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mercoledì 9 settembre 2015

Siria, l'errore del regime change ... e delle sanzioni

Yabroud: dopo tante distruzioni, inaugurata una nuova grande statua della Vergine Maria


La Nuova Bussola Quotidiana
Robi Ronza, 08-09-15


E’ una bella ipocrisia, come già ieri veniva ricordato, fare grande sfoggio di compassione per i profughi siriani (tra l’altro a spese di profughi di altra provenienza) mentre non solo non si fa nulla contro la guerra in corso in Siria, ma anzi in un modo o nell’altro si continua ad attizzarla.
Rientra perfettamente in questo orizzonte la notizia recentemente fatta circolare secondo cui il segretario di Stato americano John Kerry avrebbe protestato con il suo collega russo Sergei Lavrov per l’invio da parte di Mosca in Siria di un gruppo di esperti militari in missione esplorativa; e inoltre di alloggi-container nonché di impianti per un centro di controllo del traffico aereo destinati a un campo di aviazione. Secondo Kerry tale iniziativa contribuirebbe ad “aggravare il conflitto” in corso. Frattanto il Dipartimento di Stato ha fatto sapere di non essere certo delle intenzioni russe in proposito, ma di ritenere che grazie a questi materiali la base aerea cui sono destinati potrebbe più facilmente venire impiegata o come punto di arrivo di aiuti militari o come punto di partenza per missioni di bombardamento dell’aviazione governativa. Nell’insieme le due notizie, entrambe fatte deliberatamente filtrare in modo non ufficiale, costituiscono un tipico esempio di minuetto diplomatico. Un minuetto che in pratica si risolve in un ammonimento di Washington a Mosca, cauto nella forma ma molto chiaro nella sostanza. 
Gli Stati Uniti di Barack Obama insomma non abbassano la guardia, non rinunciano alla loro speranza di far cadere Bashar al Assad anche se ci tentano senza riuscirci ormai da quattro anni. E in quattro anni non hanno conseguito altro risultato se non quello di devastare la Siria e di destabilizzare il Medio Oriente. A questo punto occorrerebbe avere il coraggio di ammettere che il tentativo è fallito, e che la permanenza di Assad al potere è se non altro il meglio del peggio. Per far finire la guerra che porta cadaveri di bambini siriani sulle spiagge delle isole greche e migliaia di famiglie siriane all’assalto di treni ungheresi diretti in Germania occorre innanzitutto rinunciare a far cadere Assad. Bisogna mirare a una stabilizzazione della Siria (e quindi anche del Nord Iraq) che parta dal presupposto che, seppur variamente condizionato, Assad resti dove è.
Un primo e relativamente non clamoroso passo in questo senso sarebbe l’annullamento delle sanzioni contro il governo di Damasco che, come sempre accade in casi del genere, pesano innanzitutto sulle spalle del popolo e non del regime politico che così si vorrebbe colpire. Le sanzioni sono davvero l’ipocrisia nell’ipocrisia: a causa di esse tutto quel che resta dell’economia siriana viene ogni giorno sempre più disarticolato e distrutto. Ridotti alla fame dalle sanzioni, prima ancora che dalla guerra, i siriani che lo possono tentano l’esodo dal loro Paese. Molti muoiono nel tentativo ma quelli che, spogliati di ogni loro risparmio da passatori senza scrupoli, dopo sacrifici inenarrabili riescono ad arrivare in Germania vengono (per qualche giorno) accolti a braccia aperte. E tutto questo tra gli squilli di tromba di un circo mediatico televisivo che non vede un palmo oltre ciò che i governi gli rifilano ogni giorno. E va bene sempre tutto, anche se è il contrario di quanto gli rifilavano il giorno prima.
Tra i maggiori Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è quello che più di tutti ha interesse a una soluzione pacifica e fruttuosa delle due crisi aperte nella regione euro-mediterranea, ossia quella della Siria e quella dell’Ucraina. E’ chiaro non possiamo muoverci prescindendo dai vincoli che ci derivano dalle nostre alleanze e dall’appartenenza all’Unione Europea, però il nostro governo potrebbe pur sempre fare delle proposte ad alta voce. Per muovere le acque già basterebbe proporre l’annullamento delle sanzioni contro la Siria, e lanciare l’idea di una soluzione del problema delle aree russofone dell’Ucraina orientale sul modello dello statuto speciale internazionalmente garantito dall’Alto Adige SüdTirol.

Se vincessero i falchi che vogliono rovesciare Assad e vogliono le sue forze smantellate, si creerebbe una situazione simile alla Libia con jihadisti e affiliati di Al-Qaeda a farla da padrone. Ma se la crisi dei rifugiati è ora così drammatica, pensate solo quello che accadrà una volta che le numerose minoranze religiose della Siria inizieranno a fuggire disperatamente dalle nuove norme dei settari e fondamentalisti sunniti, armati fino ai denti con armi occidentali ....  (L'Antidiplomatico)

mercoledì 5 agosto 2015

Gli Usa colpiscono Assad oltre che i jihadisti


 di Gianandrea Gaiani
 LA BUSSOLA, 05-08-2015

L’ambiguità dilaga nella guerra, sempre più da barzelletta, della Coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. A dieci giorni dall’intervento militare turco contro lo Stato Islamico ma soprattutto contro i curdi che dei jihadisti sono acerrimi nemici, anche gli Stati Uniti avviano una nuova campagna aerea che non può non suscitare perplessità.

Dopo i reiterati attacchi condotti dai miliziani qaedisti del Fronte al-Nusra (un tempo rivali dell’Isis ma che oggi collaborano in diverse zone del fronte con gli uomini del Califfo) contro i miliziani siriani “moderati” del movimento “Nuova Siria”  addestrati dai consiglieri militari americani in Turchia, il Pentagono ha minacciato di attaccare i qaedisti ma pure i reparti governativi siriani che combattono accanitamente contro al-Nusra e le altre milizie islamiste. Il 31 luglio sarebbe stata lanciata quella che il portavoce Bill Urban ha definito  “la prima di una serie di incursioni” contro i qaedisti. L’amministrazione Obama ha annunciato “misure addizionali” per difendere le forze filo-americane sul terreno e ha lanciato un monito al regime di Assad affinché “non interferisca”. 

Di recente gli Stati Uniti hanno addestrato ed equipaggiato un gruppo di poche decine di miliziani (dovevano essere 3/5mila quest’anno ma non hanno trovato molti volontari) per combattere le milizie jihadiste dello Stato islamico ma pure il governo del presidente Bashar al Assad. Come le residue forze laiche rimaste nel conflitto civile siriano, anche la “Nuova Siria” non ha alcun peso militare né nelle operazioni contro l’Isis né in quelle contro Damasco. Del resto è difficile comprendere come poche decine di uomini  appena addestrasti possano combattere al tempo stesso contro l’Isis e contro i suoi nemici. Paradossale poi che ad attaccare i miliziani “moderati” non siano le forze dello Stato Islamico ma i qaedisti di al-Nusra ormai “sdoganati” nell’alleanza Esercito della Conquista  che riunisce anche salafiti e fratelli musulmani. Movimento molto forte nell’area settentrionale di Idlib che gode dell’appoggio finanziario e militare di Arabia Saudita, Qatar e Turchia, cioè degli alleati degli USA.

Una conferma ulteriore di come l’ampio fronte di movimenti che combatte Assad sia composto ormai esclusivamente da milizie jihadiste che non tollerano la presenza di forze laiche. E se oggi l’Esercito della Conquista non si mischia con l’ISIS è solo per una questione di opportunità anche se l’intesa con il Califfato contro il regime di Damasco sembra essere ben oliata. Il 2 agosto il Fronte al-Nusra ha pubblicato un video in cui appaiono alcuni membri delle milizie ribelli siriane addestrati dagli Stati Uniti catturati nei pressi di Aleppo. Nel filmato, pubblicato ieri su Youtube, il gruppo terrorista che rappresenta al Qaeda in Siria, ha precisato che i guerriglieri sono stati catturati per la loro collaborazione con le forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico responsabile di diversi attacchi anche contro il Fronte al Nusra.

Vale la pena ricordare infatti che all’avvio delle operazioni aeree della Coalizione in Siria, il 23 settembre scorso, i primi raid aerei statunitensi presero di mira anche il Fronte al-Nusra uccidendo, a quanto risultò all’epoca, una cinquantina di miliziani inclusi alcuni comandanti. Nel video compaiono cinque uomini in piedi con la mani dietro la testa e sorvegliati da due uomini armati. Uno dei prigionieri afferma di essere stato arruolato dagli Stati Uniti e di essere stato addestrato in Turchia. Uno degli uomini di al-Nusra dichiara nel video che la cattura dei guerriglieri è un modo “per indebolire la mano dell’Occidente e degli Stati Uniti in Siria”, sottolineando la loro provata cooperazione con le forze della coalizione per individuare le posizioni e movimenti del Fronte al Nusra.

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, aveva diffuso il 30 luglio un comunicato secondo cui il Fronte al Nusra aveva sequestrato nella campagna a nord di Aleppo il colonnello Nadimal Hassan, leader del “Gruppo 30” dell’esercito libero, a capo della prima unità di combattenti addestrati ed equipaggiati dagli Stati Uniti composta da appena 54 uomini. Il Pentagono ha dapprima negato la cattura di elementi ribelli addestrati in Turchia ma ieri al Nusra ha annunciato la  cattura di altri cinque guerriglieri siriani addestrati dagli Stati Uniti. Secondo l’osservatorio siriano per i diritti umani (Ong vicina ai ribelli e con sede a Londra) negli scontri tra “Nuova Siria” e al Nusra i filo-americani avrebbero registrato almeno un caduto (dieci secondo altre fonti) mentre i prigionieri in mano ai qaedisti sarebbero 13, in parte catturati nel campo profughi di Qah, a ridosso del confine turco dove i filo-americani si sarebbero rifugiati.

Di fatto solo i raid aerei Usa hanno impedito che il “Gruppo 30” venisse annientato dai qaedisti, valutazione che da sola dovrebbe sconsigliare Washington dall’allargare la minaccia di attacchi alle forze di Damasco, le uniche in grado di sconfiggere al-Nusra e le altre milizie jihadiste. Lunedì infatti le forze speciali di Assad  hanno riconquistato la località strategica di Tal Hamki, situata a nord-est della pianura di al-Ghaab, vicino al governatorato nord occidentale di Latakia sconfiggendo le forze di al-Nusra. Invece di aiutare le truppe di Damasco, gli Stati Uniti minacciano di prenderle di mira continuando a perseguire una strategia che sarebbe folle se l’obiettivo fosse distruggere i jihadisti ma che al contrario risulta ”lungimirante” se lo scopo reale è seminare caos e destabilizzazione in tutta la regione. Non a caso la Russia, alleata di Damasco, preme invece per allargare la Coalizione internazionale anti-Isis anche al governo siriano con una proposta formale presentata a sauditi e statunitensi che non sembrano però avere nessuna intenzione di accoglierla, perseguendo l’assurdo principio che lo Stato Islamico si sconfigge più facilmente se cade Bashar Assad.

Secondo il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, la nuova campagna aerea statunitense in appoggio ai ribelli cosiddetti "moderati" finirà per "complicare ancora di più la lotta al terrorismo". 
Del resto quale approccio abbiano gli anglo-americani rispetto al conflitto mediorientale è stato ben illustrato ieri dal ministro britannico della Difesa, Michael Fallon, che in visita in Iraq ha dichiarato che gli attacchi contro le milizie dell'Isis si protrarranno sino al 2017. Londra e Washington vogliono quindi tirarla per le lunghe favorendo l’allargamento del conflitto ma, ovviamente senza esporsi troppo. Fallon infatti ha precisato che si tratterà solo di raid aerei perché “non c'è bisogno dell'intervento delle forze di terra britanniche".


mercoledì 29 luglio 2015

Turchia: bersaglio ISIS, curdi o Assad?


di G. Gaiani
La Bussola Quotidiana

Dopo anni di connivenze e aperte complicità con i movimenti jihadisti che combattono il regime siriano, il presidente turco Recep Tayyp, Erdogan scende in campo nel conflitto contro lo Stato Islamico, ma lo fa con l’ambiguità che caratterizza non solo la politica di Ankara ma ormai l’intera operazione condotta dalla Coalizione internazionale. 
Scattato il 24 luglio, l’intervento militare turco ha preso il via dopo la recrudescenza degli scontri con i miliziani curdi del Partito curdo dei Lavoratori (Pkk) che ha ridato vita a un conflitto interrottosi nel 2011 con una tregua in atto da 2 anni ma che in 30 anni ha provocato la morte di 40 mila turchi. I raid hanno preso il via soprattutto dopo la strage di Suruc dove un kamikaze ha ucciso 32 persone ferendone decine nel villaggio turco a pochi chilometri dal conflitto siriano.

L’attentato è stato attribuito allo Stato Islamico che però non sembrava avere molti interessi a colpire Ankara. Durante l’assedio degli uomini del Califfo alla città curda di Kobane vennero diffuse foto che mostravano guardie di frontiera curde e miliziani dell’Isis che fraternizzavano ed è noto che molte munizioni e armi sono giunte allo Stato Islamico (e ad altri movimenti jihadisti dalla Turchia) così come negli ospedali turchi sono stati curati molti combattenti del Califfato. La svolta di Ankara, sostenuta da Washington anche nel recente incontro tra Obama ed Erdogan, non sembra in realtà fornire un significativo supporto alla Coalizione contro l’Isis ed è abbinata a un giro di vite sulla sicurezza interna che ha già provocato oltre 600 arresti di esponenti di movimenti jihadisti, curdi, di sinistra, ma anche del Partito Democratico dei popoli (Hdp), filo curdo, che aveva avuto una buona affermazione alle ultime elezioni contribuendo a far perdere al partito di Erdogan, Akp, la maggioranza assoluta dei seggi.

Non è un caso che gli F-16 turchi decollati dalla base di Dyrbakir abbiano effettuato nelle prime 48 ore solo 9 incursioni contro 4 check-point dell’Isis nella zono di Kilis mentre contro le roccaforti irachene del Pkk e i loro alleati siriani delle milizie popolari curdi (Ypg), braccio armato del Partito Democratico Curdo siriano (Pdy), sono state effettuate una trentina di incursioni. Il governo turco ha smentito di aver colpito postazioni curde in territorio siriano negando che Ypg e Pdy siano bersagli dei velivoli e dell’artiglieria turca, ma ieri mattina erano stati denunciati bombardamenti contro postazioni curde a Zor Maghar, nella provincia di Aleppo. Il governo di Ankara ha riferito di aver avviato un'indagine, per appurare se nell'offensiva contro lo Stato Islamico siano state colpite anche postazioni curde in Siria. «Le operazioni militari in corso sono tese a neutralizzare l'imminente minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia e continuano ad avere come obiettivo lo Stato Islamico in Siria e il Pkk in Iraq», ha annunciato la fonte. Difficile però credere che i turchi non conoscano gli schieramenti militari dei gruppi armati presenti ai loro confini e inoltre la decisione di attivare una no fly-zone profonda 50 chilometri e lunga 90 in territorio siriano tra Marea e Jarabulus tradisce la volontà di Ankara di liberarsi dell’Isis ai suoi confini, ma anche di impedire ai curdi siriani di estendere l’area sotto il loro controllo lunga la frontiera.

La guerra allo Stato Islamico ha consentito ai curdi di Iraq e Siria di istituire un’area sotto il loro controllo e contigua territorialmente che si estende dal nord della Siria al nord dell’Iraq. Il presupposto ideale, specie in caso di sfaldamento dell’Iraq, per istituire l’agognato Stato curdo. Un’opzione inaccettabile da Ankara perché rivitalizzerebbe l’autonomismo dei curdi turchi. Non è forse un caso che l’intervento turco si verifichi dopo i vasti successi conseguiti dai curdi contro l’Isis. L’Ypg ieri ha liberato la cittadina di Sarrin, dopo tre settimane di scontri violentissimi. Sarrin si trova sull’autostrada tra Raqqa e Aleppo nel nord della Siria (e non lontano dal confine turco), contribuendo a isolare Raqqa, la capitale del Califfato da cui le avanguardie curde distano meno di 80 chilometri. 

Ankara sembra voler puntare a cacciare l’Isis dai confini, contenere i curdi e indebolire ulteriormente Bashar Assad con una no fly-zone aperta ai cacciabombardieri turchi e della Coalizione, ma da cui sono banditi i jet di Damasco (pena l’abbattimento) . Il tutto con il sostegno di Washington ma senza uno straccio di risoluzione dell’Onu che autorizzi la palese violazione del diritto internazionale e della sovranità siriana. Probabile (come sostiene il quotidiano turco Hurryet) che Washington abbia barattato il via libera all’utilizzo della base aerea di Incirlik (e di altre tre basi in caso di necessità) con il sostegno all’istituzione della no fly-zone, ma il supporto degli Usa non può sostituire l’avvallo dell’Onu anche se Erdogan ha invocato l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sul diritto all’autodifesa.

Certo, agli Stati Uniti l’ambiguo intervento militare turco consente di limitare la partecipazione al conflitto continuando a perseguire con successo la destabilizzazione della regione mediorientale accentuando caos e conflitti interni. Il paradosso di una Coalizione che conduce una guerra così blanda al Califfato da sembrare finta si aggiunge all’ambiguità delle monarchie sunnite (il cui impegno limitato è imposto dalla necessità di non favorire i governi sciiti di Iraq e Siria e di non irritare le loro opinioni pubbliche, sunnite e simpatizzanti per l’Isis) e di una Turchia che muove guerra all’Isis, ma al tempo stesso a curdi e governativi siriani, nemici giurati dello Stato Islamico.

Per lo Stato Islamico l’intervento turco rappresenta un’ulteriore complicazione e l’ennesimo atto di ostilità proveniente da Paesi che avevano contribuito alla nascita e al consolidamento del Califfato ma non possono venire messi in secondo piano gli aspetti di politica interna che possono avere indotto Erdogan all’azione. Lo Stato d’emergenza consentirà agli apparati giudiziari, militari e di polizia di sbarazzarsi di tanti oppositori interni  rovesciando lo stato di debolezza del governo e del partito Apk emerso dopo le ultime elezioni. Erdogan ha detto che la campagna militare durerà circa tre o quattro mesi: un periodo forse sufficiente a rovesciare gli equilibri e a mettere sotto scacco quanto resta della democrazia turca anche se questo significa riaprire il conflitto con il Pkk e rischiare la guerra civile. Per alimentare il clima di emergenza e di Stato d’assedio il governo ha annunciato che costruirà un muro prefabbricato con fossati, telecamere a infrarossi e sensori lungo gli oltre 600 chilometri il confine siriano al costo di oltre 1,5 miliardi di euro.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-erdogan-bombarda-lisis-ma-lobiettivo-e-la-siria-13373.htm




Piccole Note, 25 luglio 15

«Finora Ankara era stata di fatto uno sponsor del Califfato: attraverso la Turchia l’Is riceveva armi e medicine, e riusciva al tempo stesso a esportare il suo petrolio». Così Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum e una delle menti più lucide dei neocon Usa, intervistato da Arturo Zampiglione per la Repubblica del 24 luglio. Pipes dice qualcosa che sapevano tutti (e ai suoi ricordi andrebbe aggiunto anche altro, come il fatto che il territorio turco era luogo di reclutamento dei miliziani e via dicendo). Insomma uno sponsor del terrorismo internazionale, come spiega Pipes, che ha agito impunemente e liberamente per anni, nella piena consapevolezza dei Paesi Nato.
Ma questo è il passato. In questi giorni la Turchia ha cambiato strategia e ha dichiarato guerra all’Isis. A dimostrazione che fa sul serio, l’inizio di azioni militari in territorio siriano e l’arresto di alcuni terroristi in patria. Oltre a ciò ha concesso agli americani l’uso della base aerea di Incirlik, finora negata, che Washington considera strategica per un’efficace azione di contrasto al Califfato.
Molti analisti hanno individuato la genesi di questo cambio di strategia nell’attentato di Suruc, nel quale una kamikaze dell’Isis si è fatta esplodere uccidendo una trentina di giovani curdi che stavano organizzando una missione tesa alla ricostruzione di Kobane, la città siriana al confine turco simbolo della resistenza al Califfato. L’attentato ha creato un clima teso in Turchia: al governo è stata rimproverata l’acquiescenza verso i terroristi islamici e ha riaperto la frattura con i curdi, il cui successo elettorale nelle recenti elezioni (il loro partito ha tolto all’Akp, partito islamico al potere, la maggioranza assoluta) ha mandato all’aria i piani di Tayyp Erdogan di ridisegnare la Costituzione.
In realtà è più probabile che alla base di questo cambiamento di strategia di Ankara ci sia altro, ovvero l’accordo sul nucleare iraniano tra Usa e Iran, che sta determinando un terremoto geopolitico in tutto il Medio Oriente. Un accordo che ha rafforzato Assad, da sempre legato a Teheran, e ha aperto nuove possibilità di dialogo in vista di un accordo globale sulla Siria. Una prospettiva che potrebbe aver determinato la nuova assertività turca: ridimensionata, la speranza di un cambio di regime a Damasco per via terroristica, Ankara si riposiziona con una strategia che sviluppa due direttrici: da una parte potrebbe consentirgli di entrare finalmente con le sue truppe in territorio siriano (idea da tempo in cantiere) per prendere il controllo di un’area di confine che comprende la (ex) ricca città di Aleppo; dall’altra di entrare con forza nella partita negoziale che potrebbe aprirsi sul destino di Damasco.
Una strategia che conserva quindi tante ambiguità, anzi le moltiplica. Tra queste anche quella che vede innescarsi un confronto più serrato con i curdi, gettando alle ortiche il simulacro della trattativa con il Pkk, il partito dei lavoratori curdi, del recente passato. Il successo del partito curdo alle ultime elezioni e la prospettiva della nascita di uno Stato curdo ai suoi confini per Erdogan e i suoi sono un incubo. Anche per questo i bombardieri di Ankara hanno colpito obiettivi curdi in Iraq e Siria, nonostante questi siano stati finora gli unici veri oppositori, insieme al governo di Damasco, dell’Isis (la coalizione internazionale anti-Isis messa su dagli Stati Uniti finora ha fatto pochino, per usare un eufemismo).

martedì 21 aprile 2015

A due anni dal rapimento dei due vescovi ortodossi di Aleppo, Boulos Yazigi e Youhanna Ibrahim.


Ormai sono passati due anni dal rapimento (22 aprile 2013) nel nord della Siria di due vescovi ortodossi: il Metropolita greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazegi e il Metropolita siriaco-ortodosso della stessa città, Youhanna Ibrahim. D'allora non si è mai più saputo nulla di concreto e verificabile sulla sorte di questi due religiosi. .... :
http://ilsismografo.blogspot.it/2015/04/siria-due-anni-dal-rapimento-in-siria.html

Un armeno nell'inferno di Aleppo "Il genocidio è ricominciato, 100 anni dopo"


La Nuova Bussola quotidiana, 18-04-2015di Stefano Magni




 Accolta mentre era in fuga dal genocidio turco del 1915-16, la comunità armena rivive gli orrori della persecuzione. E’ come una nemesi storica: ora stanno morendo proprio nella città che li salvò.Uno di loro, un armeno siriano, un pastore protestante che chiameremo Seraphim (per motivi di sicurezza), lo abbiamo incontrato in Italia, in questi giorni, invitato dall’associazione Open Doors. Ci racconta brevemente che cosa voglia dire spostarsi in tempo di guerra, chiuso in un bus, con le tende tirate, senza possibilità di muoversi, con la paura che qualche cecchino inizi a sparare sui passeggeri. Il bus attraversa infatti aree urbane controllate dagli jihadisti. Un viaggio che in tempo di pace avrebbe comportato otto ore, in tempo di guerra ne dura il doppio, per arrivare fino a Beirut e giungere a contatto col mondo esterno, per ottenere un visto (rimandato tre volte) per poter arrivare fino all’Italia, che lui chiama “il paradiso”. Fra non molto, però, sarà destinato a tornare nell’inferno siriano, in quello che ormai, chiama “la mia vita normale”. Ed è una vita fatta necessariamente di poco: spostamenti ridotti al minimo (“Quando la città era assediata, non potevo muovermi oltre un migliaio di metri attorno alla mia casa”), acqua e luce razionati, a volte disponibili anche solo per un’ora ogni due giorni, niente carne, code e lotte per il pane, medicine reperibili solo al mercato nero. Il tutto a poche centinaia metri dalle linee tenute dagli jihadisti, che non si fanno scrupoli a sparare razzi contro la sua chiesa, a rapire i suoi fedeli. E non c’è mai la certezza di risvegliarsi il giorno dopo, perché i bombardamenti e i proiettili vaganti sono una minaccia continua, per cui si deve necessariamente dormire lontano da muri esterni e finestre, possibilmente in cantina.


Seraphim, come era la vita prima che iniziasse questo inferno?
Come qui in Italia, forse anche più sicura. La Siria era uno dei posti più sicuri del mondo. Potevo girare indisturbato anche a mezzanotte. Le donne potevano circolare liberamente, sia di giorno che di sera e nessuno le importunava. Come cristiani, era rispettato il nostro diritto di praticare la nostra fede e di esprimerci apertamente. Dal 2011 in poi è cambiato tutto. Gli islamici più fanatici sono dappertutto. Se sei cristiano, puoi essere ucciso per la tua fede, il rischio è altissimo. Ora è uno dei posti più pericolosi del mondo.

Se definisce la Siria d’ante-guerra come uno dei luoghi più sicuri al mondo, perché è scoppiata la rivoluzione, secondo lei?
Prima di tutto non la chiamerei una “rivoluzione”. La chiamo “caos”, un caos che è stato alimentato per far attecchire il radicalismo islamico, oltre che per distruggere un sistema politico in cui, da cristiani, eravamo liberi. Ed è scoppiata perché i Fratelli Musulmani vogliono governare il Paese.
Non sono un politico, ma secondo me questo caos, per come è iniziato all’improvviso, è stato pianificato. Erano la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita che volevano cambiare la mappa del Medio Oriente, cambiare i governi in carica e la testa della gente. La guerra è scoppiata, nel nostro Paese, nel nome della democrazia. Ma io mi sono sempre chiesto: perché non si parla mai di democrazia in Arabia Saudita? E’ una democrazia, per caso, la monarchia assoluta saudita? Tutti sanno che i paesi meno liberi sono proprio quelli del Golfo, dove alle donne non è neppure consentito di guidare l’auto. In Siria, ai cristiani era permesso di costruire nuove chiese. In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa. Qualcuno se l’è chiesto? In Turchia è difficile ottenere il permesso per costruire nuove chiese, anche solo per riparare quelle già costruite. Dalle monarchie del Golfo non è arrivata democrazia, né libertà. Hanno esportato il wahhabismo, hanno prodotto l’Isis, hanno prodotto Al Nusrah. E la copertura per tutto questo è chiamata “democrazia”. Che democrazia è mai quella in cui i fanatici islamici sgozzano i cristiani?

Suleimaniya è stato bombardato nei giorni scorsi…
E’ importante notare che il quartiere di Suleimaniya è prevalentemente abitato da cristiani armeni. Essendo armeno, io vedo ancora la mano della Turchia dietro a queste azioni. Perché è stata la Turchia ad aprire i suoi confini meridionali, per far passare tutti questi fanatici. In un certo senso, è come se la Turchia stia cercando di completare il genocidio degli armeni, a 100 anni di distanza. E quel che è più grottesco, è che lo fa nel nome della “democrazia”. C’è una definizione del Vangelo che descrive molto bene questo modo di comportarsi: “Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono verso di voi in vesti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci” (Mt 7,15-20). Nella Turchia vedo questo falso profeta, questo lupo travestito di valori democratici. E lo si deduce anche dalla reazione che ha avuto il Gran Muftì turco dopo le parole di Papa Francesco sul genocidio armeno. Quel che sta avvenendo è una prosecuzione del genocidio, non vogliono gli armeni, nemmeno vicino ai loro confini.

Quanti cristiani hanno deciso di restare ad Aleppo?
Non conosciamo le cifre esatte. Posso parlare, per esperienza diretta, della mia comunità. Ogni domenica nella mia chiesa si radunano fra le 240 e le 260 persone, nonostante debbano camminare per almeno mezzora per arrivarci. E camminare, ad Aleppo, vuol dire sfidare cecchini, granate, bombardamenti improvvisi, sempre nuovi posti di blocco stabiliti dai fanatici. Difficile dire chi voglia restare o andare. Ognuno ha i suoi piani personali e familiari. Il nostro scopo è quello di far sì che la gente sopravviva, perché continui a testimoniare la fede e sia capace di ricostruire ancora la vita dopo la guerra.

Ma come è possibile continuare a vivere ad Aleppo?
Dal punto di vista umano, devo dire che è impossibile. Immagini di vivere senza energia elettrica, senza acqua, dormire e correre il rischio concreto di essere ammazzato da una bomba, all’improvviso, nel sonno, lanciata da un fanatico islamico. E’ impossibile continuare a vivere così. Ma al tempo stesso, quali sono le alternative? Nessuna. L’unica vera alternativa è essere uccisi o sopravvivere. Scappare? E dove? Il Libano sta chiudendo le porte, la Turchia è contro di noi, nel resto della Siria c’è guerra, abbiamo tre fronti attorno alla nostra città. Quindi l’unica alternativa è sopravvivere alla morte.

Lei ritiene che sia possibile che l’Isis possa conquistare Aleppo?
Nessuno lo può sapere. Guardi cosa è successo a Mosul: in un solo giorno hanno preso la città, quando nessuno se l’aspettava. In un giorno è cambiato tutto. Se il Qatar e la Turchia continuano ad appoggiarli, lo possono fare anche altrove, anche ad Aleppo. L’esercito siriano dichiara di fare tutto il possibile per tenere l’Isis fuori dalla città, ma non riesce ad impedire loro di lanciare i razzi contro i quartieri cristiani. L’anno scorso, quando il Fronte Al Nusrah attaccò una cittadina armena, nel Nordovest della Siria, la Turchia gli spalancò le porte. I miliziani entrarono nella città, distrussero case e chiese, distrussero tutto. In sintesi, finché la Turchia non chiuderà i suoi confini ai fanatici, questa guerra andrà avanti. Finché Qatar e Arabia Saudita non continueranno a dare ai fanatici i loro soldi sporchi, questa guerra andrà avanti.

Cosa significa la persecuzione, vissuta dai cristiani?
I fanatici ci lanciano un messaggio molto chiaro: o diventi musulmano, o ti sottometti e paghi la relativa tassa, o morirai. Ma anche se accetti di restare e pagare la tassa di sottomissione, loro ti uccideranno. Per loro, l’uccisione di cristiani è premiata con il Paradiso.

martedì 18 novembre 2014

Cosa otterrebbe la 'nuova strategia' di Obama? Un conflitto apocalittico e nefasto che si allargherebbe a tutto il Medio Oriente





La Nuova Bussola quotidiana, 16-11-2014
di Gianandrea Gaiani 

Dopo tre mesi di inconcludente campagna aerea contro il Califfato, Barack Obama ha di nuovo cambiato idea: il nemico torna a essere il presidente siriano Bashar Assad. Come l’anno scorso quando solo le pressioni di Mosca impedirono a Washington di ”punire” il regime siriano, per l’impiego del gas nervino contro i civili, che in realtà era da attribuire ai ribelli salafiti filo-sauditi, che nessuno ha mai però punito per quel crimine. La rivisitazione della strategia statunitense in Medio Oriente continuare a lasciare sconcertati almeno a sentire le indiscrezioni filtrate dalla Cnn secondo cui Obama sarebbe pronto a cambiare strada per "distruggere" l'Is in Siria rimuovendo dal potere Bashar Assad, valutazione ardita considerato che l’Is e i qaedisti di al-Nusra sono nemici del presidente siriano.

Il presidente americano avrebbe chiesto ai suoi consiglieri di mettere a punto un nuovo piano, dopo aver riconosciuto di aver commesso un errore di calcolo sulla dottrina anti-Califfato, che inizialmente prevedeva di concentrarsi sull'Iraq (dove i raid aerei sono iniziati l'8 agosto) e solo dopo sulla Siria (dove le incursioni hanno preso il via il 23 settembre) ma trascurando gli sforzi per abbattere il regime di Damasco. Una valutazione bizzarra dal momento che l’intervento internazionale contro lo Stato Islamico ha preso il via solo dopo l’occupazione jihadista di Mosul e di ampie aree del Nord e dell’Ovest iracheno. Finché le forze di Abu Bakr al-Baghdadi combattevano in Siria contro Assad nessuna Coalizione internazionale è mai stata istituita a conferma che l’attacco all’Is si è esteso “controvoglia” ai territori siriani solo perché è impossibile sconfiggere il Califfato in Iraq senza bombardarlo anche nelle sue retrovie a Raqqa e in altre aree della Siria.


Secondo quanto riferisce la Cnn, nelle scorse settimane il presidente ha convocato quattro riunioni su questo argomento e tra le ipotesi discusse ci sarebbe l'imposizione di una no-fly zone al confine con la Turchia, come richiesto da Ankara che pretende di costituire una zona cuscinetto nel nord del territorio siriano, offrendo in cambio il via libera all’impiego del suo esercito: di fatto l’invasione almeno parziale della Siria. Allo stesso tempo l’obiettivo di Washington è accelerare il programma di reclutamento e addestramento della cosiddetta “opposizione siriana moderata” dell’ Esercito Siriano Libero (Esl), con 2 mila reclute da addestrare, con fondi Usa, a partire da inizio dicembre nella caserma turca di Kirsehi.
Peccato però che l’Esl sia stato recentemente cancellato dal campo di battaglia nel Nord dopo che le forze di al-Nusra hanno occupato l’area di Idlib convincendo le brigate dell’Esl a passare sotto le sue bandiere. I ribelli “moderati” mantengono un minimo di attività nel sud siriano, lungo il confine giordano ma anche lì sono minacciati da qaedisti di al-Nusra che controllano il confine israeliano sul Golan.  Fonti dell'Amministrazione americana hanno riferito alla Cnn che per il momento non vi è una "revisione formale" della strategia in Siria, ma hanno confermato la preoccupazione su alcuni aspetti dell'offensiva contro il Califfato e la discussione per "ricalibrare" la missione.




In effetti, l’offensiva aerea non sta dando grandi risultati sia perché il nemico occulta sul terreno truppe e mezzi (solo un aereo su 4 trova bersagli per le sue bombe hanno riferito al New York Times fonti del Central Command statunitense), ma certo allargare il tiro alle forze di Assad, le uniche a contrastare sul campo le milizie del Califfato, non aiuterà la lotta al jihad. Il Pentagono sembra ancora una volta dissentire dalle strategie “ricalibrate” di Obama e il capo di Stato maggiore interforze, il generale Martin Dempsey, che ieri si è recato a Baghdad per valutare la situazione, si prepara a ribadire al presidente l’esigenza di inviare truppe americane per affiancare le forze irachene per riprendere il controllo di Mosul. «Non prevedo a questo punto di raccomandare che i soldati iracheni siano affiancati dalle nostre truppe nel combattere l'Is, ma stiamo sicuramente considerando l'ipotesi», ha detto Dempsey durante un'udienza alla Camera. 

La nuova strategia di Obama in Siria, se trovasse conferma, lascerebbe aperti molti interrogativi confermando che l’assoluta priorità di Washington anche in Medio Oriente è la destabilizzazione e il caos.

Per rovesciare Assad occorrerebbe innanzitutto privarlo del supporto politico, economico e militare di Mosca. Nei mesi scorsi i sauditi (che sembrano dettare l’agenda mediorientale di Obama) provarono a indurre Putin a lasciare andare a fondo Assad in cambio di una riduzione della produzione petrolifera di Riad che avrebbe lasciato il prezzo del greggio intorno ai 100 dollari garantendo ampie entrate all’economia russa. Putin rispose picche ma oggi, col petrolio sotto gli 80 dollari al barile a causa del massiccio export di “shale oil” statunitense e canadese i russi potrebbero essere tentati dall’accettare quell’intesa? Oltre agli interrogativi politici, far cadere Assad è un’operazione militarmente impossibile con le attuali forze in campo: Obama non vuole inviare truppe americane in Siria a combattere mentre le unità aeree disponibili oggi si sono rivelate insufficienti contro l’Is e lo sarebbero ancor di più in caso di guerra contro Assad. Occorrerebbero quindi più forze aeree Usa e alleate per una guerra convenzionale, con costi maggiori e perdite assicurate considerando che la difesa aerea di Assad è curata da personale russo e incute timore alle potenze occidentali.


Inoltre per annientare le forze di Assad (forze armate, milizie sciite, Hezbollah, pasdaran iraniani) lo sforzo aereo non sarebbe certo sufficiente. E poi chi lo condurrebbe un attacco terrestre? Gli eserciti arabi e turco, oppure le stesse forze ribelli che sono però costituite al 90 per cento dai qaedisti di al-Nusra e i jihadisti dello Stato Islamico?  Anche il solo indebolimento delle forze governative siriane favorirebbe sul campo il successo dei due movimenti islamisti che, se occupassero l'intera Siria provocherebbero il massacro o la fuga di milioni di sciiti alawiti, cristiani e drusi. Anche senza considerare il ruolo della Russia, la guerra ad Assad porterebbe all’intervento iraniano mentre il governo sciita iracheno, amico di Damasco considerato un alleato contro la minaccia comune del Califfato, uscirebbe probabilmente dalla Coalizione cacciando gli americani (con i quali è già ai ferri corti per lo scarso appoggio bellico contro l’IS) e appoggiandosi all’Iran che ha già sue truppe in territorio iracheno come in quello siriano.


In prospettiva quindi la “nuova strategia” di Obama otterrebbe il risultato di definire nitidamente un conflitto totale tra sciiti e sunniti in cui Washington si porrebbe ufficialmente a metà strada (contro Assad e contro il Califfato) ma di fatto dalla parte dei sunniti e soprattutto delle monarchie petrolifere del Golfo che hanno armato e finanziato l’IS e da un mese e mezzo fingono di fargli la guerra in Siria. Un conflitto apocalittico e nefasto che si allargherebbe a tutto il Medio Oriente senza risparmiare un confronto nel Golfo tra Riad e Teheran da cui uscirebbero rafforzati solo i jihadisti.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-contrordine-marines-il-nemico-e-di-nuovo-assad-10951.htm

venerdì 20 giugno 2014

IRAQ: «Le armi dei terroristi erano dirette ai ribelli siriani considerati moderati»

2 interviste a Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it

Le armi siriane alimentano la guerra in Iraq



La Nuova Bussola Quotidiana, 19-06-2014


Obama per ora non si immischia nel conflitto iracheno e nonostante le forze qaediste dello Stato Islamico della Siria e Levante (ISIS) siano ormai a poche decine di chilometri da Baghdad, ha accantonato per ora l’ipotesi di lanciare incursioni aeree contro i jihadisti per sostenere il traballante esercito iracheno. Washington si limiterà a fornire assistenza “politica e d’intelligence” anche se le esigenze di Baghdad sono molto più concrete come dimostra la richiesta ufficiale di raids aerei formulata ieri dal ministro degli Esteri Hoshyar Zebari.

Sul campo di battaglia le cose vanno male per le truppe irachene. Nonostante qualche contrattacco nell’area di Baqubah e raids di elicotteri a Tikrit e Mosul che sembra puntare soprattutto a distruggere le armi pesanti che l’esercito iracheno in rotta ha lasciato nei giorni scorsi ai qaedisti, che in queste ore puntano ad assumere il controllo della raffineria di Baiji, 210 chilometri a nord di Baghdad. I miliziani sunniti hanno prima distrutto parte delle riserve di petrolio e poi si sono aperti la strada nell'enorme struttura. Secondo le tv panarabe, una parte delle uomini della sicurezza sono fuggiti e i miliziani avrebbero preso il controllo di tre quarti degli impianti. L'esercito iracheno sostiene però di aver respinto l'attacco e di aver ucciso 40 ribelli. Anche più a ovest, verso il confine siriano l’esercito iracheno è in difficoltà dopo aver perso il controllo di Tal Afar, città che il comando iracheno ha annunciato di voler liberare  “entro giovedì”.
Sul fronte politico si fa più aspro il confronto tra il governo scita di Nouri al Maliki e le monarchie del Golfo. Riad e gli Emirati Arabi Uniti (che ieri hanno ritirato l’ambasciatore da Baghdad) accusano Maliki di aver condotto negli ultimi tre anni una politica settaria che ha emarginato i sunniti e pretendono un governo “inclusivo” di unità nazionale. La stessa richiesta formulata dalla Casa Bianca, che pure solo un mese or sono si era congratulata con Maliki per la vittoria elettorale che gli assicurava il terzo mandato consecutivo. Baghdad invece accusa senza mezzi termini sauditi ed emirati di sostenere i terroristi dell’ISIS. Un’accusa non nuova che si inserisce nell’ormai evidente confronto militare transnazionale tra sciiti e sunniti ma che in questo caso sembra suffragato anche da fatti concreti come la presenza tra i miliziani dell’ISIS di armi croate comprate l’anno scorso dai sauditi per armare i ribelli siriani, ufficialmente quelli “moderati” dell’Esercito Siriano Libero (ESL).

Come spiega un articolo di Luca Susic sul webmagazine Analisi Difesa che cita fonti serbe e croate, alcune immagini diffuse in rete dall’ISIS non lasciano spazio a dubbi. Molti combattenti dell’ISIS sono armati di lanciagranate RBG-6, i lanciarazzi anti-carro M79 Osa  mentre alcuni veicoli montano  cannoni senza rinculo M60: tutte forniture croate che tra la fine del 2012 e l’anno scorso vennero fatte confluire con un ponte aereo in Giordania per essere distribuite agli insorti impegnati a combattere il regime di Bashar Assad.

Secondo il quotidiano di Zagabria Jutarnji List, il materiale attualmente utilizzato dai qaedisti in Iraq è stato in gran parte inviato in Siria per mezzo di 75 voli civili partiti dall’aeroporto Internazionale di Zagabria. I cargo avrebbero portato circa 3 mila tonnellate di armi e munizioni per un valore di 50 milioni di dollari acquisite con il via libera degli Stati Uniti, interessati ad appoggiare le fazioni siriane “moderate”. Benché Washington non abbia mai ufficialmente fornito armi ai ribelli siriani il coinvolgimento della CIA al flusso clandestino di armamenti agli insorti è stato più volte segnalato da dettagliati reportage dei media statunitensi.

Che ci fanno queste armi in mano all’ISIS? Quanto queste forniture sono servite a destabilizzare il nord Iraq invece che a sconfiggere le truppe di Assad i cui successi sul campo di battaglia si sono moltiplicati negli ultimi mesi? Le risposte plausibili non sono molte. I sauditi potrebbero aver fatto il doppio gioco annunciando aiuti ai militari all’ESL ma fornendoli in realtà alle milizie estremiste tra cui i salafiti di Ahrar al-Sham e l’ISIS. Già nel marzo scorso il blogger inglese Eliot Higgins aveva mostrato sul suo sito internet prove fotografiche secondo cui le armi croate destinate al fronte anti-Assad erano giunte in Iraq e venivano utilizzate dall’ISIS contro le forze governative irachene.

L’Arabia Saudita, in prima linea contro il governo alawita (Sciita) siriano, potrebbe avere tutto l’interesse a mettere in scacco anche gli sciiti al potere a Baghdad. L’operazione potrebbe nascondere anche il doppio gioco di Washington, non a caso restia a farsi coinvolgere nel conflitto, da un lato critica verso Maliki ma pronta ad aprire all’Iran. Improbabile che la CIA non sapesse dove fossero finite le armi croate mentre il sostegno saudita ai ribelli sunniti iracheni non è certo un mistero per nessuno.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-le-armi-siriane-alimentano-la-guerra-in-iraq-9515.htm



                


Le armi con cui i terroristi conquistano l’Iraq arrivano dalla Croazia. «Gliele hanno date i sauditi con il benestare degli Usa»



TEMPI, 18 giugno 2014

Dalle foto pubblicate su internet dall’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), i giornali croati hanno riconosciuto la provenienza della armi che i terroristi islamici hanno usato per prendere Mosul e altre città irachene.

Gaiani, come sono finite quelle armi nelle mani dei terroristi?  Queste armi leggere e portatili che provengono dalla Croazia sono state comprate dall’Arabia Saudita per circa 50 milioni di dollari un anno fa. Attraverso il confine giordano, controllato stabilmente dalla Cia, i sauditi hanno dato le armi ai movimenti che combattono in Siria considerati moderati e filo-occidentali. Il tutto con il benestare degli Stati Uniti.
Ma qualcosa non ha funzionato.  Esattamente: o qualcosa è andato storto nella distribuzione delle armi o paesi come l’Arabia Saudita hanno giocato sporco, dichiarando che avrebbero armato i ribelli moderati mentre hanno fatto tutt’altro.

Proprio l’altro giorno l’Iraq ha accusato i sauditi di aiutare i terroristi islamici.  Questa è una critica che il governo sciita di Al Maliki rivolge da sempre ai paesi del Golfo. Bisogna ricordare però che i terroristi dell’Isil hanno conquistato molte città irachene con l’aiuto di tribù sunnite stanche di essere emarginate da Al Maliki. È evidente che alcune tribù preferiscono i qaedisti agli sciiti. In questo modo l’Iraq sta rischiando di scivolare in una guerra civile a carattere confessionale, sunniti contro sciiti, e non dimentichiamo che questa spaccatura confessionale era uno degli obiettivi principali di Al Zarqawi, il capo di Al Qaeda in Mesopotamia, il “nonno” dell’Isil che combatteva gli americani e il governo iracheno nel 2004.

Quanto la crisi irachena è imputabile ad errori americani?  La responsabilità della crisi è al 100 per cento americana ma non si tratta di un errore. Gli Usa hanno lasciato l’Iraq in mano agli sciiti, che con la corruzione hanno distrutto il paese e rovinato l’esercito, visto che le reclute sunnite sono scappate e quelle sciite hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di rischiare la vita per difendere città sunnite del nord. Perché Obama si è complimentato con Al Maliki per la rielezione al terzo mandato e ora gli chiede di realizzare cambiamenti politici in cambio di aiuti, mentre non ha fatto nessuna richiesta fino a un mese fa?

Perché?  Perché l’obiettivo di Obama è quello di destabilizzare il Medio Oriente, così come tutte le aree di interesse energetico mondiale. Gli Usa hanno armato i ribelli siriani ma non abbastanza da farli vincere contro Assad, si complimentano con Al Maliki ma non lo aiutano a sconfiggere i terroristi, sono intervenuti in Libia in modo assurdo e hanno sostenuto la rivolta ucraina per destabilizzare anche quell’area. Gli ucraini, infatti, non riescono a sconfiggere i filorussi, che a loro volta senza Mosca non possono fare niente.

E che cosa guadagnano gli americani?  Obama è venuto in Europa a dirci: comprate gas e petrolio da noi. Ecco cosa ci guadagnano. Grazie allo shale oil e allo shale gas gli Stati Uniti sono diventati già una potenza energetica autosufficiente e nel 2020 saranno il più grande esportatore di energia al mondo. È vero che il loro gas e petrolio costa di più ma sarà anche l’unico raggiungibile in maniera sicura. Secondo me è incredibile che l’Europa non si faccia delle domande e continui a pensare che l’America sia un suo alleato. Da quando c’è Obama, purtroppo, non è più così.

http://www.tempi.it/armi-terroristi-iraq-croazia-sauditi-usa#.U6LfH0aKDwo

domenica 18 maggio 2014

VERSO IL VIAGGIO DEL PAPA IN TERRASANTA -2

Giordania, fra i cristiani in attesa di Francesco: "Salvaci"



Vatican Insider, 17 maggio 2014
di Maurizio Molinari

Festoni illuminati sulle case in pietra, rullii di tamburi e ovunque l’odore del cinghiale alla brace. L’ultima enclave cristiana della Giordania è in festa per il matrimonio fra i ragazzi di due delle famiglie più in vista. A venti minuti di auto da Amman, siamo in un angolo di Medio Oriente dove l’alcol non è tabù, i cacciatori di maiali selvatici sono gli chef più ricercati, nelle case ci sono le Madonne incorniciate e si balla la dabke, con uomini e donne che flirtano sotto gli occhi di amici e parenti. È l’Oriente dei cristiani, in gran parte ortodossi ma anche cattolici, che si  considerano orgogliosi eredi dei bizantini ma soffrono l’assedio dell’Islam fondamentalista.

Il matrimonio si svolge la domenica e il venerdì precedente è il momento in cui le famiglie si ritrovano, conoscono, mischiano. Ci saranno un duecento persone, forse di più. Sono commercianti e imprenditori di successo che accolgono anche Hweishel Akroush, il sindaco eletto al termine di una sfida all’ultimo voto con il rivale, anch’esso fra gli invitati. Appena Akroush entra nella grande sala da pranzo, con decine di sedie lungo le pareti per far sedere tutti gli ospiti, sul lato opposto si siede l’ex rivale. Ed iniziano un dialogo nel quale molti altri intervengono. Il tema è l’imminente visita di Papa Francesco, che proprio da Amman inizierà il 24 maggio il viaggio in Terra Santa che lo porterà a fare tappa a Betlemme e Gerusalemme.
«Speriamo che il Papa parli con chiarezza ai popoli arabi», dice un commerciante di mobili, sui 60 anni, spiegando che «qui la situazione per noi si fa difficile».

Il riferimento è a un fatto recente, avvenuto in una periferia commerciale di Amman, dove il proprietario di un piccolo negozio ha annullato all’ultimo momento la vendita dell’immobile a un imprenditore cristiano su richiesta di un imam locale. È un tema vissuto con evidente pathos. «È un pessimo segno - osserva uno dei parenti della sposa - perché non era mai avvenuto prima, lascia intendere quanto i fondamentalisti vogliano emarginarci». La fedeltà nel re Abdallah è fuori questione. In ogni casa vi sono i suoi ritratti, le bandiere reali sventolano ovunque in questa cittadina di 20 mila anime - l’ultima del regno hashemita a schiacciante maggioranza cristiana - e quando Abdallah venne in visita tre anni fa fu accolto con grande calore.
«Il problema è il Fronte Islamico - aggiunge uno studente universitario, amico dello sposo - perché i Fratelli Musulmani perseguono una Giordania senza di noi, crescono dal di dentro e ci vogliono togliere l’ossigeno dal basso con una miriade di atti quotidiani».

Si spiega così la decisione di alcuni figli dei presenti di aver scelto l’emigrazione all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Anche perché fare carriera nelle forze armate o nella pubblica amministrazione è quasi impossibile per chi non appartiene alle tribù beduine che esprimono la monarchia. C’è chi è andato in Michigan e chi in New Jersey, investendo capitali di famiglia per creare piccole imprese. Non siamo di fronte a una fuga di massa come avvenuto per i cristiani di Betlemme negli ultimi dieci anni ma la tendenza è in crescita. Il sindaco lo sa, ascolta in silenzio, ed evita di sbilanciarsi. «Siamo tutti cittadini giordani e questo Paese ci ha sempre protetto» dice, a bassa voce, tenendo le mani su un bastone di legno lavorato. Ma è una posizione che l’ex sfidante non condivide: «Il mondo in cui siamo cresciuti non c’è più, i cristiani sono massacrati, uccisi, perseguitati in più Paesi arabi, le cosiddette primavere hanno peggiorato le cose e non ci resta che sperare nel Papa». La quasi totalità dei presenti assicura che sarà nello stadio di Amman per ascoltare il discorso del Pontefice, a cui guardano come una sorta di sovrano protettore nella convinzione che i leader arabi vogliano un rapporto di mutuo rispetto con la Santa Sede.

A spiegare perché è un uomo sui 70 anni, noto per possedere molte proprietà ricoprendo così un ruolo di garante della perdurante identità cristiana di Fuhais, in quanto interprete fedele della legge non scritta che vieta di vendere case ai musulmani. «In Europa ci sono tanti musulmani, i leader arabi hanno interesse che siano trattati bene - osserva - e dunque cercano garanzie dalla Santa Sede, che può chiederne per noi». Sono ragionamenti rudimentali ma a condividerli è anche un ex dipendente dell’ambasciata Usa ad Amman: «Da queste parti bisogna essere espliciti per farsi comprendere». Il batti e ribatti si prolunga per due ore, con il sindaco sempre più taciturno e l’ex sfidante rincuorato dai sostegni ricevuti, fino al momento in cui fuochi d’artificio e tamburi annunciano che «il cinghiale sta per essere servito». Viene da un braciere gigante, dove più cacciatori hanno portato la carne migliore estratta da sei maiali selvatici uccisi nell’ultima settimana. Tagliata a piccoli quadratini, ripassata in una salsa piccante e fatta cuocere e fuoco lento, la carne di cinghiale viene servita avvolta in pitte calde, accompagnata da vino rosso a volontà. È un rito culinario che nasce dalla volontà degli zii cacciatori di regalare ai futuri sposi la carne più pregiata ma in realtà esalta anche le differenze d’identità rispetto alla maggioranza musulmana. Si spiega così il consenso collettivo per quanto avvenne due anni fa, quando cinquecento capifamiglia di Fuhais invasero la strada principale protestando contro la conversione all’Islam di una ragazza cristiana locale, spingendosi fino a dare alle fiamme l’auto del futuro marito. La difesa del territorio si gioca su più fronti, perché il sentimento che prevale è quello di un assedio che cresce e la speranza è in un aperto sostegno da parte del Pontefice. 
Ma fra i coetanei degli sposi prevale il pessimismo, sono diversi ad affermare che «forse siamo l’ultima generazione di cristiani in Giordania».

http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/francesco-terra-santa-34147/


Il Papa atteso in Giordania, fra i disperati siriani




di Giorgio Bernardelli
La NBQ , 11-01-2014

.... questa volta la sosta ad Amman non risponde solo alle logiche della diplomazia, che hanno sempre imposto una tappa in Giordania a ogni viaggio di un Papa in Terra Santa. Stiamo infatti parlando di uno dei Paesi che sono toccati più fortemente dal conflitto in corso da ormai quasi tre anni in Siria. Con i suoi 6 milioni di abitanti la Giordania ha accolto un milione di profughi in fuga dal conflitto che devasta il Paese con cui confina; e ad appena settanta chilometri da Amman si trova Zaatari, la tendopoli per i profughi nata dal nulla nel deserto al confine con la Siria e diventata in pochi mesi per numero di abitanti la terza città del regno hashemita.
È un dramma che alla Chiesa della Terra Santa sta molto a cuore: anche la Caritas giordana è in prima linea negli aiuti ai rifugiati siriani. E di loro il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha parlato espressamente domenica scorsa, quando proprio ad Amman ha tenuto una conferenza stampa a poche ore dall'annuncio del Papa in piazza San Pietro. Dando anche un'anticipazione importante sul programma del viaggio: la sera del 24 maggio - a Betania oltre il Giordano, la località  dove secondo il racconto del Vangelo di Giovanni Gesù ha ricevuto il Battesimo nel fiume Giordano - Papa Francesco condividerà la cena con un gruppo di poveri tra cui anche alcuni profughi siriani.


È una notizia da cui appare chiaro come il 24 maggio si profili all'orizzonte come una specie di secondo tempo della giornata di digiuno e preghiera per la Siria indetta da Papa Francesco il 7 settembre scorso. Con un filo rosso comune all'insegna del tema della conversione: incontrare i profughi siriani proprio nel luogo del Battesimo di Gesù è un modo per dire che solo un cambiamento radicale del cuore può portare davvero quella pace nel rispetto dei diritti di tutti a cui il Medio Oriente oggi tanto anela.
Un'anteprima di questo clima la Chiesa della Giordania lo ha vissuto già  - proprio a Betania oltre il Giordano - in occasione dell'annuale pellegrinaggio al sito del Battesimo di Gesù presieduto dallo stesso patriarca Fouad Twal. Si tratta di un appuntamento che si ripete qui dal 2000 alla vigilia della festa liturgica che ricorda il gesto compiuto da Gesù, che la Chiesa universale vivrà questa domenica. Twal ha presieduto una liturgia nel cantiere (ormai avanzato) della futura chiesa cattolica di Betania oltre il Giordano, una delle sette nuove chiese delle diverse confessioni cristiane che sono in costruzione o già ultimate in questo luogo che il Regno Hashemita ha deciso di valorizzare come meta dei pellegrinaggi cristiani. Fu Benedetto XVI - durante il suo pellegrinaggio del 2009 - a benedire la prima pietra; e adesso la struttura dell'edificio è ormai quasi completata: il patriarcato latino di Gerusalemme prevede di inaugurarla ufficialmente nel 2015.
Anche il pellegrinaggio al Giordano è stata comunque un'occasione per tornare a parlare proprio delle sofferenze dei cristiani della Siria. Dal luogo dove il Papa incontrerà i profughi della guerra il patriarca di Gerusalemme ha infatti lanciato un nuovo appello per la liberazione dei due vescovi di Aleppo, dei sacerdoti che mancano all'appello da mesi e delle suore di Maaloula che si trovano tuttora nelle mani dei jihadisti siriani. Un modo per ricordare come le ferite aperte a Damasco oggi sanguinino in tutte le comunità cristiane del Medio Oriente. Così come la loro richiesta di un futuro che non sia in balia di chi innalza le bandiere di al Qaida sui campanili delle chiese.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-papa-atteso-in-giordania-fra-i-disperati-siriani-8163.htm

mercoledì 18 dicembre 2013

L'Esercito Siriano Libero è finito?


Nella Siria settentrionale nuove geometrie tra i ribelli

Terrasanta.net | 13 dicembre 2013


 - Tra i ribelli della Siria settentrionale cresce pericolosamente la componente islamista e rimpicciolisce quella laica. Al punto da convincere le potenze occidentali di chiudere il rubinetto degli aiuti militari. Secondo la Bbc, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero deciso di sospendere l’invio di materiale bellico «non letale» (ogni genere di equipaggiamento militare escluse le armi pesanti) ai ribelli che combattono il regime di Bashar al Assad nel Nord della Siria. L’Occidente non può permettersi il rischio di sostenere involontariamente chi punta a trasformare la Siria in uno stato islamico.

Già da diversi giorni si è capito che il Libero esercito siriano, la parte «laica» delle forze combattenti antagoniste al regime, ha perso il suo ruolo di guida nel fronte di opposizione. Il 22 novembre scorso, infatti si è costituito un nuovo Fronte islamico anti-Assad, una coalizione che riunisce sette differenti gruppi armati prima divisi tra loro (Ahrar al-Sham, Jaysh al-Islam, Suqour al-Sham, Liwa al-Tawhid, Liwa al-Haqq, Ansar al-Sham e il Fronte islamico curdo) e che può così contare su 45 mila miliziani: più di quelli in servizio nel Libero esercito siriano (circa 30 mila) o tra le fila degli estremisti vicini ad al-Qaeda e allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (circa 12 mila).
L’opposizione armata ad Assad si trova così divisa in tre grandi gruppi, in lotta tra loro per la leadership. Una lotta che ha le sue ripercussioni anche nei campi di raccolta per i profughi siriani nei Paesi vicini. Secondo quanto pubblica il quotidiano libanese al-Akhbar, ad esempio, la città di Ersal, nella valle della Bekaa, in Libano, accoglie oggi circa 80 mila profughi. Ma verrebbe scelta come meta soprattutto dai fuggitivi in sintonia con le posizioni del Libero esercito siriano, i cui emissari in questo momento comandano nell’area.
Il Fronte islamico nato da poco si dipinge come indipendente da ogni altro gruppo politico e si propone di far cadere Assad e di instaurare uno stato islamico confessionale.
Pur distinguendosi da al-Qaeda e dai gruppi più estremisti, questa nuova formazione ha deciso di ritirarsi dal Consiglio militare supremo del Libero esercito siriano, dimostrando di agire in autonomia dallo schieramento «laico». Anche per dimostrare in fondo chi comanda tra i ribelli, quattro giorni fa i miliziani del Fronte islamico hanno occupato le basi e i magazzini del Libero esercito siriano, nella cittadina di Bab al-Hawa, nella provincia nord-occidentale di Idlib. Nei magazzini erano stipate armi ed equipaggiamenti militari di provenienza americana (inclusi ordigni anti-aerei e missili anti-blindati) arrivati in Siria attraverso il confine turco. I miliziani del Fronte islamico hanno issato la propria bandiera al posto di quella del Libero esercito, chiedendo al personale di abbandonare la base. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, convincendo Stati Uniti e Gran Bretagna ad annunciare la fine degli aiuti.

Fino ad oggi gli Usa avrebbero provveduto i ribelli siriani con equipaggiamento «non letale» per quasi 190 milioni di euro (ufficialmente spesi in razioni di cibo, medicinali, materiale di comunicazioni e veicoli); la Gran Bretagna avrebbe provveduto per 24 milioni di euro (per veicoli, generatori, kit per depurare l’acqua ed equipaggiamento contro la guerra chimica).
Gli Stati Uniti hanno comunque assicurato che l’aiuto «non letale» ai ribelli, interrotto nelle regioni del Nord della Siria, continuerà per i ribelli che operano nel Sud, attraverso il confine con la Giordania.

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=5841&wi_codseq=SI001 &language=it

Drammatiche testimonianze dalla Valle dell'Oronte nel nord della Siria

Terrasanta.net | 16 dicembre 2013

- Le notizie che filtrano dalla Siria settentrionale negli ultimi giorni confermano il rafforzamento sul terreno delle forze islamiste venute a combattere dall’estero.
Nel Nord del Paese, sfuggito al controllo delle forze governative, si indebolisce la presenza della componente più laica antagonista al regime di Bashar al-Assad, a vantaggio degli elementi estremisti più o meno contigui ad al-Qaeda.
Testimonianze dirette provenienti dalla Valle del fiume Oronte, punteggiata di villaggi - come Knayeh, Yacoubieh, Jdeideh, Ghassanieh - fino ad oggi interamente o prevalentemente cristiani, confermano che i gruppi estremisti hanno assunto il pieno controllo del territorio e che lo governano come un «emirato».
La situazione è particolarmente desolante e pericolosa per i cristiani, ai quali è stato imposto di far sparire croci e statue e di far tacere le campane. Le donne possono presentarsi in pubblico solo a viso (o, quanto meno, a capo) coperto.

Chi contravviene alle disposizioni incorre nelle sanzioni previste dalle più rigide norme religiose musulmane. L’obiettivo sembra essere chiaro: indurre la popolazione cristiana ad andarsene. L’alternativa è restare e rischiare la pelle.

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=5852&wi_codseq=SI001 &language=it


Alla fine, Londra e Washington danno ragione a Mosca


La Bussola Quotidiana 
di Gianandrea Gaiani13-12-2013