tra­verse come è suc­cesso in Siria con il soste­gno alle varie bande armate.
E poi chi com­pra a buon mer­cato il petro­lio ven­duto da que­sti taglia­gole? Io sono con il Santo padre, che ha detto di fer­marli, non di bom­bar­dare paesi. Abbiamo visto che gli inter­venti di guerra degli ame­ri­cani e dei loro alleati non sono mai andati a buon fine, in pas­sato, pro­vo­cando solo distru­zione e morte… Pensiamo all’Iraq, e alla Libia.

La con­vi­venza in Siria è finita?
In Siria con­vi­vono da secoli tanti gruppi reli­giosi. E tanti popoli: que­sto paese, ora ber­sa­gliato dalla guerra e dalle san­zioni eco­no­mi­che, in pas­sato ha accolto cen­ti­naia di migliaia di ira­cheni, pale­sti­nesi, liba­nesi, suda­nesi. E, sot­to­li­neo, non ha mai creato dei campi pro­fu­ghi fatti di tende, come adesso nei paesi cir­co­stanti, nei quali sono fug­giti tanti siriani. L’Isis, ma anche al Nusra e altri gruppi minac­ciano o ucci­dono chi non accetta il loro set­ta­ri­smo. Noi lo diciamo da anni ma non ci hanno ascol­tati; adesso tutto il Medio Oriente è a rischio, soprat­tutto se crol­lasse l’istituzione sta­tale in Siria.

Com’è la situa­zione ad Aleppo?
È tra­gica. Come in tutto il paese. Dopo que­sti anni di guerra, adesso l’avanzata dell’Isis in Iraq e anche verso Aleppo ter­ro­rizza ulte­rior­mente la popo­la­zione. Il 60% dei cri­stiani della città (erano circa 200mila) è andato via, se pos­si­bile all’estero. Sono rima­sti i poveri…Nei quar­tieri abi­tati in pre­va­lenza da cri­stiani ci si sente asse­diati, anche se un po’ più al sicuro per­ché sono con­trol­lati dall’esercito nazio­nale. A lungo i gruppi armati anti­go­ver­na­tivi – ai quali si mesco­lano anche delin­quenti comuni — hanno cir­con­dato buona parte di Aleppo. Man­cava tutto, pane, frutta, acqua, com­bu­sti­bile. Adesso c’è un pas­sag­gio per far entrare l’essenziale. Ma la vita è molto dif­fi­cile. Anche tutte le fab­bri­che sono distrutte, sac­cheg­giate. Non si lavora…solo chi è nella pub­blica ammi­ni­stra­zione o i pen­sio­nati hanno ancora una fonte di red­dito. Quanto agli ospe­dali, fun­zio­nano ma ai minimi ter­mini, e tanti medici sono andati via. Chi è rima­sto fa un ser­vi­zio enorme.

Cosa fanno i reli­giosi cri­stiani ad Aleppo?
Innan­zi­tutto va detto che per­fino fra i reli­giosi stra­nieri – donne e uomini — non se ne è andato nes­suno; abbiamo sul posto afri­cani, lati­noa­me­ri­cani, europei…Siamo attivi nell’assistenza uma­ni­ta­ria e nel con­forto. Cer­chiamo anche di ripri­sti­nare i ser­vizi; quando hanno fatto sal­tare l’acquedotto ho fatto sca­vare un pozzo, l’acqua era a 152 metri…un po’ tor­bida, ma che gioia. Le mense delle suore di madre Teresa, delle fran­ce­scane, dei fra­telli mari­sti, dei gesuiti fun­zio­nano per tutti, cri­stiani e musul­mani. Un’organizzazione cari­ta­te­vole musul­mana che dà allog­gio ad anziani e disa­bili si è tro­vata ad un certo momento in piena zona di bat­ta­glia; si sono spo­stati da noi, nella casa chia­mata «Gesù ope­raio». È così in tanti posti.
Que­sto aiu­terà la ricon­ci­lia­zione, se e quando la guerra finirà.  Se dall’esterno smet­te­ranno di sostenerla.

http://ilmanifesto.info/chi-ha-fatto-salire-lasino-sul-minareto-lo-faccia-scendere/

APPROFONDIMENTI

1- L'ISIS e  le bombe apportatrici di "pace e speranza" per l'umanità


  leggi qui:  http://www.piccolenote.it/20357/lisis-e-le-bombe-apportatrici-di-pace-e-speranza-per-lumanita


2- Strategia Obama: il pretesto della guerra all’ISIS per mettere le mani sulla Siria



3- Gli USA non disdegnano nella coalizione Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita che hanno avuto un ruolo nell’ascesa al potere di Isis, mentre è tenuta fuori la Siria (obiettivo di ISIS).

  leggi qui:  http://www.vietatoparlare.it/25636/