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lunedì 18 luglio 2022

Le notizie che provengono dal Libano sono ogni giorno più inquietanti



...Ne danno conto le cronache mensili inviate dal 'Paese dei Cedri' dal missionario italiano Padre Damiano Puccini, che da molti anni ha dato vita al gruppo di volontari “Oui pour la vie”, un’associazione di volontariato con sede a Damour in Libano, legalmente riconosciuta impegnata in favore dei più poveri di ogni appartenenza religiosa e di ogni provenienza ( Per informazioni 

www.ouipourlavielb.com Facebook: DamianoPuccini)

Ecco la cronaca di Luglio: “In Libano ormai regna una crisi economica senza precedenti”.

Come rileva la Caritas del Libano, i lavoratori libanesi, a causa di un’inflazione al 138%, sono costretti a fare i conti con prezzi dei beni alimentari saliti fino al 500% e la caduta del potere di acquisto dei salari del 90%.

Ogni due giorni c’è un caso di suicidio. Le persone non possono andare in ospedale perché non hanno i soldi per pagare le cure. Non è mai successo di vedere insegnanti che la mattina cercano il cibo nella spazzatura.

In un anno, 22 mila libanesi hanno lasciato il Paese per cercare lavoro altrove. I meno abbienti partono anche affidandosi ai trafficanti e percorrendo le rotte mediterranee del mare. Uno stipendio di 1.000 dollari ora vale come 100 dollari.

Il prezzo di quello che chiamiamo il “paniere minimo di cibo” ovvero riso, pasta e zucchero in quantità sufficiente per una famiglia è cresciuto del 47 per cento in quattro mesi; il costo della benzina del 50 per cento. Le famiglie, semplicemente, non ce la fanno.

Il Paese, fino a due anni fa dipendeva per il 66 % del grano di cui aveva bisogno dall’Ucraina e per il 12 dalla Russia: e ora non ha né linee di approvvigionamento né può contare su scorte di grano, essendo state danneggiate nell’esplosione al porto dell’agosto 2020.

La fornitura di energia elettrica è di due, o talvolta anche solo un’ora di corrente elettrica al giorno.

La nostra associazione “Oui pour la Vie” continua ancora con la cucina di Damour, l’ambulatorio per i test sanitari e per AIDS, droga e alcool, il centro di ascolto per le medicine e la scuola per bisognosi di ogni appartenenza e provenienza.

Per sostenere tutta l'opera chiediamo sempre a tutti aiuti e pubblicità.

Nella cucina di Damour, le nostre teglie sono piene al massimo, ma a malapena per cercare di sfamare le persone che abbiamo nella lista, senza poterne aggiungere una in più. Tutto questo è dovuto alla grave situazione economica del Paese. Abbiamo circa 27 famiglie sulla lista di attesa, ed è toccante vedere alcuni vicini che condividono qualcosa delle loro sostanze con coloro che aspettano di poter essere aiutati regolarmente dalla nostra cucina.

Amira è la seconda figlia della famiglia Ammar. Rachel la maggiore ha la sindrome di Down e hanno un fratellino Amjad. Come famiglia di rifugiati, la loro situazione economica è molto difficile. I bambini non sono mai stati a scuola. Lara, che ora ha 8 anni, va al progetto scolastico che “Oui pour la Vie” ha avviato per i bambini tra i 7 ei 14 anni che non sanno leggere e scrivere. A scuola è molto coraggiosa, ama i suoi insegnanti e i suoi amici. In un concorso per bambini che si comportano bene ha ricevuto un premio e un regalo. Fa tutti i compiti con una gioia senza precedenti e partecipa con tutto il cuore a tutte le attività del progetto. Per la “Festa della mamma”, i bambini del progetto hanno preparato delle decorazioni e Lara ha detto che è stato uno dei giorni più belli della sua vita.

Georges è un ragazzo molto allegro e molto attivo. Anche lui frequenta la nostra scuola e i suoi risultati sono straordinari, è amico di tutti i bambini. Dopo la scuola, partecipa a tutti i gruppi di attività che proponiamo. È un membro del gruppo della chiesa dove impara i principi della vita cristiana e si diverte a servire la messa con sua sorella. Gioca a basket e gli piace giocare contro altri villaggi.

Ringraziamo sempre i benefattori che ci hanno permesso di comprare un piccolo bus per la nostra scuola. Ha anche un grande valore per noi un’altra forma di sostegno relativa a questo bus che riceviamo molto spesso. Nel quartiere musulmano di Naameh e in quello druso di Bewarta, zone molto povere vicine a Damour, dove spesso sono alloggiati i nostri alunni, spesso il traffico è intenso e a tratti anche bloccato. Abbiamo notato più volte che ci sono persone di questi quartieri, di tutte le religioni, che vengono per aiutare il nostro bus ad attraversare i punti più critici, chiedendo alle altre automobili di lasciarci passare.

Queste persone sanno molto bene che “Oui pour la Vie” aiuta persone di questi quartieri, senza guardare alla loro religione, origine o appartenenza. Inoltre il nostro pulmino a nostra insaputa è anche diventato un mezzo di pubblicità: infatti molti ragazzi chiedono di partecipare ai nostri corsi scolastici. Purtroppo noi possiamo prenderne solo un numero limitato alla volta, per garantire un insegnamento efficace e attento al cammino personale di ogni ragazzo.

Noi non abbiamo mai fatto pubblicità a noi stessi, ma crediamo che quando Dio benedice qualche iniziativa, questa non può restare nascosta.

P.Damiano Puccini

 


Per comprendere alcuni dei retroscena politici che hanno condotto il popolo libanese a vivere tale insostenibile situazione invitiamo alla lettura dell'articolo di The Cradle sul contenzioso tra Israele e il Partito della Resistenza che ha questo sottotitolo : Quanto è vicino il Levante alla guerra? Il leader di Hezbollah afferma che tutto dipende dal fatto che al Libano sia consentito estrarre le proprie risorse energetiche per porre fine alla crisi economica del paese. E non in un lontano futuro, ma proprio ora.”



Il Libano vuole rimandare a casa un milione e mezzo di profughi siriani

di Rodolfo Casadei 

È braccio di ferro fra l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e il governo libanese. Secondo un comunicato stampa del ministro libanese per gli Sfollati, il druso Issam Charafeddine, il responsabile dell’ufficio libanese dell’Unhcr Ayaki Ito ha fatto sapere che la sua organizzazione respinge il piano per il rimpatrio di un milione e mezzo di profughi siriani che si trovano sul suolo del Libano e che il governo libanese dimissionario di Nagib Mikati dice di poter riaccompagnare in Siria in forza di un accordo di massima con quello di Damasco. Ne ha dato notizia martedì 12 luglio Al-Souria Net, agenzia di stampa con sede in Turchia, vicina agli ambienti dell’opposizione armata siriana.

«Un piano necessario»

Il piano per il rimpatrio di 15 mila profughi siriani al mese dal Libano era stato reso noto mercoledì 6 luglio da Charafeddine in una dichiarazione alla Associated Press. «Siamo molto seri circa l’implementazione di questo piano e speriamo di renderlo esecutivo nel giro di alcuni mesi », aveva dichiarato il ministro. «Questo è un piano umano, onorevole, patriottico ed economico che è necessario al Libano».

Il Libano è lo stato col più alto numero di rifugiati siriani in rapporto alla consistenza della popolazione locale. Nel paese risiedono abitualmente 4 milioni e 600 mila di cittadini di passaporto libanese, più un numero di rifugiati palestinese molto contestato, che dovrebbe nella realtà ammontare a 260-280 mila. Questo significa che in Libano ogni tre cittadini libanesi si incontra un siriano.

Fra il 2012 e il 2020 la comunità internazionale ha speso in Libano l’equivalente di 9 miliardi di dollari per i profughi siriani, sia attraverso enti Onu che attraverso Ong. L’insofferenza locale nei confronti dei siriani è cresciuta man mano che la situazione economico-finanziaria del Libano peggiorava, fino alla bancarotta del marzo 2020, quando il paese per la prima volta non riuscì a ripagare una rata del suo debito estero.

Oggi le cose vanno peggio di due anni fa, con un’inflazione superiore al 220 per cento su base annua, un tasso di disoccupazione del 30 per cento e un’abissale svalutazione della lira libanese, che ha perso il 90 per cento del suo valore fra il 2019 ed oggi: in quell’anno un dollaro si scambiava contro 1.500 lire libanesi, oggi ce ne vogliono 20.500.

I libanesi restano tuttavia più agiati dei loro ospiti siriani: i tassi di povertà relativa e assoluta fra i primi sono saliti rispettivamente al 55 e al 23 per cento negli ultimi anni, ma restano distanti dal 90 per cento di estrema povertà fra i secondi, anch’essi precipitati dopo il 2019.

Spendere meno per i sussidi

Per ottenere nuovi prestiti dal sistema internazionale il Libano deve riformare la propria politica fiscale e finanziaria, e uno dei capitoli su cui si chiede alle autorità di intervenire è quello dei sussidi: secondo il ministro delle Finanze, Ghazi Wazni, lo Stato spende ben 6 miliardi di dollari all’anno per sovvenzionare generi alimentari, benzina e altri consumi energetici. Evidentemente nelle stanze del potere si pensa che sfoltire la popolazione del paese allontanando gli sfollati siriani permetta di spendere meno nei sussidi, che andranno comunque tagliati.

Un altro motivo inconfessato che starebbe dietro al programma di rimpatrio sarebbe quello di salvaguardare l’equilibrio fra le comunità religiose del Libano, sbilanciato dall’afflusso di siriani quasi tutti musulmani sunniti. Sta di fatto che sul progetto di riaccompagnare i profughi nella Siria da cui provengono sono d’accordo tanto il capo di Stato uscente Michel Aoun, cristiano maronita che fa parte della coalizione del 14 marzo, quanto il primo ministro uscente Mikati, sunnita. Un sunnita, però, ben visto dagli Hezbollah sciiti e dal loro alleato cristiano Aoun

Profughi o sfollati?

Il piano era in elaborazione dal marzo scorso, affidato a un comitato formato dal capo del governo Mikati, il ministro per gli Sfollati Charafeddine, sei altri ministri e i responsabili della Pubblica Sicurezza in Libano. I primi attriti con la comunità internazionale si erano avuti nel maggio scorso a Bruxelles in occasione della sesta conferenza internazionale sugli aiuti ai profughi siriani. Lì i paesi occidentali e gli enti Onu avevano manifestato la loro contrarietà al rimpatrio dei siriani, e auspicato che il Libano decidesse di integrarli.

Si trattava di un suggerimento del tutto inaccettabile per un paese come il Libano, che non ha mai firmato la Convenzione Onu sui rifugiati del 1951 proprio per non essere costretto a naturalizzare cittadini stranieri, che per etnia e religione avrebbero potuto squilibrare l’assetto nazionale organizzato attorno alle 18 comunità religiose presenti nel paese. Il Libano considera i profughi sul suo territorio come “sfollati” che a termine dovranno tornare al loro paese d’origine.

Subito dopo la conferenza di Bruxelles il capo del governo Nagib Mikati aveva dichiarato alla presenza di numerosi diplomatici che il Libano avrebbe potuto essere costretto a prendere misure «che non piaceranno» alla comunità internazionale. Il 20 giugno Mikati tornava alla carica in occasione della presentazione del “Piano di risposta alla crisi del Libano 2022-2023″, minacciando che il Libano si sarebbe adoperato per rimuovere i rifugiati siriani dal suo territorio «con mezzi legali» se la comunità internazionale «non avesse collaborato per rimpatriarli in Siria».

«Noi andremo avanti»

Nelle ultime settimane a gestire mediaticamente la questione è stato il ministro Charafeddine, druso del Partito democratico libanese alleato della coalizione 14 marzo e avversario della famiglia Jumblatt che dirige l’altro partito druso, il Partito socialista progressista. È stato lui a spiegare che il piano avrebbe previsto 15 mila rimpatri al mese.

Nella sua intervista del 6 luglio ha inoltre criticato l’Unhcr e i paesi donatori per la loro indisponibilità a concentrare i loro aiuti sul territorio siriano, indisponibilità che contribuirebbe a trattenere in Libano i profughi siriani, precisando: «Qualunque sia la posizione dell’Unhcr, noi andremo avanti col piano». E annunciando per la settimana seguente (cioè quella attualmente in corso) un incontro col ministro siriano delle amministrazioni locali e dell’ambiente Hussein Makhlouf. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati si è limitata a dichiarare di non aver avviato negoziati con Beirut e Damasco sul rimpatrio dei rifugiati.

La Siria nella Lega Araba

Sullo sfondo del braccio di ferro fra Onu, Ong e paesi occidentali da una parte, governo e presidente libanesi uscenti dall’altra c’è anche la questione dei rapporti col governo siriano. Le attuali autorità libanesi sono favorevoli alla riammissione del governo di Damasco nella Lega Araba, così come i governi di Algeria, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania. Ma senza l’unanimità l’obiettivo non è raggiungibile.

Secondo il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour in occasione di una recente visita del ministro degli Esteri siriano Faisal Moqdad ad Algeri le autorità algerine avrebbero espresso il loro desiderio di invitare alla prima riunione della Lega Araba post-Covid, che si terrà ad Algeri nell’ottobre prossimo, rappresentanti del governo siriano.


Preghiamo San Charbel, il potente santo eremita libanese, di salvare il Paese da una nuova guerra e da altre distruzioni.


sabato 9 luglio 2022

In Turchia, i Siriani sono privati dei diritti e della dignità

Cittadini turchi hanno attaccato i negozi di rifugiati siriani

 

"Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. "

canto XVII del Paradiso dantesco


Articolo di Steven Sahiounie14 giugno, 2022

Traduzione di Maria Antonietta Carta


Suleyman Soylu, Ministro dell'Interno turco, ha annunciato sabato nuove misure riguardanti i Siriani che vivono in Turchia.

In primo luogo, Ankara vieta a tutti i Siriani di visitare i loro parenti in Siria durante la prossima festa musulmana di Eid al-Adha, che si svolgerà a metà luglio. Un divieto simile era stato applicato all'inizio dell'anno per la festa di Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan. I rifugiati possono perdere il loro status di protezione se tornano in Siria.

In secondo luogo, segno del crescente malcontento sociale, Ankara ha adottato nuove misure per limitare la circolazione in Turchia ai Siriani titolari di permessi di soggiorno. La percentuale di quelli autorizzati a vivere nei quartieri sarà ridotta al 20 per cento e 1.200 distretti saranno chiusi dal 1° luglio.

La Turchia rinnovava i permessi di soggiorno ogni sei mesi, ma recentemente ha ridotto la loro durata a tre mesi. Secondo le nuove regole, i Siriani che richiederanno il loro prossimo permesso di soggiorno non potranno continuare a vivere in quartieri o città con più del 20% di popolazione siriana. Saranno costretti a scegliere tra tornare in Siria o trasferirsi in nuove località che hanno una minore concentrazione di Siriani. Ciò significherà perdere la casa, il lavoro e amici o vicini turchi da cui ricevevano un supporto emotivo.

Gli esperti prevedono che le tensioni sociali aumenteranno con il nuovo schema di distribuzione che costringe i Siriani a trasferirsi in altre aree. Essi cercheranno probabilmente di rimanere invisibili per evitare conflitti con le popolazioni locali.

La Turchia attua un regime di protezione temporanea, che garantisce il diritto al soggiorno legale e un certo livello di accesso ai diritti e ai servizi di base, ma deve essere periodicamente rinnovato. Sono presenti oltre 3.735.000 di rifugiati siriani registrati, di cui circa 51.000 vivono in sette campi situati principalmente nelle regioni sud orientali del Paese. Il resto vive in comunità ospitanti, principalmente nelle città di Istanbul, Gaziantep, Hatay e Sanliurefa. A Kilis risiedono 145.826 cittadini turchi e 107.468 siriani registrati; segue da Hatay con il 20,6% di popolazione siriana. In base alle nuove misure, i tassisti possono chiedere ai clienti i loro documenti ufficiali quando viaggiano in città diverse. Gli esperti hanno criticato il governo turco per aver utilizzato i civili come controllori dell'immigrazione.


I Siriani sono pedine nelle prossime elezioni

Nel giugno 2023, si svolgeranno le elezioni politiche. L'economia è in crisi, con la lira turca ai minimi storici. I Siriani che vivono in Turchia sono considerati la causa di tutti i mali domestici. I politici di estrema destra capitalizzano l'indignazione sociale con una retorica provocatoria anti-migranti per ottenere vantaggi politici alle elezioni.

I Turchi incolpano i Siriani di aver rubato i loro posti di lavoro e fatto aumentare i prezzi degli affitti. È noto che i Siriani accettano salari bassi per sopravvivere e cercano di mantenere un basso profilo per evitare ritorsioni.

Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito popolare repubblicano all'opposizione, si è impegnato a farli tornare in Siria entro due anni nel caso vincesse e altri partiti di opposizione hanno fatto promesse simili. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo partito AK devono placare il risentimento pubblico contro i rifugiati per rimanere in carica. Erdogan sta cercando di tenere il passo con il sentimento anti-migranti che risuona in tutta la Turchia, ma rispettando il patto con l'UE per mantenere rifugiati e migranti in Turchia, che è costato miliardi di euro all'UE.

I Siriani sono registrati in Turchia con lo status di protezione temporanea designato dalle Nazioni Unite e il governo non può espellerli finché non infrangono le leggi o violano i termini del loro status.


Il piano di Erdogan per il reinsediamento in una zona sicura

Erdogan ha incoraggiato un ritorno volontario in Siria e già circa 500.000 Siriani lo hanno fatto. Il mese scorso ha annunciato che intende reinsediare un milione di Siriani in "zone sicure" nel nord della Siria, vicino al confine turco. Il suo piano ha due scopi: ripulire l'area dai Curdi, che considera terroristi, e promuovere la sua campagna per la rielezione mantenendo la promessa di sbarazzarsi dei Siriani in Turchia.

Erdogan ha dichiarato di aver costruito 59.000 case a Idlib per i Siriani che rientrano. Idlib è l'ultima area occupata dai terroristi. Hayat Tahrir al-Sham, l’affiliata di al-Qaeda in Siria ex Jibhat al-Nusra, controlla Idlib e tiene circa tre milioni di civili come scudi umani. Il Presidente turco ha sostenuto e protetto i terroristi a Idlib e ha eretto dozzine di avamposti militari per prevenire attacchi russi o siriani contro i terroristi.

Nel 2019, si era accordato con Putin per separare i terroristi dai civili a Idlib e salvaguardare l’accesso all'autostrada M4 che collega Latakia con Aleppo, ma la Turchia non è riuscita a mantenere l'accordo. Gli analisti hanno accusato Erdogan di utilizzare le "zone sicure" per effettuare la pulizia etnica che altera i dati demografici nel nord della Siria. Le forze turche e le forze democratiche siriane (SDF) si scontrano spesso nelle aree occupate dalla Turchia. Le SDF, sostenute dagli USA, hanno collaborato nella lotta all'ISIS, ma Erdogan considera la milizia sostenuta dagli Stati Uniti un gruppo terroristico a causa dei suoi legami con l'YPG e il PKK.

Organizzazioni per i diritti umani hanno accusato questi terroristi alleati del governo turco di torturare, rapire, ricattare civili e sequestrare le proprietà dei Curdi fuggiti dagli attacchi turchi.“

La Turchia ha trasferito i residenti siriani ad Ankara dopo lo scoppio di una rivolta contro i migranti. I Siriani hanno segnalato commenti razzisti e temono di parlare arabo in pubblico per paura dell'incolumità personale. Una donna siriana di 70 anni è stata recentemente presa a calci in faccia da un turco a Gaziantep.

Il numero di rifugiati espulsi dalla Turchia è aumentato del 70 per cento quest'anno.

"La Turchia sotto Erdogan non dovrebbe e non può essere vista come un alleato", ha affermato il senatore Bob Menendez del New Jersey, il democratico a capo della Commissione per le relazioni estere del Senato, dopo l'incursione della Turchia in Siria del 2019. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito Erdogan un "autocrate", ha detto che avrebbe sostenuto gli sforzi dell'opposizione per sconfiggerlo e ha insinuato che la Turchia aveva aiutato l'ascesa dell'ISIS permettendo ai combattenti stranieri di attraversare il confine con la Siria.

https://www.mideastdiscourse.com/2022/06/14/syrians-live-in-turkey-without-dignity-or-rights/


giovedì 7 luglio 2022

Commosso saluto della comunità cristiana siriana a Mons Abou Khazen

Il 28 giugno scorso papa Francesco ha accolto le dimissioni per limiti di età di mons. Abou Khazen. In questi anni ha vissuto in prima persona il conflitto, la povertà e l’emigrazione. Ad AsiaNews racconta il “buio della morte”, cui fa da contraltare “l’impegno per il vicino” anche fra cristiani e musulmani. L’invito a continuare la testimonianza di fede e il legame con la terra. 

'Ora pro Siria' si unisce con gratitudine alla comunità latina della Siria che ha avuto mons Georges come tenero padre e coraggioso testimone della verità, indomito promotore  della carità di Cristo nella terra siriana  benedetta , percorsa da Maria Santissima e dagli Apostoli.

Aleppo (AsiaNews) - Ha vissuto in prima persona gli anni peggiori della guerra, cui è seguita la “bomba della povertà” che ancora oggi colpisce la popolazione, acuita da sanzioni internazionali che bloccano la ripresa. Ma in questo clima di enormi criticità ha sperimentato la “luce della carità, della solidarietà” e “l’ecumenismo del bisogno” che ha portato le varie Chiese a unirsi e collaborare. È quanto racconta ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, le cui dimissioni per raggiunti limiti di età sono state accolte il 29 giugno da papa Francesco. Il pontefice ha nominato amministratore apostolico sede vacante di quella che un tempo era la capitale economica e commerciale della Siria il francescano p. Raimondo Girgis O.F.M., finora vicario generale. ”La fase peggiore del conflitto è alle spalle - sottolinea il prelato - ma la situazione resta difficoltosa, si fatica ad avere il pane quotidiano e la gente si sente spesso impotente e disperata”. 

“Il cibo si trova - prosegue - ma è molto caro, lo stipendio è rimasto invariato ma prima un euro veniva scambiato con 55 lire siriane, oggi vale 4.500. Manca anche il lavoro, la gran parte delle famiglie è costretta ad arrangiarsi per racimolare il minimo necessario per comprare un po’ di pane. Vi è grande stanchezza, si moltiplicano gli inviti a emigrare. Per molti senza gli aiuti, e per i cristiani senza la presenza della Chiesa, sarebbe impossibile sopravvivere. Sarebbero letteralmente morti di fame o di malattie, visto che molti farmaci non si possono importare a causa delle sanzioni. E ancora il gas, la benzina… ecco perché il primo passo è allentare le misure punitive e promuovere investimenti, progetti, dare prospettive per il futuro bloccando l’esodo”.

Mons. Abou Khazen è nato il 3 agosto 1947 ad Aïn Zebdeh, in Libano. Egli ha fatto il suo ingresso nella congregazione dei francescani in occasione del 25mo compleanno, il 3 agosto 1972 e professato i voti perpetui ricevendo l’ordinazione sacerdotale il 28 giugno dell’anno successivo. Papa Francesco lo ha nominato vicario apostolico di Aleppo il 4 novembre 2013, in seguito alle dimissioni di mons. Giuseppe Nazzaro. L’ordinazione episcopale è avvenuta l’11 gennaio del 2014, per mano del prefetto della Congregazione per le Chiese orientali card. Leonardo Sandri.

A oltre 11 anni dall’inizio della guerra nella primavera del 2011, la situazione ad Aleppo come in tutta la Siria continua a essere difficile, sebbene le fasi più cruente sembrano essere passate e le attenzioni della comunità internazionale volgono altrove, soprattutto in Ucraina dove è in atto “una nuova Siria”. Ad oggi contano quasi 400mia vittime (oltre 300mila civili), decine di città sono state rase al suolo e metà della popolazione risulta sfollata interna o profuga. A mordere è soprattutto la crisi economica e la mancanza di lavoro con un tasso elevato di disoccupazione, in particolare quella giovanile. L’85% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, oltre 14 milioni - su un totale di abitanti poco superiore ai 18 milioni - necessitano di sussidi e l’inflazione ha determinato una impennata nei prezzi. Alla crisi economica e alla guerra, si sommano le sanzioni occidentali, compreso il famigerato Caesar Act, che colpisce soprattutto poveri e gente comune. 

“La comunità cristiana - racconta mons. Abou Khazen - vive le difficoltà di tutti. Noi come Chiese cerchiamo di aiutare le persone a rimanere, ma come si può trattenere un padre di famiglia che si alza alle 4 del mattino e si mette in fila per un tozzo di pane che riesce a recuperare, forse, alle 9 per poi andare a lavorare”. In questa criticità “abbiamo sperimentato un ecumenismo di fatto, con un incontro ogni mese fra vescovi e capi religiosi di varie confessioni e riti cristiani. Abbiamo promosso progetti, aiuti collaborando per renderli attuali, aiutato le famiglie, lanciato progetti sanitari, borse di studio per scolari dalle elementari all’università, quattro mense per i poveri, cesti alimentari… Contribuiamo a dare un po’ di luce e speranza, con uno spirito ecumenico”. 

Di questi anni da vicario, egli sottolinea “il buio della guerra, la morte e la distruzione, la condivisione delle sofferenze”. E ancora, la “bellezza della solidarietà” anche fra cristiani e musulmani, “l’impegno per il proprio vicino”. Dalla sua gente dice di aver imparato il valore “della pazienza e della fede”, che non è mai venuta meno e ha rappresentato “la forza che ci ha salvato”. Nelle prossime settimane il passaggio di consegne, poi il vicario intende ritirarsi in un convento in Libano, non prima di rivolgere un saluto finale alla comunità: “Li vorrei ringraziare - conclude - e dire loro di continuare il cammino, restando legati alla loro terra e testimoniando la fede”. 

https://www.asianews.it/notizie-it/Vicario-di-Aleppo:-l%E2%80%99ecumenismo-della-solidariet%C3%A0-fra-guerra-e-povert%C3%A0-56163.html

martedì 21 giugno 2022

Nunzio Zenari: aiutate la Siria che vive un'enorme catastrofe umanitaria


Intervista di Salvatore Cernuzio

È nunzio a Damasco da 13 anni, ma ancora il cardinale Mario Zenari non riesce ad abituarsi allo scenario di lacerazione e povertà che ha sfigurato il volto della Siria. “Dopo dodici anni di guerra la situazione non va bene, anzi per certi versi è peggiorata. Da 2-3 anni ormai la Siria è stata dimenticata: il Covid, la crisi in Libano, ora l’Ucraina… è sparita dai radar dei media”. Il porporato è a Roma per partecipare alla plenaria della Roaco (Riunione Opere di aiuto alle Chiese Orientali) dove, dice, è un “veterano”. Sabato mattina, 18 giugno, ha incontrato il Papa che – racconta ai media vaticani a Casa Santa Marta – “ho trovato in buona forma”: “Gli ho portato i saluti dei fedeli e dei vescovi, ma anche la sofferenza, la tanta sofferenza della popolazione”.

Quale situazione vivono i siriani? 

La Siria rimane una delle più gravi crisi umanitarie del mondo. Basti pensare che, oltre agli innumerevoli morti che ha causato questo conflitto, ci sono circa 14 milioni di persone, su 23 milioni che erano in passato, che stanno fuori dalle proprie case, fuori dai propri villaggi, fuori dalle proprie città. Circa 7 milioni sono invece gli sfollati interni, che vivono a volte sotto gli alberi o in tende in mezzo alle intemperie. Quest’anno è stato un inverno particolarmente rigido, soprattutto nel nord ovest, e tante tende sono crollate sotto il peso della neve. In più ci sono milioni di rifugiati nei Paesi vicini. Quindi una catastrofe umanitaria enorme. Enorme…

Ci sono segnali o comunque speranze di un miglioramento?

No, al momento non si vede la luce in fondo al tunnel. Non si vede ricostruzione, non si vede avvio economico. Con la guerra in Ucraina la questione della revoca delle sanzioni, poi, è diventata ancora più problematica. Ci sono soprattutto le sanzioni dell'Unione Europea e quelle dell'America, che sono ancora più dure e puniscono chi vuole andare in Siria per ricostruire, per far ripartire l'economia. La guerra in Ucraina, da questo punto di vista, ha certamente peggiorato la situazione in Siria. La gente, tanta gente, ha quindi perso la speranza. Soprattutto i giovani che cercano in tutti i modi di emigrare e ci chiedono di aiutarli a partire. Ciò rappresenta una sofferenza particolare anche per le chiese locali che hanno visto partire più della metà dei cristiani, in alcuni casi anche due terzi. È un danno anche per la stessa società siriana, perché, come ho sempre detto, i cristiani con il loro spirito aperto, universale, di intraprendenza, con il loro impegno per l’educazione e la salute, sono veramente di supporto a tutto il Paese. Dopo duemila anni di storia, vanno ora scomparendo. La loro assenza o partenza forzata è una ferita per tutti.

Esattamente un anno fa, Eminenza, denunciava ai nostri microfoni che, cessato il fragore delle armi, in Siria è esplosa un’altra “bomba”, quella della povertà. Anche da questo punto di vista la situazione è peggiorata? 

È peggiorata e sta peggiorando, come dimostrano certe scene a Damasco o in altre città dove si vedono file di persone davanti ai panifici che vendono a prezzi calmierati dallo Stato. Non si vedevano neanche durante la guerra. Vuol dire che la gente non ha soldi per comprare il cibo e va in questi panifici dove si compra il pane a cento lire siriane invece che a mille… Fa davvero impressione. Poi non c’è benzina, si fa una fatica enorme a trovarla e pensare che la Siria ha diversi pozzi petroliferi che comunque coprivano buona parte del fabbisogno nazionale. E ancora, non c’è gasolio: le persone non avevano carburante per accendere le stufette durante l’inverno che, come dicevo, è stato molto rigido. Pensiamo quindi a quanti hanno patito il freddo, specialmente anziani, bambini. Mancano beni fondamentali che diamo per scontati, come l’elettricità. In gran parte della Siria c’è solo due ore al giorno. Manca il gas da cucina… Pensate che durante la Quaresima ho avuto tre parrocchie dall’Italia che mi hanno proposto aiuti e mi era venuto in mente che in Siria ci sono delle cucine popolari che distribuiscono pasti caldi alle famiglie. Ero molto contento, ho detto loro: abbiamo raccolto tra i 10 e i 20 mila euro, possiamo aumentare il numero delle persone e anche il servizio, farlo quattro volte a settimana invece che tre. Mi hanno risposto: veramente abbiamo dovuto ridurre da tre a due. E perché? Perché non si trova il gas per cucinare. Capite quindi che si lavora su un terreno minato. Ci sono soldi, come in questo caso, ma non i beni di prima necessità. Per questo dico che non si vede via d’uscita.

Il Papa in numerosi recenti interventi, denunciando la tragedia in corso in Ucraina, ha esortato a non dimenticare le altre guerre nel mondo. E la Siria è una delle prime tra queste…

Sì, la Siria è stata proprio dimenticata. È sparita dai radar dei media internazionali. Non è solo a motivo del conflitto in Ucraina, ancora prima ci sono stati il Covid e la crisi finanziaria delle banche in Libano che, peraltro, è stato un duro colpo per la Siria visto che tutti, anche le Chiese che ricevevano aiuti umanitari, avevano depositato soldi nelle banche libanesi. Da anni è difficile trasferire denaro e soprattutto riceverlo. In più,  vanno diminuendo gli aiuti delle agenzie umanitarie cristiane: continuano ad occuparsi del Medio Oriente, ma chiaramente l’urgenza adesso è l’Ucraina. Inoltre è rimasto un solo corridoio umanitario dei quattro che c'erano fino a due-tre anni fa: dipendono dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che sono soggette a veto. Il 10 luglio scadrà il mandato Onu di questo corridoio e spero e prego che non venga chiuso. Sarebbe un disastro! Il rischio però c'è. Come dico sempre, una crisi danneggia un’altra crisi. Tutto ciò fa davvero male e la gente si sente abbandonata.

Nota una certa disparità negli aiuti e nell’attenzione della comunità internazionale? Forse, dopo dodici anni di guerra in Siria, è subentrata quella che il Papa ha definito “l’abitudine”?

Direi che sì, c’è una certa differenza. I Paesi occidentali che possono aiutare hanno una crisi in casa, quindi i loro aiuti all’Ucraina sono probabilmente più consistenti. Come pure l’attenzione politica. Il Medio Oriente si trova in una zona di turbolenze che durano da anni… La Siria, in particolare, è davvero lacerata. Al suo interno sono tuttora operanti cinque eserciti di cinque nazioni potenti in disaccordo tra loro. Quindi, anche dal punto di vista politico è tutto un garbuglio. 

In alcune regioni, raccontava lei stesso, si è iniziato a usare pure una valuta diversa. Quanto sono profonde queste divisioni?

Sì, tra i cinque eserciti di cui parlavo, uno è entrato senza essere chiamato: è l’esercito turco. Ha occupato una fascia al nord della Siria, stazionando in particolare in una zona della provincia nord occidentale di Idlib. Alcune infrastrutture, come gli operatori telefonici, sono assicurate dalla Turchia e da un certo tempo si usa anche la moneta turca. Poi c’è il nord est che è sotto l’influenza e l’amministrazione dei curdi, che hanno i pozzi petroliferi. E lì c’è anche una parte di esercito americano. Israele, inoltre, effettua regolarmente attacchi contro obiettivi militari di Hezbollah o dell'Iran. La settimana scorsa hanno bombardato per la prima volta la pista dell'aeroporto di Damasco. Non dimentichiamo poi che alcuni fazzoletti di terra sono occupati da bande criminali o residui del Daesh. È una Siria, insomma, che ha perso la sua unità. È veramente una pena vedere questa carta geografica politica, non si sa da dove cominciare per ricucirla. Che disastro…

Lei è nunzio a Damasco dal 2008. Ben tredici anni…

Si, sono il più anziano dei rappresentanti pontifici e decano del corpo diplomatico.

Dinanzi a tutto quello che ha descritto, a uno scenario a dir poco scoraggiante, ha mai pensato di lasciare o chiedere un trasferimento? Cosa la tiene ancora legato?

Proprio sabato mattina ne parlavo con il Santo Padre che mi ha incoraggiato molto e mi ha ricordato di aver fatto sei anni fa un “regalo” alla Siria con un nunzio che è cardinale. La situazione è certamente difficile, ci sono problemi politici, diplomatici, umanitari, ma sento una responsabilità. Sarei dovuto essere emerito già da un anno, ma proprio per questo regalo del Papa vado avanti. Almeno finché Dio vuole e mi concede la salute.

https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-06/cardinale-zenari-intervista-udienza-papa-siria-guerra-poverta.html

mercoledì 15 giugno 2022

Memorie di Siria

Deir Sim'an, Campo Santo
 
di Maria Antonietta Carta

Una volta, più di duemila anni fa, su un piccolo colle, Tell Neshin, Collina delle donne in Siriaco, sorgeva il villaggio di Telanissos, Collina delle donne in Greco.

Gli uomini, in quei tempi, Dio lo chiamavano Madre e poi sole Sole e anche Tempesta. Gli alberi e le grotte erano templi e già si sapeva che la Vita nasce dalla Morte.

Poi vennero i tempi in cui Dio cominciò a essere chiamato Cristo, Alfa e Omega, Salvatore, e Telanissos, abitata da asceti, mercanti, artigiani e visitata da folle di pellegrini che vi giungevano per venerare un santo vivente, cominciò a trasformarsi in una piccola città paleocristiana dove il sacro si mischiava al profano, le preghiere ai commerci e alle giostre di cavalli. Una fiorente piccola città del turismo religioso di allora. Le terre circostanti erano attraversate da numerose vie di comunicazione. Da Antiochia a Chalcis, il deserto di San Gerolamo, ad Apamea E ai porti dell’Eufrate, le piste si affollavano di carovane, eserciti, pellegrini e monaci infervorati che per esaltare la nuova fede abbattevano spesso i templi dei padri.

Più di mille anni fa, Telanissos fu abbandonata e rimase deserta finché, sulle rovine, da pochi decenni è tornato a nascere un villaggio che però ha un nome nuovo, Deir Sim‛an, monastero di Simeone in Arabo, dal santo venerato quindici secoli prima: Simeone Stilita.

I moderni abitanti, che chiamano Dio Allah cioè Dio, non celebrano più Simeone, ma hanno chiamano il loro villaggio con il suo nome!

Deir Sim'an, edifici del villaggio moderno

Deir Sim‛an, avvolto in una quiete particolare: la placidezza di chi ha conosciuto tutto ed è anche rinato dalle ceneri, e che niente può più stupire. Così mi apparve la prima volta che vi arrivai, assolutamente per caso: una città morta che stava rinascendo. Abitazioni nuove a pan di zucchero e rovine di edifici monumentali con porticati su pilastri e colonne, chiese, sepolcri. Qualcuno aveva stabilito la sua dimora nelle solenni vestigia di una basilica con il suolo disseminato di colonne e capitelli abbelliti da lussureggianti foglie di acanto come mosse dal vento. Massaie stendevano al sole il loro bucato tra le pietre rovesciate. Una mucca e un cavallo, affrontati come in un disegno dell’antica Mesopotamia, riposavano tranquilli, i corpi possenti adagiati con grazia dentro l’emiciclo dell’alta abside centrale. Mi sembrarono gli emblemi di una natura che fu divina. Un arco trionfale ferito si stagliava solitario nell’azzurro del cielo alle pendici di una collina.

Erano i primi anni ’80, vivevo da poco in Siria e non avevo mai sentito parlare di Simeone Stilita, delle Città morte paleocristiane, numerosissime nella regione come avrei scoperto in seguito, e neppure dei movimenti monastici del deserto sorti nei primi secoli per sfuggire alle pastoie di una Chiesa trionfante e subito complice-asservita al potere temporale.

Rimasi incantata da quell’apparizione inattesa.

andron

Sono tornata spesso nei luoghi in cui quel giorno ormai lontano mi condusse il caso impersonato da mio marito. Trascorrevamo le vacanze a Bedrusiyyeh. Un villaggio ai piedi del Jebel Akra‛ - il monte sul quale un tempo sorgeva la dimora dorata del dio ugaritico Baal e dove l’imperatore Adriano aveva celebrato sacrifici a Giove - con una lunghissima spiaggia scura bagnata dal Mediterraneo. Appena svegliati, Maarouf disse: sono stanco del mare. Perchè non andiamo a farci un giro?

Lui ama guidare l’auto. Dietro a un volante è felice come un bambino felice. Così, ce ne andammo a spasso attraversando il jebel costiero, il fiume Oronte a Jisr al-Shughour, le ultime propaggini del Jebel Zawiyeh e ancora su, verso nord-ovest, lasciando la via di Aleppo per Bab el-Hawa, la porta del vento, e sempre avanti senza meta spensierati fino alla visione di quello straordinario sito.

Non dimenticherò mai l’improvvisa visione di quegli antichi edifici inaspettati, quelli che avrei in seguito scoperto essere monasteri paleocristiani e le chiese in rovina come risaltavano nell’aria piena di luce, e dentro Maarouf e nostra figlia Salima, la mia cara famiglia sorpresa ed emozionata per l’avventura di quella tarda mattina d’estate.

Ero giovane allora, e non troppo contenta al pensiero di trascorrere la vita in Siria. Ma ci avrebbe pensato la Siria, strega incantatrice, a farmi cambiare idea. A sedurmi.

Come si chiama questo posto? – chiedemmo a un contadino. Deir Sim‛an – ci rispose, invitandoci a casa sua.

Ho finito per appassionarmi a questa straordinaria regione delle Città Morte.

panorama del Massiccio Calcare

Quante volte poi, non più per caso, Maarouf ha dovuto accompagnarmi!

L’ho studiata e ne ho scritto. Eppure, visitandola provo sempre la stessa emozione di quel giorno lontano. ‘’Chissà - spesso mi domando durante le mie peregrinazioni tra le rovine - dove saranno i discendenti degli antichi abitanti che hanno dovuto abbandonare questi luoghi fuggendo a guerre e carestie. Avranno conservato la coscienza di una patria perduta? ‘’ 

Qatura, mausoleo di Aemilius Reginus

È un altro mattino d’estate. Sono qui per fare delle foto per una rivista spagnola. Ecco le vestigia della via sacra e dell’arco trionfale che forse fu danneggiato da un terremoto o da una guerra.

Entrambi piaghe di questa terra.

Un’alta colonna superstite incoronata da un capitello corinzio si erge ancora solenne verso il cielo.

Oltre la spianata in cui si radunavano i pellegrini, una cappella mortuaria paleocristiana è diventata mausoleo di un santo islamico e per lui adesso ardono a Deir Sim‛an le lampade a olio in terracotta. Il mihrab indica la direzione della Mecca a chi vuole pregare.

In un Campo Santo, preceduto da un portico su colonne e annesso a un monastero monumentale, ostinate resistono al suolo poche tessere di mosaico.

Sul muro di un ospizio per gli antichi viaggiatori è incisa una croce-fallo: il principio fecondatore.

Sono moltissime le pietre delle costruzioni che recano scolpiti simboli: quadrati, triangoli, ottagoni, cerchi, alberi della Vita, colonnette votive, rosette, stelle, ruote...

Immagini di universi invisibili.

Radici.

L’architrave della porta di una casa è decorato con una croce svastica racchiusa da un quadrato e da un cerchio. Rappresentazione del Principio, della Conoscenza, geometria del Sole e di Gesù, eppure inevitabilmente legata a un turbinoso livore. Allo strazio di una guerra.

Emblemi – maschere.

Pretesto per dissimulare oscuri abissi.

Risalgo il monte.

Questi territori, che nei primi secoli della nostra era fertili e ricchi di traffici e colori, si presentano ora come un mare procelloso di rocce grigie. Se ne riceve una sensazione d’immenso abbandono. Di cataclisma cosmico che ogni volta mi affascina e mi sgomenta. 

Qualche albero, però, sta crescendo nuovamente, tenace come un’attesa difficile e qualche campo arato nasce tra le pietre.

Deir Sim'an, monastero

Arrivo in cima alla collina dove, miraggio dorato nel caos del deserto calcareo, sulla spianata sorge il grandioso santuario di Simeone stilita, edificato quindici secoli fa per un ‘’pazzo di Dio’’ che si era messo in testa di soggiogare il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere mantenendo la padronanza di se per elevare lo spirito. Visse esponendosi per trentasei anni alle tempeste, al gelo e al sole bruciante su una colonna. Protagonista di una fede estrema, soggiogava il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere vivendo i patimenti come fuga mistica dalle passioni terrene. Alla morte di Simeone, l’esercito di Leone I si era assicurato con la forza le sue utili spoglie mortali e l’imperatore Zenone aveva fatto erigere il monumento, probabilmente più per calcolo politico che per celebrare il santo carismatico.

Ammiro e capisco la maestosità dell’opera architettonica, ma resto sconcertata davanti alla vicenda umana e spirituale dell’uomo che la ispirò.

Essa mi appare folle.

La ragione si sente inadeguata.

È ciò che ho provato sin dalla prima volta che salii su questa montagna deserta, guardando il grande tempio solitario col tetto e le finestre spalancate al cielo e battuto dal vento che filtrava tra i rami degli alberi come una musica o un respiro arcano. Avvertendo l’assurda sensazione di aver raggiunto un luogo che dovevo aver già incontrato in non so quale sogno.

Mi capita spesso di provare la suggestione di un legame lontano con questo Paese che sembra, da millenni, una specie di tempio cosmico in cui gli esseri umani si sono inventati ogni genere di culti e di riti. È quello che avverto sia nei centri abitati sia negli spazi aperti, dove ogni altura, ogni valle, ogni anfratto nascosto pare conservare il segno di una qualche devozione. Perché?

Mi sgomenta l’ostinazione dell’uomo a voler restare sottomesso ai numi tutelari che non cessa mai d’inventarsi. Mi tornano in mente due leggende su Simeone. Una amara e una gentile. Come le due facce della vita: terrifica e benigna. Mi piacciono le leggende e mi è sempre piaciuto ascoltarle. In esse si occultano le debolezze più intime, i dubbi più profondi, i sogni più audaci e il timore e la fragilità umana che da sempre ha sentito l’irresistibile bisogno di forgiare divinità da cui dipendere.

1. Dopo venti anni, la madre di Simeone scoprì dove si trovava il figlio. Accorsa in gran fretta, dopo la lunga separazione desiderava vederlo senza dovere ancora attendere. Ma non le fu concesso di contemplarlo. Poiché lei bramava ricevere la benedizione dalle sue sante mani, dovette salire sul muro. Avvenne che, mentre saliva sulla scala, fu precipitata a terra prima di aver potuto vedere Simeone. Allora, egli le mandò a dire: «Perdonami, madre. Se ne siamo degni, potremo vederci in questo mondo.» Avendo udite queste parole, sua madre ardeva ancora di più dal desiderio di vederlo. Allora S. Simeone le mandò a dire: «Calmati, signora madre. Poiché tu sei arrivata da molto lontano e ti sei stancata per me miserabile, bene! Siedi e ristorati. Io ti vedrò più tardi.» A quelle parole, sua madre sedette e, immediatamente rese l’anima a Dio.

I guardiani del luogo vennero a risvegliarla, ma la trovarono morta e annunciarono la notizia al santo. 

2. Sul corpo di un serpente femmina spuntò una grossa pustola e a causa delle sofferenze essa fece una corsa di circa un miglio. Il maschio, addolorato per le sue pene, la prese e la condusse da San Simeone, ma arrivati presso la colonna si separarono. La femmina, non osando mostrarsi al giusto, si recò nel luogo destinato alle donne. Il maschio invece confusosi tra la folla dei pellegrini raggiunse la colonna e la abbracciò levando e abbassando la testa in segno di venerazione verso il giusto. Vedendo quel serpente enorme gli uomini fuggirono lontano, ma Simeone disse loro: non fuggite, fratelli, esso è arrivato qua con una supplica. La sua femmina è molto ammalata ed è andata nella sezione delle donne. Poi disse al serpente: « prendi dalla terra un po’ di fango e portalo a tua moglie, applicaglielo e soffia su di esso. Questo fango la guarirà.»

Dopo aver raccolto un po’ di fango, il serpente tornò dalla compagna. I pellegrini lo seguirono per vedere cosa avrebbe fatto e videro oltre il recinto il serpente femmina con una grossa escrescenza. Il serpente maschio le applicò il fango e dopo averci soffiato sopra la guarì alla presenza di tutti. Poi andò via con lei. Assistendo a questo mistero la folla rese grazie a Dio.

Faccio le foto poi torno a piedi al villaggio, alla via sacra che si perde tra le pietre rovesciate, e ancora immagino le processioni di Arabi, Germani, Galli, Bretoni, cittadini della decadente Roma imperiale e Iberici, che con i ceri in mano cantavano preghiere e speravano miracoli.

Una moltitudine di uomini diversi uniti da una fede.

Per alcuni secoli.

Un giorno.

Una monade di eternità.

In un piazzale desolato, confinante con i monumenti, alcuni uomini fabbricano mattoni di fango e paglia. Come i loro antenati.

Sono le dodici, l’ora della seconda preghiera. Il muezzin intona il Takbir: la lode a Dio. 

Dio é il più grande. Dio è Uno. 

Nei campi circostanti, lavorano delle donne. Le loro schiene sono curve sul terreno. I loro vestiti a colori vivaci screziano le zolle ferrigne scivolate dai fianchi nudi della collina. Quelle liete macchie di colore mi riempiono di mestizia. Le incolpo di mistificare la fatica contadina. La fanno bella e dolce come un quadro di Corot.

L’intensa bellezza del dolore! Penso arrabbiata. E ingiusta.

Non è la bellezza una meravigliosa riposante consolazione?

Anche nelle case più povere, nelle baracche, nelle tende dei nomadi ho sempre trovato un qualche adorno, e anche nelle donne più stanche un qualche commovente segno di civetteria.

Poco lontano, oltre una valle, si staglia il cono solitario del Jebel Sheikh Barakat, il monte Korifeo, sulla cui sommità si offrivano sacrifici a Giove. E al Sole. 

O Signore, o luce della terra

Solamente tu sei risplendente.

È un giorno di festa. Il pulmino per il vicino centro di Deiret Azzeh ritarda.

Il sole sta ormai diventando alto e troppo caldo.

Non ho voglia di aspettare. Decido di fare l’autostop.

Mi danno un passaggio alcuni uomini provenienti dalla valle di Afrin su un autocarro carico di cipolle che stanno trasportando ad Aleppo. Il loro sguardo è riservato – rispettoso - incuriosito. Dall’alto della cabina, ci viene incontro la valle di Qatura, dove si conserva un insediamento di legionari e coloni romani con i loro culti agrari scolpiti nella pietra e la necropoli e il mausoleo di Emilio Regino ,un soldato ventunenne morto duemila anni fa. 

Giù in basso a Ovest verso il Mediterraneo, la valle di Antiochia che attraversarono gli eserciti assiri, Alessandro il Grande, Dario, Zenobia di Palmira, Aureliano, Giuliano l’Apostata..., è coperta da una leggera bruma. A Nord, la valle del fiume Afrin e le grotte dove uomini di Neanderthal ricevettero una sepoltura rituale. Più lontano, si leva la catena dell’Amanus che Plinio chiamò Montagne d’argento.


A Deiret Azzeh ci separiamo, ma essi continuano a salutarmi sventolando le mani dall’alto dell’autocarro. Rispondo al loro saluto finché scompaiono all’orizzonte.

Noleggiata un’auto, scendo verso la valle dell’Oronte fino a Derkush, villaggio situato su una striscia di terra lambita dal fiume che qui scorre dentro la stretta gola tra il Jebel Wastani e il Jebel el-Qussayr, che Strabone chiamò Cariddi. Rovine del ponte romano e del porto fluviale da cui partivano i blocchi di calcare e i prodotti agricoli per la vicina città di Antiochia. Un sacrarium con centinaia di nicchie, tracce di un tempio forse risalente al regno di Antonino Pio e dedicato a Zeus Betylos; grotte votive, si pensa per il culto popolare della divinità delle acque, Atargatis - la Dea Syria e Tifone - il fiume Oronte divinizzato. Sopra l’ingresso ad arco di un sepolcro ipogeo sono incise le parole di un racconto di pietà:

L’anno quattrocento (di Antiochia, 352 d. C.)

il giorno ventisette del mese di Panemos

Eutikes Marone capo battelliere

alla dolcissima Domitilla madre mia:

Coraggio mamma, nessuno è immortale.

 

Precarietà di foglie al vento e amore sconfinato.

Passioni che incessantemente attraversano il tempo e gli spazi.

Che sempre confondono, travagliano o esaltano.

Uguali per tutti e non vogliamo accorgercene.

Nello specchio del fiume si riflettono giardini di melograni.


Queste sono alcune pagine del mio diario scritte a metà degli anni ‘90 del secolo scorso, molto prima che la guerra devastasse quel prezioso Paese che era la Siria. Quando in Siria era dolce vivere. Ora, il santuario di S.Simeone e la maggior parte degli altri luoghi descritti sono occupati, devastati e saccheggiati dai terroristi o dagli occupanti turchi.  Domenica prossima sarà pubblicato un mio articolo dedicato al monastero di S. Simeone stilita.

Le foto pubblicate in questo articolo sono dell'autore, M.A.Carta