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lunedì 15 gennaio 2024

Card. Pizzaballa: reciprocità e riconciliazione per la Terra Santa

"È nelle scuole e nelle università che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace e alla non-violenza, cioè a credere, a conoscersi e a stimarsi, e anzitutto a incontrarsi, cosa che purtroppo non avviene né nelle scuole arabe né in quelle ebraiche, se non in rari casi". Così è intervenuto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, invitato oggi, 15 gennaio, come ospite d'onore all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica, presso il Policlinico Gemelli di Roma. 

Vatican News, 15 gennaio 2024

La Chiesa non perda la sua dimensione profetica

Il cardinale Pizzaballa parla dell'impatto che la sanguinosa guerra in corso sta avendo sulla popolazione. "Come uscire dal fango di questa guerra, da questo orribile pantano in cui più si entra e più pare impossibile uscire?". È la domanda cruciale che si pone e pone ai presenti il porporato, con il tono di grande parresia che contraddistingue sempre il suo parlare. Precisa che “pace” sembra essere oggi una parola "lontana, utopica e vuota di contenuto, se non oggetto di strumentalizzazione senza fine". Così, è necessaria una parola chiara di speranza che si deve attingere dalle Scritture e da una dimensione profetica della Chiesa. "Se la Chiesa perde tale dimensione - rimarca - parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire". Afferma che è questo un rischio ricorrente, soprattutto in Medio Oriente: il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. 

Tempi lunghi per guarire dalla lacerazione della guerra 

Il Patriarca di Gerusalemme lamenta poi che "i tempi di una guarigione saranno necessariamente lunghi e avranno bisogno di percorsi complessi", esortando a crederci davvero nella pace. "Si dovrà prendere atto - sottolinea - che le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono non potranno essere (come forse è stato fino ad oggi) solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro diverso". La questione problematica è che "ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante". 

Una pace credibile chiede una purificazione della memoria

Pizzaballa ribadisce la responsabilità di ciascuno, in questo contesto di grande disorientamento, nel dare coraggio per costruire prospettive di vita. "Laddove tutto sembra rinchiudersi in odio e dolore, è chiamato ad aprire orizzonti". Essere profeti, in ogni ambito, non vuol dire essere visionari, ma credenti, cioè "avere la fede che si deve fare il possibile per investire nello sviluppo, per sostenere un pensiero positivo e illuminato, per evitare manipolazioni religiose e anzi promuovere un discorso su Dio che apra alla vita e all’incontro". Reciprocità e riconciliazione. Sono queste le direttrici su cui perseverare per la Terra Santa, tenuto conto - dice Pizzaballa - che le ferite non possono essere semplicemente cancellate o ignorate con una pace che sia semplicemente “assenza di guerra”. Con una nota di carattere psicologica, ricorda che le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli, creando vittimismo e di rabbia. 

Un linguaggio privo di umanità ferisce più delle bombe

Si sofferma ampiamente, il cardinale, sulla necessità di un linguaggio che aiuti nella costruzione della pace, ripetendo che non di banale accessorio si tratta. Richiamando ancora la necessità di parresia e chiarezza nel parlare, precisa inoltre che "bisogna, non solo dire quello che si pensa, ma anche pensare a quello che si dice, di avere la coscienza che, soprattutto in queste circostanze così sensibili, le parole hanno un peso determinante". Quanti hanno una responsabilità pubblica hanno il dovere di orientare le loro rispettive comunità con un linguaggio appropriato, che limiti "la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità", osserva Pizzaballa. Insiste sulla necessità di "preservare il senso di umanità", soprattutto nell'uso dei social. Attribuisce a un linguaggio "violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione", una forte responsabilità e uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre. Fa anche esempi: definire l’altro come 'animale', è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza in molti altri contesti e forme. "Sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe". Facendo riferimento a come si raccontano le due parti nel conflitto israelo-palestinese, il porporato si addentra nella questione relativa a quelle che sono state e continuano ad essere "narrative indipendenti l’una dall’altra, che non si sono mai incontrate realmente. E ora - spiega - questo è diventato esplosivamente evidente in questi ultimi mesi. È necessario quindi il coraggio di un linguaggio non esclusivo", soprattutto nei luoghi di formazione culturale, professionale e spirituale. 

Il conflitto spirituale

Sua Beatitudine approfondisce le modalità attraverso cui guerra in Medio Oriente intacca inevitabilmente la vita spirituale degli abitanti della Terra Santa. E si chiede qual è stato il ruolo delle fedi e delle religioni. Il cardinale Pizzaballa constata che "con poche eccezioni, non si sono sentite in questi mesi da parte della leadership religiosa discorsi, riflessioni, preghiere diverse da qualsiasi altro leader politico o sociale". Condivide l’impressione che ciascuno si esprima esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità. Ebrei con ebrei, musulmani con musulmani, cristiani con cristiani, e così via. E racconta che "in questi mesi è stato ed è ancora pressoché impossibile, ad esempio avere incontri di carattere interreligioso, almeno a livello pubblico". Lamenta che "rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento si sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto". Esorta a questo proposito che la fede non può adagiarsi: da un lato deve essere di conforto, dall'altra "elemento di disturbo". 

La guerra è uno spartiacque nel dialogo interreligioso

Il rapporto tra cristiani, musulmani ed ebrei non potrà essere mai più come è stato finora. Ne è convinto Pizzaballa che osserva come il mondo ebraico non si sia sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. "I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… insomma - conclude - dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione". Da qui il dialogo dovrà ripensarsi, spiega: non più solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma "dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire. E si dovrà farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore".

La Chiesa evidenzi le ingiustizie, senza strumentalizzazioni

La presenza del cardinale Pizzaballa all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica serve oggi a ribadire l'urgenza di educare alla speranza e alla pace, proprio perché la scuola e le università hanno un ruolo chiave in questo. "In un ambiente segnato da lacerazioni e contrasti, possiamo diventare, come Chiesa, luogo ed esperienza della pace possibile", afferma infine il porporato. "Se abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali - sostiene - abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero". Le sue parole richiamano un ecumenismo che non sia "di facciata o di comodo", ma "vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa". Su un aspetto non trascurabile si sofferma ancora nel suo intervento: la Chiesa non può ridursi ad “agente politico” o a partito o fazione, non si può esporre insomma a facili strumentalizzazioni. Contestualmente non può tacere, scandisce Pizzaballa, "di fronte alle ingiustizie o rinchiudersi nell’angelismo o nel disimpegno". Il cardinale si congeda esprimendo tutto il disagio vissuto sulle proprie spalle proprio perché 'conteso' da una parte o dall'altra. Raccomanda, allora, che "prendere posizione non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e non in condanne contro qualcuno".

sabato 13 gennaio 2024

For Aleppo


Questo pezzo è dedicato alla città di Aleppo e al suo passato, presente e futuro.

I musicisti che hanno suonato alla School of Public Policy della Central European University sono stati:
Anastasia Razvalyaeva - arpa, Albert Márkos - violoncello, Tijana Stanković - violino, Zsuzsanna Tóth - flauto, Zoltán Bordás - riq, Adam Hosman - tabla egiziana.

Composto da Gábor Berkó
Prodotto da Adam Hosman




Pierre le Corf  da Aleppo:  "E se alla fine bastasse amare? Bravi e grazie a tutti coloro che ogni giorno regalano un po' di magia e di amore per chi ne è privo, qui e ovunque voi siate.
Da Aleppo, mani e cuori. Al di là della guerra, delle sanzioni ecc.  nel mondo ci sono cose peggiori del "coronavirus"... credo che più persone stiano lentamente morendo ogni giorno per stanchezza mentale, solitudine, mancanza di sostegno, mancanza di speranza... il vuoto si instaura se l'amore e il contatto non persistono... e la morte si nutre del vuoto. 
Con amore, dunque"



mercoledì 3 gennaio 2024

Mons Jacques Mourad: il mondo sta lasciando morire il popolo siriano

 L’arcivescovo di Homs lancia un drammatico appello dopo l’interruzione, a partire dal primo gennaio, del piano di aiuti del Programma alimentare mondiale: "Le famiglie siriane mangiano una volta al giorno, hanno dimenticato cosa sia il riscaldamento, cosa sia l’acqua calda, cosa sia una società. E si vive nell’oscurità, senza luce”

Vatican News , 2 gennaio 2024

Sei mesi fa lo avevano dimezzato, dal primo gennaio è del tutto soppresso. Il piano di aiuti del Programma alimentare mondiale - l’agenzia Onu incaricata dell’assistenza alimentare nel mondo – alla Siria è stato interrotto. Più di cinque milioni di persone dipendevano dalla consegna di alimenti e di generi di prima necessità, in un Paese prossimo al 13.mo anno di guerra (marzo 2024) e ulteriormente fiaccato, nel febbraio 2023, da un drammatico terremoto nelle zone al confine con la Turchia. All’origine della decisione, spiega il Pam, vi sarebbe l’assenza di fondi, messi a rischio dall’epidemia di Covid, dalla guerra in Ucraina e ora anche da quella a Gaza, che avrebbero azzerato il budget a disposizione. E ora la stima di chi versa in gravi condizioni di insicurezza alimentare supera i 12milioni di persone.

Decisione terribile e ingiusta

“Il popolo siriano è condannato a morire senza poter dire nulla”, è la drammatica constatazione di monsignor Jacques Mourad, da un anno arcivescovo di Homs, terza città, per estensione, della Siria. “E’ una decisione terribile e ingiusta”, continua l’arcivescovo, che si chiede perché mai si sia arrivati a questo. “Per noi è come se il mondo dicesse al popolo siriano ‘sei condannato a morire, senza alzare la voce, senza dire nulla’. E per che cosa? Che colpa ha il popolo siriano?”. 

La Chiesa non può coprire tutti i bisogni

Le sue parole sono accorate, pensando alla sofferenza che in tutti questi anni il popolo ha subito e che ancora subirà, generata da una guerra che non sembra dover finire e che continua a infrangere qualsiasi speranza. “Questa decisione - prosegue il presule - è stata presa per gettare il popolo siriano nella disperazione completa, per spegnere ogni luce che poteva restare accesa grazie alla nostra fede e grazie alla speranza. Ma in questa situazione noi veramente siamo finiti”. Organizzazioni non governative e Chiesa cattolica, in questi anni, hanno davvero operato miracoli in Siria, supportando la popolazione in ogni modo. Oggi, di fronte all’interruzione degli aiuti umanitari, che ormai servivano quasi i 2/3 della popolazione, ci si chiede se ci sia ancora una speranza che possa impedire alle persone di morire di fame. “La Chiesa, così come le organizzazioni non governative, non possono coprire tutto il bisogno del popolo siriano - continua mons. Mourad - la loro capacità di finanziamento è limitata. Inoltre, far arrivare il denaro in Siria è impossibile a causa delle sanzioni imposte da Stati Uniti e Onu, e quindi come facciamo? Come può il popolo siriano vivere? Già tante famiglie siriane mangiano una volta al giorno, solo una volta al giorno. Abbiamo dimenticato che cosa significhi scaldare, perché non possiamo comprare il diesel o la legna, abbiamo dimenticato cosa sia l'acqua calda, abbiamo dimenticato cosa sia una società. E viviamo nell'oscurità totale, le città in Siria sono senza luce, certamente i quartieri ricchi che contano solo il 5% della popolazione non sono rappresentativi della situazione del popolo siriano”. 

I siriani così sono condannati a morte

Per monsignor Mourad l’unica soluzione è rappresentata, oltre che dalla Chiesa cattolica, dall’Unione europea, la sua speranza è che l’Ue prenda una posizione chiara, dettata da “una sensibilità umana e sincera”. L’appello dell’arcivescovo di Homs è straziante. “Perché si vuole far morire questo popolo?” è la domanda atroce che viene posta al mondo: “Non è possibile che tutto il mondo abbandoni il popolo siriano, che cosa abbiamo fatto di male per essere condannati a morire?”.

domenica 31 dicembre 2023

"Il Signore rivolga a te il Suo volto e ti conceda pace"

 

Omelia di don Giacomo Tantardini

"Dalla sua pienezza, dalla pienezza di Dio, in questo bambino, il figlio di Maria, dalla sua pienezza, dalla pienezza della sua carne, attraverso la sua carne noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. Grazia su grazia ha ricevuto sua madre, grazia su grazia ha ricevuto Giuseppe sposo di Maria, grazia su grazia hanno ricevuto i pastori.

E oggi la chiesa nelle liturgie di Natale si ferma soprattutto a guardare i pastori, a guardare coloro che all’annuncio dell’angelo sono andati: ”andiamo a vedere, andiamo fino a Betlemme” si dicono “a vedere l’avvenimento che ci è stato annunciato”.
Andarono e videro Maria e Giuseppe e un bambino. Ed erano pieni di stupore, tant’è vero, tant’è vero che tutti erano stupiti delle cose che dicevano i pastori; e solo, solo lo stupore si comunica al cuore come stupore.
Che cosa hanno ricevuto da questo bambino quei pastori, che cosa hanno ricevuto da questo piccolo che, malgrado mentre lo vedevano piangeva come tutti i bambini mentre lo guardavano sua madre Maria lo stava allattando.
Che cosa hanno ricevuto?

Paolo, quando descrive i peccati degli uomini dopo una lunga serie di tutti i peccati, finisce con queste due frasi che di tutti i peccati sono i più grandi: senza cuore, senza misericordia.
Così questi pastori hanno ricevuto un cuore, il loro cuore ferito, il loro cuore come il cuore di ogni uomo ferito, il loro cuore che a poco a poco diventa di pietra, hanno ricevuto un cuore di carne, guardando questo bambino, questo bambino; il loro cuore è ritornato come il cuore di quando si è bambini, hanno ricevuto un cuore, hanno ricevuto un cuore di carne, hanno ricevuto misericordia.
A chi è senza cuore a chi è senza misericordia lo sguardo di questo bambino, il guardare a questo bambino, questo bambino che piange o sorride o dorme o viene allattato, questo bambino ridona il cuore, questo bambino ridona misericordia.
Il Vangelo non dice, come invece diranno i Magi, non dice che lo hanno adorato, non dice che lo hanno riconosciuto come Dio, dice soltanto che il loro cuore si è stupito, dice soltanto che il loro cuore si è commosso.  
 Ma solo, solo colui che ha creato il cuore può ricreare il cuore in persone ormai, ormai che tanti anni, tanti anni hanno logorato il cuore. Solo colui che è il creatore lo può ricreare, lo può rendere come bambino, anzi più puro, più limpido, più commosso, più stupito del cuore di un bambino. 
 Solo colui che ha creato il cuore può donare la misericordia, può abbracciare il cuore. Solo colui che è dolce quando dona come dice Sant’Agostino “dulcis pater” dolce è il padre quando dona, “dulcis oh pater” ma è più dolce il padre quando ricrea. 
Come abbiamo questa sera ancora una volta detto nella preghiera della messa: colui che mirabilmente ha creato il cuore è più mirabile quando lo fa ritornare bambino in noi, in noi che siamo vecchi, quando lo fa ritornare bambino, quando a chi non ha misericordia e non usa misericordia dona misericordia . 
  Per questo, per questo, per questo stupore, per questo cuore rinnovato e ridato, per questa misericordia che mi abbraccia più dolcemente che non la dolcezza di una mamma che abbraccia il bambino, per questa misericordia hanno riconosciuto che Dio, nessuno lo ha mai visto, ma il figlio unigenito che è Dio e che è nel seno del Padre, Lui facendosi bambino, Lui lo ha fatto vedere."

Nella preghiera per la Pace auguriamo agli amici di Ora pro Siria un Anno di vera Pace

sabato 23 dicembre 2023

“Proprio in un mondo così il Signore stesso è nato per darci speranza”

Custodia Terrae Sanctae

Pubblichiamo di seguito il messaggio di Natale dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme.

Poiché un bambino ci è nato, ci è stato dato un figlio; e il governo sarà sulle sue spalle, e il suo nome sarà chiamato “Consigliere meraviglioso, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace”. (Isaia 9:6)

Noi, Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme, trasmettiamo i nostri auguri di Natale ai fedeli di tutto il mondo nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, il Principe della pace, nato qui a Betlemme più di duemila anni fa .

Nell'estendere questi saluti, siamo ben consapevoli che lo facciamo in un periodo di grande calamità nella terra natale di nostro Signore . Negli ultimi due mesi e mezzo, la violenza della guerra ha portato a sofferenze inimmaginabili letteralmente per milioni di persone nella nostra amata Terra Santa. I suoi orrori continui hanno portato miseria e dolore inconsolabile a innumerevoli famiglie in tutta la nostra regione, evocando grida empatiche di angoscia da tutti i angoli della terra . Per coloro che si trovano in circostanze così terribili, la speranza sembra lontana e irraggiungibile.

Eppure è in un mondo simile che nostro Signore stesso è nato per darci speranza. Qui dobbiamo ricordare che durante il primo Natale la situazione non era molto lontana da quella odierna. Così la Beata Vergine Maria e San Giuseppe ebbero difficoltà a trovare un luogo dove far nascere il loro figlio. C'è stata l'uccisione di bambini. C'era un'occupazione militare. E c'era la Sacra Famiglia che veniva sfollata come rifugiata. Esteriormente, non c’era motivo di festeggiare se non la nascita del Signore Gesù .

Tuttavia, in mezzo a tanto peccato e dolore, l’Angelo apparve ai pastori annunciando un messaggio di speranza e di gioia per tutto il mondo: “Non temete, perché ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà tutte le persone. Poiché oggi è nato per voi nella città di Davide un Salvatore, che è Cristo il Signore” (Luca 2:10–11).

Nell'Incarnazione di Cristo, l'Onnipotente è venuto a noi come Emmanuele, “Dio con noi” (Matteo 1:23), per salvarci, redimerci e trasformarci. Questo doveva adempiere le parole del profeta Isaia: “Il Signore mi ha consacrato con l'unzione. per portare la buona notizia agli oppressi, per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà ai catturati e la liberazione ai prigionieri; per proclamare l'anno di grazia dell'Eterno» (Isaia 61:1–2a; Luca 4:18–19).

Questo è il messaggio divino di speranza e di pace che il Natale di Cristo ispira in noi, anche in mezzo alla sofferenza. Perché Cristo stesso è nato e vissuto in mezzo a grandi sofferenze . Egli, infatti, ha sofferto per noi, fino alla morte di croce, affinché la luce della speranza risplendesse nel mondo, vincendo le tenebre (Gv 1,5).

È in questo spirito natalizio che noi, Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme, denunciamo tutte le azioni violente e chiediamo la loro fine . Allo stesso modo invitiamo le persone di questa terra e di tutto il mondo a cercare le grazie di Dio affinché possiamo imparare a camminare insieme sui sentieri della giustizia, della misericordia e della pace. Infine, invitiamo i fedeli e tutti coloro che sono di buona volontà a lavorare instancabilmente per il sollievo degli afflitti e per una pace giusta e duratura in questa terra che è ugualmente sacra alle tre Fedi monoteiste.

In questo modo, infatti, rinascerà la speranza del Natale, a cominciare da Betlemme e estendendosi da Gerusalemme fino ai confini della terra – realizzando così le consolanti parole di Zaccaria, secondo cui «un'aurora dall'alto sorgerà su di noi per dare luce a coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte, guidando i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79).

— I Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme



For to us a child is born, to us a son is given; and the government will be upon his shoulder, and his name will be called “Wonderful Counselor, Mighty God, Everlasting Father, Prince of Peace.” (Isaiah 9:6)

We, the Patriarchs and Heads of the Churches in Jerusalem, convey our Christmas greetings to the faithful around the world in the name of our Lord Jesus Christ, the Prince of Peace, born here in Bethlehem more than two-thousand years ago.

In extending these greetings, we are well aware that we do so during a time of great calamity in the land of our Lord’s birth. For over the past two-and-a-half months, the violence of warfare has led to unimaginable suffering for literally millions in our beloved Holy Land. Its ongoing horrors have brought misery and inconsolable sorrow to countless families throughout our region, evoking empathetic cries of anguish from all quarters of the earth. For those caught in the midst of such dire circumstances, hope seems distant and beyond reach.

Yet it was into such a world that our Lord himself was born in order to give us hope. Here, we must remember that during the first Christmas, the situation was not far removed from that of today. Thus the Blessed Virgin Mary and St. Joseph had difficulty finding a place for their son’s birth. There was the killing of children. There was military occupation. And there was the Holy Family becoming displaced as refugees. Outwardly, there was no reason for celebration other than the birth of the Lord Jesus.

Nevertheless, in the midst of such sin and sorrow, the Angel appeared to the shepherds announcing a message of hope and joy for all the world: “Fear not: for, behold, I bring you good tidings of great joy, which shall be to all people. For unto you is born this day in the city of David a Savior, who is Christ the Lord” (Luke 2:10–11).

In Christ’s Incarnation, the Almighty came to us as Immanuel, “God with us” (Matthew 1:23), in order to save, redeem, and transform us. This was to fulfill the words of the Prophet Isaiah: “The LORD has anointed me . . . to bring good news to the oppressed, to bind up the brokenhearted, to proclaim liberty to the captives, and release to the prisoners; to proclaim the year of the LORD’s favor” (Isaiah 61:1–2a; Luke 4:18–19).

This is the divine message of hope and peace that Christ’s Nativity inspires within us, even in the midst of suffering. For Christ himself was born and lived amid great suffering. Indeed, he suffered for our sake, even unto death upon a cross, in order that the light of hope would shine into the world, overcoming the darkness (John 1:5).

It is in this spirit of Christmas that We, the Patriarchs and Heads of the Churches in Jerusalem, denounce all violent actions and call for their end. We likewise call upon the people of this land and around the globe to seek the graces of God so that we might learn to walk with each other in the paths of justice, mercy, and peace. Finally, we bid the faithful and all those of goodwill to work tirelessly for the relief of the afflicted and towards a just and lasting peace in this land that is equally sacred to the three Monotheistic Faiths.

In these ways, the hope of Christmas will indeed be born once again, beginning in Bethlehem and extending from Jerusalem to the ends of the earth — thus realizing the comforting words of Zechariah, that “the dawn from on high will break upon us to give light to those who sit in darkness and the shadow of death, guiding our feet into the way of peace” (Luke 1:78–79).

— The Patriarchs and Heads of the Churches in Jerusalem


martedì 19 dicembre 2023

Natale in Siria, dove i Maristi portano la gioia ai bambini che conoscono solo la guerra

 


Vatican News. 19 dicembre 2023

Dal 2011 e dall’inizio della guerra in Siria sono nati più di 6 milioni di bambini, che hanno conosciuto solo violenza e guerra. Ancora oggi, un numero tra i due e i tre milioni di loro non va a scuola. Più di otto milioni di bambini necessitano di assistenza umanitaria. Secondo l’Unicef, i minori in Siria sono tra quelli più vulnerabili al mondo. Alla guerra, che ha ucciso circa 500 mila persone, si è aggiunto il mortale terremoto del 6 febbraio 2023 ad Aleppo. È in questo contesto che le famiglie cristiane siriane, stremate, si preparano a celebrare il Natale. Il 22 dicembre i Fratelli Maristi faranno una distribuzione speciale a 1.100 famiglie: una gallina, un chilo di arance, un chilo di mele e 30 uova. Potrebbe sembrare un dono banale, ma per le famiglie che riceveranno questa offerta è la garanzia di un pasto completo nel periodo natalizio. Ad Aleppo, il fratello marista Georges Sabé festeggerà il 25 dicembre con gli scout e i loro genitori e si impegnerà a portare un po’ di gioia ai bambini, in mezzo alle tante difficoltà della vita quotidiana.

Fratello Georges, ci avviciniamo al Natale e in questa occasione abbiamo voluto puntare i nostri riflettori sulla Siria e più in particolare sui bambini. Dopo dodici anni di conflitto sono almeno 6 milioni i bambini, secondo l’Unicef, nati dopo il 2011 e che hanno conosciuto solo la guerra...

Purtroppo i bambini di cui parliamo oggi sono tutti figli della guerra. Sia che abbiano vissuto la guerra direttamente, sia che ne abbiano vissuto le conseguenze attraverso la violenza, le paure, tutto ciò che riguarda la vita quotidiana, l’insegnamento, l’essere costretti a spostarsi e tutto ciò che riguarda la visione del futuro. Se parlo di bambini, devo parlare di bambini che, oltre alla guerra, soffrono ancora le conseguenze delle sanzioni economiche e che, quasi un anno fa, hanno subito anche il terremoto. C’è una paura radicata nel cuore dei nostri figli, rinnovata dal sisma e che ha suscitato una sensazione di instabilità, come se già i diversi spostamenti non bastassero. Il terremoto ha detto concretamente a ogni bambino che è ancora minacciato. C’è la minaccia della guerra, ma c’è anche la minaccia dei rischi naturali.

Che trauma lascia tutto questo ai bambini?

Devo prima parlare della violenza. Purtroppo serve un’educazione molto forte con cui far capire ai bambini due cose importanti: il rispetto per l’altro, per chi è diverso da me e portare loro un segno di speranza. Quando parlo di rispetto, intendo che dobbiamo insegnare ai nostri figli a risolvere i conflitti in modo non violento. È molto facile per loro avere in mano giocattoli che sembrano armi. Pensano di risolvere un conflitto con un altro bambino picchiandolo, anche usando questo giocattolo e fingendo di ucciderlo. Giocano a combattere e a morire. Questa è la guerra... È un trauma che risiede nel profondo di ogni bambino. L’altro tema importante è la questione della stabilità e dello sradicamento. I nostri figli sono stati spesso sfollati. Molti di loro sanno anche che il loro futuro potrebbe non essere in Siria, che i loro fratelli, i membri di altre famiglie o compagni, hanno lasciato il Paese e sono andati altrove. C’è questa sensazione di un orizzonte chiuso, dove non esiste la speranza, un orizzonte in cui il bambino non sa cosa diventerà. Questo è molto grave e destabilizzante per lo sviluppo della personalità del bambino. E ha un impatto anche sui suoi studi e sulla sua visione del futuro.

Quali strutture sono ancora in piedi, dopo la guerra, dopo il terremoto, in grado oggi di insegnare tutti questi valori? Ne ha citati alcuni ma ci sono anche i valori della pace e della riconciliazione. Dove si può insegnare questo oggi in Siria?

È una situazione terribile perché molte scuole sono state distrutte durante la guerra e poi a causa del terremoto, che ha rappresentato un'altra minaccia per questi bambini. Al di là della struttura in pietra, è necessario creare spazi sicuri per i bambini, spazi che diano loro un po' di gioia, uno spazio dove possano giocare, stare comodi e sicuri. Questo è l’obiettivo che le diverse congregazioni religiose cercano di offrire ai bambini cristiani e ai bambini musulmani. Dobbiamo lavorare sull'educazione, sull'educazione alla pace, per evitare che in futuro si arrivi nuovamente a una guerra che distrugge l'uomo come distrugge la pietra.

Ci avviciniamo alla Natività. Ha parlato di spazi da creare o di spazi dove i bambini possano sentirsi protetti e al sicuro. Come pensa di festeggiare il Natale con i bambini ad Aleppo?

Vi faccio un esempio molto concreto: con i nostri piccoli scout celebreremo la notte e la vigilia di Natale con genitori e figli in un momento di gioia, di festa, di famiglia. Pregheremo insieme, saremo in comunione insieme e, d'altra parte, celebreremo con gioia. Conto sulla preghiera che ci aiuta e ci dà la forza in questo tempo di Avvento e di Natale per mantenere questa speranza nonostante tutto e per portare un po' di gioia nella vita di ogni bambino.

Ci avete descritto una situazione che resta estremamente delicata, complicata, difficile. Come trova, in questo contesto, le parole giuste per portare un po' di gioia ai bambini? Cosa dice loro?

Devo ammettere che a volte non ho le parole... Ma devo anche riconoscere che a volte, dalla mia preghiera, posso dire una parola di speranza ascoltandoli, invitandoli ad uscire incontro all'altro, per capire che ci sono altre miserie, terribili e molto più dure ad esempio per gli anziani, ma anche per le famiglie e per gli altri bambini. Li invito ad andare incontro ai più poveri, a coloro che hanno fame, a coloro che sono soli. Dico anche loro di smetterla di lamentarsi sempre di essere figlio della guerra e di suggerire loro di essere un bambino che incontra i più abbandonati, i più dimenticati, e di vivere un momento di festa.



martedì 21 novembre 2023

Giornata Pro Orantibus, le trappiste in Siria: la vita è più forte di qualunque morte


 Vatican News, 21 novembre 2023

Hanno scelto di vivere ad Azeir, un piccolo villaggio rurale di circa 400 abitanti a due passi da Talkalakh, in Siria, per testimoniare che è possibile coltivare la speranza lì dove la guerra ha seminato morte e distruzione. Cinque monache trappiste hanno deciso di proseguire qui la missione che i loro “fratelli” cistercensi hanno iniziato in Algeria, a Tibhirine. Una presenza evangelica in terra musulmana pagata con il sangue, quella dei sette religiosi uccisi nel 1996. Ma un’eredità, la pacifica convivenza sperimentata con i fedeli dell’islam, che l’ordine contemplativo dei Cistercensi della Stretta Osservanza (OCSO) ha voluto far fruttificare. Per questo nel 2005, alcune claustrali del monastero di Nostra Signora di Valserena, in Toscana, hanno dato vita a una nuova comunità monastica nel Medio Oriente.

Quella delle trappiste italiane, che attualmente vivono nella foresteria del loro monastero ancora in costruzione, è una testimonianza preziosa che giunge nella Giornata Pro Orantibus, istituita da Pio XII nel 1953 e celebrata nella festa liturgica della Presentazione di Maria Vergine al Tempio. Una ricorrenza che invita a pregare per tutti i contemplativi e ai quali è dedicata la Messa che il cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, presiederà il 3 dicembre, a Roma, alle 11, nella Basilica dei Santi Quattro Coronati.

Suor Marta Luisa Fagnani, superiora del monastero Nostra Signora Fonte della Pace, racconta a Vatican News – Radio Vaticana del lavoro svolto nella piccola comunità siriana di Azeir, dove la gente – sia musulmana che cristiana – bussa per ricevere aiuti o semplicemente trovare “un posto sereno”. Lì, a due passi dal confine con il Libano, quello delle trappiste è un esempio di dialogo, di mutuo aiuto e di accoglienza.

Ascolta l'intervista a suor Marta Luisa Fagnani

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Suor Marta, come siete arrivate in Siria?

Il nostro arrivo in Siria ha origine dall’esperienza dei nostri fratelli in Algeria, i monaci di Tibhirine. Dopo la loro morte il nostro ordine si è interrogato su cosa raccogliere della loro testimonianza, fondamentalmente un’esperienza di vita monastica dentro un contesto di minoranza cristiana. Da lì è nata una riflessione in tutto l’ordine cistercense e anche il desiderio di monaci e monache di raccogliere questa eredità dentro un cammino, che è stato molto lungo. Poco a poco, la nostra comunità in Italia di Valserena ha capito che c’era una chiamata e abbiamo formato un primo gruppo. Abbiamo avuto dei contatti per la Siria, siamo venute a visitare il Paese e abbiamo trovato una grande accoglienza e apertura; alla fine, siamo arrivate a decidere di provare a iniziare una fondazione monastica. Così siamo partite nel 2005.

Qual è stato il primo impatto con il territorio?

Come dicevo, abbiamo trovato una grandissima accoglienza. La Siria, prima della guerra, era un Paese in crescita, molto aperto, dove da secoli convivono tradizioni religiose ed etnie diverse. Quindi un Paese ricco di storia, di cultura, molto accogliente ed ospitale. Questo ha incoraggiato l’idea di cominciare un’esperienza.

E adesso, a che punto è il monastero?

Abbiamo iniziato le prime costruzioni nel 2008, dopo aver vissuto cinque anni mezzo ad Aleppo, poi ci siamo trasferite ad Azer, in campagna, con l’idea di cominciare a edificare il monastero. Ma nel 2011 è scoppiata la guerra. Quindi stiamo ancora vivendo nella foresteria. In questi anni, con le pietre del terreno, abbiamo costruito una decina di piccole abitazioni con gli operai del posto per ospitare persone, ma il monastero vero e proprio abbiamo cominciato a costruirlo da un anno e mezzo.


Che tipo di relazioni sono nate con la gente del posto?

Direi molto buone. Abbiamo avuto prima l’esperienza della vita in città, vivendo in un appartamento vicino a delle scuole che ci hanno aiutato ad inserirci. Abbiamo, quindi, imparato a conoscere le comunità cristiane presenti, la vita della gente. Da subito ci siamo sentite a casa e abbiamo anche ritrovato la nostra storia e le nostre radici, perché la Siria è il luogo dove la vita monastica è nata. Ci siamo trasferite poi in campagna e anche qui le relazioni con la gente sono molto buone, sia con cristiani che con musulmani. Il fatto di essere potute rimanere nonostante la guerra sicuramente ha cementato ancora di più il rapporto con le persone, vivendo quello che loro stessi vivevano. In questi ultimi anni la situazione si è un po’ normalizzata e le persone cominciano a venire numerose per dei ritiri da noi. Abbiamo contatti con diversi gruppi cristiani da Aleppo, Damasco, Homs, e anche i nostri vicini musulmani vengono, perché il posto è bello. Cerchiamo di curare la natura, l’ambiente, qui c’è un clima di serenità.

E in particolare con i musulmani, come sono i vostri rapporti?

C’è molta naturalezza, molto rispetto. Siamo in un piccolo villaggio cristiano e intorno ci sono villaggi musulmani; anche durante la guerra, abbiamo cercato di dare lavoro ad operai cristiani e musulmani, sia sunniti che alawiti. Ci sono anche diversi musulmani che vengono da noi per un incontro personale, ma anche semplicemente per amicizia. È un ambiente misto e la vita quotidiana, i contatti per la spesa, le visite mediche, avvengono in un contesto in cui si vive insieme. Direi quindi che è un rapporto quotidiano basato non su grandi discorsi, ma su un rispetto reciproco. Certo, la guerra ha rotto un po’ questo equilibrio, perché certe situazioni sono state molto pesanti, ma di fondo, in Siria, c’è grande apertura verso l'altro. E noi lo sperimentiamo ancora oggi, nonostante le ferite.


Chi viene a bussare alla porta della vostra comunità?

Gente con tante situazioni di bisogno. Anche se noi vogliamo rimanere una comunità contemplativa, cerchiamo di aiutare come possiamo tutti, senza differenza, cristiani e musulmani. C’è gente che ha necessità di aiuti materiali o gente che ha bisogno di serenità, che viene semplicemente per trovare un ambiente bello; c’è chi ha bisogno di confrontarsi su domande circa la guerra, la distruzione, il senso di quello che sta attraversando la Chiesa in questo momento. Poco a poco sta crescendo anche un desiderio di una relazione con Cristo che dia veramente senso e risposta alle domande più difficili.

Quale testimonianza volete dare?

Innanzitutto vivere la vita monastica così com’è, ma soprattutto una testimonianza di speranza e prossimità. Stare semplicemente qui, con le nostre fragilità, con la nostra povertà in tante cose (la lingua, l’inculturazione, eccetera), significa scegliere di rimanere, invece in molti la tentazione di andare via è sempre più forte. Allora noi vogliamo rimanere con la speranza di costruire: dove tutto si distrugge vogliamo cercare di trovare un senso alle cose e testimoniare semplicemente la forza di una vita che comunque è più forte di qualunque situazione di morte che ci sia attorno. Tutto questo in nome di Cristo. È chiaro che possiamo vivere tutto questo perché il Signore è il primo che resta con noi. Quindi non ci basiamo sulle nostre forze umane, ma su una speranza che ha una radice più profonda, la fede.


Da quando siete arrivate, ci sono stati dei momenti particolarmente difficili che avete vissuto?

Sicuramente la guerra. Per almeno 3-4 anni, quello in cui ci troviamo è stato un territorio di passaggio di bande jihadiste, di ribelli contro il governo, di scontri fra l’esercito e i ribelli, quindi la popolazione ha vissuto questi combattimenti, e noi con loro. Non è stato facile, anche a causa di tutte le problematicità che si sono aggiunte: la difficoltà a procurarsi le cose necessarie, la corrente elettrica che manca, le insicurezze per il futuro. E anche l’essere pronte da un momento all’altro a lasciare tutto. Siamo rimaste tre anni con la valigia pronta e il passaporto. Ma era la stessa precarietà che vivevano tutti. Ringraziamo Dio di averla potuta vivere con la nostra gente. Allo stesso tempo, siamo state anche molto aiutate e protette. Adesso la fatica più grossa è quella di vedere la nostra gente partire, perché le condizioni di vita sono molto dure e questo rattrista, è pesante da vedere.

Quella della Siria viene definita una tragedia dimenticata, quali sono le necessità più grandi lì dove siete voi?

È vero che è una tragedia dimenticata: dieci/undici anni di guerra hanno distrutto il Paese, l’hanno impoverito. Dopo il terremoto - una tragedia nella tragedia - per assurdo qualcuno ha detto: “Meno male che c’è stato il terremoto perché ci sono accorti ancora di noi”. Gli aiuti sono stati infatti generosissimi e c’è stata grande vicinanza verso il Paese; allo stesso tempo c’è stata un’emorragia incredibile di persone. E molti continuano ancora a lasciare il Paese: professionisti, medici e ingegneri, tecnici, manodopera specializzata, giovani. La Siria oggi è un Paese che manca sempre di più di risorse, di potenziale umano, oltre a essere una nazione che ha una povertà strutturale. Si pensi pure alle sanzioni internazionali che non si è mai riusciti a mitigare nonostante i tantissimi appelli. Il bisogno fondamentale è di poter creare un minimo di vita, di commercio, di lavoro che permetta una vita sostenibile, che aiuti a non emigrare, che consenta alle persone di restare con una speranza di vita dignitosa.


Voi monache di cosa avete bisogno in particolare?

Noi possiamo solo ringraziare il Signore di tutto ciò che abbiamo, perché ogni giorno riceviamo qualcosa. Certo, vorremmo terminare il nostro monastero, perché pensiamo che sia un segno importante e abbiamo bisogno anche di essere sostenute per sostenere a nostra volta le persone attorno a noi. Abbiamo bisogno, soprattutto che la Siria non sia dimenticata. Vuol dire, prima di tutto, mantenere un’informazione corretta, quindi conoscere la realtà e non dimenticarla. Spero poi che con il tempo e con una situazione politica generale del Medio Oriente più favorevole si possono riprendere anche le visite, che sono anche un segno di speranza.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-11/giornata-orantibus-trappiste-siria-tibhirine-guerra-speranza.html

'Cuori e mani per la vita' : Ci sono donne del villaggio di Azer con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Hanno imparato il macramé e lavorando da casa e presso il monastero , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia : per sostenere il progetto delle Monache Trappiste a favore delle donne siriane rivolgersi alla mail: oraprosiria@gmail.com

sabato 18 novembre 2023

Lettera dalla Siria di padre Daniel

 

( Facendo seguito alle catechesi settimanali che padre Daniel invia agli amici dal monastero Mar Yakub nel deserto siriano a nord di Damasco)

Qara, 17 novembre 2023

Cari amici,

della dignità della nostra umanità abbiamo finora considerato due qualità importanti. Siamo creati a immagine di Dio e portiamo nel profondo di noi un desiderio insaziabile per la felicità perfetta che possiamo ottenere solo in Dio e quindi alla fine desideriamo Dio. Queste sono le due radici prime e vivificanti della nostra umanità, che possono ispirare anche tutta la nostra vita. Li abbiamo spiegati in dettaglio e fornito alcuni approfondimenti.

Prima di discutere la terza caratteristica, vorrei soffermarmi ancora. Sono gli avvenimenti attuali che mi costringono a farlo. A Gaza è in corso un massacro senza precedenti, con masse di uomini, donne e bambini uccisi, non accidentalmente ma deliberatamente. Bambini, ospedali, ambulanze vengono incessantemente bombardati. E questo orrore continua.

Alcuni ritengono che sia la guerra in Ucraina che questa follia in Israele-Palestina siano parte di un importante cambiamento negli eventi mondiali. Fino a poco tempo fa, il mondo era governato in modo “unipolare”. Un’unica potenza mondiale (USA, Israele, insieme all’Occidente collettivo) potrebbe dominare il mondo intero secondo le proprie regole, indipendenti dal diritto e dalla giustizia internazionali. Di conseguenza, gli altri paesi erano essenzialmente solo vassalli o colonie. Nel frattempo, però, sono emerse altre potenze mondiali, che hanno creato un mondo “multipolare” (Russia, Cina, India, mondo islamico, e forse africano, sudamericano). L'obiettivo è rispettare la sovranità degli altri paesi e concludere accordi per il benessere reciproco. La guerra in Ucraina contro la Russia e il tentativo di sterminio del popolo palestinese sarebbero allora un tentativo disperato, fallito in anticipo, del vecchio dominio mondiale “unipolare”, che vuole sopravvivere.

Comunque sia, diamo ora una considerazione religiosa all’evento israelo-palestinese.

Il popolo palestinese, la pupilla degli occhi di Dio

I leader politici ebrei di oggi vogliono giustificare la lotta in Israele da una prospettiva biblica. Il popolo ebraico è quindi la pupilla degli occhi di Dio che avrebbe il diritto di sterminare i propri nemici (Amalek nella Bibbia) fino all'ultimo uomo, donna e bambino. 

Tuttavia, i cristiani dovrebbero leggere l'Antico Testamento a partire dal Nuovo Testamento e comprendere il Nuovo Testamento sullo sfondo dell'Antico. Gesù Cristo ha portato un rinnovamento profondo e definitivo. Egli è il compimento, l'approfondimento, l'ampliamento della rivelazione di Dio. Egli stesso è la pienezza della Parola di Dio. Dalla sua morte e risurrezione, ogni luogo della terra è uguale a Betlemme, Nazareth, Golgota e Gerusalemme. Non c'è più differenza tra la chiamata di un ebreo o di un gentile. Ogni popolo è in Cristo "il popolo eletto di Dio" e la sua "pupilla degli occhi". Allo stesso modo, Gesù ha rivelato il giusto significato del matrimonio tra uomo e donna, adempiendo e trascendendo la Legge di Mosè. Ogni popolo della terra e ogni essere umano è invitato ad assumersi la propria responsabilità per essere salvato, cioè attraverso la fede in Gesù Cristo. 

Gesù pianse su Gerusalemme perché non riconosceva Lui, il suo Messia e la sua salvezza e perché i leader religiosi rifiutavano il loro compito di essere “ luce delle nazioni ” in Cristo. Predisse anche la rovina di questa onoratissima città e del suo santissimo tempio. I leader religiosi ebrei risposero con derisione. Erano sicuri della loro gloria divina e dell'inviolabilità dei loro luoghi santi. Tuttavia, Gerusalemme e il tempio furono terribilmente distrutti nell'anno 70 e la popolazione massacrata. Rimase un trauma per il popolo ebraico.  Gran parte del popolo ebraico non ha imparato la lezione da questo. 

Paolo, autentico ebreo circonciso, inveì contro coloro che ancora cercano la salvezza nella circoncisione invece che nella fede soltanto in Gesù.  Anche gli altri apostoli capirono che Dio ha scelto tutti i popoli, le razze e le lingue in Cristo perché fossero la pupilla dei Suoi occhi e popolo amato per condividere tutte le promesse una volta fatte al popolo ebraico. Per questo nel Primo Concilio di Gerusalemme si è deciso che la circoncisione e la Legge di Mosè non sono più necessarie. La fede in Gesù è necessaria e sufficiente per partecipare alla salvezza di Dio. Il popolo palestinese e tutte le altre nazioni sono in Cristo allo stesso modo del popolo ebraico, popolo eletto da Dio. 

Come finirà questa terribile guerra? Anche su questo Gesù ci dà un indizio: chiunque maneggia la spada, di spada morirà (Matteo 26:52). Ciò vale per tutti i partiti, ma ovviamente soprattutto per quelli la cui “spada” è una prepotente superpotenza militare dotata delle più sofisticate armi di distruzione e armi atomiche per sterminare deliberatamente uomini, donne e bambini con un orrore senza precedenti. Gli israeliani credono che ciò garantisca la loro sicurezza. Vediamo che in realtà è vero il contrario. Con la loro eccessiva violenza mettono se stessi e tutti i loro concittadini in tutto il mondo in grave pericolo. Israele può sopravvivere solo se rinuncia a ogni violenza, persegue la giustizia e riconosce Cristo. Nel 1948, i nuovi residenti ebrei furono accolti con ospitalità nei villaggi palestinesi, ma ne approfittarono per registrare meticolosamente tutti i dettagli importanti dei villaggi e successivamente per razziarli uno per uno. Israele può sopravvivere nella giustizia e nell'amore solo se riconosce anche il popolo palestinese come la pupilla degli occhi di Dio e vuole vivere insieme a lui in pace, come chiedono espressamente molti ebrei pii e ortodossi. La parola di Gesù vale ora in modo speciale per il popolo palestinese: “ Tutto ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me ” (Mt 25,40). 

Preghiamo per il popolo ebraico affinché riconosca Gesù Cristo, il suo più grande Rabbino, come il suo Messia, il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo. Preghiamo affinché i musulmani accettino Gesù, il Signore morto e risorto, come loro unico Salvatore. Preghiamo per tutti gli uomini, di qualunque fede, affinché, vivendo con coscienza sincera, scoprano e riconoscano Gesù Cristo come loro Salvatore. Preghiamo per i cristiani affinché diventiamo degni seguaci di Gesù Cristo e annunciatori della sua salvezza. 

In Siria oggi

Dodici anni fa siamo arrivati in Siria, un Paese di grande prosperità e sicurezza, con una popolazione che viveva in armonia. La vita era molto economica. La Siria produceva il 20% di cibo in più del necessario. Aveva abbondanza di gas e petrolio. Quasi nessuna porta d'ingresso di una casa era chiusa a chiave. Poi vennero gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo, che si autodefinirono “amici della Siria”. Hanno creato gruppi terroristici che hanno addestrato e pagato e hanno invaso la Siria, apparentemente per liberare la popolazione dai terroristi. Hanno rubato i raccolti, il petrolio e il gas. E continuano a farlo. Sempre più persone soffrono la fame e il freddo. Adesso non abbiamo più nemmeno il gas per preparare il pranzo. Ci accontentiamo di una stufa a legna. 

Tuttavia, non possiamo non condividere un'altra storia che scalda il cuore. Questa settimana, tre di noi si sono recati da un otorino. La sala d'attesa era affollata. I testi calligrafici del Corano erano incollati ovunque sul muro. Alla fine siamo riusciti a entrare. Quando ha saputo che eravamo di Mar Yakub, ha tirato fuori il suo smartphone e ci ha mostrato la linea su cui si trovano tutti i monasteri della Siria. Pieno di entusiasmo, ci ha raccontato dei monasteri che aveva già visitato. Poi ha iniziato l'esame, che ha svolto con molta attenzione. Dalle domande che poneva di volta in volta, abbiamo capito che sapeva esattamente cosa c'era di malato. È stata una lunga indagine. Tutti hanno ricevuto le prescrizioni o le diagnosi necessarie e uno è stato sollevato dalla sua sordità temporanea. Mentre volevamo pagare, ci ha raggiunto per salutarci, con un ampio sorriso. Ha detto di conoscere Madre Agnes-Mariam e ci ha detto chiaramente che non voleva soldi!

In verità, vi dico che questo musulmano è molto vicino al Regno di Dio.

P. Daniel, Monastero di San Giacomo in Siria, Qara, 17.11.2023

www.maryakub.net