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mercoledì 4 maggio 2016

"L'ultimo pediatra"?? I Cristiani di Aleppo e l’informazione unilaterale

Aleppo - La disinformazione continua. 

da Nabil Antaki, dei fratelli Maristi



Abbiamo chiesto al Dr. Nabil Antaki se le informazioni riportate da una settimana sulla situazione in Aleppo corrispondono a quello che accade lì.  Ecco la sua risposta:

A tal proposito, ultimamente mi rendo conto che i media continuano a mentire per omissione. Dall'inizio della guerra in Aleppo 4 anni fa, essi non riportano tutti i fatti nel loro complesso.
 Aleppo è bombardata quotidianamente dal 2012 da parte di gruppi terroristici che provocano morti e feriti. Nessuno se ne è mai curato; se non per felicitarsi per il "buon lavoro che fanno" [riferendosi alla dichiarazione di Laurent Fabius].  E' tempo che l'Occidente si svegli e smetta di sostenere i terroristi.
 Noi in Aleppo siamo disgustati dalla mancanza di imparzialità e obiettività dei mezzi di comunicazione.  Parlano solo di sofferenza e perdita di vite umane nella parte orientale della città, controllata da al-Nosra, gruppo terrorista affiliato ad al-Qaeda, che hanno sempre chiamano "ribelle", il che è un modo per renderlo più rispettabile. E passano sotto silenzio le perdite e la sofferenza quotidiana nei nostri distretti occidentali di Aleppo dovuti ai bombardamenti lanciati da questi terroristi. Non parlano neanche circa il blocco e i tagli totali di acqua ed elettricità che quelli infliggono a noi ...
 I media non dicono nulla dei bombardamenti continui e della carneficina che ha avuto luogo la scorsa settimana, nella parte occidentale della città [dove il dottor Nabil vive], dove nessun quartiere è stato risparmiato e dove ci sono ogni giorno decine di morti. Queste omissioni sono tanto più scioccanti in quanto questi nostri distretti rappresentano il 75% della superficie di Aleppo e hanno 1,5 milioni di persone - contro 300.000 nella parte orientale occupata dai gruppi terroristici.
 Questa informazione monca insinua che i terroristi che ci attaccano sono le vittime. Peggio ancora, i media hanno sviato la nostra richiesta "SAVE ALEPPO" suggerendo che questo appello chiedeva la cessazione delle ostilità da parte delle "forze di Assad". Il che è falso. Inoltre, non ci sono "forze di Assad": ci sono le forze dell'esercito regolare siriano a difesa dello Stato siriano.
Essi [i media tradizionali] potrebbero almeno avere la decenza di parlare della carneficina causata dagli attentati terroristici che hanno mietuto molte vittime. Come è successo di nuovo venerdì scorso, quando uno dei loro colpi ha colpito una moschea nell'ora della preghiera causando 15 morti e 50 feriti tra i civili. Gli attacchi e le perdite che soffriamo vengono presentati [dai media] in modo da lasciare il pubblico nell'incertezza su chi è il vero responsabile di questi crimini.
 Da tre giorni i media stanno accusando il "regime di Assad" e i russi di aver bombardato e distrutto un ospedale sostenuto dalla ONG Medici senza frontiere  ad est della città.  Essi sostengono che "l'ultimo pediatra di Aleppo" è stato ucciso nel bombardamento. Abbiamo ancora molti pediatri in Aleppo.  Ciò dimostra molto bene che, per i media, conta solo la parte orientale occupata dai ribelli, e che i tre quarti della città di Aleppo amministrati dallo stato siriano, dove praticano ancora molti pediatri, non contano.
 L'ospedale MSF menzionato non è nella lista degli ospedali siriani stabilita prima della guerra da parte del Dipartimento della Salute. Quindi, se c'è, è stato installato in un edificio dopo la guerra.  Io non credo che le forze governative o un aereo russo abbiano deliberatamente bombardato un ospedale. Non è nel loro interesse.
 Abbiamo constatato la stessa parzialità, quando il più grande ospedale di Aleppo  Al-Kindi , è stato colpito dai missili terroristici di al-Nosra e intenzionalmente bruciato nel 2013. I media non hanno prestato attenzione a questo atto criminale. Siamo disgustati e rivoltati da questa disinformazione in corso.
Nabil Antaki, 30 aprile 2016 

http://arretsurinfo.ch/alep-linformation-mensongere-continue-par-nabil-antaki/


  Il Vescovo di Aleppo Monsignor Jeanbart :
L’ULTIMO PEDIATRA? ...  Monsignor Jeanbart ha anche criticato l’informazione unilaterale: «Il governo sta cercando di liberare la città dopo che per mesi gli aleppini sono stati bombardati [dai ribelli]. Ovviamente è triste che un ospedale sia stato distrutto. Ma Medici senza frontiere ha dichiarato che l’ultimo pediatra è stato ucciso. Non è vero, ce ne sono molti altri dove più di un milione di persone vivono. Quando sentite parlare delle sofferenze di Aleppo, spesso si parla del regime che attacca i civili controllati dai ribelli. Ma è quasi sempre vero l’opposto. Non sto scusando il regime di Assad, ma non posso permettere che le menzogne continuino a informare il mondo. (…) Noi abbiamo più libertà di coloro che vivono nell’altra [metà di Aleppo]. Fino a quando non attacchi i soldati del governo, puoi anche criticare il governo e non ti succede niente. Ma se fossimo dall’altra parte, verremmo obbligati a convertirci all’islam e saremmo cittadini di serie B, senza diritti».

Missili e razzi lanciati dalla zona sotto il controllo dei ribelli ieri hanno colpito l’ospedale di Dabbi’t, centrando il reparto di ostetricia e uccidendo 17 bambini, oltre che donne e uomini.
    Padre Ibrahim, francescano:
BOMBE SUI CIVILI. ... «È il momento peggiore di Aleppo da sempre», spiega padre Ibrahim. «Abbiamo appena avuto la notizia che un ospedale è stato bombardato: si parla già di 17 vittime. Ma da mercoledì scorso a oggi le bombe cadono sulle moschee, sulle chiese, sulle case, in tutte le zone di Aleppo ovest».
È da anni che la situazione è questa, spiega il francescano, ma ora l’intensità degli attacchi è aumentata. Chi spara? «Sicuramente qui nella parte ovest, chi ci colpisce non è l’esercito, che ci difende, ma sono le milizie che non hanno accettato la pace». Si tratta «sicuramente» di un «bombardamento fondamentalista e terrorista: sono bombardamenti non contro obiettivi militari, protetti, ma contro obiettivi civili indifesi come scuole, chiese, ospedali. Un modo di terrorizzare la gente e usare questo terrore come carta da giocare nelle trattative».
STRUMENTALIZZAZIONI. Sui media internazionali è stata data la notizia che è stato colpito un ospedale pediatrico da missili russi o dell’esercito di Assad. È vera questa notizia? Cosa è accaduto? Padre Ibrahim ammette di non avere certezze sull’accaduto, di certo, sottolinea, «quando viene colpito un ospedale con bambini e donne ricoverate, questo non può essere che un crimine di guerra a cui siamo al cento per cento contrari». Quel che può dire il francescano è che si tratta di quella parte della città «dove ci sono i miliziani di al-Nusra (il nome locale di al Qaeda, ndr): si è detto che era un ospedale da campo dove curavano i terroristi feriti in azione di guerra». La Chiesa, prosegue, è contro ogni tipo di bombardamento su civili innocenti, «ma sappiamo che ci sono diverse strumentalizzazioni delle informazioni».

i Salesiani di Damasco donano il sangue per Aleppo
   Il vescovo di Aleppo, monsignor Audo:
... Eccellenza, qual è la situazione ad Aleppo? La settimana scorsa il bombardamento degli ospedali, ogni giorno nuovi attacchi...  «La situazione è drammatica: la città divisa in due, a ovest i governativi e a est i ribelli asserragliati nella città vecchia. L'80% della popolazione è senza lavoro. E i bombardamenti durano da mesi. Ma sull'ospedale vorrei dire una cosa: bisogna fare attenzione, i media occidentali parlano di Siria solo quando attacca l'esercito di Assad. Quando sparano i ribelli non ne parla nessuno. Venerdì scorso i gruppi armati dell'opposizione hanno bombardato una moschea facendo 250 fra morti e feriti. Ne avete sentito parlare?» 
Ci sono due pesi e due misure? «Certo: per l'Occidente Assad uccide i bambini e i pediatri, mentre i ribelli islamisti sono degli angeli» 
Chi paga per tutto questo? «I soldi vengono dall'Arabia Saudita, i miliziani sono armati e addestrati in Turchia».
Quindi la coalizione che combatte Isis in realtà finanzia la jihad?   «Esattamente. Questa guerra è organizzata per interessi economici e strategici ad alti livelli da Usa e Israele, secondo un accordo ben orchestrato. Ma sono loro dietro tutto: hanno i loro interessi, che difendono tramite intermediari come la Turchia, l'Arabia, il Qatar»
Sono parole molto pesanti.  «Eppure sono rapporti geopolitici chiari. I nodi sono due: la volontà di Israele di sopravvivere e quella statunitense di imporre la propria supremazia economica. Questi obiettivi sono intrecciati e per raggiungerli si punta a dividere gli avversari. Guardi cosa hanno fatto con Saddam e cosa hanno provato a fare con Assad».

venerdì 22 aprile 2016

Siria: un monastero di Trappiste per tenere desta la speranza

Intervista a suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir, che racconta la difficile situazione del paese e il senso della loro presenza orante in terra d'islam


Tempi, 22 aprile 2016
di Rodolfo Casadei 

«Vescovi e sacerdoti dicono: “Non abbiamo notizie”, i cristiani comuni dicono: “Gli hanno fatto del male, non torneranno più”. Tutti sembrano avere perso la speranza di rivederli fra noi». 
 Sono passati tre anni dal sequestro di due vescovi metropoliti di Aleppo – il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi – e suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir di passaggio in Italia, riassume con queste poche parole lo stato d’animo dei cristiani siriani rispetto al destino dei due presuli rapiti.


Il 22 aprile 2013 stavano viaggiando nel nord della Siria, tornando ad Aleppo dal confine con la Turchia che avevano visitato – forse per motivi legati al rapimento di due sacerdoti pochi giorni prima, anch’essi spariti nel nulla – quando di loro si persero le tracce. Nessuno sforzo è stato sufficiente a chiarire cosa sia successo. Si ipotizza che siano stati intercettati da qualche gruppo ribelle minore, che non ha capito il valore delle “prede” e ha compiuto l’irreparabile. Nonostante la tregua di fine febbraio che ha portato un po’ di sollievo in tante (non tutte) regioni della Siria, le condizioni per celebrare nella sicurezza e nella dignità il triste anniversario con gesti pubblici ancora non esistono, e la principale iniziativa commemorativa si è tenuta a Beirut, nel Libano.

Intanto la vita lentamente riprende. «Il nostro monastero sorge nella zona di Homs, e nella città non ci sono più combattimenti. Gli ultimi ribelli hanno avuto il salvacondotto per andarsene, consegnando le armi pesanti e portandosi via solo quelle personali. La vita è ripresa, anche se si vedono scene surreali: una casa ristrutturata e imbiancata di fresco circondata da edifici diroccati e disabitati, una via piena di gente che va per botteghe e se butti l’occhio a destra al primo incrocio vedi un intero quartiere ridotto a cumuli di rovine». 

C’è l’armistizio ma un po’ in tutta la Siria non c’è un gran via vai di persone fra i quartieri sotto controllo governativo e quelli sotto controllo ribelle. La diffidenza è grande. «Ogni tanto nei quartieri sotto controllo governativo si vede una donna velata da sola accompagnata da un bambino, oppure da una persona molto anziana. Sono i familiari dei ribelli mandati in avanscoperta, a fare la spesa e a vedere che aria tira».

Ad Azeir, dove sorge il monastero non lontano dal confine col Libano, le armi avevano cessato di far sentire la loro voce già da tempo.  «Le forze governative hanno riconquistato il Krak des Chevaliers già nella primavera di due anni fa, da allora non sentiamo più esplosioni e raffiche di armi automatiche. I passaggi notturni di ribelli e armi attraverso la frontiera libanese, che sfioravano il recinto del monastero, sono quasi cessati. Adesso il vero pericolo sono le gang criminali, che grazie alla crisi dell’ordine pubblico conseguenza della guerra sono cresciute in numero di banditi e in armi. Si sono moltiplicati i rapimenti di persone della zona. Basta che giri la voce che qualcuno ha fatto qualche buon affare, e dopo un po’ viene sequestrato. Chiedono riscatti anche di 20 milioni di lire siriane ».

Il monastero non ha mai chiuso i battenti nemmeno nei momenti più difficili. 
Avviato nel settembre 2010, pochi mesi prima che scoppiassero le proteste che poi sarebbero sfociate nella guerra civile, aveva dovuto ridurre il ritmo dei lavori di edificazione al culmine degli scontri militari. 
Le quattro monache italiane presenti però non si sono mai date per vinte e sono rimaste sul posto per testimoniare la loro fedeltà al popolo siriano, cristiani e musulmani, e soprattutto alla decisione di mettere la loro vita nelle mani di Cristo dopo avergliela interamente consegnata al momento della professione dei voti perpetui. 
Presto sono diventate cinque e da qualche tempo a loro si è unita una postulante siriana – la prima -, una giovane cristiana di confessione greco ortodossa. 
Ora i lavori di allestimento sono ripresi, 15 operai lavorano con una certa continuità e il monastero diventa sempre più accogliente: «Viviamo e preghiamo ancora nell’edificio che un giorno diventerà la foresteria, ma intanto abbiamo tirato su un certo numero di stanze per gli ospiti in pietra grezza locale, un edificio su due piani che ospiterà un laboratorio e il noviziato, la cisterna per l’acqua che ci risolverà tanti problemi, e stiamo pavimentando la strada interna alla proprietà».

La ripresa dei lavori significa il rinnovarsi del monastero come segno di pace e di riconciliazione nella regione, perché operai e manovali che realizzano i lavori sono cristiani, musulmani sunniti e alawiti che provengono dai villaggi vicini. La regione è un mosaico dal punto di vista religioso. 

Dall’estate scorsa il monastero è tornato ad essere centro per ritiri di gruppi: i salesiani da Damasco, i gesuiti da Aleppo hanno ricominciato a mandare giovani e meno giovani. 

«Per la gente il momento più duro è stato l’estate scorsa, quando in tivù e sui siti internet vedevano gli sbarchi di massa e i treni pieni di profughi in Europa. “Allora non ha senso resistere, dobbiamo andarcene tutti”, ci dicevano. Chi arrivava in Europa chiamava quelli che erano qui per convincerli a partire. Adesso la pressione non è più così forte. Sentiamo la gente di Aleppo. Ci dicono: “Non è vero che non si spara più, ma adesso almeno abbiamo l’acqua tutti i giorni!”. Prima, i ribelli sospendevano l’erogazione quando erano ai ferri corti coi governativi». 


Quella Aleppo alla quale non sono più tornati Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, pastori separati dal loro gregge.



http://www.tempi.it/a-tre-anni-dal-rapimento-dei-vescovi-di-aleppo-tutti-hanno-perso-la-speranza-di-rivederli#.VxowbvmLSM8

martedì 2 febbraio 2016

Il cantico di Pascale

TEMPI, 2 febbraio 2016
di Rodolfo Casadei

«Il giorno più bello da quando sono in Francia è stato quando, al termine di una testimonianza in un liceo, è venuta da me una ragazza marocchina velata e mi ha detto: “La ringrazio. Lei oggi mi ha insegnato ad amare il profeta Gesù e ad amare i cristiani”. Per un attimo ho visto in lei mia figlia. O forse era mia figlia che guardava lei attraverso di me».
Claude Zerez ha 60 anni e da due vive come rifugiato in Francia con la moglie e due figli maschi di 23 e 25 anni. Viene da Aleppo, dove faceva la guida turistica specializzata in antichità cristiane; insegnava pure arte cristiana all’università Saint-Esprit de Kaslik a Jounieh in Libano. Come tutti i siriani, di ogni religione ed etnia, ha avuto la vita sconvolta dalla guerra civile cominciata nel marzo 2011.

Il peggiore degli incubi di un padre è diventato realtà un giorno d’autunno. Era il 15 ottobre 2012 e una corriera di linea correva lungo la strada che da Hama porta ad Aleppo. Dentro, gente di tutte le professioni e di tutte le età. Di tutte le fedi religiose che si trovano in Siria. Fra loro una ragazza dalla lunga chioma scura. I capelli sono scoperti, come quelli della maggior parte delle donne siriane prima della guerra. Lo sguardo è radioso, gli occhi profondi e scuri brillano perché, nonostante la Siria sia discesa da alcuni mesi nell’inferno della violenza fratricida alimentata dall’esterno, la vita sta sorridendo a questa giovane donna: ha concluso con successo gli studi medi superiori, sta per entrare all’università, ma soprattutto ha da poco celebrato le nozze. Pascale, 18 anni e pochi mesi, è una sposa. Lei che è di Aleppo vivrà col marito che è di Homs a Tartus, sulla costa del Mediterraneo, là dove la guerra ancora non morde.

A Homs infuriano battaglie strada per strada nei quartieri di Baba Amr e della città vecchia già da un anno e mezzo, ad Aleppo le ostilità sono scoppiate nel bel mezzo dell’estate, e i ribelli già stanno conquistando posizioni. La corriera esce dalla città di Hama e non imbocca la strada principale per Aleppo, ormai impercorribile, ma quella che passa più a oriente. Nei pressi della cittadina di al-Manara uomini armati arrestano la marcia del veicolo. I genitori e i fratelli di Pascale non sapranno mai di quale gruppo. Salgono e controllano i documenti dei passeggeri. Cristiani e alawiti vengono fatti scendere. Per Pascale non c’è bisogno nemmeno di controllare: quei capelli al vento, il rossetto sulle labbra e l’abbigliamento giovanile sono altrettante prove a carico contro di lei.

Sono in 13 a subire angherie, uomini e donne, succedono le cose che potete immaginare. Vengono uccisi tutti a colpi di arma da fuoco. I guerriglieri si dileguano rapidamente, abbandonano i cadaveri in strada senza nemmeno derubarli. Probabilmente temono di essere intercettati dall’esercito se si attardano sul posto.
Quando lo hanno chiamato, a Claude è cascato addosso il mondo: «Un’ora prima che la assalissero ci avevo parlato al telefono. Era contenta, aveva concluso la telefonata: “Preparatemi qualcosa di buono da mangiare, sto arrivando!”. Non siamo nemmeno potuti correre all’obitorio dell’ospedale di Hama, dove hanno composto i cadaveri, perché la strada era diventata troppo pericolosa. Il corpo di mia figlia ce l’ha portato un musulmano, che s’è preso il rischio di attraversare i posti di blocco dei ribelli per riportare i resti di una figlia cristiana alla sua famiglia. L’ho abbracciato e ringraziato come un fratello. Mi ha anche portato queste cose, che è tutto ciò che mi resta di Pascale». Claude mostra un cellulare col dorso di un fuxia squillante, e una catenina grigio argento che porta al collo. Il telefonino sembra appena uscito da un negozio.

Di Pascale restano anche due filmati che si possono trovare in rete, impaginati uno di seguito all’altro. Nel primo c’è lei con la corale che aveva creato, impegnata a cantare e suonare un organo elettrico in parrocchia durante una liturgia accompagnata dai suoi coristi. 

Non era ancora maggiorenne e aveva composto musica e testo di un inno struggente dedicato ai martiri di Siria. «Non l’ha pensata solo per i martiri cristiani, ma per tutti i siriani innocenti che stavano morendo per la guerra». Le note romantiche e il canto lancinante creano un’atmosfera di indicibile tristezza, quasi un presagio di morte.

                  
Piccolo bambino in questa guerra
il cannone ha ruggito, destate i cuori,
egli di pochi mesi, morto
Il suo cuore bianco gridò AHHHHHHHH
Oh i grandi, dove è il giorno
Il mio cuore è diventato a pezzi e lacrime
Oh i grandi, dove è la pace
Il mondo ha voltato le spalle, i cuori sono morti.
(Canto per i martiri, parole di Pascale Zerez)

Il filmato seguente comincia con una bara bianca, ricoperta da un immenso velo da sposa, che sovrasta una piccola folla in movimento. Portata a spalle da quattro uomini, entra per la porta d’ingresso della stessa chiesa che s’è vista nel filmato precedente. Pascale sorride da una foto incollata sul lato anteriore della bara. Risuona ovattato il motivo portante dell’inno per i martiri composto da lei. Poi le immagini si spostano sugli interventi al microfono dei vescovi presenti al funerale. Claude Zerez e la sua famiglia sono melkiti, ma in chiesa ci sono praticamente tutti i vescovi di Aleppo, cattolici e ortodossi. Al termine della cerimonia, quando la bara esce in un sottofondo di pianti e grida materne, si mettono in fila e rendono omaggio a papà Claude abbracciandolo e baciandolo tre volte sulle guance. Si sentono improvvisamente colpi di arma da fuoco. La gente si gira a destra e a sinistra ma non fugge. La sparatoria continua a lungo, mentre i presenti si scambiano le condoglianze, in un’atmosfera surreale.
«Dopo quella tragedia ho vissuto sei mesi di buio. Niente aveva più senso», racconta Claude. «Sprofondavo ogni giorno di più nella depressione. Mi ha salvato la preghiera. Ho pregato di poter accettare quello che era accaduto alla mia famiglia, di poter trovare la pace del cuore. Allora ho cominciato a sognare Pascale, ed erano sempre sogni sereni, belli. Lei mi diceva “Sto bene, qui è bello”, “Sono sempre con voi”, oppure “Vi voglio bene”. A poco a poco la sua assenza fisica che mi angosciava è diventata una presenza spirituale che mi confortava».

«Smettila o morirai ammazzato»
La vita continua e Claude, persona molto rispettata in città, entra a far parte del Comitato di riconciliazione di Aleppo, che si occupa fra le altre cose di scambi di ostaggi e della liberazione tramite trattative di persone rapite dalle bande armate. Del consiglio fanno parte imam e sacerdoti, notabili e altre personalità indipendenti dal governo e dal partito dominante. Ma dopo poco cominciano ad arrivare minacce di morte da parte ribelle. «A me sono arrivate telefonate minatorie: “Devi smetterla oppure morirai ammazzato”, ad altri lettere anonime. Ho cominciato a temere per la mia vita e per quella dei miei figli».
Jabhat al Nusra, Jaysh al Islam e altri gruppi islamisti della ribellione armata vogliono impedire a tutti i costi la riconciliazione, vogliono la radicalizzazione del conflitto. Nel caso dei ragazzi di Claude si presenta un altro problema: sono in età di militare, potrebbero essere chiamati sotto le armi. Ma nell’esercito stanno succedendo cose tremende: il quartiere di Jebel el Seide cade nelle mani dei ribelli grazie al tradimento del comandante delle truppe che erano stazionate lì per difenderlo, che si lascia corrompere per denaro: decine di soldati vengono massacrati mentre lui fugge. Reparti passano dalla parte degli insorti dopo aver ucciso i militari alawiti e cristiani e altri lealisti, mentre altri reparti cadono in imboscate frutto di tradimenti.

La fuga da Aleppo
Per tutte queste ragioni la famiglia Zerez decide di emigrare. Ha i mezzi e ha i contatti in Francia per organizzare l’uscita dal paese in modo legale. Il problema è un altro: fra Aleppo e il confine col Libano ci sono una serie infinita di posti di blocco, sia delle forze governative che dei ribelli. I rischi sono grandissimi, superarli senza danni quasi impossibile. Molti amici ritengono di fare un favore a Claude scongiurandolo di non partire per non fare la stessa fine della figlia. Che sembra voler comunicare. «Mi è apparsa ancora una volta in sogno. Mi ha detto: “Partite, andrà tutto bene”. Mi sono fidato di quel sogno e mi sono messo per strada. Ho superato 90 barrage per arrivare in territorio libanese sicuro! In tempo di pace per compiere quel percorso ci vogliono meno di tre ore. Noi ce ne abbiamo messe ventuno!».

L’arrivo in Francia
In Francia, dove arriva nel gennaio 2014, la famiglia Zerez fa una grande esperienza di accoglienza: non solo gli amici, ma famiglie cristiane completamente sconosciute si prendono cura di loro. «In casa mia non c’è nemmeno un mobile che non mi si sia stato donato!», racconta Claude. In questa atmosfera di fraternità cristiana continua il suo cammino di approfondimento della fede seguito all’assassinio di Pascale. Comincia a essere invitato a tenere incontri e testimonianze. Parla delle sofferenze della Siria e dei suoi cristiani, ma soprattutto parla della conquista del perdono. «Grazie a mia figlia sono diventato un messaggero della pace e del perdono. Ho perdonato, senza dimenticare. Mi rivolgo a Dio come Gesù sulla croce s’è rivolto a Dio Padre: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Il cammino del perdono è il cammino della pace e della riconciliazione nel mio paese. Senza perdono non ci sarà nessun ritorno alla pace e nessuna possibilità di ricostruire la Siria; e noi cristiani dobbiamo essere i primi a perdonare, perché ci vorrà del tempo prima che quelli che si sono macchiati le mani di sangue arrivino alla conversione del cuore. Hanno imparato a uccidere, e gli ci vorrà del tempo per imparare a non farlo più, dobbiamo insegnarglielo noi».
Quella che Claude definisce «la chiamata di Dio» si traduce in 86 testimonianze pubbliche che lui ha reso nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Vincendo ogni volta la diffidenza di chi sospetta nei cristiani siriani degli emissari e dei sostenitori acritici del regime al potere. «Io cerco di anticipare gli attacchi politici. Dico: “In Siria ci sono tante cose che non vanno: la corruzione, lo stato d’emergenza che dura da trent’anni, l’analfabetismo, la diseguaglianza economica. Ma la guerra civile non l’hanno voluta i siriani, l’hanno voluta l’Arabia Saudita e il Qatar. Se cambia il regime non avremo la democrazia, avremo una dittatura religiosa. Prima della guerra avevamo la sanità e la scuola gratuite, il pane e la benzina a prezzi calmierati, la sicurezza pubblica. Chi ha aderito alla ribellione credeva di poter avere un futuro migliore, invece ha perso tutto quello che aveva prima”. Alla fine nessuno mi dà torto».

I musulmani mi dicono “grazie”
Al contrario, tutti gli sono grati per la mansuetudine e la totale mancanza di odio con cui racconta la sua tragedia personale, con cui distingue le responsabilità degli estremisti da quelle della gente comune musulmana e con cui testimonia la convivenza pacifica fra cristiani e islamici prima della guerra. «I musulmani mi dicono: “Grazie, qui dopo il 13 novembre tutti ci guardano come mostri, con le sue parole lei ci sta veramente aiutando”. Alcuni cristiani mi si avvicinano come se fossi un santo. Uno mi ha detto: “Vorrei baciarle le mani e i piedi, perché non ho mai incontrato un cristiano come voi. Voi siete la luce dei cristiani”».
Ma Claude ha chiaro che la strada del cristiano non è fatta di successi e applausi umani, anche se talvolta sembra così. La cosa più importante è la conversione personale, che permette di avvicinarsi alla santità: «Il perdono non è umano, è divino. E allora o crediamo che Dio può operare il miracolo in noi, oppure non ci crediamo. Se ci crediamo, la prospettiva che abbiamo è quella di accettare di salire il Calvario per giungere alla Resurrezione. Il Calvario è il cammino da percorrere per la Resurrezione».

lunedì 5 ottobre 2015

«Mandate alimenti e vestiti ma firmate l’embargo contro la Siria. Denunciate le violenze dei jihadisti e poi li armate»


Intervista a Georges Abou Khazen, francescano, vicario apostolico latino di Aleppo


TEMPI
 di Rodolfo Casadei

Eccellenza, cosa deve fare l’Europa con i profughi siriani che bussano alle sue porte?

Noi ringraziamo di cuore per il senso di umanità e di solidarietà che sta mostrando l’Europa, però vorremmo che anziché curare gli effetti andasse alla radice, alla causa. Una volta eliminata la causa, non ci sarebbe più il problema di questi profughi, che stavano bene nel loro paese. La Siria è stata sempre un paese di accoglienza per profughi di altri popoli, sin dal XIX secolo: armeni, palestinesi, libanesi, iracheni. Ma adesso ci troviamo con quasi la metà della popolazione profuga, fuori e dentro i nostri confini. Perché non si preme per la pace e per il dialogo? Finirebbe il problema. Per prima cosa, si cessi di vendere o fornire armi ai contendenti.

Europei e americani insistono che la colpa della guerra in Siria è del regime del presidente Assad, che ha represso le proteste democratiche del marzo-maggio 2011 costringendo gli oppositori a prendere le armi, e che ci sarà pace soltanto se il presidente darà le dimissioni e abbandonerà il paese. Cosa ne pensa?
Le persone che ricoprono cariche pubbliche vanno e vengono, non è un problema di persone. Il problema è che non si crei un vuoto di potere, altrimenti rischiamo di diventare come la Libia, peggio della Libia. La richiesta di dimissioni del presidente è un pretesto per tenere aperto il conflitto.
Invece il vero obiettivo deve essere la riconciliazione e la formazione di un governo di unità nazionale, la garanzia della sicurezza per tutti i siriani, la fine del caos attuale.

Tempi ha fatto un appello per l’abrogazione delle sanzioni contro la Siria, perché crediamo che non avvicinino la pace e che solo aggiungano sofferenze. Ma americani ed europei insistono che questo è l’unico modo per far piegare il regime siriano. Cosa ne pensa?
Fate bene a chiedere la fine delle sanzioni, siamo pienamente d’accordo con questa posizione. Le Chiese in Siria chiedono la fine dell’embargo sin dal giorno in cui sono state decise queste sanzioni. Proprio ieri parlavo di questo con Stephen O’Brien, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Da una parte le Nazioni Unite forniscono aiuti umanitari alla Siria, dall’altra mantengono sanzioni contro il paese che non toccano veramente il governo e i personaggi altolocati, ma fanno soffrire le persone già povere. Queste sanzioni sono una punizione contro il popolo.
Obama dopo tanti anni ha riconosciuto che l’embargo americano contro Cuba è stato un errore, e l’ha abolito; allora perché perseverare nell’errore per quanto riguarda la Siria? Ad Aleppo abbiamo avuto un inverno terribile, con temperature vicine a dieci gradi sotto zero, e il freddo l’ha patito la povera gente, non certo le personalità altolocate contro le quali sono state pensate le sanzioni. Quando non si trovano le medicine, quando non si riescono a pagare gli studi dei figli, è la gente comune a soffrire, non il governo. In passato lo Stato erogava migliaia di borse di studio per gli universitari, che servivano a pagare i loro studi in patria e la specializzazione all’estero. A causa della guerra lo Stato non ha più risorse economiche per questi aiuti, a mantenere i figli nelle università straniere ci devono pensare le famiglie, tante non ce la fanno e così perdiamo la possibilità di dare ai nostri giovani più brillanti un’alta qualificazione.


La Russia ha deciso di sostenere maggiormente il governo siriano. Secondo gli Stati Uniti è un fatto negativo, aumenterà le sofferenze dei siriani. Cosa pensa dell’intervento della Russia?
Chiaramente la Russia si muove per i suoi interessi, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, ma il ruolo che sta svolgendo in questo momento è molto positivo per la Siria. Perché è l’unica potenza che sta cercando veramente di riunire tutte le parti in conflitto e di concludere un compromesso. Stanno coinvolgendo l’opposizione, la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran in un negoziato vero per una soluzione. Il fatto che la Russia aiuti il governo centrale, nell’attuale contesto non è sbagliato.
Gli altri, le altre potenze, cosa fanno? Chi stanno armando e addestrando? Stanno sostenendo jihadisti, gruppi intransigenti, fanatici e integralisti religiosi. E purtroppo ad armarli è anche l’Occidente. Allora non si può parlare solo degli aiuti militari russi: tutti dovrebbero cessare di armare le parti in conflitto. Le assicuro che questo è il modo di pensare della maggioranza dei siriani riguardo al ruolo della Russia nella nostra crisi.

In Siria l’Isis propone ai cristiani un contratto di sottomissione: è disposto ad accettare l’esistenza dei cristiani, ma in regime di dhimmitudine. I cristiani sarebbero liberi di vivere come cristiani, pagando una tassa allo Stato islamico ed evitando manifestazioni pubbliche del loro culto. Cosa pensano i cristiani dell’Oriente di questa proposta?
Intanto bisogna vedere se questa offerta è reale, perché i fatti dicono altro: dove è arrivato lo Stato Islamico i cristiani se ne sono dovuti andare, praticamente non ce ne sono più, sia in Iraq sia in Siria. A me sembra solo propaganda. E comunque sia, noi, in quanto cristiani e uomini liberi, esigiamo il diritto alla cittadinanza come tutte le altre persone. Questa è anche l’unica soluzione per mettere fine alla guerra in Siria. Tutti devono essere cittadini con gli stessi diritti. Non vogliamo tornare indietro di secoli: è inaccettabile.

Che rapporto c’è fra Isis e islam? L’Isis rappresenta l’islam o è una degenerazione di questa religione?
Ci sono varie interpretazioni dell’islam. C’è un islam moderato, aperto, come quello che per molto tempo ha caratterizzato la Siria. La maggioranza musulmana ha accettato gli altri: in Siria ci sono 23 gruppi etnici e religiosi differenti, che vivevano in pace e in sintonia, costituivano un bel mosaico. L’Isis vuole un paese monocolore, vuole la sharia per tutti. La loro è un’interpretazione intransigente del Corano che coincide al 100 per cento con quella che vige in Arabia Saudita. Basta guardare alle esecuzioni capitali, che l’Isis compie secondo le stesse modalità applicate in Arabia Saudita: decapitazioni e lapidazioni pubbliche dopo la preghiera del venerdì.
Ma mentre tutti inorridiscono per quello che fa l’Isis, dell’Arabia Saudita si tace.

Un intervento militare internazionale con truppe di terra contro l’Isis sarebbe giusto? Se fosse approvato da tutto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu lei sarebbe d’accordo?
Io e in generale tutte le Chiese siamo contrari a un intervento militare. La guerra non risolve niente, aumenta solo le sofferenze, l’odio e il desiderio di vendetta. Noi vediamo le cose in un altro modo: siamo d’accordo che il mondo deve farla finita con l’Isis, ma farla finita con l’Isis significa un’altra cosa.
Io mi domando: chi ha creato l’Isis, chi lo arma, da dove entrano in Siria? Noi sappiamo chi li manda. Dunque, basta chiudere il rubinetto. E a questo proposito, vi ricordo che i paesi vicini acquistano petrolio dall’Isis, acquistano i reperti archeologici siriani e iracheni che l’Isis trafuga. È un giro di miliardi: mettervi fine equivale a mettere fine all’Isis, senza bisogno di guerre.

La guerra civile sta mettendo a dura prova i rapporti fra le persone in Siria. La convivenza fra gente di fede religiosa diversa è ancora possibile? La guerra ha messo in crisi la convivenza fra cristiani e musulmani o l’ha purificata?
In certi momenti l’ha messa in crisi, in certi momenti l’ha purificata. La crisi è avvenuta con l’arrivo dei jihadisti e dell’Isis, e con tutto il male che hanno fatto ai cristiani. I quali hanno pensato: «Abbiamo vissuto in pace coi musulmani finora, e guarda adesso cosa ci fanno». È venuta meno la fiducia, e questa è una brutta cosa che rappresenta un problema per la riconciliazione futura. D’altra parte, in Siria ci sono musulmani moderati che si vergognano di quello che stanno facendo i jihadisti e l’Isis. Con questi il rapporto è positivo, e con loro possiamo costruire una nuova società, pluralista, dove tutti siano accettati e rispettati. Molti di loro sono pronti a questo. Non solo a tornare a vivere come prima, ma ancora meglio, con più diritti riconosciuti a tutte le minoranze. Questo è il positivo, questa è la purificazione che viene dal fuoco della guerra.

Cosa chiedono i cristiani d’Oriente ai loro fratelli cristiani in Occidente in questo drammatico momento storico?
Vi chiediamo di lavorare per la pace. Noi vi ringraziamo perché è grazie ai vostri aiuti che continuiamo a vivere e a sostenere materialmente molte persone bisognose, cristiani e non cristiani. Ci aiutate a presentare il bel volto della carità, che è il vero volto del cristianesimo, quello dell’accoglienza verso tutti indipendentemente dalla religione di appartenenza. Però vi domandiamo anche di essere operatori di pace. Perché se abbiamo la pace, la Siria è un paese abbastanza ricco da potersi riprendere con le sue stesse forze. Fate di tutto affinché noi cristiani possiamo restare in Medio Oriente, perché la nostra presenza là non è preziosa solo per noi stessi, ma per tutti. Noi cristiani siamo lì come fattori di riconciliazione, di pace; siamo l’unico gruppo religioso che ha buone relazioni con tutti gli altri gruppi. Inoltre siamo fattori di cultura, di modernizzazione. Senza il cristianesimo nel Medio Oriente i vari paesi diventerebbero come l’Afghanistan dei talebani. E sarebbero Afghanistan talebani alle porte dell’Europa.

http://www.tempi.it/occidente-deve-fermare-la-guerra-in-siria-agendo-sulle-cause-non-curarne-gli-effetti-nei-suoi-confini#.VglsCPntmko

martedì 8 settembre 2015

Audo: " per noi è un dolore vedere le famiglie partire, è un segno che la guerra non finirà, o che alla fine prevarrà chi vuole distruggere il Paese”.



8 settembre 2015, festa della Natività di Maria 

Agenzia Fides 

L'appello di Papa Francesco affinché le parrocchie e i santuari europei accolgano ciascuno una famiglia di profughi “esprime la sua sollecitudine verso chi soffre, ed è un invito a tutti i cristiani ad aiutare con evangelica concretezza chi si trova in situazioni di emergenza, come quelle vissute da chi veniva respinto alle frontiere”. Nello stesso tempo, “davanti alle guerre che stravolgono il Medio Oriente, il nostro desiderio come cristiani e come Chiesa è quello di rimanere nel nostro Paese, e facciamo di tutto per tener viva la speranza”. 
Così il gesuita Mons. Antoine Audo, Vescovo di Aleppo dei Caldei e Presidente di Caritas Siria, espone all'Agenzia Fides alcune considerazioni in merito all'iniziativa pontificia volta a mobilitare le comunità cristiane d'Europa nell'accoglienza ai profughi provenienti dalle aree di conflitto dell'Africa e dell'Asia. 
Proprio gli emigranti fuggiti dalla Siria e diretti in Germania – che ha aperto loro le porte – sono in questi giorni al centro dell'attenzione mediatica globale. I criteri con cui il Presidente di Caritas Siria guarda a questi fenomeni sono quelli del lucido realismo geopolitico e della sollecitudine pastorale: 
“La situazione di degrado, l'aumento della povertà, la difficoltà a curare le malattie dopo quattro anni e più di guerre” racconta Monsignor Audo “ci stanno logorando tutti. Ad Aleppo l'estate trascorsa, con problemi di rifornimento idrico ed elettrico, è stata terribile. 

Oggi la città è stata avvolta da una tempesta di polvere, non si vede niente, e ci siamo detti tra noi: ci mancava solo questo.... Nello stesso tempo, non ce la sentiamo di dire alla gente: scappate, andate via, che qualcuno vi accoglierà. Rispettiamo le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per noi è un dolore vedere le famiglie partire, e tra loro tante sono cristiane. E' un segno che la guerra non finirà, o che alla fine prevarrà chi vuole distruggere il Paese”. 
Lo scenario prefigurato dal Vescovo caldeo è quello di una lenta, mortale emorragia che svuota il Paese delle sue forze migliori: “Anche ad Aleppo sento i racconti di giovani che dicono tra loro: facciamo un gruppo e andiamo via, fuggiamo da soli, senza chiedere il permesso alle nostre famiglie.... E' un fenomeno grave, di disperazione. Ma è quello che sta accadendo. Vuol dire che qui rimarranno solo i vecchi”. 

Inoltre, rispetto al fenomeno dei profughi e delle fughe di massa, il Presidente di Caritas Siria denuncia il sistematico occultamento delle dinamiche geopolitiche e militari che lo hanno provocato: “Noi facciamo di tutto per difendere la pace” spiega a Fides il Vescovo Audo, “mentre in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare questa guerra infame. E' questo il paradosso terribile in cui ci troviamo. E non riusciamo più nemmeno a capire cosa vogliono davvero”. 

http://www.fides.org/it/news/58321-ASIA_SIRIA_Il_presidente_di_Caritas_Siria_non_possiamo_spingere_la_gente_ad_andare_via#.Ve3m9xHtmko


Se siamo uomini e non bestie

 perché non togliamo

 l’embargo alla Siria?



Qualche domanda al premier dopo la predica umanitaria:
Perché continuiamo a ingrossare l’esercito dei profughi e degli sfollati imponendo l’embargo alla Siria?

Tempi, 8 settembre 2015
di Luigi Amicone

Gentile presidente del Consiglio Matteo Renzi, 
cosa significa ricordarci che «siamo umani, non bestie» adesso che la Turchia ha deciso di aprire le frontiere ai profughi e la Germania di accoglierli? Sono anni che le tendopoli al confine della Siria fungono da copertura ai traffici di armi verso l’Isis e i qaedisti anti-Assad. Adesso Erdogan capisce il disastro a cui ha personalmente contribuito e gira all’Europa la patata bollente.

Dunque, piuttosto che rivolgersi al senso di umanità della gente comune, chi ha responsabilità di governo come le ha Matteo Renzi dovrebbe rivolgersi a se stesso e ai propri partner con domande tipo: perché continuiamo a ingrossare l’esercito dei profughi e degli sfollati imponendo l’embargo alla Siria? Perché continuiamo ad appoggiare i cosiddetti “ribelli” di Damasco e, attraverso i ricchi paesi islamici che fanno shopping in Europa e gonfiano i listini della Borsa newyorkese, continuiamo a sostenere l’avanzata del Califfato che è la principale causa dell’esodo biblico?

Leggi di Più: Renzi, perché non togliamo l’embargo alla Siria? | Tempi.it 

lunedì 7 settembre 2015

A due anni dalla Giornata di Preghiera per la Siria ... Fermiamo questa guerra!


Benvenuti rifugiati siriani. Ma è ora di fermare i tagliagole dell'ISIS


Dopo che ci siamo entusiasmati per le automobili in colonna sulle autostrade europee, abbiamo pubblicato sui social network l’immagine del piccolo Aylan, abbiamo cantato l’Inno alla gioia ai siriani in arrivo nella stazione di Monaco, è ora che tiriamo qualche riga. Perché i profughi mediorientali  non sono sbucati dal nulla: arrivano dai paesi dove imperversano i tagliagole dell’Isis. 
La verità che pochi vogliono sentirsi dire l’ha pronunciata davanti alle telecamere  un ragazzino siriano di tredici anni, Kinan Masalmeh, rifugiato nella stazione di Budapest: «Fermate la guerra in Siria, per favore. Fermatela adesso e noi non verremo in Europa».  
È ciò che ripete ormai da qualche anno qualsiasi vescovo o prete di parrocchia siriano o iracheno. Sono tutti guerrafondai? No, ma hanno a che fare con l’Isis tutti giorni. E quel che chiedono è un aiuto vero e intelligente, diverso da quello messo in campo dall’Occidente con le sanzioni o da Barack Obama che col suo sostegno ai “ribelli moderati” (ipocrita eufemismo) ha finito per aggravare la situazione. 
Come ha detto il patriarca cattolico greco-melkita Gregorio III Laham: «Ai governi occidentali dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace. Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza».

      Tempi, 7 settembre 2015


giovedì 20 agosto 2015

Maloula, perla cristiana della Siria, ancora ferita dall’invasione jihadista


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TEMPI, 22 luglio
reportage dell'inviato  Rodolfo Casadei

La rinascita di Maloula, la perla aramaica delle montagne del Qalamoun, è ancora lontana. Occupata dai jihadisti di Jabhat al Nusra e da elementi di altre brigate di ribelli inizialmente affiliati al Free Syrian Army fra il settembre 2013 e l’aprile 2014, quindici mesi dopo la liberazione per mano delle truppe governative è ancora semidisabitata e semidistrutta, a immagine dei suoi preziosi edifici storici cristiani.

Tutte le strutture presenti – otto chiese e due santuari – sono state saccheggiate e devastate durante l’occupazione ribelle e hanno subìto offese causate dai combattimenti. Attualmente solo tre di esse sono in via di restauro: la parrocchia greco cattolica di San Giorgio e i due storici monasteri del IV secolo, cioè quello greco ortodosso di Santa Tecla (le cui monache furono 
sequestrate per tre mesi) e quello greco cattolico dei Santi Sergio e Bacco.
Il paese, che si apre a semicerchio contro la parete di una montagna ed è sormontato dai due monasteri posti sulla sommità uno in faccia all’altro sull’asse nord-sud, è nelle stesse condizioni: delle 120 case distrutte o gravemente degradate durante l’occupazione, un terzo delle quali concentrate nel centro storico, solo 20 sono state restaurate. Alcune famiglie vivono ammassate in un singolo locale recuperato della propria casa per il resto inagibile. Le condizioni di sicurezza sono ottime (il fronte si è spostato al confine col Libano, a 30 chilometri da qui), ma l’economia è ancora azzoppata: Maloula viveva di turismo, agricoltura e allevamento.

La prima fonte di reddito è completamente disseccata per ovvie ragioni, e i residenti che sono tornati sono occupati nella ricostruzione delle proprie case, pertanto hanno poche risorse e forze da dedicare alla coltivazione dei campi e alla pastorizia come accadeva in passato. Prima della crisi, la cittadina contava 12 mila abitanti nella stagione estiva, cristiani per due terzi e musulmani per il restante terzo. Oggi risultano rientrati il 45 per cento degli abitanti cristiani e 15 famiglie appena fra quelle musulmane. «Non abbiamo preclusioni circa il loro ritorno, ma la questione riguarda in parte anche la magistratura e i servizi di sicurezza: gli omicidi, le razzie, il terrorismo di cui si sono macchiati un certo numero di appartenenti alla comunità musulmana sono materia giudiziaria». A parlare così è Naji Elian Wahbe, cristiano, da tre anni sindaco della località.

Nell’agosto di due anni fa questo giovane padre ha perso un figlioletto di 6 anni, falciato dalle schegge di un colpo di mortaio sparato dai ribelli sul quartiere cristiano di Baab el Touma a Damasco, dove il bambino era temporaneamente ospite dei nonni. «Non fraintendetemi: Maaloula non aveva nessuna importanza strategica per le forze ribelli, l’hanno attaccata e occupata nel settembre 2013 soltanto per sfregio al cristianesimo, e al Papa che stava 
pregando e digiunando perché la Siria non fosse bombardata dagli occidentali. Grazie a complicità interne».
L’attacco di Jabhat al Nusra all’abitato di Maloula, dopo che già in marzo le alture col monastero dei Santi Sergio e Bacco e un grande albergo nelle vicinanze erano state occupate dai ribelli, iniziò con l’attentato di un kamikaze palestinese di Giordania entrato dal Libano che fece esplodere un camion imbottito di quintali di esplosivo contro il posto di blocco all’ingresso della cittadina uccidendo molti militari.
Padre Tawfik, parroco melkita di San Giorgio che grazie all’aiuto di “SOS Chrètiens d’Orient” ha quasi finito di restaurare la sua chiesa e ora sta cominciando a riabilitare le altre strutture parrocchiali (1 milione e mezzo di dollari i danni stimati), non è meno amaro: «A parte la sofferenza per le distruzioni materiali, ciò che ci ha più rattristato è stato scoprire che persone che credevamo amiche si sono poi unite a coloro che hanno saccheggiato tutte le case della città, anche quelle che non sono state distrutte, e le nostre chiese, devastate dopo le razzie».

La vicenda è amaramente istruttiva. All’inizio delle proteste antigovernative, due terzi dei musulmani di Maloula hanno preso le parti del Free Syrian Army e si sono presentati come protettori dei residenti cristiani di fronte ai jihadisti di Jabhat al Nusra a condizione che i cristiani non si organizzassero in una milizia di difesa locale e facessero pressioni sui militari per rimuovere il posto di blocco che era stato istituito nei pressi del monastero dei Santi Sergio e Bacco. Cosa che poi è avvenuta, col risultato di consegnare alture e monastero a Jabhat al Nusra sin dal marzo 2013. In seguito i musulmani antigovernativi di Maloula hanno appoggiato le operazioni militari dei jihadisti o addirittura si sono uniti a loro. Su una parete del salone polifunzionale della parrocchia di San Giorgio, accuratamente razziato, si legge una grande scritta verniciata su di una parete: «Cristiani, alawiti, sciiti, drusi: siamo venuti per uccidervi».
E su al monastero di Santa Tecla, dove la splendida chiesa dedicata alla santa è stata derubata della dozzina di icone dell’iconostasi, privata dell’altare fatto saltare con una carica di esplosivo, martoriata nelle tavole lignee dipinte più grandi, fatte a pezzi o carbonizzate, sulle pareti si leggono i nomi di brigate ribelli che non coincidono con gli alqaedisti di Jabhat al Nusra, ma con formazioni formalmente affiliate al moderato Free Syrian Army, riconosciuto e appoggiato da Europa e Stati Uniti. Uno strato caliginoso copre le volte dipinte e un tempo luminose delle cupole sfuggite all’incendio, dietro all’altare figure di santi su tela incollata alla parete come una carta da parati sono state rozzamente asportate con un taglierino che non ha saputo seguire i contorni delle immagini. Sulla parte superiore di un frammento di tavola lignea ottocentesca di scuola russa è vergato un insulto in lingua araba subito sopra la testa di san Giorgio.

Non è andata meglio al monastero melkita dei Santi Sergio e Bacco: sparite l’icona dei due santi e quelle dipinte da Michele di Creta che ritraevano la Madre di Dio e un Cristo Pantocratore. Il trafugamento dell’altare del IV secolo, il più antico altare marmoreo cristiano di cui si abbia notizia, non è andato a buon fine: era troppo pesante, è caduto a terra e si è spezzato, e i jihadisti lo hanno abbandonato lì. 
È stato perfettamente restaurato e rimesso al suo posto, unica eredità sopravvissuta dentro alla chiesa del santuario.

Altra piccola rivincita: su tutte le chiese, in gran parte inagibili, è stata rimessa la croce che i jihadisti avevano rimosso, ed è stata innalzata una nuova statua della Vergine Maria bianca e azzurra che benedice Maloula dall’alto, dopo che quella originale è stata distrutta dai ribelli.

Costantin, il custode greco ortodosso di Santa Tecla, è scatenato: «Per quattro secoli gli ottomani hanno cercato di rimuovere quelle croci senza riuscirci, ma ci sono riusciti i ribelli che avete aiutato voi cristiani europei. Dopo che avranno finito con noi, toccherà a voi, statene certi». Anche Costantin era uno di quelli che all’inizio si erano fidati delle promesse dell’opposizione e si erano mantenuti neutrali. Nella sua invettiva e nel suo monito vibra anche un po’ di senso di colpa.