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mercoledì 8 luglio 2015

Emergenza Siria: un centro estivo porta la gioia nel cuore di Aleppo martoriata


In questi giorni abbiamo cominciato il Campo estivo per i bambini e i ragazzi di Aleppo. Siamo partiti che erano in 50 e adesso, in pochissimo tempo, siamo già arrivati a 120 presenze!” dice p. Ibrahim, frate della Custodia di Terra Santa e parroco di Aleppo.
Un’iniziativa coraggiosa, che porta la festa e la gioia tra le macerie di una città sotto assedio dal 2012. Il motto scelto per il campo sono le parole di San Paolo “Gioite nel Signore sempre, vi dico, rallegratevi, rallegratevi, rallegratevi”.
All’inizio c’è stata qualche difficoltà, come racconta sempre p. Ibrahim: “I genitori all’inizio erano molto impauriti alla sola idea di lasciar uscire i figli da casa e non avevano quindi il coraggio di venire da noi a registrarli. Abbiamo così telefonato a tutte le famiglie per convincerli. Il giorno dell’inaugurazione è stato un grande giorno di festa, con canti e balli, cioccolatini, dolci e anche un clown! I genitori erano commossi e pieni di stupore, forse ancor più dei loro bambini”.
Partiti con i bambini tra i sei e i dieci anni, i frati del convento di S. Francesco hanno dovuto ben presto allargare le iscrizioni e accogliere anche i più piccoli, fino ai tre anni.
E grazie alla Provvidenza e allo Spirito che soffia impetuosamente” continua p. Ibrahim “sono in aumento anche i volontari che ci aiutano nelle attività; e tra di loro, inaspettatamente, ci sono tante le mamme che si sono lasciate coinvolgere senza riserve”.
Così per quattro giorni alla settimana, i bambini di Aleppo hanno un posto dove andare a giocare, inontrarsi in un ambiente accogliente, esprimere i loro talenti. E sono previsti anche corsi di cucina, così a turno i più grandi preparano il pranzo, e poi si mangia tutti insieme.
Continua entusiasta il parroco francescano: “Qui da noi Internet non funziona un granché, così i bambini e i loro genitori vengono sottratti alla calamità dei “rapporti virtuali”, dovendosi necessariamente aprire al mondo delle relazioni umane “reali”. Questo fatto li rende più sani sotto tutti i punti di vista: umano, psicologico, intellettuale e spirituale. I genitori a gran voce ci hanno richiesto che il Campo estivo fosse aperto tutti i giorni della settimana, ma noi abbiamo risposto che è assolutamente necessario che i bambini abbiano del tempo da trascorrere a casa con loro. Non vogliamo sottrarli alla famiglia sostituendoci ad essa, ma ci preme cooperare con le famiglie alla loro crescita umana”.
Fra i bambini più piccoli, molti sono denutriti, così tra un’attività e l’altra al campo estivo si cerca di dare loro del latte “…ma anche cioccolatini e dolci, per farli felici”.
Conclude poi p. Ibrahim: “La ragione vera, la più profonda,  per cui facciamo  questo Campo estivo è perché desideriamo che, attraverso tutto quello che si propone, le persone possano percepire i segni, anche minimi, della delicatezza della Carità cristiana. Carità che passa anche attraverso un po’ di latte oppure dei  cioccolatini; che a volte sta nel prendersi cura di un bisogno particolare o nell’offrire un piccolo giocattolo. È in tal modo che la sofferenza viene purificata, gli occhi delle persone cominciano a vedere e il cuore a sperimentare la presenza del Divino nella quotidianità, Divino che si esprime nell’abbraccio amorevole della Chiesa. Noi desideriamo che si rafforzi, nell’esperienza, la percezione del volto di Cristo presente, il volto tenero di Dio rivolto al popolo sofferente”.

Per donare ora in favore dell’Emergenza in Siria, clicca qui:

http://www.proterrasancta.org/it/emergenza-siria-un-centro-estivo-porta-la-gioia-nel-cuore-di-aleppo/



«Nella palude della guerra, ogni giorno assisto a tanti miracoli»


Intervista a padre Ibrahim Sabbagh, che guida una parrocchia nella città siriana: «È facile eliminarci fisicamente, ma nessuno ci riesce. Questo dimostra che Cristo è presente»


TEMPI, 3 luglio 2015

«Io come parroco assisto a tanti miracoli ogni giorno. Dio non ci fa mai mancare la sua tenerezza». Padre Ibrahim Sabbagh non parla metaforicamente e la prova di quello che dice sta nel fatto che non ha paura di morire. Il frate francescano vive ad Aleppo, dove ha accettato di recarsi nel 2014 in piena guerra per guidare una parrocchia. La situazione della seconda città più importante della Siria è così grave che il cardinaleAngelo Scola l’ha definita la «Sarajevo del XXI secolo». Ogni giorno nella parte della città dove vivono i cristiani, sotto il controllo del governo, divisa da quella in mano ai ribelli, cadono bombe e razzi. Nel numero di Tempi in edicola settimana scorsa è presente un ampio servizio sulla “Sarajevo del XXI secolo”, con testimonianze dalla città martoriata. Di seguito, riportiamo la testimonianza di padre Ibrahim, per il quale la morte è diventata un’esperienza quotidiana, «regna il terrore», eppure «ci sono fiori che nascono e crescono sulla palude della guerra».

Perché ad Aleppo regna il terrore?  Noi sappiamo che la città di Aleppo è circondata, ma queste bombe, questi regali di morte che cadono dal cielo, sono il male peggiore perché non fanno differenza fra un bambino, un anziano, un soldato, un uomo armato o non armato. Quindi regna il terrore.

Perché subite questi attacchi?  Il 15 giugno abbiamo subito un attacco molto pesante, con decine di morti e centinaia di feriti, perché l’inviato dell’Onu, Staffan De Mistura, ha incontrato il presidente Assad. Di solito i bombardamenti si fanno più forti durante queste visite, perché alcuni gruppi ribelli non vogliono la pace e manifestano così questa mancanza di volontà. Siamo in una fase molto difficile, ci aspettiamo il peggio.

I cristiani hanno paura?Sì, sono spaventati, come le altre minoranze. Non vi potete immaginare i casi di terrore che dobbiamo trattare ogni giorno. Due settimane fa una bomba è caduta vicino ad una farmacia, uccidendo il farmacista, un uomo di 45 anni. La mattina dopo è venuta da me una donna: passava davanti alla farmacia quando è caduta la bomba, ma è sopravvissuta. Mi ha detto che non riesce più a dormire, è sfinita ma deve lo stesso alzarsi per andare al lavoro. Sono cose piccole ma quotidiane e diventano sempre più pesanti per chi soffre questa tortura da quasi cinque anni.

Perché è tornato in Siria? Che cosa può fare un sacerdote in mezzo alla guerra?  Noi pastori cerchiamo di consolare la nostra gente con la parola, l’assistenza spirituale e anche quella materiale, per quanto possiamo. Cerchiamo di alleggerire un po’ la croce a queste persone, anche se non possiamo portarla via. Cerchiamo in ogni modo di manifestare la presenza del Buon pastore, della tenerezza di Dio, perché la gente ne ha bisogno. Noi abbiamo anche organizzato un oratorio per i bambini, che ora sono più di 120 e vengono quattro volte la settimana; abbiamo preparato al matrimonio nove coppie che si stanno sposando in chiesa con grande coraggio e vogliono iniziare un cammino di nuove famiglie nonostante tutte le difficoltà che ci sono. Aiutiamo anche i poveri, i senza tetto, i bisognosi.

Dio però non sembra molto tenero con voi.  Per il futuro non si vede una via d’uscita, non sappiamo come finiremo, eppure siamo pieni di speranza che questo mondo cristiano, che qui ha già sofferto tante persecuzioni, riuscirà a veder passare anche questa crisi attuale, anche queste ondate di jihadisti e a resistere, rimanendo qua per testimoniare la presenza di Cristo.

Tanti scappano.  Alcuni dall’Occidente pensano e ci consigliano di organizzare un’emigrazione comune. Noi, come chiesa locale, siamo contrari perché è il Signore che ha voluto piantare la nostra presenza, questo albero di ulivo, qui in Oriente, in Siria. Noi oggi non possiamo sradicare questo albero e piantarlo in un altro pianeta o in un altro continente, come se fosse la stessa cosa. Non ci sentiamo di avere questo diritto. Sicuramente ci sono casi eccezionali, ma è Dio che ci ha voluti qua, a Lui spetta la decisione di farci andare via.

Lei spera ancora in una risoluzione positiva del conflitto?Io dico sempre alla mia gente: noi vinceremo questa guerra, questa crisi con la preghiera, prima di tutto, e con la nostra carità e con la comunione fra di noi.

Le cose però, anche ad Aleppo, non si stanno mettendo molto bene.  Guardando con gli occhi del corpo, il futuro è molto nebuloso, ma allo stesso tempo siamo pieni di fede e di speranza e con gli occhi della fede riusciamo a vedere una via d’uscita. Io come parroco assisto a tanti miracoli ogni giorno. Quando sono caduti molti missili e bombe alla metà di aprile, tante abitazioni ed edifici sono andati distrutti o semi-distrutti: noi ci aspettavamo centinaia di morti in tutta la zona cristiana, ma il numero dei morti è stato di 12 e pochi feriti. Per me questo è stato un miracolo: ci si aspetta sempre il peggio ogni giorno, ma ogni giorno arriva sempre il minimo di quel peggio che ci aspettavamo. Questo è già un grande miracolo e non è il solo.

Cioè?  Io assisto anche fra me e me a tanti miracoli: ogni volto che penso o prego per qualcuno che ha bisogno di cibo, ma non abbiamo niente da dargli, subito arriva qualcuno a dirmi: è arrivato del cibo da distribuire alla gente. Quando penso o prego per una famiglia che ha bisogno di pagare l’affitto, o per una donna che deve partorire e deve coprire delle spese, subito arriva qualche dono della provvidenza per colmare questo bisogno specifico. Ecco perché non smettiamo di ringraziare il Signore: nonostante il male a cui assistiamo ogni giorno e che vediamo con i nostri occhi, non ci manca questa presenza tenera del Signore.

Aleppo un tempo era un modello di convivenza religiosa. E oggi?
La situazione è molto buona. Qui, come è sempre stato anche in passato, ci incontriamo tutti insieme, anche con i sunniti, parliamo di tutto e collaboriamo per il bene del paese. Le nostre associazioni aiutano anche i musulmani, per rispondere ai loro bisogni. Non è qualcosa di cui ci vantiamo, per noi è un dovere perché è parte dell’insegnamento di Gesù. Stiamo davvero eccellendo e progrediamo nella collaborazione tra noi e con le altre confessioni.

A sentirla parlare, quasi non sembra che Aleppo sia sconvolta dalla guerra.  Ci sono due fiori che stanno nascendo e crescendo forti sulla palude della guerra. Il primo è questo: grazie alla sofferenza, ad Aleppo la nostra comunità cristiana è più fraterna, anche con gli altri riti e i musulmani. Il nostro è il vero ecumenismo, semplice, pratico che si costruisce ogni giorno nel trasmettere la presenza del Signore nel campo della carità e nel vivere insieme in una società compatta e unita. L’ecumenismo intellettuale, invece, degli studi, dei libri, dei convegni è destinato al fallimento.

E il secondo fiore?  Guardando al futuro, vedo che questa pianta del cristianesimo, che riflette la presenza di Dio nella storia e in Siria, è molto debole, piccola e delicata, ma tutte queste tempeste non riescono a devastarla. Questo è il più grande miracolo al quale assisto. Mi accorgo cioè di quanto sia facile eliminarci fisicamente, ma vedo che nessuna forza riesce a calpestare, soffocare, devastare questa piccola pianta: questo dimostra che Cristo è presente e provvede.

http://www.tempi.it/aleppo-palude-guerra-ogni-giorno-assisto-a-tanti-miracoli#.VZdhE_ntmko


SE VOI CI VOLETE BENE, AIUTATECI A RESTARE A CASA NOSTRA

Nuovo appello di Mgr Jeanbart, Arcivescovo greco melkita di Aleppo, mentre la città è sottoposta ad attacchi di eccezionale intensità
« Bâtir et Rester »
.....

Se si vuole un bene per noi, si preghi con noi perchè questa guerra finisca.
Se ci volete bene, rivendicate la pace per il nostro paese.
Se ci volete bene, aiutateci a sostenere i cristiani che hanno deciso di rimanere per il perdurare della presenza cristiana nel Paese.
Se ci volete bene, aiutateci a sostenerli nella loro lotta contro il fallimento e nel loro impegno per "Costruire e Restare."

Aleppo , 2 luglio 2015.
Metropolita Jean Clement JEANBART

Arcivescovo di Aleppo

Leggi qui l'appello:   http://www.oeuvre-orient.fr/2015/07/04/si-vous-nous-voulez-du-bien-aidez-nous-a-rester-chez-nous/

lunedì 29 giugno 2015

Intervista al vicario apostolico di Aleppo, Georges Abou Khazen: «Ogni giorno combattenti armati e addestrati dall’Occidente arrivano per ucciderci ...»

«Aleppo è davvero la Sarajevo del XXI secolo. Noi cristiani siamo terrorizzati, ma sempre più attaccati alla fede»


Tempi, 29 giugno 2015


«Non siamo sicuri né in casa, né in strada, né in chiesa, né in moschea». Così si vive ad Aleppo, un tempo capitale economica della Siria, invasa nel luglio 2012 dai ribelli e dai jihadisti di Al-Qaeda. Ora la seconda città più importante del paese è divisa in due (Aleppo ovest in mano al governo, Aleppo est sotto il controllo dei ribelli) e ogni giorno le bombe che cadono sui quartieri civili mietono vittime. Nel numero di Tempi in edicola è presente un ampio servizio sulla “Sarajevo del XXI secolo”, con testimonianze dalla città martoriata. Di seguito, riportiamo l’intervista integrale a Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, che vive nella parte ovest insieme a tutti gli altri cristiani: «I jihadisti stanno cercando di entrare e occupare tutta la città. Noi abbiamo paura».

Monsignor Abou Khazen, di che cosa avete paura? La pioggia di mortai e altri esplosivi continua. Soprattutto dopo la presa di Palmira, la gente è terrorizzata, ha paura che la città cada. Sono tanti quelli che scappano. Ora che gli esami di maturità sono finiti, sempre più persone vogliono lasciare Aleppo.

Quante persone scappano? Ogni giorno ci sono intere famiglie che se ne vanno, perché dal punto di vista della sicurezza e della sopravvivenza, la situazione è sempre più difficile. La disoccupazione e le difficili condizioni di vita fanno il resto.

Confidate in una soluzione pacifica del conflitto? L’inviato speciale dell’Onu, Staffan De Mistura, è stato a Damasco. Siamo molto scettici. Qui si parla di un accordo politico, di una soluzione, quando sul terreno ci sono centinaia di combattenti che ogni giorno entrano dalla frontiera con la Turchia. Questi combattenti sono armati e addestrati dall’Occidente, arrivano dall’Europa e da altri paesi musulmani. Come si concilia questo fatto con l’accordo da trovare? Io non lo so. Voi lo sapete chi li sta armando e allora le parole non valgono niente, bisogna smettere di addestrarli e armarli. Allora sì che si possono obbligare le parti a dialogare, altrimenti è facile parlare, tanto poi è la povera gente che ci rimette la pelle.

Come si favorisce la fine della guerra? Come ho detto. Ogni giorno centinaia di combattenti entrano in Siria da nord e da sud per ammazzarci. Bisogna obbligare le parti in conflitto a non armarli più.

Aleppo è la “Sarajevo del XXI secolo”? Sì, il cardinale Angelo Scola ha ragione a fare questo paragone. Davvero non ci si può immaginare le difficoltà in cui viviamo. La gente è in quotidiano pericolo di vita, eppure continua a vivere, a resistere, anche se tutto ciò che ha viene distrutto.

Che cosa fa la Chiesa locale in mezzo alla guerra?  Prima di tutto bisogna ringraziare la Chiesa universale, a cominciare dal Papa, per l’appoggio e l’interesse che dimostra verso i cristiani del Medio Oriente. Noi cerchiamo di aiutare la povera gente che ancora vive qui, ma anche quelli costretti a scappare con i soli vestiti addosso. Sono migliaia le famiglie che la Chiesa aiuta. Ma c’è anche un altro aspetto.
Quale? La Chiesa offre appoggio morale e spirituale. La presenza qui dei sacerdoti è una grande grazia: nessun vescovo o parroco o religioso ha lasciato il suo posto. Questo per la gente è importante, è un segno di speranza e incoraggiamento. Quando mi chiedono che cosa dovremmo fare, io rispondo: non lo so, non ho una risposta, ma sono qui e resterò qui. Per costruire.
 Che cosa?  
Noi continuiamo a fare programmi per i bambini: abbiamo oratori nelle parrocchie a cui partecipano centinaia di bambini. Così loro possono uscire un po’ dal solito ambiente e vedere qualche cosa di diverso. Questa presenza sta dando i suoi frutti, le persone cambiano.

Può farci un esempio? Io vedo che la gente è sempre più attaccata alla fede e alla pratica religiosa. Questa è una cosa grande, che mi commuove. Non so come sia possibile, ma la Chiesa cerca di trasmettere alla gente la fede in Dio e loro la approfondiscono.

Quali sono le conseguenze di questo approfondimento? Pensi che qui molte persone parlano di perdono. Non appena riconciliazione, ma perdono per tutti. Non è un caso che questi cristiani del Medio Oriente siano figli e nipoti di martiri. Basta pensare alla comunità armena, sopravvissuta a massacri, discendenti di persone che hanno lasciato tutto o hanno dato la vita per la fede. Speriamo che il Signore ci esaudisca e ci dia la pace.

sabato 25 aprile 2015

«Davvero, non immaginate quanto bene fate quando fate il bene» Intervista a padre Alejandro, salesiano venezuelano a Damasco

«Noi siamo una famiglia. 

Siamo quel quasi nulla che fa la differenza»



TEMPI, 24 Aprile 24 2015
di Rodolfo Casadei

Padre Alejandro ha parlato a Concorezzo (Mb), quinto appuntamento della sua ultima giornata italiana, e oggi riparte per Damasco, via Libano. Questo salesiano venezuelano, il cui nome completo è Alejandro José Leon Mendoza, è residente in Siria dall’1 luglio 2011. Da tempo è direttore del Centro giovanile salesiano nel quartiere di Mazraa. Negli anni precedenti trascorreva in Siria i periodi estivi. Il suo trasferimento permanente è cominciato quando la guerra civile stava mettendo radici. 

Padre Alejandro, noi ci siamo visti quattordici mesi fa a Damasco. Com’è cambiato lo stato della sicurezza? È migliorata o peggiorata?
Direi che è peggiorata: gli ordigni sparati dai mortai sono diventati più potenti, arrivano più lontano. Nella nostra zona, una delle più riparate, ne cadevano 2-3 all’anno. Ne sono arrivati fra i 15 e i 20 nei primi quattro mesi di quest’anno. Nei quartieri a forte presenza cristiana come Baab el Touma e Jaramana la qualità della sicurezza ha continuato a degradarsi. Abbiamo vissuto un bel periodo fra settembre e dicembre, le ostilità si erano affievolite. Con l’anno nuovo sono riprese intensamente.


In un contesto del genere, cosa vuol dire essere presente come salesiano? Tu sei stato assegnato alla Siria proprio quando la ribellione si stava trasformando in lotta armata, e hai vissuto lì tutto questo periodo.
Diciamo che è diventata una “questione personale”. Noi salesiani insistiamo molto sul concetto che la realtà umana che si crea nei nostri centri giovanili è una famiglia. Che siamo una famiglia. Come potrei andarmene, o chiedere di andarmene, dopo aver predicato per tanto tempo in tutti i modi che siamo una famiglia? Come potrei lasciare le persone alle quali ho detto “siamo un’unica famiglia”? Non potrei più dormire la notte. E poi mi sono reso conto di un’altra cosa. Noi siamo piccoli, siamo quasi un nulla. Ma siamo quel quasi nulla che fa la differenza. Quando sono arrivato io, al centro giovanile c’erano 250 persone, in maggioranza bambini. Poco dopo c’è stato il crollo, per la paura dei bombardamenti non veniva quasi più nessuno, in una settimana venivano lì 30 ragazzini. Adesso sono 650 alla settimana, e in maggioranza sono giovani delle scuole medie superiori e universitari. Sono cristiani di tutti i riti, cattolici e ortodossi. Diciamo la Messa insieme, tutti si accostano all’Eucarestia.


Si parla molto dei profughi siriani all’estero, tre milioni e passa. Ma più di 20 milioni di siriani continuano a vivere all’interno del loro paese, sei milioni come sfollati. Come fanno a resistere?
Voglio essere onesto: quelli che sono rimasti dentro al paese è perché non hanno il modo per andarsene. Se potessero, i siriani se ne andrebbero tutti per fuggire la guerra. Ma una volta accettata l’idea che per loro non ci sono le condizioni per partire, lottano per vivere in un modo che abbia senso, lottano per una vita che abbia dignità. E allora noi religiosi ci impegniamo con loro a educare, a preparare una generazione di ricostruttori. Ci stiamo preparando alla ricostruzione. Le Chiese chiedono ai cristiani di restare, di non andarsene, ma onestamente io non me la sento di insistere coi fedeli con cui sono in rapporto: per noi sacerdoti è relativamente facile decidere di restare, ma per un padre e una madre di famiglia che sono responsabili della vita dei loro figli, la scelta è più difficile. Studiare seriamente, formarsi, nella Siria di oggi è molto difficile. Per questo io sono comprensivo.


Le parole riconciliazione e perdono hanno uno spessore nella situazione attuale? Oppure sono travolte dagli eventi?
Siamo maturati molto come comunità cristiana su questi temi, perdono e riconciliazione. La vita è maestra, se ci mettiamo in ascolto di quello che ci dice. Con umiltà abbiamo percorso la strada della maturazione. Fra i musulmani il cammino è più difficile, perché si sono polarizzate le differenze fra sunniti, sciiti e alawiti. Ma soprattutto perché nella cultura tradizionale araba i morti vanno onorati; oggi in Siria praticamente tutte le famiglie hanno perduto qualcuno, e il modo più comune di rendere onore ai morti assassinati è di vendicarli. Questo rende più difficile l’uscita dal ciclo della violenza. E rende più necessaria la presenza dei cristiani: potrebbero avere un ruolo importante nella ricostruzione del paese. I cristiani in Siria sono come il ponte che unisce le due sponde del fiume che divide una grande città. Il ponte è piccolo, ma senza di esso le due metà della grande città resterebbero separate. Si dice che ormai i cristiani sono appena il 4 per cento di tutta la popolazione. Ma hanno un compito di grande responsabilità.



Cosa hai detto nei tuoi incontri in giro per l’Italia? 
Ho descritto la vita quotidiana e i suoi problemi, specialmente ai più giovani, e ho raccontato storie di persone, testimonianze. Giovani che sono diventati capifamiglia perché il padre è morto per la guerra, che hanno dovuto organizzare la fuga della famiglia. Storie che fanno capire la natura dei cristiani siriani. Un giovane del nostro oratorio per un certo tempo è rimasto sequestrato, rapito da un gruppo di estremisti islamici. La famiglia non aveva soldi per pagare il riscatto, e la sua situazione si faceva di giorno in giorno più difficile. Un giorno i rapitori lo hanno lasciato da solo con una guardia armata che doveva controllarlo. A un certo punto il guardiano si è tolto dalla spalla il fucile, perché gli causava dolore. Allora il rapito, che prende parte alle nostre attività sportive, gli ha detto: «Posso farti io un massaggio, il dolore ti passerà. So fare i massaggi perché assisto una squadra di calcio». Il sequestratore è rimasto stupito: «Noi stiamo discutendo se ammazzarti o lasciarti andare libero, perché la tua famiglia non riesce a pagare, e tu ti offri per massaggiarmi? Perché fai questo?». E il nostro giovane ha risposto: «Perché sono cristiano, e noi cristiani facciamo così!». Alla fine lo hanno liberato senza che la famiglia avesse pagato nulla. Un’assoluta rarità!



I cristiani nel mondo vi stanno aiutando? Gli italiani vi stanno aiutando?
Sì, e da questi aiuti nascono conseguenze virtuose che voi nemmeno immaginate. Quest’inverno degli amici di Lecco ci hanno fatto avere delle giacche pesanti, molto utili per l’inverno, soprattutto a causa della scarsità di gasolio per il riscaldamento nel periodo invernale. Una parte di questa spedizione è stata finanziata vendendo oggetti che erano stati prodotti da bambini delle scuole elementari. Quando i nostri universitari lo hanno saputo, sono rimasti profondamente colpiti. Mi hanno detto: «Abbiamo capito che nessuno è troppo piccolo e impotente per fare il bene». Come gesto di ringraziamento, hanno deciso di dedicare una parte del loro tempo ad attività di animazione e di gioco rivolte ai bambini musulmani dei centri di raccolta per gli sfollati in città. Davvero, non immaginate quanto bene fate quando fate il bene».

giovedì 26 febbraio 2015

Nei villaggi cristiani lungo il fiume Khabur, fonti confermano il rapimento di civili, la liberazione di alcuni e la distruzione di chiese. Il ruolo della Turchia.


Ultim'ora:  «Siamo riusciti a liberare le donne, i vecchi e i bambini cristiani rapiti dallo Stato islamico»

TEMPI, 25 febbraio
di Leone Grotti

Aggiornamento delle 18.00: Appena contattato da tempi.it, padre Ayvazian Antranig, responsabile dell’eparchia armeno-cattolica di Qamishli e rappresentante del WFP delle Nazioni Unite nel Nord Est della Siria, ha dichiarato: «Tre minuti fa mi ha chiamato un mio uomo, che ho inviato a trattare con i terroristi: siamo riusciti a liberare le donne, i vecchi e i bambini rapiti dallo Stato islamico. Siccome però gli scontri continuano, non siamo ancora riusciti ad andarli a prendere per non metterli in pericolo. Dovremmo riuscirci domani. Si trovano ora a 57 chilometri dal primo posto sicuro, nel villaggio di Msherfe. In tutto sono state rapite 163 persone. Di queste, 72 restano nelle mani dell’Isis a Mafluja mentre 26 o 28 a Habbade. Come li abbiamo liberati è un po' un segreto, ma loro ci rispettano». Domani l’intervista integrale.
http://www.tempi.it/siria-isis-ha-ucciso-milad-conquistato-villaggi-cristiani#.VO4jdGB0wqS

"Vogliono svuotare il Medio oriente dei cristiani e creare molti piccoli Stati confessionali."

AsiaNews , 25-02-2015


......
"Si parla di oltre 90 fedeli rapiti, ma secondo alcuni il numero ancora più grande, forse 150; una chiesa è stata distrutta, almeno tre villaggi di rito assiro sono stati occupati, la gente è dovuta scappare. Non abbiamo ancora notizie esatte, ma dalle prime testimonianze la situazione è drammatica". È quanto afferma ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, commentando l'attacco sferrato il 23 febbraio scorso dallo Stato islamico contro alcuni villaggi cristiani assiri nel nord-est della Siria. Colpiti numerosi centri fra cui Tel Tamar, Tel Shamiran, Tel Hermuz, Tel Goran e Tel Khareta...

Il vicario apostolico di Aleppo si rivolge all'Occidente e alla comunità internazionale affermando con forza che "l'intervento militare contro lo Stato islamico non è la via giusta" per risolvere la crisi e restituire pace e sicurezza alla Siria e all'Iraq. "Non ho mai creduto nella guerra - precisa - perché essa crea ancora più odio e divisioni". 
L'Occidente, prosegue il prelato, dice di combattere questi gruppi "ma li aiuta dall'altra parte. Chi compra il loro petrolio, chi vende loro le armi, chi è coinvolto nel traffico di reperti archeologici, di beni antichi di inestimabile valore?". 
Mons. Georges Abou Khazen vede molta "ipocrisia" nella lotta ai terroristi, "che non si risolverà certo con le bombe, ma smettendola di finanziarli a livello economico e militare. Quello che chiediamo è di non aiutare questa gente, non vendere loro le armi, lo diciamo da tempo ma nessuno ci ascolta". 
Il prelato ricorda inoltre che la comunità assira sotto attacco vive "da migliaia di anni nella zona, con le proprie tradizioni e riti antichissimi. Li hanno sradicati senza difesa alcuna. Si fanno campagne per salvare gli animali in via di estinzione, per lasciarli nel loro habitat - accusa - e per noi cosa si sta facendo davvero?".
Fra i fedeli c'è un sentimento di paura, conferma mons. Georges, "tanti vogliono scappare ed è un segnale molto pericoloso. Svuotare queste terre del cristianesimo è una disgrazia per tutti quanti. Forse si vuole dar vita a un altro Afghanistan, nelle mani dei nuovi talebani". 
Questa è la nostra lettura, conclude il prelato, vogliono "svuotare il Medio oriente dei cristiani e creare molti piccoli Stati confessionali. Noi cristiani siamo gli unici sparsi per tutto il territorio di Siria e Iraq, siamo il solo elemento che difende l'unità del Paese e mantiene vivo il valore del pluralismo... un elemento che vogliono sempre più distruggere".

http://www.asianews.it/notizie-it/Siria:-150-cristiani-rapiti-dallo-Stato-islamico,-donne-stuprate-e-uccise.-Vicario-di-Aleppo:-“situazione-drammatica”-33561.html

La barbarie dell'Isis e il ruolo ambiguo della Turchia

L'esercito turco ha violato la sovranità territoriale siriana per evacuare una statua in ricordo dell'Impero ottomano. Nessuna interferenza nella operazione da parte dell'Isis, che controlla la zona

ZENIT.ORG, 25 febbraio 2015
di Naman Tarcha 

Ancora una volta la storia si ripete. Negli stessi territori in cui, cento anni fa, i turchi commisero il primo genocidio ai danni dei cristiani mediorientali (armeni, siri, caldei e assiri), le stesse vittime sono oggi perseguitate dai terroristi dello Stato islamico.
I jihadisti hanno compiuto un nuovo feroce assalto a 30 villaggi siriani della comunità cristiana degli assiri nella provincia di Hasakah, nel nord-est della Siria. Il tentativo è stato quello di riconquistare terreno e trovare vie di fuga e rifornimenti, dato l'avanzamento delle Forze armate siriane a nord di Aleppo e la resistenza delle forze di difesa curde. Tal Hermez, Tal Tamer, Tal Shmeram, Tal Tawil sono solo alcuni dei villaggi sul fiume Khabur, assaltati dai miliziani con circa 40 mezzi armati all'alba di lunedì.
Jack Bahnam Hindo, vescovo della chiesa siro-cattolica a Hasakeh, ha confermato che la maggior parte degli abitanti sono stati sfollati nella città vicina di Qameshli, ma almeno 70 civili - per lo più donne e bambini - risultano in mano ai terroristi, portati in un luogo sconosciuto.
"Decine di cristiani assiri sono stati presi in ostaggio dai jihadisti, probabilmente allo scopo di usarli come scudi umani o merce di scambio con riscatto o rilascio”, sottolinea mons. Hindo. Il quale critica duramente la coalizione occidentale: "Voglio dire chiaramente che noi abbiamo la sensazione che siamo lasciati soli nelle mani di Daash (acronimo arabo di Stato islamico di Iraq e Levante ndr), i caccia americani sorvolavano la zona, ma non sono mai intervenuti".
Fonti locali riferiscono di case e abitazioni occupate e bruciate dall'Isis: quattro uomini delle guardie locali rimasti uccisi negli scontri, mentre é stata data alle fiamme la chiesa di Al Shamiye, una delle più antiche della Siria.
Gli attacchi dei terroristi sono avvenuti per rompere l'assedio imposto alla zona strategica, Ras Al-ain, cittadina di confine con la Turchia, e riconquistare l'autostrada che collega le città siriane di Qameshli e Hasakeh, lungo la quale si trova Al Raqaa, dichiarata capitale dello Stato islamico.
Le forze di difesa assire sostenute dai raid aerei dell'esercito siriano hanno respinto i terroristi e si preparano alla controffensiva, mentre le forze di difesa curde avevano già ripreso il controllo di 20 villaggi negli ultimi giorni.

Si registrano intanto tensioni anche tra la Siria e la Turchia. La scorsa notte l’esercito turco è entrato in territorio siriano per evacuare il mausoleo dedicato a Suleyman Shah, nonno di Osman, fondatore dell'Impero ottomano, che morì annegato, nel 1231, mentre attraversava il fiume Eufrate, vicino la fortezza di Jaabar. Malgrado la salma non fosse mai ritrovata, fu costruito un mausoleo in suo ricordo.
L’edificazione avvenne in un sito extraterritoriale, soggetto a sovranità turca a seguito di un accordo franco-turco del 1921 (durante l’epoca coloniale francese). Tuttavia la statua fu trasferita dalle autorità siriane nel 1972 dal luogo originale per consentire la costruzione della grande diga siriana.
L’intervento dei militari turchi a difesa della statua di Suleyman Shah è stato definito dal Governo di Damasco “una palese aggressione” per cui “Ankara ne risponderà”.
Da segnalare che i miliziani dell’Isis, nonostante abbiano fatto saltare in aria decine di santuari, mausolei e tombe sacre in Iraq e in Siria, hanno sempre risparmiato il mausoleo, l'unico rimasto in piedi, anche se dista solo 100 km dalla città siriana Al Raqaa, dichiarata capitale del cosiddetto Stato Islamico.
L'operazione dei militari turchi non è stata disturbata né da parte dei combattenti curdi di Kobane, né dall'Isis che controlla la zona, suscitando molti interrogativi.
La Turchia è stata ad oggi l'unico Paese in grado di liberare i propri ostaggi dalle mani del cosiddetto Stato islamico: 49 persone sono state tratte in salvo tra diplomatici e loro familiari, sequestrati presso il consolato turco a Mosul dopo l'assalto dell'organizzazione terroristica alla città irachena.
Il Governo turco ha subito precisato che quella della scorsa notte è solo un'operazione temporanea, e presto costruirà un mausoleo nuovo, sempre però sul territorio siriano, a 200 metri dal confine turco nei pressi di Ain Al-arab (Kobane).
Alla Turchia di Erdogan viene attribuito un ruolo ambiguo, visto il rifiuto di partecipare alla Coalizione guidata dagli Stati Uniti. Anche l'opposizione turca accusa Erdogan e il suo partito di condurre politiche dannose a scapito della stabilità e della sicurezza interna al Paese, attraverso il sostegno ai gruppi armati in Siria.

http://www.zenit.org/it/articles/la-barbarie-dell-isis-e-il-ruolo-ambiguo-della-turchia

giovedì 22 gennaio 2015

«Ad Aleppo i ribelli ci tagliano acqua, elettricità, tutto. Ma la cosa peggiore è il freddo»



Tempi, 22 gennaio 2015
intervista a Nabil Antaki, di Leone Grotti

 Nel dramma della guerra siriana che va avanti da quasi quattro anni, in una città divisa in due, proprio come Berlino prima della caduta del Muro, più delle bombe e i colpi di mortaio «che cadono ogni giorno», più che per la mancanza di acqua ed elettricità «che i ribelli [e i terroristi islamici] ci tagliano quando vogliono», gli aleppini soffrono per il freddo. «Ci mancava solo la neve», dichiara sconsolato a tempi.it  Nabil Antaki , medico e direttore di uno degli ultimi due ospedali funzionanti ad Aleppo. Antaki appartiene alla congregazione dei Maristi blu, che conta tra i suoi membri sia laici che religiosi, e quando la guerra ha investito Aleppo nel maggio 2012 lui ha deciso di rimanere con la moglie. «La Siria è il nostro Paese, le nostre radici sono qui. È qui che possiamo fare il nostro dovere e rendere il nostro servizio».


Fino a pochi anni fa Aleppo era la seconda città più importante della Siria, la capitale economica del Paese, un grande centro commerciale. Che cos’è oggi?
Aleppo è divisa da luglio 2012 in due cerchi concentrici: il cerchio esterno, dove vivono circa 300 mila persone, è nelle mani dei gruppi armati (ribelli, al Qaeda, eccetera, ndr), mentre il cerchio interno è sotto il controllo dell’esercito governativo. Noi, come tutti i cristiani di Aleppo, viviamo nella parte interna che conta due milioni di persone, di cui 500 mila sono cittadini scappati dalla parte esterna. Ogni singolo giorno, da due anni e mezzo, ci sono scambi a fuoco, lanci di bombe e colpi di mortaio tra le due zone, con i conseguenti morti e feriti. Viviamo in condizioni estreme.

Ci spieghi meglio.
Tutte le centrali sono nelle mani dei ribelli. Ci forniscono acqua solo un giorno a settimana, l’elettricità solo un’ora ogni 48. Manca la benzina, il combustibile domestico, il gas, eccetera. La cosa peggiore però è il freddo. Quest’anno l’inverno è particolarmente duro, con temperature che variano da 0 ai 5 gradi e la gente non può scaldarsi perché mancano combustibile ed elettricità.



Ha anche cominciato a nevicare. 
Sì, la neve ha peggiorato ancora di più le cose. Io e mia moglie, come tutti gli altri abitanti, soffriamo terribilmente il freddo.

Non è la prima volta che i ribelli vi privano dell’acqua, giusto? 
Dal 23 dicembre, per una settimana, i ribelli hanno tagliato completamente acqua ed elettricità. Poi hanno ristabilito le forniture col contagocce, come ho già detto. Nel maggio 2014 hanno tagliato del tutto l’acqua per 70 giorni, spesso l’elettricità manca totalmente per diversi giorni. A fine 2013 hanno bloccato completamente gli accessi alla nostra parte di città: per tre mesi nessuno è potuto entrare o uscire da Aleppo, né le persone né le derrate alimentari.

Le sanzioni che anche l’Unione Europea applica alla Siria da anni influiscono sulla vostra vita di tutti i giorni?
Sì, le sanzioni hanno peggiorato di gran lunga la situazione. E non solo ad Aleppo, ma in tutta la Siria. Ci mancano molti prodotti, tra cui le medicine, per colpa delle sanzioni. Inoltre, i prodotti disponibili entrano spesso di contrabbando e questo ha fatto aumentare il costo della vita. In quattro anni di guerra, il prezzo dei prodotti essenziali è quadruplicato e questo ha impoverito la popolazione. Circa il 70 per cento dei siriani oggi vive sotto la soglia della povertà.

Quanti cristiani vivono ancora ad Aleppo? 
Prima dello scoppio della guerra c’erano circa 140 mila cristiani. Oggi non siamo più di 70 mila, molti si sono rifugiati in Libano o in Occidente.



La Chiesa come si muove per aiutare la popolazione?
Le chiese locali orientali e soprattutto alcune Ong come la nostra, “I maristi blu di Aleppo”, aiutano i cristiani a sopravvivere fornendo loro sacchetti di cibo, vestiti, cure mediche e un riparo per le famiglie sfollate. La Chiesa universale chiede ai cristiani siriani, e di tutto l’Oriente, di non lasciare il Paese, culla del cristianesimo. Ma le associazioni caritative internazionali che dipendono dalla Chiesa non fanno abbastanza, o il loro aiuto non è ben distribuito o non è organizzato nel modo giusto.

Chi ha bisogno di aiuto?
Tutti. Noi aiutiamo sia cristiani che musulmani e le ong islamiche fanno lo stesso. Non chiediamo a nessuno se è cristiano o musulmano prima di aiutarlo. In questo modo preparo anche il futuro: la nostra azione infatti mostra la vera faccia dei cristiani, che non è quella propagandata dai gruppi estremisti.

Come avete passato il Natale?
Il Natale è stato un periodo di grande sofferenza per tutti gli aleppini, da una parte per il freddo e le privazioni, dall’altra perché l’abbiamo passato senza famiglie, parenti e amici, visto che la maggior parte di loro se n’è andata. Fortunatamente, ci sono stati molti concerti di Natale nelle chiese e questo ha reso le festività meno penose.
Photo by Hagop Vanesian
Dopo quattro anni di guerra, sperate ancora in una soluzione?
Il motto dei Maristi nel mondo e della nostra Ong di Aleppo è: “Semina la speranza”. Noi crediamo molto nella speranza cristiana e pensiamo che la Luce scaturirà dalle tenebre. Ma, in realtà, non c’è niente dal punto di vista militare, diplomatico o politico che ci spinga ad essere ottimisti.

PER INVIARE AIUTI AI MARISTI DI ALEPPO POTETE CONTATTARE IL DOTTOR NABIL ANTAKI A QUESTO INDIRIZZO: nabilantaki@hotmail.com




Syrie : quatre jours dans Alep assiégée di franceinter

venerdì 28 novembre 2014

Avvento in Siria : durare è già adorare

Siria. Nel villaggio cristiano a due chilometri da Al Qaeda. «Se cancelli il Verbo qui, la cristianità non avrà futuro»

Tempi, 25 novembre 2014




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«Vengo in questa chiesa ogni domenica da quando sono nata. Ma ora la situazione è davvero difficile, siamo tutti spaventati perché i jihadisti controllano i villaggi attorno al nostro». Afaf Azam è una cristiana di 52 anni ed è appena uscita dalla chiesa di San Elia, nella piccola città rurale di Izra, provincia di Deraa, nel sud della Siria.

STORIA MILLENARIA. La storia cristiana di Izra è tra le più antiche del mondo. I cristiani sono arrivati in questa città citata anche nella Bibbia 1.500 anni fa, quando faceva parte della Cananea. La chiesa di San Elia è stata costruita nel 542, 28 anni prima che nascesse Maometto. Izra è sopravvissuta ai persiani e all’Impero ottomano ma ora rischia di cadere nelle mani di Jabhat Al Nusra, la milizia di Al Qaeda che ha già conquistato le vicine città di Nawa e al-Sheikh Maskin e che si trova a meno di due chilometri.

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RIBELLI CON I TERRORISTI. 
«È molto semplice: se l’Occidente vuole che la Siria rimanga un Paese per cristiani, deve aiutarci a stare qui e smettere di armare i terroristi», dichiara al Telegraph padre Elias Hanout (foto a destra). 
I paesi occidentali non hanno mai armato lo Stato islamico ma padre Elias non si riferisce ad Al Qaeda o all’Isil quando parla di “terroristi”, bensì ai ribelli che si sono uniti ad Al Nusra e sono pronti ad attaccare la città. Alcuni di coloro che minacciano la millenaria storia di Izra «fanno parte» del gruppo di “ribelli moderati” addestrati e armati dalla Cia in Giordania.

«IL VERBO È PARTITO QUI». 
Domenica alla Messa c’erano poche persone e il coro mancava degli elementi migliori: la maggior parte dei cristiani della città, infatti, è scappata. Mentre padre Elias celebrava, gli spari rimbombavano riempiendo la piccola navata: il timore è che l’esercito di Bashar Al Assad sia presto sopraffatto dai terroristi e che l’invasione sia imminente.
«Il Verbo è partito in questa terra. Se tu cancelli il Verbo qui, allora la cristianità di tutto il mondo non avrà futuro», continua padre Elias, pensando forse anche ai 700 mila cristiani rimasti oggi in Siria. Nel 2011 erano 1 milione e 750 mila.

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CHERUBINI E SACRIFICI. Vicino alla chiesa di San Elia si trova anche quella di San Giorgio. Tra gli edifici più antichi di tutta la Siria, è un tempio pagano convertito dove campeggia ancora questa iscrizione, datata 515 d.C.: «La casa del Male è diventata casa di Dio. Gli inni dei cherubini sostituiscono i sacrifici offerti agli idoli. Dio si è stabilito qui in pace, dove gli uomini erano soliti odiarlo».

CRISTIANI IN FUGA. Sia i cristiani che i musulmani di Izra hanno paura degli islamisti: «Nessuno vuole che quegli uomini avanzino», afferma un residente in via anonima, «[anche i musulmani] sono spaventati». La signora Azam non ha dubbi su chi preferire nella guerra: «Quando il male arriva, devi difendere il tuo Paese. Noi amiamo il nostro governo proprio come amiamo il nostro Paese».Da Izra, come da tante altre città della Siria, sono molti i cristiani che cercano di scappare. Eva Astefan ha fatto richiesta di asilo alle Nazioni Unite: «Mia figlia di 14 anni è stata uccisa da un cecchino dei ribelli nel 2012. Questo è il nostro Paese e noi lo amiamo ma non abbiamo altra scelta [che andarcene]. I terroristi rapiscono e uccidono i nostri uomini, facendo penzolare sui loro cadaveri la santa croce».

«GAMBE E BRACCIA SPEZZATE».
I cristiani non sono gli unici a essere nel mirino dei terroristi islamici. Abu Mohammed è sunnita come i ribelli, ha 60 anni, ma «tutta la mia famiglia» è stata sterminata dagli islamisti: «Sono entrati nella nostra casa ad al-Sheikh Maskin. Hanno attaccato mio figlio, mio fratello e due miei nipoti. Hanno spezzato loro gambe e braccia. Li hanno portati sul tetto e li hanno gettati di sotto. Sono l’unico ad essere sfuggito. Hanno fatto tutto questo solo perché mio figlio era un soldato dell’esercito regolare».

«NON ARMATE I TERRORISTI».
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I ribelli “moderati” su cui gli Stati Uniti contano per sconfiggere lo Stato islamico e Assad sono ormai concentrati solo nel sud della Siria (mappa © Telegraphe sono gli stessi che presto potrebbero attaccare Izra. 
Barack Obama si sta accordando con Arabia Saudita e Turchia per addestrarli e armarli ed è per questo che i cristiani di Izra si sentono traditi proprio dai cristiani occidentali: «Ci avete abbandonati. Per piacere, dite al signor David Cameron che non vogliamo né aiuti né donazioni. Però, per piacere, ditegli anche di smettere di armare i terroristi».

http:///siria-nel-villaggio-cristiano-a-due-chilometri-da-al-qaeda-se-cancelli-il-verbo-qui-la-cristianita-non-avra-futuro#.VHTlVGB0wqR

lunedì 24 novembre 2014

Intervista (da non perdere) al Gran Mufti di Siria

«Occidente, non tradire il mio popolo»

Lo Stato islamico e il jihad, i cristiani e i musulmani, lo Stato e la religione, il regime di Assad e i ribelli, papa Francesco e Obama.


Intervista a Ahmad Badreddine Hassoun, massima autorità sunnita del paese

di Rodolfo Casadei e Samaan Daoud

TEMPI, 23 novembre 2014

Generalmente gli esponenti della società civile che parlano da Damasco non vengono presi in considerazione in Occidente, perché sono etichettati come portavoce del regime di Bashar el Assad. La voce di Ahmad Badreddine Hassoun, Gran Muftì di Siria dal 2005, merita un ascolto molto più serio per almeno due motivi. Il primo è che si tratta della più alta autorità religiosa sunnita in Siria: se avesse defezionato nei primi tempi della protesta, sarebbe stato accolto con tutti gli onori dall’opposizione e soprattutto dai suoi sponsor nei paesi del Golfo, che gli avrebbero fatto ponti d’oro. Il secondo è che tre anni fa un figlio di Hassoun è stato assassinato per punire il padre per le sue posizioni filogovernative, ma il Gran Muftì non ha invocato vendetta, anzi ha perdonato gli assassini e non ha mai smesso di perorare una soluzione pacifica della crisi. L’intervista con lui comincia proprio da quella tragica vicenda.

«Ho perdonato chi ha ucciso mio figlio non solo davanti ai media, ma di persona», dice a Tempi Hassoun. «Ho parlato con due degli arrestati e ho detto loro: “Se potessi, vi riporterei adesso a casa vostra”. Ma erano accusati anche di altri omicidi, non potevo intercedere per loro. Gli ho detto: “Quando sarete in Cielo e incontrerete Sariah, mio figlio, lì sarete giudicati dal grande Giudice, e il suo giudizio è più grande di quello di chiunque di noi. Per quello che mi riguarda, vorrei portarvi a casa vostra, perché non voglio che altre madri piangano come ha pianto la mamma di Sariah”. Ho perdonato loro con un’unica condizione: che si impegnassero a deporre le armi e a fermare le uccisioni. Io piango non solo per la perdita di mio figlio, ma per tutte le vittime».

Non accetta di essere considerato una marionetta del governo. «Io non rappresento il potere politico in Siria. Sono il Grande Muftì della Republica araba siriana, e questo significa che sono al servizio del popolo siriano: non del governo o del presidente Bashar el Assad. Sono il Muftì di tutti: cristiani e musulmani, comunisti ed atei. È mia responsabilità servire tutti senza guardare alla loro appartenenza politica e religiosa: forse questa cosa in Europa si fa fatica a capirla. Così quando mi chiedono: “Perché non lasci la Siria? Tu puoi farlo”, io rispondo: “Tanti emiri mi hanno invitato a lasciare il paese e mi hanno offerto ospitalità nei loro grandi palazzi, ma questo contraddirebbe la mia missione”. Per questo motivo l’opposizione siriana che vive all’estero mi ha insultato; benché mi conoscano bene, mi accusano di partigianeria perché non ho lasciato la Siria. Allora dico questo per chi non lo sa: io sono stato cacciato sei volte, fra il 1970 e il 2000, dal mio incarico di predicatore perché nei miei sermoni del venerdì criticavo il governo, e nonostante le vessazioni che da questo mi sono derivate non ho lasciato il paese. I religiosi non devono fare parte di nessun partito politico, il loro unico dovere è di rappresentare la vera fede».

Il compito del religioso
Hassoun è sempre stato un sostenitore della separazione fra politica e religione, ben prima che in Siria scoppiasse la guerra. «Il compito del religioso è di portare il messaggio celeste al popolo, e non di servire il governo o l’opposizione. Il suo compito è di riformare sia il governo che l’opposizione, perché né Cristo, né Maometto, né Mosè hanno creato degli stati, ma hanno forgiato degli uomini; e gli uomini, facendo leva sulla virtù e sulla morale, costruiscono lo Stato. Perciò lo Stato è un’opera umana, mentre la religione è opera di Dio. La differenza tra le due realtà sta anche nel fatto che nello Stato c’è un sistema di leggi che tutti devono seguire, e ciascuno è giudicato secondo il suo comportamento e non secondo le sue intenzioni. Invece la religione è fede, moralità e virtù fondate sull’amore e sulla libertà di scelta. Per lo Stato siamo costretti a obbedire alle leggi, che lo vogliamo o no; mentre quando entro in una moschea o in una chiesa lo faccio per amore. I profeti non hanno obbligato nessuno a credere nelle loro parole, invece i re e gli altri governanti costringono la gente a obbedire alle leggi. Noi dobbiamo seguire le leggi degli Stati in cui viviamo, ma nessuno può imporre qualsiasi tipo di fede, perché la fede è una relazione tra me e Dio. Perciò non bisogna creare dei partiti a denominazione religiosa, farsi scudo in politica col nome di Dio. Questo vale anche per gli Stati, perché essi sono stati creati da persone e non da Dio, al contrario delle religioni».

«In forza di questa distinzione fra la religione e la politica, un leader religioso non sarà mai contro o a favore di un sistema politico, ma semmai a favore o contro la morale che emerge dagli atti del governo. Cioè se in un regime c’è ingiustizia, il religioso lo deve denunciare, e se il regime fa il bene, lo deve riconoscere. Questo vale anche per l’opposizione».

Hassoun afferma di avere cercato di dialogare con l’opposizione, ma inutilmente. «A suo tempo ho invitato l’opposizione esterna a venire in Siria per parlare e dialogare col regime, dicendo a loro: “Se il regime non vi ascolterà, io starò dalla vostra parte”. Ma loro non hanno accettato. La Siria è diversa da tutti gli altri paesi arabi perché il regime è laico, mentre ci sono Stati che vogliono imporre a noi un sistema politico religioso settario. Qui è il nodo del problema Siria, che tanti fingono di non capire. Se Bashar el Assad avesse cercato di imporre un sistema religioso settario al paese, io mi sarei opposto e gli avrei chiesto di rinunciare. Ma non con le armi. Io non alzo le armi in faccia a nessuno, né contro il presidente, né contro l’opposizione, perché credo nel dialogo. Ricorrere alle armi è segno che non stai sostenendo una giusta causa, che non sei in grado di convincere l’altro. Per questo ho sempre chiesto: fate del Medio Oriente una zona smilitarizzata, perché è la terra della fede, e da tutto il mondo arrivano pellegrini a visitare la Palestina. Se pretendiamo di fare uno Stato musulmano, oppure cristiano, oppure ebraico, chiudiamo le porte in faccia agli altri. Dio ha riunito le tre religioni monoteiste a Gerusalemme per farci capire che Lui è uno solo e la fede è una sola. Il musulmano che prega nella moschea di al Aqsa, il cristiano nella chiesa della Natività, e l’ebreo davanti al Muro del pianto, tutti quanti pregano lo stesso Dio. Per cui è una vergogna che ci siano dei politici e dei religiosi che dividono la gente creando partiti settari religiosi ed etnici».

Il Gran Muftì sottolinea con forza la sua concezione umanista delle fedi religiose: «Le religioni monoteiste devono sempre chiedersi se stanno agendo per conto del potere oppure per conto di Dio. Se operano all’ombra di Dio, allora non dovrebbe esserci nessun tipo di disaccordo tra me e il Papa, tra me e il leader di un’altra religione monoteista, perché la nostra missione è la stessa: affermare la santità di Dio, difendere la dignità dell’uomo. Chi insulta la dignità dell’uomo insulta la santità di Dio, perché l’uomo è stato creato da Lui. Quando ho parlato davanti al Parlamento europeo nel 2004, ho detto: “Se vedessi la distruzione della pietra nera alla Mecca, o della moschea di al Aqsa a Gerusalemme, o della chiesa della Natività a Betlemme, o del Muro del pianto, per me sarebbe meno doloroso che vedere un bambino che viene ucciso. La moschea di al Aqsa e la chiesa della Natività sono state costruite da noi e se vengono distrutte le rifaremo più belle. Ma se viene ucciso un bambino, chi può ridargli la vita?”. Costruire l’uomo è molto più santo che costruire una chiesa o una moschea. Dio non è prigioniero dentro le nostre chiese e le nostre moschee. Ed è per tutti, non solo per i cristiani o i musulmani».

L’ammirazione per il Papa
Il Gran Muftì ammira papa Francesco per il suo stile evangelico, ed esprime dispiacere per non averlo potuto ancora incontrare, né a Roma né a Damasco. «Ho invitato il Santo Padre a visitare la Siria e ho chiesto di poterlo incontrare in Vaticano. Finora non è stato possibile, e io so che questo dipende anche dalle pressioni di chi mi descrive come un rappresentante del potere. Ma io rinnovo il mio invito e dico al Papa: “Santità, non si lasci strumentalizzare dalla politica, lei che è la guida nell’amore in tutto il mondo, lei che ha infranto tutti i protocolli che allontanavano il Papa dalla gente, venga a incontrare cristiani, musulmani ed ebrei. Forse il nostro incontro permetterà di mettere fine a questa strage, al sangue che viene versato in nome della religione, senza colpa della religione”».

Per quanto riguarda la politica internazionale, Hassoun si iscrive fra i delusi della presidenza Obama. Che è tornato a parlare della necessità di provocare un regime change a Damasco come condizione per sconfiggere l’Isil. «Ciò che è successo nelle ultime due elezioni presidenziali negli Stati Uniti, mi ha molto colpito: il popolo americano ha scelto un presidente di origine africana e il cui padre era un musulmano; gli elettori hanno scelto un uomo non sulla base delle sue origini, ma delle sue qualità: Obama ha studiato legge, è laureato in diritto. Ma la seconda sorpresa è stata negativa: questo presidente non ha fatto niente per la pace, anzi ha continuato le guerre che aveva iniziato il suo predecessore G. W. Bush. Non ha mantenuto la promessa di chiudere la prigione di Guantanamo. Allora mi chiedo: Obama ha veramente il potere di prendere certe decisioni? La sua intelligence lo sta ingannando? La verità è che oggi il mondo non è più sotto il controllo dei leader politici o di quelli religiosi. Stiamo assistendo alla nascita di un’alleanza internazionale, di portata globale, che riunisce politici di governo ed estremisti religiosi. Ma il loro progetto fallirà, per la reazione dell’umanità che ne sta prendendo coscienza».



La profezia inascoltata
«Spesso invito i membri del Congresso americano e i rettori delle loro università a venire in Siria, ma la loro risposta è sempre la stessa: “Verremo solo quando il regime sarà caduto”. Non mi sembra giusto: vogliono la caduta di un presidente che il popolo siriano non vuole cacciare. Se la maggioranza della gente avesse voluto far cadere il presidente, vi garantisco che lo avrebbe fatto nel giro di una settimana. Come lo hanno fatto in Tunisia e in Egitto. Deve essere chiaro a tutti: il popolo siriano fino ad oggi non vuole far cadere il presidente. Avete presente il Daesh (la sigla araba dell’Isil, ndr) e i suoi combattenti jihadisti? Da circa due anni è attivo in Siria e il nostro esercito lo combatte. Ora anche una coalizione militare di 40 nazioni, guidata dall’America, lo sta combattendo, e ha dichiarato che per vincere ci vorranno dai 3 ai 10 anni. Intanto la Siria è riuscita a resistere per due anni non solo all’Isil, ma a Jabhat al Nusra, al Libero esercito siriano, al Fronte islamico e a decine di altri gruppi armati, sostenuti e finanziati anche dagli americani e dall’Europa! Come abbiamo fatto? Grazie al popolo. Senza la resistenza del popolo l’esercito siriano sarebbe finito a pezzi, la Siria si sarebbe divisa su base settaria e i siriani si sarebbero uccisi tutti fra loro. Questa guerra che c’è in Siria non è una guerra civile di religione: venite a vedere con i vostri occhi dove vivono gli sfollati siriani. Cristiani e musulmani, sunniti e alawiti, vivono insieme sotto lo stesso tetto. Gli sfollati sunniti che vengono da Hama e da Homs vivono fra gli alawiti e i cristiani a Lattakia, Tartus, Damasco».

«Questa è la vera Siria, e se il presidente Obama non la conosce sono disposto ad andare in America e parlare davanti al Congresso per spiegarla insieme ai leader religiosi cristiani siriani. Quando tre anni fa fu ucciso mio figlio, davanti a tutto il mondo dissi: “Vi prego, non appiccate l’incendio in Siria, perché questo fuoco si estenderà a tutto il mondo. Si sveglieranno anche le cellule dormienti che sono in America e in Europa”. Solamente oggi cominciano a credermi».

http://www.tempi.it/occidente-non-tradire-il-mio-popolo-intervista-esclusiva-al-gran-mufti-di-siria#.VHJMrmB0wqQ