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sabato 6 gennaio 2018

Magari per sbaglio, ma i castelli della propaganda finalmente si sfaldano...


di Fulvio Scaglione

In forma dubitativa, con ampio uso di condizionali e tra mille distinguo. Però adesso anche uno dei più diffusi quotidiani italiani si è accorto che il famoso Osservatorio siriano per i diritti umani, installato nel Regno Unito, non è la bocca della verità. Che è “gestito da una sola persona”, la quale non ha mai dato conto di quali siano in realtà le sue fonti.
Questa persona si chiama Rami Abdulrahman, risiede a Coventry da molti anni e quando ancora viveva in Siria era un noto oppositore di Bashar al-Assad. La cosa in sé va benone, siamo o no per la libertà di opinione e di parola? Ma va un po’ meno bene quando ti atteggi a informatore libero e imparziale. Lo stesso articolo non cita mai Abdulrahman ma aggiunge che l’Osservatorio “sarebbe finanziato da… agenzie occidentali, britanniche in particolare”, e in realtà è finanziato dal governo inglese. Che non ha mai raccontato la verità sui misfatti delle bande armate comunque definite “ribelli”, anche quando erano i tagliagole dell’Isis o di Al Nusra (ex Al Qaeda). E che le più accreditate agenzie internazionali, per esempio il Comitato internazionale della Croce Rossa, non hanno mai potuto confermare le affermazioni del suddetto Comitato contro l’esercito regolare siriano, accusato di affamare le popolazioni di molte città durante le operazioni militari.

Alla buon’ora. Ci sono voluti anni, e migliaia di articoli in cui invece l’Osservatorio era presentato come una fonte “terza” e affidabile, ma alla fine si fa strada la verità. Per i non moltissimi che, come noi, la ripetevano in tempi non sospetti, è comunque una soddisfazione.
Sarebbe una soddisfazione da poco, però, se restasse confinata in un bambinesco “io l’avevo detto”. Questo non conta niente. Conta molto, invece, il fatto che la gran parte dei media abbia raccontato l’atroce guerra civile siriana con un preconcetto che non poteva non distorcere la realtà. Poiché il cattivo era Assad, tutto ciò che andava contro Assad era buono. E se non era buono, comunque serviva alla causa. E quando la realtà smentiva la teoria, i suddetti media facevano come i leninisti e gli stalinisti di una volta e dicevano: è la realtà che sbaglia. È ciò che pensavano i politici americani, sauditi, turchi, inglesi, francesi. Ma appunto i politici. La stampa dovrebbe essere il loro cane da guardia, non la loro ancella.
Così l’Esercito libero siriano, diventato ininfluente dopo pochi mesi di conflitto, è stato raccontato come un protagonista. L’interventismo della Turchia e delle petromonarchie del Golfo Persico, grandi finanziatrici di Isis, Al Nusra e Fratelli Musulmani, mai sottolineata, e amplificata invece quella di Iran ed Hezbollah. Ogni civile morto era ucciso dai russi. Quando saltavano fuori le fosse comuni piene di persone assassinate dall’Isis e dagli altri gruppi “ribelli”, un riquadrino a pagina 38. La montagna di balle e distorsioni pian piano ha preso dimensioni tali da non poter più essere smantellata senza esserne travolti.


Lo si può fare adesso, come vediamo, perché l’Isis è stato sconfitto e la Siria sta uscendo dalle prime pagine. Il meccanismo, però, ha girato fino all’ultimo. Chi non ricorda le articolesse grondanti sdegno per la carneficina di Aleppo? I cannoni falciavano senza sosta i civili, l’ultimo pediatra-l’ultimo pompiere-l’ultimo blogger cadevano sotto i colpi, i bambini morivano come mosche, e tutto per colpa dei russi e degli assadiani. Pochissime parole erano state spese, negli anni precedenti, per compiangere gli aleppini bombardati giorno e notte dai “ribelli”, privati di acqua ed energia elettrica, chiusi nella parte occidentale della città e decimati giorno dopo giorno, ma pazienza. I nostri e i loro, serie A e serie B.
Poi è arrivata, in Iraq, la campagna per la liberazione di Mosul, occupata nel 2014 dall’Isis. La lunga battaglia (da ottobre 2016 e luglio 2017) è stata raccontata come una missione di gloria, tutta bella pulitina, una bomba intelligente qua, una incursione chirurgica là. Questa, sì, una cosa ben fatta.
Purtroppo sono, anche qui, arrivate le notizie vere. Gli alti comandi militari Usa parlavano di mille civili morti, e invece secondo le ricerche dell’Associated Press sono almeno 11mila. E il presidente della Commissione d’inchiesta istituita dal Parlamento iracheno, Kakim al-Zamely, ha raccontato di 23 mila militari caduti in battaglia, con oltre 70 mila feriti. In questo caso, però, nessun ultimo pediatra, nessun Elmetto Bianco da candidare al Nobel per la Pace, pochissimo sdegno e via andare.

Ma il crimine più grave di questo modo di fare (dis)informazione è un altro. Sta nel fatto che è stata tolta dignità a una larga parte della popolazione siriana. Il punto non è e non è mai stato decidere se il presidente siriano è un benefattore dell’umanità o un aguzzino. Dibatterne non è lecito ma doveroso.   Quello che non si doveva fare, ed è invece stato fatto, era decidere che chi non era dalla parte dei “ribelli” era un collaborazionista, un complice, un uomo o una donna in malafede, quasi di sicuro un corrotto, forse un potenziale assassino. Milioni di uomini e donne, dai vertici delle Chiese cristiane agli operai delle fabbriche distrutte, sono stati trasformati in mostri perché non la pensavano come opinion makers e giornalisti che nella maggior parte dei casi non sapevano nulla della Siria e men che meno si sognavano di metterci piede. Quel che quei milioni di siriani sentivano, ciò che loro a torto o a ragione pensavano, era senza valore. Loro stessi erano senza valore.
Anche chi non professava perfetta fede nelle veline dell’Osservatorio di Coventry era un “amico di Assad”. Curioso ma significativo: chi ci sputava addosso queste accuse non si faceva mai il problema di essere, per il suo stesso modo di ragionare, un amico dell’Isis.

venerdì 21 luglio 2017

Libano: offensiva contro i terroristi, dramma dei profughi siriani

 AsiaNews – 20 luglio 2017
 Un territorio di 350 chilometri quadrati, dei quali 250 in Libano e 100 in Siria è il nuovo teatro dello lotta per lo sradicamento del terrorismo islamico di Al Nusra in Medio-Oriente. Per l’esercito libanese è “finalmente giunta l’ora di chiudere il fascicolo dei disordini a Jerud Arsal” nell’estrema Bekaa, nel nord-est del Libano al confine con la Siria.
L’avanzata dei terroristi islamici che intendevano creare una continuità  territoriale di Daesh e Al Nusra da Aleppo, Idleb lungo il nord del Libano fino ad arrivare a Tripoli sul Mediterraneo è fallita, grazie alla resistenza della popolazione, dell’esercito libanese e di Hezbollah. Alcune forze finanziate da Paesi esteri hanno sempre voluto presentare l’invasione di Daesh e Al Nusra con Hezbollah come una guerra interconfessionale. Ma i crimini commessi dai terroristi islamici, fra l’altro lo sgozzamento e il rapimento di soldati di varie confessioni religiose ha subito svelato il loro vero volto.
Ieri l’esercito libanese ha fatto ingresso nei campi profughi siriani con l’intenzione di salvare i civili dagli scontri attesi per i prossimi giorni. La vicenda ha dato luogo a una campagna diffamatoria contro i siriani in generale con forti connotazioni razziali e la chiara intensione di far scoppiare scontri fra libanesi e siriani presenti nel Paese dei cedri (ormai quasi 2 milioni di profughi siriani in Libano su una popolazione di 3 milioni e mezzo di libanesi).
Per disinnescare la mina il presidente della Repubblica Michel Aoun è intervenuto ieri pubblicamente per definire “inaccettabile” la demonizzazione dei siriani come tali, fermando il crescendo delle dichiarazioni anti-siriane e ripuntando la bussola sul vero problema, ossia sulla presenza dei fondamentalisti islamici che da anni trafficano attraverso il confine con la Siria, tentando allo stesso tempo di invadere il nord del Libano e creare un principato di Daesh nella seconda citta libanese, Tripoli e accerchiando cosi la regione alauita con capoluogo Latakia.
http://www.asianews.it/notizie-it/Ore-contate-per-Al-Nusra-di-Arsal-e-Kalamun:-%E2%80%9CArrendersi-o-morire%E2%80%9D-41339.html

Libano, il dramma dei profughi siriani


Terrasanta. net  20 luglio 2017
di Fulvio Scaglione
Con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria, il Paese dei cedri non ce la fa più. Il peso dei profughi crea una miscela esplosiva. Lo dicono le cronache degli ultimi giorni.
Era evidente che la situazione del Libano fosse potenzialmente esplosiva. Un Paese con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria poteva tirare avanti solo grazie a uno di quei prodigi che ne costellano la storia, dai tempi dei fenici ai giorni nostri. Da anni si tirava avanti a prezzo di due sacrifici complementari: quello della popolazione locale, che aveva comunque accolto i nuovi arrivati; e quello dei rifugiati stessi che, nella speranza di un rapido ritorno a casa, si erano adattati a vivere nei campi sapendosi ben poco amati.   
Adesso il prodigio pare proprio esaurito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è la morte di quattro siriani, tutti uomini, arrestati dall’esercito libanese durante un raid nei campi profughi dell’area di Arsal, una cittadina nei pressi del confine con la Siria che nel 2014 era stata occupata per pochi giorni dai miliziani dell’Isis. I militari andavano a caccia di terroristi, sono stati accolti da un lancio di granate e da alcuni kamikaze che, secondo le fonti non ufficiali hanno lasciato sul terreno dodici morti. A quel punto quattro giovani sono stati arrestati e sono rispuntati solo qualche giorno dopo: morti. Secondo i portavoce dell’esercito, per causa naturali. Secondo le organizzazioni umanitarie, corroborate da impressionanti fotografie diffuse da alcune testate, perché picchiati e torturati.   L’episodio, già atroce in sé, ha fatto saltare il coperchio a una situazione più che precaria. Su Facebook alcuni attivisti dei campi hanno creato una pagina per promuovere una manifestazione di protesta a Beirut. Subito dopo, una manifestazione uguale e contraria è stata convocata, a sostegno dell’esercito, da cittadini libanesi. La prospettiva di uno scontro di piazza era diventata concreta, così il governo ha proibito ogni manifestazione.   
 È ovvio, però, che si tratta di un cerotto. Dal punto di vista dei libanesi, la presenza dei profughi siriani è un dramma. Dall’inizio della guerra civile siriana il loro Paese ha subito decine di irruzioni e attentati da parte dello Stato islamico e di formazioni analoghe che, con ogni evidenza, hanno nei campi profughi informatori e complici. La Banca Mondiale, inoltre, ha calcolato che oltre 200 mila libanesi sono stati spinti nella povertà a causa dell’arrivo dei siriani che, per necessità, accettano anche lavori sottopagati. Sui libanesi, inoltre, agisce anche il ricordo dell’arrivo dei palestinesi. Accoglierli doveva essere una misura temporanea, invece oltre 500 mila di loro sono ancora in Libano. E proprio la presenza dei palestinesi, e le divisioni intorno alla loro causa, fu una delle scintille che accesero la lunga (1975-1990) e terribile guerra civile che quasi distrusse il Paese.    Anche per i siriani, ovviamente, dover vivere sotto le tende in Libano, mal sopportati e duramente controllati, è drammatico. E lo dimostra il fatto che dopo il raid dell’esercito libanese ad Arsal, quasi 500 di loro hanno riattraversato il confine e sono tornati in Siria, preferendo la patria in guerra a un’accoglienza che sa di prigionia. Sempre più si capisce, comunque, che anche i profughi possono essere usati come un’arma. E la destabilizzazione del Libano, da sempre, è un obiettivo che fa gola a molti.

mercoledì 11 gennaio 2017

“This is the Way We Lived Under the rule of Isis”


 By FULVIO SCAGLIONE

Aleppo, Jan. 9.  First he shelled out 400 dollars to a people smuggler who knows the trails in the desert. Two others were with him. Then, during the night, when the little group arrived near the areas under the control of the Kurds, in the North of Syria, it was fired on because the peshmerga feared they might be terrorists approaching with explosives in their belts. One of his companions was wounded in the leg, so they had to turn back, reach a village, and pay another smuggler to find them shelter for the night, and then cross the line. This is how Riad, 32, a degree in Turkish Literature, managed to leave Mayadin, one of the Syrian towns on the border with Iraq which are still under the domination of Isis, He had been trapped there since Isis had taken over the area in 2014.

Mayadin is along the road that goes straight to Deir Ezzor (which has been under seige by Isis since two years ago) and to Raqqa, Al Baghdadi’s capitol city. Riad can therefore supply a first-hand account of what goes on in the heart of the Caliphate, where he has left behind his mother, two elder brothers, and a bevy of cousins.I couldn’t stand it anymore”, says Riad. With those guys anything can happen to you at any time of the day. I’ve always tried to be  prudent but nonetheless I had to submit to two periods of a month each in the re-education camps.
They start out by indoctrinating you for days on end. Their favorite subjects were: why Egypt, Syria, Italy, the US and many many other countries are full of infidels; why it is lawful to burn certain people alive, such as the Jordanian pilot or the two Turkish pilots; why it is right to cut other people’s throats; why it is a duty to prevent people from leaving the places where Muslims live in order to get to those inhabited by infidels. We were fed constant quotations from  Ibn Taimiya (a jurisconsult of Medieval Islam, rediscovered by Wahhabis and the Salafis  and known for having issued a fatwa which allows jihad against other Muslims), the same things got repeated over and over for hours”.

In other words, religion lessons…
No. The real purpose gets revealed later. In these camps there were about three or four hundred men, who were then transferred to Deir Ezzor and forced to dig trenches and tunnels in the airport, which is partly occupied by Isis. In other words, it was forced labor for the jihad. When they finished with one group they brought in another one. There was no way of rebelling, a mere trifle could get you killed”.


So how come you ended up in this camp?
I was detained because my jellaba (the traditional islamic tunic) was too short at the ankles. Clearly an excuse”.


Is it really so dangerous to live under the Isis militia?
Of course it is. Between what has happened to friends and acquaintances of mine and what I have been told by others, I have dozens of stories that make one’s hair stand on end. For example, I know about a boy who had decided to enlist with the Islamic State. His father did everything in his power to stop him, he insulted him, they quarreled. So the boy denounced his father, who was promptly executed, in public. A friend of mine instead quarreled with a Saudi militiaman. They came to get him, they tortured him, they killed him and then they exhibited his body in the public square. They put a sign on the body that read: “He insulted a fighter for islam”. And so on and so forth.


Doesn’t sound like enlisting is a good idea.
Actually, it depends. If it’s a Syrian who is enlisting, his salary will be 100 dollars a month. But those who come from abroad, Tunisians, Turks, Saudis and Europeans, get much more, not less than 500 dollars. In any case, it’s a lot of money for the standard of living of those places. And there’s also a  big difference in how they treat you. Syrians and Iraqis run a lot more risks, because they are almost always sent to the front lines, to fight. In the positions of command and in the administration are almost always taken by foreigners, who are therefore a lot less at risk. It’s a system that allows them not to lose control of the situation, in order not to be betrayed”.


And who keeps tabs on you, ordinary people?
There are two police forces. The first one is called “Security”, which deals with mores:  misdemeanors such as wearing jeans, wearing your beard too short. As I said, they are principally to rake up men to oblige to work for free. The Security is constantly  checking on people even in the two internet points in town. If they catch you looking at any anti-Isis websites or pornographic websites, there’s the death penalty. If you have songs downloaded in your cell phone you get  40 lashes. If a woman’s eyes are excessively uncovered, she is fined 2 grams of gold. Then there is the actual police, which is supposed to deal with criminals and which doesn’t count at all”.
But does the town work? Trade, manufacturing …

Our area, like that of Deir Ezzor, lives on oil. And Isis does too, as it  traded it with Turkey”.
Traded? Why do you speak in the past?
Yes because first the Turks left the border between the cities of Tall Abyad and Jarablus (in Syria) which was where all the trading went on: oil in exchange for money, arms, ammunition.  But since Russia and Turkey have came to an agreement, that border has been sealed and therefore it is much more difficult to trade in oil.  In the last few years Isis has continued to extract oil but with more and more rudimental means. Pollution, which was already heavy, has increased greatly. I’m convinced that it is for this reason that there are so many more cases of cancer: from 40 cases a month in 2014 to 180 a month today. I know because I work part time in a lab and the sick now almost all end up at the hospital in Mayadin which, among the ones still under Isis, is the most efficient”.


Well, if the oil bonanza is over, where does Isis get its money?
Well, in the last two years they managed to accumulate a lot. For example, they gave the grave robbers leave to dig wherever they liked, and accordingly they have looted the archeological sites. The deal is: you get a third of the value, two thirds go to Isis. If you try and go it alone, you get the death penalty. And then, of course, there is also some trading because the merchants are allowed to come and go from Syria to procure their goods. This way Isis  makes a profit twice: with the kickbacks and with taxes. In this case too I know what I’m talking about because one of my brothers has a shop and it is he who ultimately supports the whole family.  

What about your other brother?
He used to be a journalist but now he’s a taxi-driver on a motorbike”.


In your opinion, how has Isis managed to resist for so long?
Because it gets help”. 


From whom?
All of us, there, are convinced that it’s the Americans. Almost every day we hear helicopters flying over our heads and then we see loads of supplies coming into town. So who can it be, in that region, who can fly about freely, if not the Americans? 


Well, what do you think: will Isis eventually be defeated?
Yes. I hope by the end of this year”.

(traduzione in inglese di Alessandra Nucci )
http://www.occhidellaguerra.it/cosi-si-viveva-lisis/

lunedì 9 gennaio 2017

"Here is How We Lived in East Aleppo” 


By Fulvio Scaglione

Aleppo, January 8th 2017. He lets us film him, but Mahmud Fahrad is not his real name. He’s afraid of retaliation in this devastated city of Aleppo, where few people think that all of the jihadis have really left for good, on the coaches supplied by Assad to get to Idlib. Because this bricklayer who lost his job years ago and has had to make ends meet with a wife and four children, wants to let people know what life was like in East Aleppo, under the rule of the rebels and jihadis.

“We were trapped there since March 2012, when it all began,” says Mahmud, “And they were four years of horror. For example, they starved us. In these years I never ate either meat or fruit, it was almost always lentil beans and burghul (split wheat). Even bread was scarce. And all the while, they had plenty of everything and ate all they wanted. Their deposits were full and they mocked us: when there was a holiday, they would slaughter sheep and cows and sell off the scrap pieces, such as the shins or the entrails, at 10,000 Syrian liras a chilo, i.e. the price of the choicest meat.

And what about the hospitals? They say that the army bombs killed a lot of people….

“Bombed hospitals? Maybe. All I know is that they were off-limits to us normal Alepins. They were reserved to them and to their families. When one of us got hurt or had some health problem, they would shut the door on us even if we died. I never saw anyone, in the entire four years, being admitted to a hospital”.

Who exactly are these “they” that you are talking about?

“There were loads of foreigners, almost from everywhere in the world. Especially after the army started to get closer. We could recognize them, as they went around the streets on in the marketplaces, Because they needed someone to help them with the language. So we heard them say that so and so was French, this other one was American, another Turkish…. There were also many Saudis, Egyptians, some Japanese. But at the end of the day, they all resembled each other.”

What do you mean?

“Look, these people here don’t pray to Allah. The God they pray to is the Dollar. The various groups had divided that part of town among them and first and foremost they tried to get as much money as possible out of it, at the expense of the defenseless people. Every so often they would kill each other on account of money. Say one of the heads got too daring, and went beyond his allotted area: a bomb under his car would take care of everything. Politics…. Maybe. But these people had three main passions. The first one, like I said, was money….”

And the second one?

“Sex. They went crazy, also because they felt omnipotent. Any one of these guys could do you in with impunity, no one would have lifted a finger to save you. There were two ways they used to try to get women. They tried to buy them, by taking advantage of the people’s poverty. There were families who gave a daughter away for 100 dollars, or even for just a few bags of rice and lentils. Or else they took them away by threatening them with violence. For example by threatening to kill their parents. Today Aleppo is full of so-called “widows”. Women who were forced to marry a militiaman who died or ran away, women whom nobody wants now, not even their original families”.

And the third passion …

“Shooting, killing. Before starting out for a raid they took some pills that were rumored to come from Turkey. I don’t know what they were, but after swallowing them their eyes opened wide and they became frenetical. Among them there was a great deal of trading going on in hashish and other drugs”.

And what about prayer? Islam?

“They forced us to go to the mosque but that stuff had little to do with our religion. There were Pakistani and Egyptian preachers and the only subject they ever broached in their sermons was war, jihad, the duty to fight the apostates. In sum, all they ever talked about was killing people”.

(traduzione in inglese di Alessandra Nucci )

sabato 2 luglio 2016

Da Istanbul a Dacca: il sospetto di una regia


di Fulvio Scaglione

venerdì 10 giugno 2016

Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis

Terrorismo wahabita, guerre, flussi finanziari, colossali compravendite di armi: in un libro di Fulvio Scaglione storia, dati e numeri su ciò che per ragioni di business le democrazie occidentali fingono di non vedere




VaticanInsider , 10 giugno 2016
di Andrea Tornielli

«La conclusione, inevitabile, è una sola: sappiamo, ma facciamo finta di non sapere. Continuiamo a parlare di lotta al terrorismo islamico, ai jihadisti, ma non interveniamo abbastanza sul denaro, cioè sul motore che tiene in vita e promuove quello stesso terrorismo. Ci teniamo stretti come amici proprio coloro che sostengono chi anima quella che molti di noi considerano addirittura una minaccia alla sopravvivenza della nostra civiltà. E li armiamo, li rendiamo sempre più potenti e, all’occorrenza, devastanti». È l’amara ma realistica conclusione a cui arriva il giornalista Fulvio Scaglione, inviato di guerra e conoscitore del Medio Oriente, nel suo ultimo libro: «Il patto con il diavolo» (BUR, pp. 208, 15 euro), un saggio a metà tra storia e cronaca che spiega «come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis». Leggendo il saggio di Scaglione si comprende ancora meglio perché Papa Francesco, quando parla o viene interpellato sul terrorismo e sulla guerra, non ometta di citare spesso i trafficanti di armi, i flussi finanziari e una certa ipocrisia da parte di alcuni leader.  

Soldi e armi al fondamentalismo wahabita  
L’autore fa notare ciò che è - o dovrebbe - essere sotto gli occhi di tutti: l’attuale terrorismo, quello dell’Isis e di Al Qaeda, ha origini nel fondamentalismo wahabita che ha ricevuto e riceve sovvenzioni e armi da finanziatori che abitano nei paesi considerati i migliori alleati dell’Occidente. Nel libro molto spazio è dedicato al ruolo dell’Arabia Saudita che storicamente ha sempre tenuto sotto controllo e stroncato certi movimenti fondamentalisti in casa propria, ma li ha foraggiati per destabilizzare altri Paesi islamici, com’è stato fatto ad esempio con la Siria di Assad. «Per decenni l’Arabia Saudita ha giocato su questo schema - scrive Scaglione - e per decenni i suoi alleati occidentali hanno accettato di sottoscrivere un patto con il diavolo di cui ignoravano le implicazioni, o convinti di trarne comunque un guadagno. Senza notare, o facendo finta di non vedere, quanto i due piani fossero intrecciati, perché proprio la spinta alla diffusione mondiale del radicalismo aggressivo insito nella variante wahabita dell’islam garantisce alla monarchia saudita la legittimità e il consenso necessari a conservare il trono e le ricchezze». 

Davvero «moderati»?  
I danni che questo atteggiamento ha procurato ai Paesi occidentali sono enormi. È curioso, sottolinea l’autore del libro, che i più restii ad ammetterlo siano proprio coloro che più agitano la bandiera dello scontro di civiltà e dipingono a tinte sempre più fosche l’ipotetico futuro di un’Europa assediata da orde di potenziali terroristi. Non pare incredibile che questi stessi personaggi ci abbiano tanto a lungo raccontato la favola dei sauditi e delle altre monarchie del Golfo come “arabi moderati”?». Scaglione fa notare come non sia un caso che proprio Bruxelles sia stato il luogo di «allevamento» dei terroristi che hanno recentemente colpito la Francia e il Belgio, ricordando che proprio lì dal 1969 si è insediato il primo importante centro di propaganda wahabita d’Europa. Pur essendo patria di non più del 2 per cento dei musulmani del mondo, l’Arabia Saudita esercita «un’influenza importante o decisiva su quasi il 90 per cento delle istituzioni islamiche mondiali, soprattutto nelle scuole». 
Ricorda pure che i terroristi qaedisti degli attacchi dell’11 settembre 2001 erano in maggioranza di nazionalità saudita e ricevevano denaro in gran quantità da persone residenti a Dubai. La «guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush dopo gli attacchi agli Stati Uniti non ha cambiato nulla nei meccanismi di finanziamento del jihadismo, ed è per questo, sostiene Scaglione, che il terrorismo oggi riesce a colpire con maggiore frequenza e crudeltà. 

Il business delle democrazie europee  
Anche se l’Arabia Saudita non è stato e non è l’unico Paese che alimenta l’estremismo e il jihadismo, nessuno «ha potuto mettere in campo una potenza finanziaria, diventata poi potenza di fuoco, paragonabile a quella dei sauditi». Secondo una proiezione inglese «magari aleatoria ma comunque indicativa», nei 74 anni della sua storia l’Unione Sovietica avrebbe speso quasi cinque miliardi di sterline per fare propaganda al comunismo fuori dai propri confini; l’Arabia Saudita, diventata prospera grazie allo sfruttamento del petrolio a partire dalla fine degli anni Trenta, per diffondere il wahabismo ne avrebbe già investiti quasi novanta». Forse il motivo per cui molti in Occidente fingono di non vedere è il business. L’Arabia Saudita è, ad esempio, il primo partner commerciale del Medio Oriente per la Gran Bretagna, con 200 joint ventures che producono un giro d’affari di circa 18 miliardi di sterline l’anno. Le forze armate saudite sono il miglior cliente dell’industria britannica degli armamenti, con ordini per 4 miliardi di sterline tra il 2010 e il 2015. Per la Francia sta accadendo qualcosa di simile, dopo la firma di contratti per 10 miliardi di euro siglati da duecento industriali francesi guidati a Ryad nell’ottobre scorso dal primo ministro Manuel Valls. L’Italia ha raggiunto nel 2014 un interscambio commerciale di 9 miliardi di euro, e punta a incrementarlo. 

Il caso Stati Uniti  
L’Arabia Saudita, ricorda Scaglione, ha un volto moderno, da Paese sviluppato, perché nella seconda metà del Ventesimo secolo gli americani gliel’hanno costruito pezzo per pezzo. Fino all’anno 2000 anche i ministeri e le principali agenzie governative saudite si servivano di personale americano i cui contratti erano firmati dal Dipartimento del Tesoro Usa. Nel 2010 Barack Obama ha autorizzato la più imponente vendita di armi nella storia degli Stati Uniti, proprio a favore dell’Arabia Saudita: 60 miliardi di dollari in aerei, elicotteri, missili terra-aria e terra-terra, mitragliatrici, radar. Con quella sola firma il Nobel per la Pace che si prepara a concludere il suo secondo mandato alla Casa Bianca aveva quasi eguagliato 56 anni di commercio di armamenti tra i due Paesi, dato che nel periodo 1950-2006 gli Usa hanno fornito ai sauditi armamenti per 62,7 miliardi di dollari. Lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) che monitora il commercio di armi nel mondo, informa che nel periodo 2011-2015 i quattro maggiori importatori di armi sono stati nell’ordine: India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti. «L’India e la Cina - commenta Scaglione - contano insieme 2 miliardi e 620 milioni di abitanti. L’Arabia Saudita e gli Emirati ne contano insieme 36 milioni. Eppure competono, quanto ad acquisto di armi, con questi colossi asiatici». Possiamo davvero stupirci, si domanda l’autore del libro, se poi il Medio Oriente è in fiamme? «E davvero crediamo - continua - che tutte quelle armi siano acquistate a mero scopo di difesa? Siamo davvero convinti che mitragliatrici, cannoni e pallottole stiano chiusi nei magazzini sauditi e degli Emirati a prendere polvere... oppure avremo l’audacia di immaginare che un po’ di quella roba se ne vada in giro ad alimentare la violenza in questo o quel gruppo jihadista?». 

Le verità della candidata Hillary  
Fulvio Scaglione domanda poi quali cambiamenti possiamo attenderci nel prossimo futuro da Hillary Clinton, la prima candidata donna alla Casa Bianca - al momento favorita - dato che una delle principali fonti di finanziamento della fondazione che fa capo a lei e al marito Bill «risulta essere il denaro in arrivo non solo da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ma da tutti i Paesi e i soggetti in qualche modo beneficiari del commercio internazionale di armi?». Eppure, grazie alla diffusione delle comunicazioni riservate dello scandalo WikiLeaks, sappiamo che proprio Hillary il 30 dicembre 2009, quando era Segretario di Stato (durante il suo mandato approverà vendite di armi per 165 miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto approvato da Bush jr nel suo secondo mandato), in un documento catalogato con il numero 131801 scriveva: «L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per Al-Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas». In quello stesso documento la futura candidata democratica alla Casa Bianca, osservava: «I donatori privati dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi di terrorismo sunnita nel mondo» e che era «una sfida senza fine quella di convincere le autorità saudite ad affrontare il finanziamento dei terroristi che nasce nel loro Paese come una priorità». 

Le parole di Joe Biden  
Le comunicazioni riservate di Hillary non erano affatto considerazioni isolate nell’amministrazione Obama. Nell’ottobre 2012 il vicepresidente Biden, incontrando gli studenti di Harvard, per spiegare la crisi in Siria e la genesi dell’Isis ha detto: «Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti... che cos’hanno fatto? Hanno riversato centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi su chiunque dicesse di voler combattere Assad. Peccato che tutti quei rifornimenti andassero a finire ad Al-Nusra, ad Al-Qaeda e ai jihadisti accorsi a combattere in Siria da ogni parte del mondo». Qualche anno prima, nel 2007, il vice-segretario del Tesoro Stuart Levey, che aveva la delega all’intelligence sui reati finanziari e sul terrorismo, aveva più volte dichiarato anche in Tv: «Se potessi schioccare le dita e tagliare ai terroristi i finanziamenti di uno specifico Paese, sceglierei senz’altro l’Arabia Saudita». 

Quei dubbi del vescovo Hindo  
Nella parte finale del libro, Scaglione dà voce a quegli inascoltati leader delle Chiese cristiane orientali che vivono in Medio Oriente. E ricorda come ha reagito lo scorso marzo monsignor Jacques Behnan Hindo, vescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, a cavallo tra Siria e Turchia, il quale nel marzo scorso, di fronte all’accusa di genocidio rivolta dal Segretario di Stato americano John Kerry, in un’intervista invitava a non puntare ogni riflettore sull’Isis, e così «censurare tutte le complicità e i processi storico politici che hanno portato alla creazione del mostro jihadista, a partire dalla guerra fatta in Afghanistan contro i sovietici attraverso il sostegno ai gruppi armati islamisti. Si vogliono cancellare con un colpo di spugna tutti gli strani fattori che hanno portato all’emersione rapida e repentina di Daesh».