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martedì 1 marzo 2016

I frati della Custodia in Siria: noi restiamo!


Terrasanta.net

Il 23 dicembre scorso al convento di San Salvatore a Gerusalemme, sede centrale della Custodia di Terra Santa, giungeva la notizia del probabile rapimento di fra Dhiya Azziz, un frate quarantenne di nazionalità irachena parroco nel villaggio siriano di Yacoubieh (provincia di Idlib, distretto di Jisr al-Chougour). I suoi confratelli avevano perso i contatti con lui la mattina di quello stesso giorno, mentre il religioso stava rientrando in parrocchia dopo essersi recato in Turchia per incontrare i suoi familiari, profughi dall’Iraq. Fra Azziz era già stato vittima di un rapimento nel luglio del 2015, ma in breve era riuscito a sfuggire ai sequestratori. Stavolta è stato trattenuto più a lungo (12 giorni) e la notizia dell’avvenuta liberazione è stata diffusa da Gerusalemme, senza molti dettagli, la mattina del 4 gennaio 2016. Poche settimane più tardi il frate è giunto a Roma per un periodo di riposo lontano dalle tensioni della guerra. La sua vicenda ha riproposto ancora una volta a tutti i suoi confratelli un interrogativo cruciale: è bene ed opportuno restare nelle parrocchie dei villaggi siriani sotto il controllo delle forze islamiste avversarie del governo di Damasco anche se il numero dei cristiani locali continua a scemare perché molti se ne vanno? O è meglio ripiegare in attesa di tempi migliori?

Il Custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa, ha invitato tutti i frati a pregare e riflettere insieme, per aiutare lui e il suo consiglio a decidere se restare a Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh, tre paesini della Valle dell’Oronte.
Molti frati hanno risposto al Custode per iscritto o a voce. Fra Pizzaballa ha voluto ringraziarli coralmente a fine gennaio con un messaggio che recita tra l’altro: «Ho letto con attenzione e meditato su tutte le vostre osservazioni, riflessioni e preoccupazioni. Le vostre opinioni sono state di grande aiuto e hanno reso meno faticosa la decisione da prendere. Di nuovo, grazie! Nella quasi totalità avete espresso con chiarezza il parere che sia doveroso restare nei villaggi, senza considerazione per il numero dei parrocchiani (circa 400 complessivamente nei tre villaggi) e nonostante il pericolo».

«La Custodia – soggiunge il padre Custode – non ha mai abbandonato i luoghi e la popolazione che la Chiesa le ha affidato, anche a rischio di pericolo. Non pochi tra i nostri martiri, anche nel periodo recente, sono morti in circostanze non troppo dissimili dalla situazione attuale. Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo».
A prendere il posto di fra Dhiya a Yacoubieh andrà, da Betlemme, un religioso ancora più giovane, fra Louay Bhsarat, che fin dall’inizio della guerra aveva dato la sua disponibilità ai responsabili della Custodia.







 Lettera inviata da fr. Samhar, frate della Custodia di Terra Santa che vive ad Aleppo in Siria, in cui chiede preghiere:

Ciao fra Matteo,  
Stiamo qui proprio male, ogni giorno cadono su di noi una pioggia di bombe da parte degli gruppi armati, ci sono stati diversi morti e purtroppo sono giovani di età 13_ 19_ 21_ 40_ 60 oltre ai feriti che stanno malissimo, e le case distrutte... la gente qui in questi giorni sono di più disperati... 
Vi chiedo di pregare di più per loro, noi, e tutta la Siria. 
Fr. Samhar 

Come vedete cari amici, la città di Aleppo in questi giorni è oggetto di forti scontri tra i gruppi armati dei ribelli e l'esercito siriano che sta cercando di liberarla con l'aiuto dei bombardieri russi. 
Vi chiediamo di pregare e di far pregare la gente per la pace in Siria e perché il Signore dia forza ai nostri frati di custodire con coraggio il gregge loro affidato. Anche in queste ore drammatiche. 
Si possono organizzare momenti di adorazione, preghiera o semplicemente legare questa intenzione a ciò che già fate. Rimaniamo in comunione con loro, non lasciamoli soli.Pace e bene. 
Fr. Matteo Brena Commissario di terra Santa per la Toscana

Ad Aleppo succede qualcosa di terribile, ma si ignora o non si vuole vedere

(ANS – Aleppo) – La situazione ad Aleppo?   “Qui tutto è confusione, la morte è ovunque, nessuno riesce a capire cosa sta succedendo e non si sa di chi fidarsi. Stavamo preparando con i giovani un’opera di teatro per festeggiare Don Bosco e ci siamo dovuti fermare perché diversi di loro sono morti durante i bombardamenti” , racconta con la voce spezzata don Luciano Buratti, uno dei tre salesiani che abita nella casa salesiana di Aleppo, in Siria.
Da tre anni si combatte costantemente nella città.  “Ogni notte cadono le bombe in tutto il vicinato e ogni giorno veniamo a conoscenza di qualcuno che ha perso un familiare o una persona cara” continua don Buratti, mentre sullo sfondo si sente il brusio dei ragazzi che giocano nel cortile dell’oratorio.
Quando gli si chiede riguardo la situazione concreta della casa salesiana, dice: 
“la nostra comunità ha scelto di continuare le sue attività come se nulla fosse; cerchiamo di offrire alle famiglie un luogo dove si respirino anche nel bel mezzo del caos la stabilità e l’armonia, di conseguenza, le attività della parrocchia e l’oratorio seguono il loro corso normale, come facevamo prima dei combattimenti; questa è una delle poche strutture che operano ancora con una certa normalità”.
La condizione dei cristiani è particolarmente difficile, si cerca di fuggire e chi ha soldi e può lasciare la Siria lo ha già fatto; gli altri cercano rifugio nelle città più sicure, ma molte persone, che non hanno possibilità, rimangono ad Aleppo.
Abbiamo un sacco di lavoro; è aumentato il flusso di persone che arrivano alla nostra parrocchia chiedendo servizi religiosi, cercano Dio e un po’ di conforto – prosegue il salesiano –. 
Grazie a Dio, noi Salesiani stiamo ben e riceviamo qualche aiuto da distribuire tra circa 200 famiglie della nostra parrocchia che hanno perso tutto”.
Attualmente si stima che rimangono circa due milioni di abitanti in questa città, antico simbolo della convivenza pacifica tra Cristiani e Musulmani; adesso si spera solo di sopravvivere.
I Salesiani di Aleppo animano due opere: quella di Aleppo, dedicata a san Giorgio, e quella di Kafroun, dedicata a Don Bosco, con i loro rispettivi oratori, una casa di accoglienza e una parrocchia; tutto funziona regolarmente, al servizio della gente.

venerdì 29 gennaio 2016

La furia islamista che abbatte le chiese

Mosaico ( perduto) della chiesa dei Martiri del 443 in Taybet Al-Imame a 15 Km sud di Hama.

Terrasanta.net
di Carlo Giorgi | 25 gennaio 2016

Dura Europos: la più antica raffigurazione
del miracolo del paralitico
Quale sarà la prossima chiesa ad essere distrutta dal sedicente Stato islamico (Isis)? Quella del quartiere cristiano di Deir el Zor, città siriana sul fiume Eufrate dove i terroristi stanno avanzando proprio in queste ore? Oppure la cosiddetta Domus Ecclesiae del sito archeologico siriano di Dura Europos (del secondo secolo dopo Cristo), uno dei luoghi di culto cristiani più antichi al mondo e oggi sotto il controllo dell’Isis?

In Siria e Iraq, in questi quattro anni di guerra, sono decine, se non centinaia, i luoghi di culto cristiano che i fondamentalisti islamici hanno distrutto o profanato. Non importa se si tratti di chiese moderne o di siti archeologici: ogni edificio che porti i simboli della fede cristiana (croci, statue della Vergine Maria e dei santi) per la folle logica dei terroristi, è considerato luogo di «politeismo» e merita di venire distrutto.
Solo pochi giorni fa, le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato le foto satellitari del monastero di Sant’Elia, vicino alla città irachena di Mosul. Le immagini mostrano il sito archeologico prima e dopo la sua totale distruzione, avvenuta nell’estate del 2014 – qualche settimana dopo la conquista di Mosul da parte dell’Isis – e scoperta solo ora. Il monastero, fondato nel 590 d.C., aveva resistito per quattordici secoli tra conquiste e persecuzioni, diventando uno dei simboli più preziosi per i cristiani assiri dell’Iraq. Una grave perdita non solo per i credenti.
Da quando il monastero di Sant’Elia è stato distrutto al momento in cui ne abbiamo avuto notizia, sono passati 14 lunghi mesi. Questo significa che non sempre la profanazione delle chiese – per quanto antiche – è divulgata, a fini di propaganda, dai terroristi. Di conseguenza, c’è da credere che la lista ad oggi conosciuta dei luoghi di culto cristiano distrutti sia lacunosa e incompleta. In ogni caso, è impressionante scorrere l’elenco di quelli noti.

la chiesa di Raqqa trasformata in sede del cosiddetto Stato Islamico
Già nel 2013, quando l’Isis si insedia a Raqqa, le due chiese della città siriana vengono subito profanate. Nel settembre del 2013 i terroristi di Al Nusra occupano la cittadina cristiana di Maalula, sulle montagne tra Damasco e il Libano, con i suoi 5 mila abitanti in maggioranza cristiani che parlano aramaico, la lingua usata anche da Gesù.
L’antichissima chiesa di San Sergio e San Bacco, risalente al IV secolo, e il monastero di Santa Tecla, vengono profanati e distrutti (va detto che dopo alcuni mesi l’esercito governativo, sostenuto da Hezbollah, riprende la città e restituisce ai cristiani i luoghi di culto).

L’estate del 2014 è un momento cruciale: il 29 giugno Abu Bakr al-Baghdadi viene proclamato califfo dello Stato Islamico e le azioni propagandistiche dei fondamentalisti aumentano. In queste settimane le 50 chiese di Mosul, appena conquistata dall’Isis, vengono profanate e distrutte (tra agosto e settembre subisce la stessa sorte anche il monastero di Sant’Elia, di cui abbiamo scritto sopra). A settembre, a Tikrit, in Iraq, l’Isis distrugge la cosiddetta «Chiesa verde», risalente al VII secolo e molto cara ai cristiani assiri. Nello stesso mese distrugge, nella città di Deir Ezzor, la chiesa-mausoleo del genocidio armeno, costruita per ricordare la strage di 200 mila cristiani armeni avvenuta in questa località nel 1916. Sempre in Siria nell’autunno 2014 le parrocchie francescane dei villaggi della valle dell’Oronte, vicino al confine con la Turchia, vengono profanate: croci abbattute, simboli cristiani distrutti. Nel 2015 viene raso al suolo l’antico monastero di Mar Elian, del V secolo, il cui priore, padre Jacques Murad, è già stato rapito dai terroristi (riuscirà a fuggire in modo rocambolesco dopo cinque mesi di prigionia, nel mese di ottobre). Infine, secondo Aina, l’agenzia internazionale d’informazione dei cristiani assiri, all’inizio del 2015, nell'attacco sferrato dall’Isis nella valle cristiana del Khabur, nella provincia di Hassake, vengono distrutte 11 chiese di altrettanti villaggi.

Mosaico di Cristo -Adamo del museo di Hama
rubato e venduto dalle bande armate
La speranza di tutti in Siria e Iraq è che questo sistematico annientamento della storia e della presenza cristiana termini finalmente. Tuttavia, c’è da credere che, dove arriveranno, i terroristi dell’Isis non perderanno occasione di distruggere.
Quali potrebbero essere i loro prossimi obiettivi? La Siria in particolare, terra in cui il cristianesimo si è radicato fin dal primo secolo, è ricca di testimonianze di un’antica presenza cristiana. Ad esempio, nel territorio compreso tra la città di Idlib e il confine con la Turchia, in un territorio oggi sotto l’influenza delle milizie islamiche, si trovano i resti di decine di chiese cristiane del IV secolo, che proprio i francescani della Custodia hanno contribuito a far conoscere e valorizzare.




Nelle aree sotto il controllo del governo del presidente Bashar al Assad il pericolo per le chiese può arrivare invece dal cielo: ad Aleppo, nel mese di ottobre, la parrocchia di San Francesco, tenuta dai frati della Custodia, è stata colpita durante una messa da un colpo di mortaio sparato dai ribelli. Si è sfiorata la strage e ci sono stati sette feriti. I fedeli sono subito accorsi dalle loro case per sistemare i danni e pulire la chiesa.

A chi volesse approfondire il tema delle vestigia cristiane in Siria segnaliamo il libro Chiese cristiane del IV Secolo (Edizioni Terra Santa, 2014 - II ed.), acquistabile online oppure nelle migliori librerie.

mercoledì 23 dicembre 2015

L’augurio di quest’anno è di percorrere con fiducia la strada verso la misericordia del Padre che ci attende sempre, con fedeltà, anche oggi.

Auguri di padre Pierbattista Pizzaballa, ofm
Custode di Terra Santa

Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is. 9,1).
     
Stiamo vivendo un tempo arduo, il cui susseguirsi di tragedie e di violenze ci ha colmato di paure. La descrizione della fine dei tempi, che la Liturgia ci ha proposto prima dell’Avvento (Mc 13, 24-32), è sembrata l’eco di una cronaca attuale, che ci ha reso difficile attendere il Natale con sentimenti di gioia, di festa, di vita.  La paura sembra dettare il nostro agire, anche nelle piccole azioni quotidiane. Ma soprattutto abbiamo paura dell’altro, come se avessimo perso il coraggio di credere nell’altro. Non ci fidiamo più e siamo tentati di rinchiuderci nel nostro piccolo cerchio. Abbiamo paura del musulmano, dell’ebreo, dell’orientale o dell’occidentale, secondo dove ci troviamo. Il nemico è diventato “gli altri”; pensiamo che “gli altri” siano contro di noi, che ci minaccino e ci rubino la speranza di un mondo sicuro, di un futuro migliore.

In Siria, in Iraq, in Terra Santa, in Oriente così come in Occidente, sembra che la forza della violenza sia l’unica voce possibile per contrastare la violenza che ci sovrasta.
Aspettare il Natale in queste circostanze interroga la nostra fede e fa nascere il bisogno di una speranza più grande. Sono questi i sentimenti che ci hanno accompagnato nella partecipazione alle varie cerimonie per l’accensione dell’albero di Natale e la benedizione del Presepe. Spesso, durante la celebrazione della festa, attorno a noi si sentivano le sirene d’allarme, segno certo di scontri e disordini. E, sempre, abbiamo riconosciuto un senso d’inadeguatezza rispetto alla situazione. Ci sembrava di essere fuori dal tempo e dalla storia.
Ma non è così. Il Vangelo ci dice che la pienezza del tempo si è compiuta in un tempo difficile, quando Giovanni nel deserto invitava a preparare la Via del Signore predicando un battesimo di conversione. La festa, le luci, i colori, pur necessari, desiderati e celebrati nelle circostanze che viviamo, ci guidano a pensare con più verità al senso originario del Natale: Dio che entra nel nostro tempo e nella nostra storia. Il nostro tempo e la nostra storia di oggi.

Natale ci dice che Dio ama la vita, che Lui stesso è vita. È questa verità il motivo definitivo e buono per stare su questa terra. Perché è tempo di cercare motivazioni autentiche, ragioni ultime per continuare a vivere e a sperare. Ragioni e motivazioni che rimangano, che tengano, che non subiscano le altalenanti fasi delle nostre angosce o delle nostre esaltazioni, che abbiano il sapore di una misura giusta, di un orizzonte reale. È tempo di cercare domande e risposte, orientamenti, di ritrovare l’Oriente.
E questo Oriente è il Cristo, Uomo e Dio. Il Natale ci richiami, dunque, a questo Oriente.

Natale, ci dice che la nostra vita è Avvento, che camminiamo verso un futuro, forse drammatico, faticoso, ma nel quale – è certo - incontreremo Lui. Natale ci dice che questo futuro, per cui siamo tanto preoccupati, questo futuro che inizia ora, è già iniziato: è Gesù nato, morto e risorto.
Non camminiamo verso il nulla, verso l’ignoto, verso il buio, ma verso qualcosa che è già accaduto e che rimane, che si compie sempre e comunque, che non potremmo distruggere nemmeno se lo volessimo.
Camminiamo verso un incontro.

Allora, questo tempo difficile sarà comunque un tempo buono, se ci restituirà la consapevolezza che è il tempo dell’incontro; se ci renderà - finalmente - bisognosi di qualcosa che sia altro da noi stessi; se ci renderà più attenti a chi abbiamo vicino, perché il futuro verso cui camminiamo potrà essere soltanto il compimento di ogni relazione di cui avremo avuto cura, qui, ora. Anche in queste circostanze drammatiche.
L’augurio di quest’anno è di percorrere con fiducia questa strada, aperta nel deserto di tante nostre vite, verso questo futuro buono,che ha un unico Volto: quello della misericordia del Padre, che ci attende sempre, con fedeltà, anche oggi. 

Buon Natale.

mercoledì 2 dicembre 2015

Profughi in Grecia, cento bambini annegati nell'ultimo mese: l'esperienza di un frate della Custodia di Terra Santa

Terrasanta.net
di Carlo Giorgi | novembre 2015
«Sono annegati almeno cento bambini solo nell’ultimo mese, nel tratto di mare che separa Kos e Rodi dalla Turchia! Quella dei profughi è una moltitudine che non si ferma! E il guaio è che non abbiamo i mezzi per aiutarli, sta iniziando a far freddo e il mare è sempre più agitato…».
A lanciare l’allarme è fra Luke Gregory, sacerdote della Custodia di Terra Santa a cui sono affidate le parrocchie cattoliche di rito latino di Rodi e Kos, isole greche del Dodecaneso affacciate alla costa turca. In particolare, Kos dista solo dieci chilometri dalla città di Bodrum ed è diventata, per questo motivo, la «porta» d’ingresso per l’Europa preferita dai profughi che transitano in Turchia. Proprio sulla spiaggia di Bodrum, ai primi di settembre, è stata scattata una foto divenuta tristemente famosa: un bimbo annegato, di al massimo tre anni, con il viso piantato nella sabbia. Quel bimbo stava andando proprio a Kos assieme alla sua famiglia e ad altri disperati.

I profughi giungono sull’isola greca a bordo di gommoni a motore spesso privi di scafista. Chi organizza il traffico affida il timone a uno dei passeggeri, gli indica la rotta e lo fa partire. Sono imbarcazioni capaci di portare al massimo 15 persone, su cui però ne vengono imbarcate almeno 30: bambini e donne al centro, uomini sui bordi. Ognuno paga mille euro per salire. Il gommone parte stracarico, se c’è un’onda un po’ più alta, imbarca acqua facilmente; le persone sono prese dal panico perché molte non sanno nuotare. Accade che il gommone si ribalti, con le conseguenze più tragiche.
«Difficile immaginare quanti siano in Turchia, pronti a imbarcarsi per Kos – racconta fra Luke –, di certo qui ne arrivano in continuazione anche se siamo a novembre. Rimangono al massimo due settimane, il tempo di farsi schedare dalla polizia, ricevere un permesso di soggiorno di sei mesi ed essere portati, a bordo di grandi navi, ad Atene. Il sogno di tutti è raggiungere la Germania».
L’isola di Kos, località turistica rinomata, oggi è irriconoscibile: «Al porto si sente parlare solo arabo – commenta il frate minore – e lungo le mura della città vecchia, vicino al porto, le strade sono un succedersi di centinaia di tende da campeggio che ospitano profughi provenienti prevalentemente dalla Siria, ma anche dall’Afghanistan e dall’Iraq. Quasi tutti sono musulmani. Le tende sono state montate solo da poche settimane, prima dormivano tutti all’addiaccio. Non ha ancora iniziato a piovere: qui quando piove, va avanti per ore senza tregua… La situazione può peggiorare molto soprattutto per i bambini, che patiscono di più. I parrocchiani della chiesa di Kos stanno facendo un’opera meravigliosa per aiutarli. In particolare la comunità degli immigrati filippini, che aiuta la Caritas locale, si sta dando molto da fare per portare cibo e vestiti a tutti».

A Rodi, più lontana dalla coste turche, oggi i rifugiati sono circa 200. Li hanno alloggiati nel vecchio mattatoio italiano, costruito oltre settant’anni fa e da lungo tempo inutilizzato. «È una sistemazione povera – racconta fra Luke –, ma almeno hanno un tetto sulla testa. È difficile aiutarli perché anche i greci, pur facendo del loro meglio, sono essi stessi in difficoltà economiche: in parrocchia abbiamo un ufficio chiamato Food Bank, che ogni martedì consegna un pacco viveri alle famiglie povere. Ieri ne sono venute 34, tutte di greci. Nel pacco trovano riso, fagioli, lenticchie, latte in polvere, il necessario per tre, quattro giorni; il fatto è che, per aiutarli, non possiamo prelevare più di 420 euro a settimana, cerchiamo di dare il massimo aiuto con questi pochi soldi… qualche anno fa abbiamo piantato un orto nel giardino del convento, comprato galline e tacchini per aumentare un po’ il cibo a disposizione. In estate, il sindaco di Rodi ha chiesto a tutti gli alberghi di portare cibo ai profughi, a turno. Da parte mia, chiedevo ai turisti, durante la messa, di portarci cibo, dentifrici, sapone giochi e cioccolata per i bambini, che poi distribuivamo… Ora però i turisti non ci sono più e quasi tutti gli alberghi sono chiusi. Non riapriranno prima di aprile…».

mercoledì 11 novembre 2015

Un appuntamento da non perdere

Incontro con P. Jacques Mourad, rapito e rimasto nelle mani del'Isis per quattro mesi in Siria.

Padre Jacques Murad si racconta sul canale arabo della tivù pubblica inglese

Terrasanta.net | 30 ottobre 2015

Un'inquadratura di padre Jacques Murad durante l'intervista alla BBC.
 «Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore, e la tomba del santo (Mar Elian, un monaco del IV secolo che ebbe tra i suoi discepoli anche Efrem il Siro - ndr). Sono fuggito per incoraggiare gli altri cristiani del mio villaggio a non rimanere sotto lo Stato islamico e ad imitarmi».

Emergono nuovi particolari sulla vicenda di padre Jacques Murad, sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre, dopo cinque mesi di prigionia. Oggi padre Jacques si trova nei pressi di Homs. Qui è stato raggiunto da una troupe dei programmi in lingua araba dell’emittente britannica BBC, che lo ha intervistato sabato 24 ottobre. Le immagini riprendono padre Jacques finalmente libero, mentre celebra una messa in un cortile con qualche decina di fedeli. L’altare usato per la celebrazione è un tavolino coperto da un panno, appoggiato ad una parete del cortile. La croce che lo sovrasta è formata da due semplici rami legati insieme. Durante l’omelia padre Jacques si pone ad alta voce la domanda che tutti i cristiani di Siria, in fondo, si portano dentro: «Tanti si chiedono dov’è Dio? Quando verrà a salvare il suo popolo da queste stragi?».

«Tre settimane prima che mi rapissero ho avuto la percezione di essere in pericolo, che qualcuno mi stesse sorvegliando – ha raccontato padre Jacques ad Assaf Aboud, il giornalista della BBC che lo ha intervistato –. Poi, il 21 maggio (quando ancora Qaryatayn non era nelle mani dell’Isis - ndr) alcuni uomini con il volto coperto sono venuti al villaggio. Due di loro sono entrati nel monastero e hanno preso me e un seminarista. Ci hanno legati e incappucciati e, con la macchina del monastero, ci hanno portati a mezz’ora di strada dal villaggio, sulla montagna. Dopo quattro giorni ci hanno trasferito nella città di Raqqa. Qui, per 84 giorni sono rimasto in prigione. In generale mi hanno trattato bene. Non siamo stati torturati. Ma tutti i giorni entravano nella mia cella e mi parlavano duramente: mi dicevano che eravamo infedeli, che sbagliavamo e che l’unica religione vera è l’islam che propone lo Stato islamico. Dicevano di essere venuti per portare la religione giusta. Sono gente dalle grandi ambizioni: vogliono arrivare a (controllare) Roma e Mosca».
Durante tutto il periodo di prigionia padre Jacques ha subito interrogatori da parte degli emiri dello Stato islamico. Nei primi giorni, quando ancora non era a conoscenza del fatto che l’Isis avesse preso il suo villaggio, un emiro gli ha fatto insistenti domande sui luoghi cristiani di Qaryatayn: «Ho risposto che abbiamo due chiese, una siriaco ortodossa e una siriaco cattolica e che poi c’è un monastero. “E cosa è questo monastero?” Mi ha chiesto l’emiro. Allora ho pensato che non sapesse quanto fosse importante il monastero per noi cristiani e musulmani di Qaryatayn. Così gli ho detto che era solo un luogo dove avevamo delle terre coltivate. Ho cercato di nascondere quanto è importante… ma loro sapevano tutto».

«Pensavamo che questi dello Stato islamico fossero dei beduini, degli ignoranti, ma non è così – commenta amaramente il sacerdote –. Specialmente quelli venuti dall’estero, tunisini, algerini e iracheni, sono laureati, hanno studiato e sono molto determinati nel raggiungere i loro obiettivi».
Dopo quasi tre mesi di prigionia a Raqqa i miliziani dell’Isis hanno riportato padre Jacques a Qaryatayn: «Per arrivarci siamo passati da Palmira. Trenta chilometri più oltre, la macchina è entrata in un luogo coperto - racconta padre Murad -. Ci hanno fatti scendere e siamo entrati in un locale con una grande porta di ferro. La prima cosa che ho visto sono stati due dei ragazzi cristiani del mio villaggio. Poi, alzando lo sguardo, ho visto tutti gli altri miei cristiani! Sono stati giorni pieni di sofferenza; per me era molto difficile pensare che i miei figli fossero imprigionati, specialmente gli anziani e i disabili. La cosa che mi ha fatto soffrire di più è stato il fatto che, tra gli altri, c’erano anche una donna e un bambino di dieci anni, entrambi malati di tumore. Avevano bisogno di cure particolari, di medicine… e noi pregavamo gli emiri che avevano responsabilità su di noi, perché almeno questi due potessero andare a farsi curare, potessero cercare le medicine… Non hanno mai accolto la nostra richiesta».

«Il 31 agosto, alla fine, sono venuti da me cinque o sei emiri – continua il racconto –. Mi hanno chiamato e io ho avuto paura, ho temuto davvero che mi avrebbero ucciso. Erano venuti per annunciare cosa aveva deciso il califfo per i cristiani di Qaryatayn. Allora mi sono messo una mano sul cuore e ho detto dentro di me: basta. È finita! Invece il califfo ci lasciava scegliere tra quattro possibilità: la prima che gli uomini fossero uccisi e le donne fatte schiave; la seconda che tutti fossero ridotti in stato di schiavitù. La terza era la conversione di tutti all’islam; e la quarta era di accettare la grazia del califfo. La grazia consisteva nel vivere nella terra dell’Isis, pagando una tassa. Tutti hanno scelto questa possibilità. Così gli emiri hanno preso nota dei nomi di tutti i cristiani. Il giorno dopo hanno preso due grandi camion, ci hanno caricato e ci hanno riportato nel nostro villaggio. Ci hanno dato dei documenti con cui potevamo andare ovunque, anche fino a Mosul, nelle terre governate dallo Stato islamico. Quando ho potuto, sono fuggito, per dare anche agli altri cristiani il coraggio di fuggire. Tra i cristiani di Qaryatayn, infatti, ci sono persone che hanno difficoltà a pensare di andare via. Preferiscono morire nella loro terra. E ci sono cristiani che pensano che sia possibile vivere anche sotto l’Isis».

lunedì 26 ottobre 2015

Ci ha lasciato quest'oggi mons. Giuseppe Nazzaro, fu padre dei cattolici latini ad Aleppo


E' scomparso questa mattina nell’ospedale San Giovanni Moscati di Avellino il vescovo Giuseppe Nazzaro, già vicario apostolico latino di Aleppo, in Siria, e, prima ancora, Custode di Terra Santa. Monsignor Nazzaro era nato il 22 dicembre 1937 a San Potito Ultra (Avellino) ed era entrato nel seminario minore della Custodia di Terra Santa, a Roma, nel 1950.
Vestì il saio francescano nel 1956 ed emise la professione solenne nel ‘60. Ad Aleppo giunse per la prima volta nel 1966, un anno dopo l’ordinazione sacerdotale. Vari incarichi in seno alla Custodia lo condussero però ben presto a Roma (1968), ad Alessandria d’Egitto (1971) e al Cairo (1977).
Nel corso del Capitolo custodiale del 1986 venne nominato segretario della Custodia. È del 1992 la sua nomina a Custode di Terra Santa. Al termine del mandato, nel 1998, fu trasferito in Italia. Ma nel 2001 venne nuovamente inviato in Siria. Un anno dopo venne scelto come vicario apostolico d’Aleppo da san Giovanni Paolo II e ordinato vescovo il 6 gennaio 2003 dal Papa stesso nella basilica di San Pietro.
Monsignor Nazzaro lasciò l’incarico nel 2013, al compimento dei 75 anni, quando ormai la Siria era già da due anni stravolta da disordini e moti di piazza contro il governo centrale, ben presto trasformatisi in un vero e proprio conflitto. 
Padre Nazzaro ha speso le ultime energie della sua vita viaggiando, pronunciando discorsi e rilasciando interviste per sensibilizzare l’opinione pubblica, i media e i politici sulla tragedia del popolo siriano.
I funerali si svolgeranno domani pomeriggio, alle 15.30, nel suo paese natale.


INFINITAMENTE GRATI A DIO DI AVERLO DATO ANCHE A NOI , 
ORA PRO SIRIA, COME PADRE E AMICO 

mercoledì 22 luglio 2015

Ancora nessuna notizia di padre Antoine Boutros, rapito una settimana fa


Terrasanta.net | 20 luglio 2015


Si trepida da giorni, in Siria, per il rapimento di un altro sacerdote cattolico, di cui non si hanno notizie da ormai una settimana: si tratta di padre Antoine Boutros, scomparso insieme a un laico, di nome Said Al-Abdun, mentre in auto si recavano da Shahba verso la città di Sama Hinadat, dove il sacerdote cattolico di rito melchita avrebbe dovuto celebrare la messa domenicale il 12 luglio.

Inizialmente la scomparsa dei due uomini era stata trattata con molta cautela, ma nei giorni scorsi l'arcivescovo melchita di Bosra e Hauran, mons. Nicolas Antiba, ha rotto gli indugi e confermato all'agenzia Fides che si pensa a un rapimento da parte di una banda di uomini armati dei quali è ignota l'appartenenza.

Nel clima di anarchia che vige in varie zone anche del sud della Siria le azioni di criminali comuni si assommano a quelle delle milizie armate che militano nella composita galassia dell'insurrezione antigovernativa.

Padre Boutros, analogamente ad altri esponenti del clero diocesano, è molto impegnato sul fronte dell'assistenza umanitaria alla popolazione più colpita dal conflitto in corso in territorio siriano. Il gestire le risorse finanziarie, più o meno grandi, destinate alla solidarietà, espone religiosi e sacerdoti anche al rischio di estorsioni.
Padre Boutros ha 50 anni e, come molti membri del clero cattolico melchita, è sposato. Oltre alla moglie, a casa lo attende, in ansia, una figlia.


Lo scorso 4 luglio, nel villaggio di Yacoubieh (provincia di Idlib, distretto di Jisr al-Chougour) era stato rapito padre Dhiya Azziz, francescano nella Custodia di Terra Santa (vedi Fides 7/7/2015). In un primo momento il sequestro era stato attribuito al gruppo jihadista Jabhat al-Nusra, ma poi quella fazione aveva negato ogni coinvolgimento nel rapimento del frate, caduto invece vittima di uno dei tanti gruppi di miliziani che infestano la regione e realizzano rapimenti per ottenere riscatti. La vicenda di padre Dhiya si è conclusa positivamente con la sua liberazione, avvenuta lo scorso 10 luglio. 
 (Agenzia Fides 16/7/2015).

sabato 2 maggio 2015

Fra Ibrahim e Pizzaballa: «Ad Aleppo noi cristiani siamo sempre meno, ma decisi a resistere»



Terrasanta.net

«Ad Aleppo si muore, la gente diventa ogni giorno più povera e siamo certi che le cose peggioreranno. Ma quello che mi dà speranza è che molti cristiani non vogliono andarsene. L’esercito ha aumentato le difese. Ho la sensazione che la città possa resistere e non cadere nelle mani dei fondamentalisti…».
Stavolta incontriamo fra Ibrahim Sabbagh, parroco latino nella seconda città della Siria, a Milano. È da pochi giorni in Italia per una breve pausa e per raccogliere aiuti per la sua parrocchia, dopo un viaggio avventuroso che lo ha portato prima a Damasco (dieci ore per fare 360 chilometri e lungo il percorso molti posti di blocco, un blindato dell’esercito esploso su una mina e tre soldati uccisi), poi a Beirut e infine nel nostro Paese.

Il racconto di fra Ibrahim, che ad Aleppo ha lasciato altri tre confratelli francescani della Custodia, fotografa una situazione tragica: 
«I nostri “martiri”, cioè i cristiani morti in città negli ultimi tre anni sotto i bombardamenti sono 178 - annota fra Ibrahim -: 20 sono della Chiesa latina, 20 i melchiti, 14 i greco-ortodossi, 9 i siro-ortodossi, 7 i siro-cattolici, 7 i maroniti e 101 gli armeni. Aleppo prima che scoppiasse la guerra contava circa un milione di cristiani. Oggi nessuno sa quanti siamo rimasti: forse un terzo, forse un quarto... Quando facciamo l’incontro periodico tra tutti i responsabili delle Chiese di Aleppo, nessuno dice di conoscere il numero delle famiglie o il numero delle persone della sua Chiesa. Ma alcuni dati possono farci immaginare la situazione: le 9 scuole cattoliche della città due anni fa contavano 10.500 bambini iscritti, adesso il numero è sceso a 2.500. Questo confermerebbe che i cristiani sono diventati un quarto, un terzo in due anni… E quelli che rimangono, diventano più poveri di giorno in giorno. Secondo i dati di cui dispongo, abbiamo sicuramente 442 famiglie iscritte alla nostra associazione di beneficenza parrocchiale. Quando sono arrivato ad Aleppo, a fine 2014, vi erano iscritte soltanto 220 famiglie: in cinque mesi sono raddoppiate. Lentamente credo che tutte le famiglie busseranno alle porte dell’associazione… Secondo i sondaggi della Caritas, il 70 per cento delle persone che vivono oggi ad Aleppo è sotto la soglia della povertà. Diversamente da quanto avviene a Damasco, dove la maggior parte della popolazione lavora, ad Aleppo solo un quinto degli abitanti lavora ancora».

«Il cibo – prosegue il parroco francescano – in città arriva, ma a volte chi lo vende se ne approfitta e il prezzo cresce fino a diventare insopportabile. La gente è davvero molto povera: ultimamente ci capita addirittura di dover pagare tutte le spese dei funerali perché non hanno soldi neppure per questo…  Nonostante tutto, ci sono diverse cose che mi danno speranza: innanzitutto il fatto che molti cristiani di Aleppo sono decisi a non abbandonare la città. Amano Aleppo e sanno in ogni caso che se lasciano la città perderanno tutto. È positivo il fatto che pensino che ci sono ancora le condizioni per restare! Nonostante l’assedio e i bombardamenti la vita non si ferma: la biblioteca che noi frati abbiamo inaugurato alcuni mesi fa per gli studenti universitari, continua a rimanere aperta e i ragazzi continuano a studiare e a dare esami; le classi di catechismo hanno continuato a svolgersi fino all’ultima lezione, a cui erano presenti oltre 170 bambini. E poi mi consola molto vedere come ci sia tanta gente buona: trovo sempre persone disposte ad aiutare con molta facilità, disponibili, pazienti. Tra noi sacerdoti, infine, è meravigliosa la comunione che si è creata proprio in questa situazione di guerra».

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=7471&wi_codseq=SI001%20&language=it

Jisr el Choughour : la bandiera di al-Nusra issata sopra la croce della chiesa



L'intervista al Custode di Terra Santa 

(da Avvenire, 1 maggio)

di Andrea Avveduto

«Aleppo, la solidarietà resiste»


«La situazione umanitaria, in particolare ad Aleppo, è straziante. Mancano elettricità e acqua, la gente vive continuamente sotto i bombardamenti». Fra Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, appena tornato dalla Siria conserva negli occhi tutte le atrocità di una guerra assurda giunta ormai al quarto anno.


Padre Pizzaballa, quali zone ha potuto visitare e quali sono le più colpite dal conflitto? Sono stato a Latakia, Damasco e Aleppo. Non ho potuto andare nei villaggi del Nord perché c’erano dei combattimenti in corso per prendere Jisr al-Shugur, una cittadina che era sotto il controllo governativo e adesso è stata conquistata da al-Nusra. I jihadisti hanno distrutto in poco tempo anche tutte le nostre proprietà, ma non è il problema principale. Sono le tante famiglie sfollate che bussano alla nostra porta a preoccuparci. La città più colpita è Aleppo, dove la popolazione vive in condizioni disastrose e le uniche forme di lavoro che sopravvivono sono le piccole attività commerciali.

Quali sono le principali difficoltà della popolazione? Il costo della vita è aumentato drasticamente, non si può nemmeno quantificare con esattezza. La lira siriana poi non viene più utilizzata e – anche se è proibito – si impiega il dollaro. Il sistema sanitario è insufficiente per rispondere con tempestività ai bombardamenti, e tanti medici sono scappati. C’è un profondo senso di frustrazione, di disorientamento e di angoscia. Ad Aleppo tutti si chiedono se l’Is riuscirà – presto o tardi – a entrare in città.

Cosa significa la vostra presenza per la popolazione? È fondamentale, perché la gente non ha solo bisogno di pane. A volte conta di più una parola di conforto, un abbraccio o una stretta di mano. Non abbiamo la pretesa di cambiare le sorti della guerra, ma in questo conflitto abbiamo davvero la possibilità di cambiare noi stessi, di rimboccarci le maniche e darci da fare, di continuare a credere che l’uomo sia fondamentalmente buono perché creato a immagine di Dio, e non permettere che la logica della guerra diventi anche per noi il criterio con il quale guardare a tutta questa violenza. Anche nella paura, che è grande e innegabile.

C’è spazio per sperare in Siria? Tanti piccoli segni ci dicono che sperare è possibile e – aggiungerei – doveroso. I poveri si aiutano tra loro, in particolare chi ha perso la casa. C’è chi ha ricavato uno spazio nel suo appartamento per accogliere gli sfollati. Ho assistito a un funerale di una madre morta con le due figlie: c’erano tante donne musulmane con il velo che partecipavano alla Messa per piangere assieme ai vicini cristiani. È un grande segno di solidarietà. Le relazioni non si sono spezzate, come vorrebbero farci credere. Sono piccole cose, ma restano segni importanti, in questo mare di odio.

Che cosa chiede all’Occidente e a ciascuno di noi? Chiedo di non dimenticare i nostri fratelli che continuano a morire in Medio Oriente. E poi chiedo di aiutare economicamente le realtà che sono ben radicate nel Paese e che nonostante questa guerra atroce continuano a lavorare per costruire. È importante e necessario non arrendersi, continuare a credere che sia possibile fare qualcosa e conservare quel patrimonio unico che il Medio Oriente ha preservato fino ad oggi.

È possibile sostenere l’attività dei frati francescani in Siria dal sito www.proterrasancta.org


Da AVVENIRE, 1 MAGGIO 2015

martedì 14 aprile 2015

Grido da Aleppo: basta con la distruzione e la desolazione! Basta essere un laboratorio per armi di una guerra devastante!

«Ovunque spavento, terrore, distruzione», la testimonianza del parroco di Aleppo




Terrasanta.net, 14  aprile 2015
di Carlo Giorgi

«È stato un massacro, una catastrofe, un atto omicida: bombardare con missili così potenti edifici in cui ci sono bambini, famiglie, gente che sta dormendo!». 

Fra Ibrahim Sabbagh, parroco latino di Aleppo, in Siria, suo malgrado è abituato ai bombardamenti. Ma descrive l’ultimo di cui è stato testimone, quello avvenuto nella notte tra venerdì e sabato scorso, come qualcosa di inaudito. Per la prima volta, infatti, l’artiglieria dei ribelli ostili al presidente Bashar Al Assad avrebbe bombardato il quartiere di Suleimaniye con missili Grad, dalla potenza distruttiva superiore a quelli usati fino ad ora, lasciando sul campo almeno 9 vittime e decine di feriti.

«Dopo il bombardamento, alla mattina presto, sono andato nel quartiere devastato», racconta fra Ibrahim. «Sono entrato nelle case, ho pregato con chi pregava... Ovunque c’era spavento, terrore, distruzione. Sono stato in una casa in cui due genitori stavano pregando e mi sono messo a pregare con loro... Solo dopo mi sono reso conto che aspettavano di conoscere la sorte dei due figli, sommersi dalle macerie, al piano superiore…».

Oltre che causare morti e feriti, il bombardamento di sabato ha prodotto pesanti ripercussioni di tipo psicologico: la potenza di fuoco, inaspettata, ha fatto pensare a molti cittadini di Aleppo che si sia vicini alla disfatta delle forze governative e all’arrivo in città del fronte islamista, come è già capitato in numerose regioni della Siria e dell’Iraq. A molti il bombardamento è sembrata la conferma che l’epicentro della guerra si sia spostato ad Aleppo e che qui si stia combattendo la battaglia decisiva per il controllo di tutta la Siria. Ciò ha causato la fuga precipitosa di molte delle famiglie fin qui rimaste: almeno 700 hanno abbandonato il quartiere di Suleimaniye, rifugiandosi nelle città costiere di Latakia e Tartus o in casa di amici, in quartieri vicini di Aleppo.

«Da parte nostra abbiamo avuto dei danni alla succursale della parrocchia – racconta fra Ibrahim –, e stiamo lavorando per sistemare i danni e tornare a celebrarvi la messa, per dare un segno di speranza ai cristiani. Ma a chi domanda se il nostro convento è stato colpito o danneggiato, rispondiamo che questa è l’ultima cosa a cui pensiamo! Noi pensiamo alla vita della gente; la cosa importante è la vita delle nostre famiglie! Siamo convinti che in alcuni momenti della storia la Chiesa può vivere anche senza gli edifici di pietra, la cosa importante è che ci sia una Chiesa fatta di uomini resi vivi dalla resurrezione di Gesù. Questo è sufficiente per riprendere a vivere».

La Custodia di Terra Santa, è presente ad Aleppo con quattro frati, che gestiscono una parrocchia nel quartiere di Azizieh (attiguo al quartiere bombardato di Suleimaniye) e un collegio (nel quartiere di Tour de Ville, all’ingresso della città). Considerata la situazione attuale, con un tragico e continuo precipitare degli eventi, i frati hanno deciso di trasformare il collegio di Terra Santa – oggi in una zona ancora relativamente tranquilla – in un luogo di accoglienza permanente, per famiglie di profughi.

«Ma l’accoglienza nel nostro collegio di Terra Santa è già cominciata – racconta fra Ibrahim –: un ospizio gestito dalla San Vincenzo de Paoli ci ha chiesto di farci carico dei suoi ospiti che non sanno dove andare…; domenica sono fuggiti dal loro quartiere e li abbiamo ricevuti noi: sono venti anziani e dieci infermieri. Poi stiamo dando accoglienza al clero: al momento ospitiamo un vescovo melchita con un suo sacerdote, fuggiti dalla loro zona; ma siamo disponibili a dare ospitalità a tutti i sacerdoti che potranno aver bisogno».
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Fra Ibrahim Sabbagh, 44enne siriano di Damasco, era per studio in Italia fino allo scorso anno. Si è offerto di tornare in patria anche per collaborare con i suoi confratelli nell’assistenza spirituale e materiale ai fedeli. Ha lasciato Roma per la Siria nel novembre scorso. Prima di partire ha spiegato cosa lo spinga in questo breve video .





Il grido dei capi delle Chiese di Aleppo


Terrasanta.net | 14 aprile 2015

Riceviamo e rilanciamo dalla Siria, questo Comunicato stampa del Consiglio dei capi delle confessioni cristiane ad Aleppo, stilato ieri dopo giornate di aspri bombardamenti sulla città, avvenute la scorsa settimana, proprio in prossimità della Pasqua ortodossa che si è celebrata il 12 aprile, seguendo il calendario gregoriano delle Chiese d’Oriente.


Resurrezione del Salvatore o sepoltura dei fedeli?

Durante la settimana della Passione redentrice e dei giorni di Pasqua, la nostra città e il nostro popolo hanno sofferto un dolore intenso, una profonda angoscia e sconforto, la notte in cui sono stati presi di mira i quartieri civili della città con granate a razzo la cui capacità distruttiva non avevamo mai sentito e visto prima d’ora!
Siamo andati e abbiamo visto e abbiamo pianto: corpi estratti dalle macerie, brandelli attaccati alle pareti e sangue mescolato al suolo della patria! Decine di martiri di ogni religione e confessione, feriti e mutilati, uomini e donne, anziani e bambini. Abbiamo ascoltato il pianto delle vedove e i lamenti dei bambini e abbiamo visto il panico sui volti della gente.

Dal profondo della sofferenza e della grande angoscia, facciamo appello, gridando, alle persone di retta coscienza, nel caso ci sia qualcuno disposto ad ascoltare:  basta con la distruzione e la desolazione! Basta essere un laboratorio per armi di una guerra devastante! Siamo stanchi! Chiudete le porte della vendita di armi e fermate gli strumenti di morte e la fornitura di munizioni. Siamo stanchi!

Che cosa volete da noi? Ditecelo! Perché siamo stanchi!

Volete che restiamo: feriti e umiliati, mutilati e privati di ogni dignità umana?

Oppure che ce ne andiamo con la forza, e siamo distrutti manifestamente?

Ma noi vogliamo vivere in pace, cittadini onesti insieme agli altri figli di questo paese.

Noi non abbiamo paura del martirio, ma rifiutiamo di morire e che il nostro sangue sia il prezzo di un fine sospetto e meschino.

Noi rifiutiamo che vi sia la “Aleppo dei martiri” ma vogliamo che resti la “Aleppo al-Shahbah (letteralmente «la grigia», dal tipico colore dei suoi edifici - ndt)”, testimone della tenerezza, dell’amore e della pace, del perdono e del dialogo. Aleppo la città, il gioiello prezioso sulla corona del nostro Paese, la Siria, con tutte le sue componenti e la sua diversità di civiltà, culturale, religiosa e confessionale.

La misericordia ai nostri martiri, la guarigione ai nostri malati, la tranquillità nell’animo dei nostri figli e la sicurezza e la pace a tutti i nostri cittadini.
13 aprile 2015
(traduzione dall'arabo a cura della redazione)




Asianews, 14/04/2015 
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I vescovi cattolici hanno lanciato un appello alla comunità internazionale, perché intervenga a fermare il conflitto. Tuttavia, aggiunge il vicario di Aleppo, è proprio la comunità internazionale, sono le potenze in campo (Stati Uniti, Arabi Saudita, Turchia, Francia che forniscono armi, combattenti, addestramento militare e ideologico) che “soffiano sul conflitto e forniscono armi sempre più pesanti e letali ai combattenti”. 
“Abbiamo pianto nel vedere le sofferenze negli occhi della gente - racconta mons. Georges - i molti corpi sotto le macerie delle case crollate. Solo nella parte cristiana abbiamo già seppellito 12 persone, di cui quattro della stessa famiglia. Ma ci sono ancora diversi corpi sotto le macerie, oltre che diversi feriti gravi e temiamo che il bilancio si possa aggravare nelle prossime ore”. 
“Siamo stanchi della guerra, non mandate più armi” è l’appello del prelato, secondo cui è in atto “un progetto mirato” per “sradicare i cristiani” dalla Siria, dall’Iraq, dal Medio oriente. “Bombe e missili - aggiunge - non sono fatti per stuzzicare, ma per uccidere” e per far crollare il mosaico di convivenza e sentimenti comuni che era la Siria prima della guerra, dove cristiani e musulmani “vivevano uniti e senza tensioni di natura confessionale”.