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venerdì 25 luglio 2014

Davanti a così tante atrocità non si può restare passivi


BAGHDAD, 25 luglio

 Dal 28 luglio all’1 agosto una delegazione in rappresentanza della Chiesa cattolica in Francia composta dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, da monsignor Michel Dubost vescovo di Evry-Corbeil-Essonnes e da monsignor Pascal Gollnisch si recherà in Iraq ospiti del patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis Raphaël Sako I, per constatare di persona la drammatica situazione delle minoranze cristiane ed esprimere loro solidarietà e vicinanza. I cristiani di Mosul — si legge in un comunicato della Conferenza episcopale francese a firma del portavoce, monsignor Bernard Podvin — sono «nella loro terra, nella culla del cristianesimo. 

Sono i nostri fratelli maggiori nella fede. Come si può sottometterli al terrore e al ricatto al solo scopo di farli fuggire? “Eccoli spogliati di tutto”, ha detto indignato il Papa. 

I cattolici in Francia non possono rimanere passivi. La comunità internazionale deve preservare con urgenza la pace e la sicurezza di queste popolazioni che le autorità locali non sono in grado di proteggere. Non dimentichiamoci i cristiani dell’Iraq! 
Come ha detto l’arcivescovo di Marsiglia, monsignor Georges Pontier, “loro sono lì da sempre, nei luoghi molto importanti della storia biblica e della cristianità. La loro emigrazione è drammatica. Abbiamo nei loro confronti un dovere di preghiera e solidarietà”».
 La delegazione, che si recherà in Iraq, ha come obiettivo quello di spiegare all’opinione pubblica che la lotta contro l’indifferenza deve essere permanente. Per questo pregherà a fianco delle comunità minacciate. I presuli saranno accompagnati da alcuni giornalisti per far sì che l’opinione pubblica prenda coscienza di quello che sta avvenendo. 
«Preghiamo — prosegue il comunicato — affinché questa delegazione porti un po’ di conforto e luce ai nostri fratelli in Oriente». In Francia, nei prossimi giorni, incoraggiati dai vescovi locali, si svolgeranno in tutte le diocesi incontri di preghiera e giornate di digiuno. Saranno inoltre promosse raccolte di fondi da destinare alle popolazioni irachene. 
Intanto, monsignor Basile Georges Casmoussa, arcivescovo emerito di Mossul dei Siri, nel definire il comportamento dello Stato islamico (Is) una «una persecuzione diretta ed esplicita» ha invocato l’aiuto della comunità internazionale, dell’Onu, degli Stati arabo-musulmani, del Congresso islamico mondiale, «affinché agiscano per evitare una vera minaccia per la civiltà umana e perché assumano le loro responsabilità riguardo alle minoranze religiose ed etniche in Iraq, con riferimento in modo particolare ai cristiani che sono minacciati di sterminio o destinati ad andarsene». 
Secondo il presule questa operazione brutale e violenta dei jihadisti islamici è fonte di inquietudini crescenti, ma stenta a essere condannata e sanzionata dalla comunità internazionale o dai movimenti musulmani moderati.
© Osservatore Romano - 26 luglio 2014

http://www.orientecristiano.it/notizie/medio-oriente/davanti-a-cosi-tante-atrocita-non-si-puo-restare-passivi.html



Patriarca di Baghdad: Il cuore "sanguina" per gli innocenti in lraq, Siria e Gaza. Ed è "triste" per la timidezza del mondo civilizzato

Mar Louis Sako invia un messaggio al card. Barbarin, in occasione della marcia di solidarietà con i cristiani dell'Iraq, che si tiene oggi a Lione. "Non ci dimenticate!".


A Sua Eminenza il card. Philippe Barbarin Arcivescovo di Lione  
Eminenza, caro Padre, 
pensando oggi alla situazione in Iraq, Siria e Gaza-Palestina, il mio cuore sanguina per gli innocenti che muoiono o che sono scacciati dalle loro case; e sono triste per la timidezza del mondo civilizzato verso di noi. 
Caro Padre, il vostro coraggio, la preghiera e la prossimità di coloro che sono attorno a voi in questa marcia di solidarietà, mantiene in noi la fiducia e la forza di sperare. 
Il cristianesimo d'Oriente non deve scomparire. La sua sparizione è un peccato mortale e una grande perdita per la Chiesa e l'umanità intera. Esso deve sopravvivere o meglio vivere in libertà e dignità. 
In questa tormenta, vogliate accettare voi e coloro che sono con voi l'espressione di tutta la mia gratitudine. 
Non ci dimenticate!  
Louis Raphael Sako Patriarca di Babilonia dei Caldei 
Baghdad, 24 luglio 2014

http://www.asianews.it/notizie-it/Patriarca-di-Baghdad:-Il-cuore-sanguina-per-gli-innocenti-in-lraq,-Siria-e-Gaza.-Ed-%C3%A8-triste-per-la-timidezza-del-mondo-civilizzato-31732.html

La voce della ragione sommersa dal fragore delle armi



Traduzione italiana dell’intervento pronunciato il 23 luglio dall’arcivescovo Silvano M. Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni specializzate a Ginevra, durante la 21ª sessione speciale del Consiglio per i Diritti umani dedicata alla situazione dei diritti umani nel territori occupati palestinesi, compresa Gerusalemme est.

Signor Presidente,
mentre continua a crescere il numero di persone uccise, ferite, sradicate dalle proprie case nel conflitto tra Israele e alcuni gruppi palestinesi, particolarmente nella Striscia di Gaza, la voce della ragione sembra venire sommersa dal fragore delle armi.
La violenza non porterà a nulla, né ora né in futuro. Le ingiustizie perpetrate e la violazione dei diritti umani, in special modo il diritto alla vita e a vivere in pace e sicurezza, gettano nuovi semi di odio e risentimento. Si sta consolidando una cultura della violenza, i cui frutti sono la distruzione e la morte. A lungo andare, non potranno esserci vincitori nell’attuale tragedia, soltanto ulteriori sofferenze. La maggior parte delle vittime è costituita da civili che, per la legge umanitaria internazionale, dovrebbero essere protetti. 
Le Nazioni Unite stimano che circa il settanta per cento dei palestinesi uccisi è costituito da civili innocenti. Ciò è intollerabile quanto i missili lanciati indiscriminatamente contro bersagli civili in Israele. Le coscienze sono paralizzate da un clima di prolungata violenza che cerca di imporre una soluzione attraverso l’annientamento dell’altro. 
Demonizzare gli altri, però, non elimina i loro diritti. Al contrario, la via verso il futuro risiede nel riconoscere la nostra umanità comune. 
Durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa, Papa Francesco ha chiesto che si ponga fine alla presente, inaccettabile, situazione del conflitto israelo-palestinese (Discorso di Papa Francesco a Betlemme, 25 maggio 2014). «Per il bene di tutti», ha affermato, «si raddoppino dunque gli sforzi e le iniziative volte a creare le condizioni di una pace stabile, basata sulla giustizia, sul riconoscimento dei diritti di ciascuno e sulla reciproca sicurezza. È giunto il momento per tutti di avere il coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene, il coraggio della pace, che poggia sul riconoscimento da parte di tutti del diritto di due Stati a esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti» (Ibid).
 La legittima aspirazione alla sicurezza, da una parte, e a condizioni di vita decenti, dall’altra, con libero accesso a mezzi di sussistenza quali medicinali, acqua e lavoro, per esempio, riflette un diritto umano fondamentale, senza il quale è molto difficile conservare la pace.
 Il peggioramento della situazione a Gaza ci ricorda di continuo quanto sia necessario arrivare a un cessate il fuoco immediato e dare inizio a negoziati per una pace duratura. «La pace porterà con sé innumerevoli benefici per i popoli di questa regione e per il mondo intero», ha aggiunto Papa Francesco. «Occorre dunque incamminarsi risolutamente verso di essa, anche rinunciando ognuno a qualche cosa».
 Spetta alla comunità internazionale intraprendere con zelo la ricerca della pace e aiutare le parti di questo orribile conflitto a raggiungere un accordo al fine di porre fine alla violenza e di guardare al futuro con reciproca fiducia. 

Signor Presidente, la Delegazione della Santa Sede reitera il suo punto di vista che la violenza non paga mai. La violenza porterà soltanto altre sofferenze, devastazione e morte, e impedirà che la pace divenga realtà. La strategia di violenza può essere contagiosa e diventare incontrollabile. 
Per combattere la violenza e le sue conseguenze dannose dobbiamo evitare di abituarci alle uccisioni. In un momento in cui la brutalità è pratica comune e le violazioni dei diritti umani sono onnipresenti, non dobbiamo diventare indifferenti ma reagire in modo concreto per ridurre il conflitto che riguarda tutti noi. I media dovrebbero riportare in maniera giusta e priva di pregiudizi la tragedia di tutti coloro che soffrono a causa del conflitto, al fine di facilitare lo sviluppo di un dialogo imparziale che riconosca i diritti di tutti, rispetti le giuste preoccupazioni della comunità internazionale e tragga beneficio dalla solidarietà della comunità internazionale nel sostenere uno sforzo serio per ottenere la pace. 
Con un occhio al futuro, il circolo vizioso di ritorsioni e rappresaglie deve cessare. Con la violenza, uomini e donne continueranno a vivere da avversari o da nemici, ma con la pace potranno vivere da fratelli e sorelle (Papa Francesco, Giardini Vaticani, 8 giugno 2014).

© Osservatore Romano - 25 luglio 2014

mercoledì 25 settembre 2013

Per non dimenticare le lacrime di Maalula



Nel piccolo villaggio siriano che custodisce il sepolcro di santa Tecla 

 da: L'Osservatore Romano 25 settembre 2013

di Manuel Nin

 Il 24 settembre nei calendari liturgici delle Chiese cristiane si celebra la festa di santa Tecla, che nel sinassario della Chiesa bizantina viene chiamata "megalomartire" e "isapostola" (pari agli apostoli), a causa del suo tradizionale vincolo con l'apostolo Paolo. La celebrazione di questa grande martire, mi ha riportato nel ricordo e nella preghiera a Maalula, luogo della Siria che ne custodisce il sepolcro, che dal primo secolo fino ai nostri giorni conserva la testimonianza del sangue versato per Cristo.

La celebrazione di santa Tecla mi ha portato anche alla sponda occidentale del Mediterraneo, alla sede "paolina" di Tarragona che venera Tecla in modo speciale. Tra le due rive del Mediterraneo la festa della santa martire diventa una festa oserei dire "pontifex" tra Oriente ed Occidente, dalla Siria a Tarragona. Oriente ed Occidente che hanno camminato insieme lungo i secoli nella devozione ai martiri, adesso nei nostri giorni non possono ignorarsi nella difesa e nella memoria dei cristiani delle terre del vicino oriente.

Maalula è un piccolo e bellissimo villaggio della Siria, arroccato nelle montagne che fanno da frontiera con il Libano; quasi la porta di passaggio o di ingresso tra l'uno e l'altro dei due Paesi fratelli. Infatti il significato siriaco della parola Maalula è "entrata", "ingresso". È un piccolo villaggio con delle casupole che scendono verso la valle, verso il deserto lungo la schiena delle montagne del Qalamoun, la catena dell'Antilibano. Vi risiedono qualche migliaio di persone a maggioranza cristiana, e si trova a una cinquantina di chilometri a nord di Damasco. Questo villaggio incorniciato tra le montagne e il deserto, di una bellezza unica; piccolo alveare di case bianche che fanno un tutt'uno quasi senza soluzione di continuità col giallo delle montagne; questo piccolo borgo che possiede uno dei monasteri più antichi della zona dedicato ai santi martiri Sergio e Bacco, curato dai monaci salvatoriani della Chiesa melchita greco cattolica; questo paesino che custodisce il corpo della santa martire Tecla, la discepola di Paolo; questa piccola comunità che si esprime nella lingua con cui il Signore insegnò ai suoi discepoli a pregare e dire "Abbun…", Padre nostro...

Questo villaggio piccolo, luminoso dal biancore delle mura delle case e dalla fede dei suoi abitanti a stragrande maggioranza cristiani, sia greco cattolici che ortodossi; curato e custodito come un gioiello da coloro che da secoli vi abitano, in questi giorni è riemerso nella cronaca, in prima pagina, per pochi giorni purtroppo come notizia, ma per molti giorni, troppi silenziosamente martellato e trucidato dalle armi impietose di coloro il cui unico linguaggio è la costrizione e la violenza; un linguaggio che non conosce sicuramente quella lingua con cui il Signore insegnò a perdonare e pregare per i persecutori.
Paesino luminoso che nei nostri giorni si è tinto di rosso e di nero. Di rosso col sangue di tanti dei suoi abitanti che l'hanno versato per causa della loro fede in Colui che parlava la loro stessa lingua, in Colui che insegna loro il perdono, la riconciliazione; in Colui che chiama loro e anche noi "beati" quando siamo operatori di pace, quando siamo perseguitati, uccisi a causa del suo nome. Di nero dal fumo delle chiese, delle case e dei monasteri bruciati e distrutti; dal fumo delle armi, e dell'accecamento che impedisce di vedere altro cammino che l'uso della forza e della morte.


Ho visitato quella regione nel luglio 2008, assieme a un gruppetto composto da due sacerdoti e altrettanti seminaristi greco cattolici, libanesi e siriani. Una visita di soltanto due giorni in quella parte della Siria, un viaggio che comprese Damasco, Maalula e Saydnaya, un altro paesino a pochi chilometri dal primo con delle testimonianze cristiane importanti. Fu certamente un pellegrinaggio al luogo della conversione di Paolo, la visita a quella "via diritta" a cui fu mandato Anania alla ricerca di quell'uomo accecato dalla luce del Risorto; il camminare per quelle stradine della vecchia Damasco, quei cunicoli da cui pareva che da un momento all'altro poteva apparire l'apostolo delle Genti in tutta la sua statura, con tutta la forza della sua parola. Potei stare poche ore in quel luogo, ma gustai l'accoglienza fraterna dei sacerdoti del patriarcato greco cattolico di Damasco.

La visita a Maalula e Saydnaia invece fu di un giorno e mezzo; è una regione che conta con una grande quantità di chiese e di monasteri. La tradizione vuole che santa Tecla si sia rifugiata nella zona di Maalula per sfuggire alla persecuzione della sua famiglia dopo essersi convertita al cristianesimo grazie a san Paolo. Per nascondersi ai persecutori, Tecla fuggendo si rifugiò tra le montagne che aprirono come un grembo le sue pareti per farle un passaggio; fessure tra le montagne ancora visibili nei nostri giorni.



Nel monastero di mar Sarkis (san Sergio) fummo accolti dal monaco salvatoriano che in quei giorni si trovava come custode del luogo; già alunno del Pontificio Collegio Greco di Roma, è uno dei principali conoscitori e studiosi delle tradizioni musicali bizantine. L'accoglienza veramente fraterna protrattasi per un paio d'ore attorno a un caffè, ma soprattutto attorno alla storia di quel luogo venerabile raccontata con la passione e l'amore di qualcuno che racconta la storia della propria famiglia, la storia "di casa"; la visita dettagliata del monastero, della bellissima chiesa, con delle icone di uno splendore unico, attorno a quell'antichissimo altare semi circolare 
sicuramente precedente al concilio di Nicea del 325; 


accoglienza veramente fraterna che si concluse con la preghiera del Padre nostro nella lingua del Figlio Unigenito, Verbo di Dio incarnato.
Oggi le notizie che ci arrivano di Maalula sono poche, confuse, frammentarie, ma tutte ci parlano di sofferenza, di distruzione, di morte. Di persone innocenti, uomini, donne, bambini, preda della rabbia cieca. Oggi Maalula è stata saccheggiata nelle sue chiese, monasteri, case; nelle sue sacre icone, rubate e profanate; in quella che è l'icona per eccellenza, l'uomo e la donna di quei luoghi da sempre pacifici, tolleranti, dialoganti, da sempre beati perché operatori di pace.

Quasi duemila anni fa le montagne siriane attorno a Maalula si aprirono per accogliere la grande martire Tecla; quelle stesse montagne, quelle stesse terre continuano ad aprirsi e accogliere oggi le lacrime, il sangue, la testimonianza cristiana dei nostri fratelli che in quei luoghi come Tecla confessano Cristo, confessano il Risorto che continua, ne siamo certi, a farsi vivo nel cammino di Damasco.


Appello del Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia

Servono acqua e viveri per le religiose e i bambini dell’orfanotrofio del monastero di Santa Tecla a Maalula


Assicurare il necessario approvvigionamento di viveri per gli abitanti del monastero di Santa Tecla, vale a dire per le monache e i bambini dell’orfanotrofio, una quarantina di persone in tutto impossibilitate a uscire se non a rischio della loro vita: è quanto chiede il Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente nell’appello lanciato oggi alla Croce Rossa siriana e alla Croce rossa internazionale, nonché a tutte le organizzazioni umanitarie impegnate in territorio siriano. La guerra è arrivata anche nel villaggio di Maalula e i colpi di artiglieria sfiorano il monastero di Santa Tecla. «Le operazioni militari si amplificano nel nostro amato Paese», si legge nel comunicato, ed «è l’essere umano che paga il prezzo di questa tragedia», sopportando la sofferenza, fuggendo dai luoghi di origine, con la fame, con la sete. 





 http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#6 

mercoledì 7 agosto 2013

La Santa Sede all’Onu. Non può esserci soluzione militare in Siria, urge avviare negoziati

Solo la pace ci rende tutti vincitori



Agenzia Fides - 25/7/2013

New York  – Abbandonare gli indugi, escludere ogni opzione militare, avviare immediatamente un negoziato: è quanto ha chiesto per la Siria Mons. Francis A. Chullikatt, Osservatore Permanente della Santa Sede all’Onu, nel corso del dibattito aperto del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente. 
Il Nunzio Apostolico ha deplorato il “persistente rifiuto” delle fazioni belligeranti in Siria a negoziare la fine della guerra civile del paese, che dura ormai da 28 mesi, invitando la comunità internazionale ad agire in fretta per fermare il conflitto.
“Non ci può essere alcuna soluzione militare al conflitto siriano”, ha rimarcato nel suo discorso, pervenuto all’Agenzia Fides.  “Indipendentemente da questo – ha denunciato con chiarezza il Nunzio – le parti in conflitto manifestano la determinazione, con totale impunità, a spargere ancora più sangue, a fornire ancora più armi e a distruggere altre vite”, prima di accettare dei negoziati.

Mons. Chullikatt ha accusato “le influenze esterne e i gruppi estremisti” che intendono continuare una guerra devastante. E il coinvolgimento di attori estranei al paese, ha detto, è visto come “una opportunità per profitti politici o ideologici, piuttosto che come un disastro terribile che sta inghiottendo la Siria”. “La guerra – ha ribadito – non può mai più essere considerata un mezzo per risolvere i conflitti. Eppure la guerra, quando si verifica, si può vincere solo attraverso la pace; e la pace si vince attraverso i negoziati, il dialogo e la riconciliazione” .

Ricordato il grave bilancio della vittime che si avvicina ai 100mila morti, dall’inizio delle ostilità, l’Arcivescovo ha ricordato “la difficile situazione dei rifugiati siriani”, nel paese e in altre nazioni confinanti: circa 6,8 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Esprimendo la sollecitudine della Santa Sede per i cristiani della Siria, che “affrontano sfide per la loro sopravvivenza”, Mons. Chullikatt ha citato l’omicidio di p. Padre Francois Murad, i sequestri di altri cristiani, tra cui vescovi e sacerdoti, e la distruzione di oltre 60 chiese e istituti cristiani.
L’intervento si è concluso invitando tutti a “desistere dall’ostacolare una soluzione negoziata”. 
“La pace in Siria ci rende tutti vincitori”, ha ricordato.

http://www.fides.org/it/news/53240-ASIA_SIRIA_La_Santa_Sede_all_Onu_non_puo_esserci_soluzione_militare_in_Siria_urge_avviare_negoziati#.UfFgZ21H7wo

La libertà religiosa è un dovere e una responsabilità


Traduzione dell’intervento pronunciato il 6 marzo a Ginevra dall’arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e delle Istituzioni Internazionali a Ginevra, alla 22ª Sessione Ordinaria del Consiglio dei Diritti dell’Uomo sulle minoranze religiose.


Signor Presidente,
Nel mondo attuale, a motivo della loro fede o credo, persone appartenenti a minoranze religiose subiscono diversi gradi di abuso, che vanno dalle aggressioni fisiche al rapimento per ottenere un riscatto, dalla detenzione arbitraria e gli ostacoli alla richiesta di registrazione, fino alla stigmatizzazione. La tutela efficace dei diritti umani delle persone appartenenti alle minoranze religiose è assente o viene affrontata in modo inadeguato, perfino dalle Nazioni Unite e nei sistemi internazionali. Di recente, tale preoccupante situazione ha richiamato l’attenzione di alcuni governi e segmenti della società civile. Pertanto, la consapevolezza di questo grave problema si è accentuata. D’altro canto, però, la discriminazione diffusa che colpisce le minoranze religiose persiste e addirittura aumenta.
Il Relatore speciale sulla libertà di religione o di credo ha giustamente incentrato il suo Rapporto sulle numerose violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti di persone appartenenti a minoranze religiose. Talvolta gli Stati sono coinvolti direttamente attraverso l’indifferenza nei confronti di alcuni loro cittadini o per la volontà politica di emarginare, sopprimere o perfino eliminare le comunità che hanno un’identità diversa, a prescindere da quanto tempo sono storicamente radicate nel loro paese. In alcune circostanze, anche gli attori non statali svolgono un ruolo attivo e perfino violento, attaccando le minoranze religiose. L’esauriente descrizione della varietà di violazioni riportate fornisce un quadro realistico dell’oppressione subita oggi dalle minoranze religiose e dovrebbe servire da appello all’azione.
Tuttavia, il Rapporto minimizza il fatto fondamentale che le minoranze vengono definite o dalla prospettiva di una “maggioranza” o da quella di altre “minoranze”. Inoltre, secondo il Rapporto, lo Stato dovrebbe agire con neutralità nel riconoscere i gruppi religiosi. Di fatto, il Rapporto definisce le singole persone titolari del diritto di libertà di religione e considera l’obiettivo della tutela della libertà di religione volto ad «assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo continuo dell’identità culturale, religiosa e sociale delle minoranze coinvolte» (cfr. Comitato per i Diritti dell’Uomo, Commento generale n. 23 [1994] sui diritti delle minoranze [articolo 27], § 9). Esso indica la tutela individuale della libertà di religione come la via per ottenere la protezione delle comunità religiose, processo che non si traduce automaticamente nella loro tutela. Di fatto, lo stesso Rapporto mostra molto bene che la maggior parte delle violazioni della libertà religiosa avviene a livello dei gruppi religiosi.
Mentre lo Stato dovrebbe applicare l’universalità dei diritti umani mantenendo un equilibrio tra libertà e uguaglianza, spesso si identifica con la “comunità dominante” in un modo che, purtroppo, relega le minoranze a uno status di second’ordine, creando così problemi per la libertà religiosa degli individui.
Le libertà e i diritti individuali possono essere conciliati e armonizzati con quelli della comunità che desidera preservare la propria identità e integrità. Non c’è un processo dialettico opposto, ma una necessaria complementarietà. La persona non deve diventare prigioniera della comunità, né la comunità deve diventare vulnerabile solo per l’affermazione della libertà individuale. Il Relatore speciale giustamente osserva che, enfatizzando una comprensione troppo ristretta dell’uguaglianza, potremmo perdere la diversità e la specificità della libertà.
Il riconoscimento legale di una minoranza è il punto di partenza per la necessaria armonia tra la libertà individuale e quella di gruppo. Adottando un tale approccio realistico alla questione, la coesistenza delle comunità viene facilitata in un clima di relativa tolleranza. Tuttavia, prima di poter cercare un tale approccio realistico, occorre garantire alle comunità religiose uno status legale, come esige il diritto umano innato di ogni persona, che precede lo Stato ed è vincolante per esso. Concordiamo dunque pienamente con la raccomandazione del Relatore speciale: «Ciò che lo Stato può e deve fare è creare condizioni favorevoli per le persone appartenenti a minoranze religiose, al fine di assicurare che possano prendere nelle proprie mani le loro questioni collegate alla fede, per preservare e sviluppare ulteriormente la vita e l’identità della loro comunità religiosa» (cfr. A/HRC/22/51. Sintesi). Solo rispettando questo equilibrio è possibile realizzare sia la pacifica coesistenza, sia il progresso di tutti i diritti umani.
Il ruolo dello Stato quale custode e attuatore della libertà di religione, non solo per gli individui, ma anche per le comunità religiose, indica che tale equilibrio è altamente politico. Lo Stato laico spesso non è neutrale nei confronti delle comunità religiose esistenti; nemmeno nelle democrazie occidentali, dove il liberalismo non porta tanto a una società neutrale, quanto a una società priva di una presenza pubblica della religione. Ma lo Stato può preservare un’identità religiosa a condizione che agisca con neutralità e giustizia verso tutti i gruppi religiosi nel suo territorio. Si potrebbe aggiungere che lo Stato deve monitorare le violazioni della libertà di coscienza e che il Relatore, a tale proposito, dovrebbe affrontare il tema dell’obiezione di coscienza quando per una persona diventa impossibile conformarsi alle norme sociali dominanti che sono in contrasto con dettami morali.

Signor Presidente,
Le religioni sono comunità fondate sulla fede o sul credo, e la loro libertà garantisce un contributo di valori morali senza il quale non sarebbe possibile la libertà di tutti. Il riconoscimento della libertà delle altre comunità religiose non riduce le proprie libertà. Al contrario, l’accettazione della libertà di religione di altre persone e gruppi è la pietra d’angolo del dialogo e della collaborazione. La libertà di religione autentica rifiuta la violenza e la coercizione e apre la via alla pace e al vero sviluppo umano attraverso il riconoscimento reciproco. L’esperienza del dialogo interreligioso nelle società occidentali, ormai diventata tradizione, dimostra il valore del mutuo riconoscimento della libertà religiosa.
La libertà di religione è anche un dovere, una responsabilità che si devono assumere sia gli individui sia i gruppi religiosi. Il riconoscimento della libertà religiosa degli individui e dei gruppi sociali implica che essi devono agire secondo gli stessi parametri della libertà di cui godono, e tale condizione giustifica la loro presenza, come attori importanti e autentici, nella pubblica piazza. L’eclissare il ruolo pubblico della religione crea una società ingiusta, poiché non permetterebbe di tener conto della vera natura della persona umana e soffocherebbe la crescita di una pace autentica e duratura per l’intera famiglia umana.

L'OSSERVATORE ROMANO 12 marzo 2013

sabato 13 luglio 2013

« Se non è in nostro potere fermare questa guerra, possiamo però pregare perchè finisca presto».

«Una parte significativa del popolo siriano è composta da nostri fratelli nella fede: nel centro della città di Damasco si trova uno dei più antichi patriarcati ortodossi, quello di Antiochia. E ora, per le strade di questa città, che ricordano l’apostolo Paolo, le opere e gli scritti degli antichi santi, viene versato sangue umano. Su questa terra biblica in cui fianco a fianco sono vissuti in pace cristiani e musulmani oggi vengono profanate le reliquie, i templi sono distrutti e i cristiani cacciati dalle loro case, perseguitati, e molto spesso torturati e uccisi. A causa della distruzione di edifici e infrastrutture, per la mancanza di cibo e medicine, molte persone sono state private del proprio tetto. Qualcuno si è rifugiato presso parenti, altri hanno trovato riparo in aree speciali, altri ancora sono dovuti fuggire nei Paesi vicini, dove spesso non c’era nessuno ad attenderli». Se «non è in nostro potere fermare questa guerra, possiamo però pregare per una rapida fine di essa e aiutare le persone che soffrono, tra cui i nostri fratelli cristiani». Sono parole pronunciate due settimane fa dal Patriarca di Mosca Cirillo, e pubblicate sull’Osservatore Romano dell’11 luglio (titolo dell’articolo: Dalla Russia al popolo siriano). Il Patriarca ha benedetto una raccolta di fondi per le vittime del conflitto armato in Siria; nella prima colletta del 2 luglio, effettuata in varie diocesi, monasteri, chiese e da singole persone, sono state raccolti oltre sette milioni di rubli, ma un’altra colletta si è svolta domenica 7 luglio. Soldi, appunto, destinati ai tanti bisognosi siriani.
«Una parte significativa del popolo siriano è composta da nostri fratelli nella fede: nel centro della città di Damasco si trova uno dei più antichi patriarcati ortodossi, quello di Antiochia. E ora, per le strade di questa città, che ricordano l’apostolo Paolo, le opere e gli scritti degli antichi santi, viene versato sangue umano. Su questa terra biblica in cui fianco a fianco sono vissuti in pace cristiani e musulmani oggi vengono profanate le reliquie, i templi sono distrutti e i cristiani cacciati dalle loro case, perseguitati, e molto spesso torturati e uccisi. A causa della distruzione di edifici e infrastrutture, per la mancanza di cibo e medicine, molte persone sono state private del proprio tetto. Qualcuno si è rifugiato presso parenti, altri hanno trovato riparo in aree speciali, altri ancora sono dovuti fuggire nei Paesi vicini, dove spesso non c’era nessuno ad attenderli». Se «non è in nostro potere fermare questa guerra, possiamo però pregare per una rapida fine di essa e aiutare le persone che soffrono, tra cui i nostri fratelli cristiani». Sono parole pronunciate due settimane fa dal Patriarca di Mosca Cirillo, e pubblicate sull’Osservatore Romano dell’11 luglio (titolo dell’articolo: Dalla Russia al popolo siriano). Il Patriarca ha benedetto una raccolta di fondi per le vittime del conflitto armato in Siria; nella prima colletta del 2 luglio, effettuata in varie diocesi, monasteri, chiese e da singole persone, sono state raccolti oltre sette milioni di rubli, ma un’altra colletta si è svolta domenica 7 luglio. Soldi, appunto, destinati ai tanti bisognosi siriani.
«Una parte significativa del popolo siriano è composta da nostri fratelli nella fede: nel centro della città di Damasco si trova uno dei più antichi patriarcati ortodossi, quello di Antiochia. E ora, per le strade di questa città, che ricordano l’apostolo Paolo, le opere e gli scritti degli antichi santi, viene versato sangue umano. Su questa terra biblica in cui fianco a fianco sono vissuti in pace cristiani e musulmani oggi vengono profanate le reliquie, i templi sono distrutti e i cristiani cacciati dalle loro case, perseguitati, e molto spesso torturati e uccisi. A causa della distruzione di edifici e infrastrutture, per la mancanza di cibo e medicine, molte persone sono state private del proprio tetto. Qualcuno si è rifugiato presso parenti, altri hanno trovato riparo in aree speciali, altri ancora sono dovuti fuggire nei Paesi vicini, dove spesso non c’era nessuno ad attenderli». Se «non è in nostro potere fermare questa guerra, possiamo però pregare per una rapida fine di essa e aiutare le persone che soffrono, tra cui i nostri fratelli cristiani». Sono parole pronunciate due settimane fa dal Patriarca di Mosca Cirillo, e pubblicate sull’Osservatore Romano dell’11 luglio (titolo dell’articolo: Dalla Russia al popolo siriano). Il Patriarca ha benedetto una raccolta di fondi per le vittime del conflitto armato in Siria; nella prima colletta del 2 luglio, effettuata in varie diocesi, monasteri, chiese e da singole persone, sono state raccolti oltre sette milioni di rubli, ma un’altra colletta si è svolta domenica 7 luglio. Soldi, appunto, destinati ai tanti bisognosi siriani.

In tutto il mondo iniziative di preghiera e  solidarietà 

Il Patriarca di Mosca al popolo siriano

«Una parte significativa del popolo siriano è composta da nostri fratelli nella fede: nel centro della città di Damasco si trova uno dei più antichi patriarcati ortodossi, quello di Antiochia. E ora, per le strade di questa città, che ricordano l’apostolo Paolo, le opere e gli scritti degli antichi santi, viene versato sangue umano.
Su questa terra biblica in cui fianco a fianco sono vissuti in pace cristiani e musulmani oggi vengono profanate le reliquie, i templi sono distrutti e i cristiani cacciati dalle loro case, perseguitati, e molto spesso torturati e uccisi. A causa della distruzione di edifici e infrastrutture, per la mancanza di cibo e medicine, molte persone sono state private del proprio tetto. Qualcuno si è rifugiato presso parenti, altri hanno trovato riparo in aree speciali, altri ancora sono dovuti fuggire nei Paesi vicini, dove spesso non c’era nessuno ad attenderli».
 Se «non è in nostro potere fermare questa guerra, possiamo però pregare per una rapida fine di essa e aiutare le persone che soffrono, tra cui i nostri fratelli cristiani». Sono parole pronunciate due settimane fa dal Patriarca di Mosca Cirillo, e pubblicate sull’Osservatore Romano dell’11 luglio (titolo dell’articolo: Dalla Russia al popolo siriano)
Il Patriarca ha benedetto una raccolta di fondi per le vittime del conflitto armato in Siria; nella prima colletta del 2 luglio, effettuata in varie diocesi, monasteri, chiese e da singole persone, sono state raccolti oltre sette milioni di rubli, ma un’altra colletta si è svolta domenica 7 luglio. 
Soldi, appunto, destinati ai tanti bisognosi siriani.



Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite — citati dal Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca — il numero delle vittime della guerra civile in Siria è di oltre 90.000, mentre un milione di cittadini siriani hanno lasciato il Paese e sono diventati profughi. 
La Siria avrebbe perso circa 80 miliardi di dollari nei due anni di guerra. 
Secondo il vescovo di Seydnaya, Luka, della Chiesa ortodossa antiochena, ammontano a quasi 140.000 i cristiani cacciati dalle proprie case.
L'Osservatore Romano, 11 luglio 2013


La solidarietà alla popolazione siriana dei Vescovi di Inghilterra e Galles 

L'Osservatore Romano, 
11 luglio 2013


Un appello per la pace e per sostenere il lavoro delle organizzazioni caritative in Siria giunge dalla Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles.
In un comunicato — a firma del presidente dell’episcopato, l’arcivescovo di Westminster, Vincent Gerard Nichols, e del presidente della commissione episcopale per gli affari internazionali, il vescovo di Clifton Declan Ronan Lang — si rinnova l’invito alla comunità dei fedeli a pregare per la popolazione siriana che sta subendo «un conflitto sempre più aspro che non accenna a terminare». Si tratta di una tragedia, è aggiunto, «che è una sfida per la comunità internazionale e per ognuno di noi».
Nel comunicato si ricorda che finora circa 100.000 persone sono state uccise, mentre il numero dei rifugiati ha superato i 4 milioni. «La sofferenza dei siriani — si legge — cresce non solo a causa della violenza, ma anche delle difficoltà economiche che devono essere affrontare da un numero crescente di persone. Il caldo estivo non farà che aggravare le condizioni di vita nei campi profughi». L’impegno più urgente, puntualizzano i vescovi, è per creare «le condizioni per un cessate il fuoco» e per il raggiungimento di «un accordo che rispetti la dignità e i diritti fondamentali di tutti i siriani».
Concludendo la nota, l’episcopato chiede di dare sostegno ai profughi e a tutti coloro che versano in difficoltà a causa del conflitto e di contribuire all’opera delle organizzazioni caritative, tra le quali l’agenzia cattolica inglese per l’aiuto allo sviluppo dei Paesi d’oltremare. Una messa speciale per la popolazione siriana sarà celebrata il 12 luglio nella cattedrale di Westminster.
Già in occasione della plenaria dei vescovi, svoltasi nel novembre scorso, era stato deciso di dedicare una giornata alla preghiera come segno di solidarietà nei confronti non solo della popolazione siriana ma anche di quelle che vivono nel contesto generale del Vicino Oriente.



Vescovo indiano Mons. Felix Machado : Durante il Ramadan preghiamo per la Siria


AsiaNews - 12/07/2013


 Il Ramadan sia un momento di preghiera per portare la pace in ogni comunità, in particolare tra i fratelli e sorelle cristiani e musulmani  della Siria. 
È il senso del messaggio di mons. Felix Machado, arcivescovo di Vasai (Maharashtra), ai musulmani dell'India per il Ramadan. Il prelato è presidente dell'ufficio per il Dialogo interreligioso e l'ecumenismo della Conferenza episcopale indiana (Cbci) e della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc). In questo mese mons. Machado parteciperà ad alcuni iftar (pasto serale al termine della giornata di digiuno, ndr) organizzati dalla comunità islamica della sua diocesi.

Possa Dio accompagnare tutti i credenti che si arrendono a Lui nella preghiera e nel digiuno, meditando la Sua Parola in questo sacro mese del Ramadan.

Possa Dio udire e ascoltare la supplica di tutti noi, di chi soffre, in particolare i nostri fratelli e sorelle - cristiani e musulmani - in Siria.

Possa l'Iftar, questo momento di condivisione, essere un'occasione per nuove iniziative in vista del prossimo anno.

Si possa lavorare insieme - nonostante la nostra diversità e le differenze di religione - per mettere in pratica il dono di Dio, che è la pace, e possa ciascuno di noi approfondire la propria fede nel Signore. Possa ciascuno di noi meritare la benedizione e la grazia di Dio.

La pace per tutti è la volontà del Signore e questi giorni sacri di digiuno e preghiera devono rafforzare la nostra determinazione a lavorare per la pace e renderci più motivati nel raggiungerla.
Il Ramadan è fonte di pace, che si raggiunge attraverso il digiuno e la preghiera.

Questo mese sacro dovrebbe essere un momento per fare la pace e intraprendere iniziative verso di essa.

Spero che il Dio compassionevole di tutti coloro che lo stanno pregando, dia loro lo zelo di lavorare per la pace e il bene di tutti.

In questi giorni di Ramadan chiediamo di pregare per la Siria.

http://www.asianews.it/notizie-it/Vescovo-indiano:-Durante-il-Ramadan-preghiamo-per-la-Siria-28458.html

sabato 13 aprile 2013

Morire o partire? Il dilemma senza risposte dei cristiani siriani

 I cristiani di Siria «devono scegliere tra due calici amari: morire o partire». Un dilemma che coinvolge tutta la realtà ecclesiale presente nel Paese martoriato


Agenzia Fides - 13/4/2013

Damasco - L'arcivescovo cattolico di rito orientale maronita di Damasco Samir Nassar 
 delinea i tanti modi con cui la morte ghermisce le vite di milioni di civili indifesi, cristiani e musulmani, nella Siria devastata dalla guerra: bombardamenti, auto-bomba, cecchini, mancanza di cure mediche (223 ospedali sono stati chiusi e i medici stanno fuggendo tutti, spiega mons. Nassar), malnutrizione e mancanza di cibi adeguati per i diabetici, i cardiopatici e le puerpere.
Davanti a questo disastro, tutti pensano di andar via, anche se la fuga in qualche modo «è un altro modo di morire» più lentamente. La Chiesa locale, pur nella sua fragilità, «diventa un muro del pianto», a cui tutti si rivolgono ogni giorno «per chiedere protezione e aiuto nella ricerca di un visto per partire».
I cristiani siriani – sottolinea l'arcivescovo maronita - «hanno visto l'ONU organizzare dal 2005 la partenza sistematica dei rifugiati iracheni verso i Paesi occidentali», e adesso provano angoscia anche per «l'indifferenza e il silenzio mondiale davanti al loro lungo e triste calvario... sono abbandonati, destinati alla morte senza poter fuggire... i consolati sono chiusi da un anno e mezzo».
 
Mons. Nassar descrive con cuore affranto di pastore la condizione dei cristiani poveri «che non trovano alcuna ragione per dover morire in questa guerra insensata»: loro hanno visto i propri fratelli più agiati lasciare la Siria, e ora guardano alla Chiesa come l'unica realtà a cui chiedere aiuto nel naufragio. «L'appello del nuovo Papa Francesco in favore dell'amata Siria risuona nei loro cuori.... La Chiese sorelle del mondo intero pregano e mostrano il loro affetto per questo piccolo gregge, senza poter placare la tempesta».
Questa situazione pone anche i pastori davanti a problemi di coscienza: «Consigliarli di restare potrebbe condurli alla morte come un agnello muto davanti al macellaio. Il nostro martirologio non fa che allungarsi... Aiutarli a partire significa invece svuotare la Terra Biblica dei suoi ultimi cristiani». Un dilemma che può trovare risposta solo affidandosi al «cuore di Dio», offrendo ai fedeli una prossimità pastorale che li aiuti a percepire la realtà delle parole di Gesù. Quelle che – nota mons. Nassar «non deludono mai: “Non abbiate paura... io sono con voi...”»

http://www.fides.org/it/news/41331-ASIA_SIRIA_Morire_o_partire_L_Arcivescovo_maronita_di_Damasco_racconta_il_dilemma_senza_risposte_dei_cristiani_siriani#.UWk5OEr7Dvk


Monsignor Audo: «L’anarchia della guerra fa percepire per contrasto in maniera ancora più forte la grandezza della dignità umana, proprio nel momento in cui essa appare così umiliata. In tutto questo molti cercano Dio e chiedono a Lui la pace del cuore, nella preghiera».


Altra emergenza è quella dei rifugiati cristiani siriani in Turchia, in fuga dalla guerra civile. 

In Turchia, riferisce la stampa locale, le autorità di Ankara hanno accettato di costruire un campo solo per loro nella provincia di Midyat vicino al monastero siriaco di Mor Abraham. Il nuovo insediamento potrà ospitare quattromila persone. Un altro campo, per profughi curdi e arabi, sarà allestito in un’altra area della provincia di Midyat. La Turchia accoglie ora circa 190.000 profughi siriani, per lo più musulmani sunniti, provenienti dalle regioni di Aleppo e Idlib.

 L’aumento dei profughi cristiani, secondo fonti della comunità cristiana siriana, è in buona parte legato alla progressione dei gruppi integralisti sunniti nella Siria settentrionale. Secondo l’agenzia Fides, negli ultimi tre giorni oltre cinquecento cristiani siriani hanno attraversato il confine turco, in fuga da violenze e discriminazioni.
 Fonti della Chiesa assira d’Oriente hanno indicato che i profughi si trovano soprattutto nella provincia di Gaziantep, a 50 chilometri dal confine nell’Anatolia sud-orientale. Le chiese e i monasteri della regione montuosa turca di Tur Abdin, culla storica del cristianesimo siriaco, ospitano già un numero di rifugiati superiore alle proprie capacità. Le comunità cristiane siriache del nord della Siria sono state colpite con particolare accanimento da violenze, rapimenti e spoliazioni di ogni tipo. Interi clan familiari hanno dovuto abbandonare le proprie case sotto minaccia di morte.

Prezioso il contributo di Caritas italiana, che ieri ha rilanciato l’appello per poter far fronte alle pressanti richieste. Quattro milioni le persone costrette a lasciare le proprie abitazioni nella speranza di trovare una sistemazione lontana dal conflitto. Con soli venti milioni di abitanti, la Siria si ritrova oggi con oltre il 25 per cento della popolazione in gravi condizioni di precarietà e a rischio vita. E tanti sono già fuggiti in Giordania, Libano, Turchia, Iraq ed Egitto.

da : L'Osservatore Romano, 13 aprile 2013.

sabato 10 novembre 2012

Dalla parte dei profughi siriani

OSSERVATORE ROMANO 11 NOVEMBRE 2012
 Intervista al cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, di ritorno dalla missione in Libano.

 
«Sono profondamente colpito dalla grande dignità di queste persone, uomini e donne, profughi in un Paese straniero, rifugiati, costretti a lasciare le proprie case, il proprio villaggio, la loro amata madre Patria, la Siria, dopo un pericoloso viaggio di centinaia di chilometri». Risponde così in un’intervista al nostro giornale il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, parlando delle sue prime  impressioni al termine della delicata missione in Libano, che gli è stata affidata da Benedetto XVI.

 
 Eminenza, quali sono state le ragioni e le finalità di questo viaggio?

In primo luogo vi è la grande attenzione del Santo Padre, ribadita lo scorso 7 novembre, per le vittime del terribile conflitto siriano. Le sue preghiere, i suoi richiami, la sua esplicita richiesta, mi hanno condotto in Libano.
Benedetto XVI in persona ha visitato questo Paese in settembre e già allora non ha mancato di esprimere tutta la sua vicinanza alle popolazioni e la sua preoccupazione per gli sviluppi della crisi siriana che rischia di compromettere tutto il delicato equilibrio mediorientale. La Siria, il Libano e tutta questa regione stanno nel cuore del Santo Padre. In secondo luogo vi è stata l’iniziativa dei padri sinodali, che nel pieno delle riflessioni sull’oggi dell’evangelizzazione, hanno cercato di organizzare un viaggio di solidarietà direttamente in Siria, viaggio che per diverse cause non si è potuto realizzare.
La mia visita ha voluto esprimere questa solidarietà, questa vicinanza di Papa Benedetto e dei padri sinodali. Quale presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, con il segretario monsignor Giampietro Dal Toso, abbiamo ritenuto di darci anche l’obiettivo concreto di incontrare gli organismi caritativi cattolici impegnati nell’accoglienza e nell’aiuto operativo alle persone bisognose, agli sfollati in Siria e ai rifugiati nei Paesi limitrofi, per rilanciare e coordinare al meglio gli interventi. La prospettiva più probabile è, infatti, quella di un lavoro di lungo periodo, di un’emergenza che si protrarrà nel tempo e forse si estenderà ulteriormente, richiedendo un lavoro sempre più capillare e intenso sul territorio, da parte di tutti. Mi sembra comunque molto importante la volontà di tutte le organizzazioni di lavorare in comunione e di testimoniare insieme l’amore e la prossimità di Dio verso chi è sofferente.

Quali sono stati i momenti salienti della visita?
Ho avuto incontri con il patriarca maronita e il Sinodo dei vescovi maroniti in Libano e con il patriarca armeno-cattolico. Il presidente della Repubblica del Libano mi ha fatto l’onore di ricevermi; va da sé che il ricordo è andato alla recente visita apostolica di Sua Santità in Libano, che è stata di importanza eccezionale per tutta la regione. Mi ha commosso l’incontro con il patriarca greco-ortodosso di Damasco, Ignazio IV, che ha voluto vedermi, anche se in quei giorni era ricoverato in ospedale; egli ha insistito sulla comune, necessaria testimonianza di fraternità. La giornata di giovedì 8 è stata dedicata alla visita ai rifugiati e sono giunto fino ai confini con la Siria. Purtroppo ho visto sofferenze inaudite: una madre voleva affidarmi il figlio di 4 mesi, perché ha lasciato il marito in Siria e non sa quando lo vedrà; alcuni rifugiati cristiani mi hanno chiesto di pregare il Papa di aiutarli a tornare a casa. 

L’impegno della Chiesa per queste persone attraverso i suoi organismi è encomiabile, anche se le risorse sono limitate rispetto ai bisogni: garantire la sopravvivenza e i servizi di base, la scolarizzazione, un tetto. A tutte queste problematiche è stata dedicata la riunione di venerdì 9, con i rappresentanti di Chiese locali e di 26 organismi di carità, insieme ai nunzi apostolici in Libano e in Siria. La riunione è stata molto utile per la conoscenza degli interventi e lo studio per una maggiore incidenza degli aiuti stessi.

Concretamente cosa può fare la Chiesa in queste situazioni?

I vari incontri che ho svolto mi hanno confermato quanto siano importanti le preghiere, le parole e le azioni. Gli appelli alla pace e alla riconciliazione, rivolti dal Santo Padre alle parti in guerra, a tutti gli attori di questo violento conflitto, alla comunità internazionale perché si attivi quanto prima, La sua continua preghiera, la sua vicinanza spirituale, unita alle iniziative di concreta e operosa solidarietà che si stanno attuando da mesi, dal primo momento in cui il conflitto ha cominciato a mietere vittime innocenti: questi tre approcci sono tutti fondamentali. In qualche modo traducono in concreto la triplice missione della Chiesa. Mi ha molto colpito il fatto che durante la nostra riunione di coordinamento più voci abbiano sottolineato il ruolo determinante della Chiesa per favorire la riconciliazione. Ogni conflitto lascia dietro di sé ferite profonde; se queste non guariscono, la pace resta solo una
pace di facciata. Dobbiamo portare il nostro messaggio di perdono e di riconciliazione. È un servizio spirituale che forse solo la Chiesa, attraverso vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, può svolgere.

LE SUORINE DI ALEPPO

Come si può realizzare questa missione, in un contesto in cui la Chiesa è minoranza, soprattutto in Siria e in altri Paesi di questa complessa regione del
mondo?


Da Papa Benedetto alle organizzazioni caritative cattoliche impegnate sul terreno, insieme, siamo uniti in questo grande sforzo umanitario. Tutto quello che adesso possiamo fare per loro concretamente, dobbiamo farlo. Sia per il loro bene materiale, sia per il loro bene spirituale. Un aiuto aperto a tutti, senza distinzione e senza secondi fini. In tal senso attraverso la visita si è cercato di favorire la cooperazione e uno spirito di comunione tra i vari attori, Individuando anche le sfide e le difficoltà, in particolare il continuo aumentare dei problemi e dei bisogni. In molti contesti la Chiesa cattolica è una comunità debole e fragile, piccola e vulnerabile, un’esigua minoranza, ma capace di grandi gesti di carità. Adesso è il momento per vivere concretamente quella comunione e quella testimonianza, alla quale il Sinodo per il Medio Oriente ha chiamato. Vediamo questo momento difficile come una grande opportunità che il Signore ci dà per mostrare il vero volto di una Chiesa umile, debole, povera, ma che si sente realmente al servizio della redenzione del mondo e che si apre nella carità a tutti coloro che hanno bisogno. Una Chiesa che in questa regione del mondo, complessivamente è certamente una minoranza, ma che è solidale con tutti, secondo le indicazioni del Vangelo, con un prossimo che ha fame, sete, che è forestiero, che può avere ogni tipo di bisogno, anche se appartiene ad altre religioni, ma nondimeno resta il nostro prossimo. E qui vorrei ringraziare Caritas Libano, vescovi e comunità cristiane che fanno di tutto per accogliere in nome di Cristo tutti questi rifugiati.

Vi è anche un’attenzione interreligiosa?

Come ci insegna Papa Benedetto, nell’enciclica Deus caritas est, l’amore del prossimo si estende alle persone che neppure conosciamo e questo può realizzarsi solo a partire dal nostro intimo incontro con Dio. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. È certo che non si può confondere il doveroso dialogo interreligioso caratterizzato da dinamiche complesse e articolate, con l’azione caritativa, di per sé pratica, concreta; ma è altrettanto certo che un gesto di carità aperto a tutti, senza distinzione di sorta, tantomeno di religione, costituisca una sorta di dialogo silenzioso, un ossimoro, fatto di fatti, di azioni che rispondono a bisogni reali, soprattutto dei più poveri, un gesto di comunione. Tali azioni di fatto ben dispongono a un dialogo tra persone che, dentro l’azione di carità, si riconoscono come fratelli, si riconoscono da un gesto, da uno sguardo, da una carezza.
PADRE GEORGES, MARISTI DI ALEPPO
La carità, come dicevo, è via per la pace, e la pace è preparata dal dialogo e dalla comunione. Come Cor Unum riteniamo e speriamo che dentro una teologia della carità, dentro un Vangelo della carità, annunciato e vissuto, vi siano anche
questi buoni frutti.


L'Osservatore Romano, 11 novembre 2012.




http://ilsismografo.blogspot.it/2012/11/vaticano-intervista-al-cardinale-robert.html

venerdì 14 settembre 2012

Dall'Osservatore Romano del 15/09/2012

Il Papa spiega il significato della sua visita in Libano

Sotto il segno della fraternità e del dialogo

All'arrivo a Beirut l'indicazione del modello libanese quale esempio di convivenza per il Medio Oriente e il mondo

Mai pensato di rinunciare a questo viaggio. Benedetto XVI lo ha ripetuto senza esitazioni rispondendo alle domande postegli dai giornalisti questa mattina, venerdì 14 settembre, durante il consueto incontro a bordo dell’aereo che lo ha condotto a Beirut. Il Papa non ha mai esitato. Semmai l’aggravarsi delle tensioni e il complicarsi della situazione ha reso ancor più vivo il suo desiderio di offrire un segno di fraternità e un invito al dialogo a tutte le popolazioni mediorientali, la cui condizione di sofferenza non avrà fine — ha affermato — sino a quando non si impedirà il passaggio delle armi destinate ai belligeranti, come accade nel drammatico contesto della crisi siriana.
Messo un punto fermo su questo, il Pontefice ha affrontato questioni e argomenti divenuti di attualità scottante soprattutto in questi ultimi tempi. E ricordando due tragici avvenimenti che hanno segnato il recente passato della regione e del mondo — la strage avvenuta nel 1982 nei campi dei profughi palestinesi di Sabra e Chatila, proprio in Libano, e l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 — ha parlato dell’inquietudine dinanzi alla crescita dei fondamentalismi e alle aggressioni di cui sono vittime numerosi cristiani. Ha poi accennato al rischio che nei Paesi dove è sbocciata la cosiddetta «primavera araba» proprio i cristiani, in quanto minoranza, possano soccombere, con un esplicito riferimento alla situazione della Siria. Infine ha sottolineato il valore dell’esortazione postsinodale che consegnerà domenica 16 e il ruolo che le Chiese d’Europa e delle Americhe possono svolgere per sostenere i loro fratelli del Medio Oriente.

giovedì 13 settembre 2012

Messaggero di pace: Intervista del cardinale segretario di Stato a "Le Figaro"

da L'Osservatore Romano 13/09/12
<br>Alla vigilia della visita papale in Libano il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha rilasciato un'intervista al quotidiano francese "Le Figaro" che la pubblica nel numero di oggi, 13 settembre. La presentiamo in una nostra traduzione.
di Jean-Marie Guénois

Il viaggio di Benedetto XVI in Libano s’iscrive inevitabilmente nel contesto drammatico della guerra civile in Siria. È un viaggio a rischio?
La situazione drammatica nella quale vive il popolo siriano è seguita con molta apprensione dal Santo Padre. Da oltre un anno il Papa ha moltiplicato i suoi appelli pubblici a favore della pace, della riconciliazione, dell’unità del popolo siriano. Non ha neppure lesinato sforzi per una soluzione diplomatica. In Libano le nostre reti ecclesiali ci indicano che il Paese non si trova oggi in una situazione pre-conflittuale paragonabile alla crisi siriana. Alcuni episodi hanno potuto suscitare un’impressione diversa nell’opinione internazionale ma, ancora una volta, le informazioni che riceviamo sul posto ci assicurano che, al contrario, c’è grande attesa per la visita del Papa da parte di tutti i libanesi e di tutte le comunità socio-religiose del Paese.

L’ipotesi di un annullamento del viaggio è stata mai contemplata?

No, mai. Noi seguiamo la situazione molto da vicino. Incrociamo molteplici fonti d’informazione. Consideriamo seriamente tutti gli avvenimenti particolari, ma non abbiamo finora mai ricevuto dati sufficientemente gravi da far contemplare l’ipotesi dell’annullamento della visita.

Benedetto XVI ha mai esitato?

Il Santo Padre ha preso la decisione di visitare il Libano molto tempo fa. Vi si reca come un messaggero di pace. Bisogna capire bene questo per non sbagliarsi sul viaggio. Le crescenti tensioni in quell’area, lungi dallo scoraggiarlo, hanno dunque reso ancora più urgente il suo desiderio di visitare il Libano al fine di promuovere la pace e di esprimere a tutti la sua profonda solidarietà.

Sono state richieste particolari misure di sicurezza per il Papa, ma anche per le folle?

Ogni viaggio è oggetto di rigide misure per garantire la sicurezza di tutti. Nessuna richiesta supplementare è stata comunque formulata. A tale riguardo, restiamo in stretto contatto con le autorità.

La posizione della Chiesa cattolica sulla crisi siriana è stata spesso percepita come troppo prudente nei confronti del regime di Damasco. Che cosa pensa oggi la Santa Sede della crisi siriana?

Fin dall’inizio della crisi, il Papa ha condannato con tutte le sue forze le violenze e la perdita di vite umane. Con lo stesso vigore Benedetto XVI ha affermato le legittime aspirazioni del popolo siriano. Ha ripetutamente invitato tutti i responsabili ad astenersi da qualsiasi violenza e a impegnarsi sulla via del dialogo e della riconciliazione per risolvere questioni inevitabili per il bene del Paese e per quello di tutta la regione.

Ci sono oppositori musulmani che rimproverano ai cristiani siriani la loro «neutralità».

In Siria i cristiani cercano di vivere in pace e in armonia con i loro fratelli siriani. Temono l’aumento della violenza che mette in pericolo tutti i siriani. I cristiani sono un punto di riferimento, un ponte tra le comunità. Essi cercano di costruire la pace e l’unità tra tutti i cittadini, al di là della loro appartenenza etnica e religiosa.

Alcuni però vedono questa «neutralità» come una mancanza di coraggio...

La posizione della Chiesa non è neutrale, è semplicemente chiara e netta: la violenza porta solo a nuove violenze! La violenza porta la morte. Ferisce per sempre i corpi ma anche le menti. La violenza infligge ferite psicologiche profonde al cuore della nazione siriana che si faranno sentire per molti anni.

Benedetto XVI si pronuncerà su questa crisi durante il viaggio?

Il Papa intende essere una voce profetica e una voce morale. La Santa Sede chiede la cessazione immediata di ogni violenza per far prevalere il dialogo ed evitare qualsiasi nuova ferita alla popolazione.

Ma perché in questo contesto è stato scelto il Libano?

Benedetto XVI ha già visitato la Terra Santa, cioè Israele, i Territori Palestinesi, la Giordania, Cipro, la Turchia. Il Libano, Paese biblico, è apparso un luogo ideale per consegnare l’esortazione postsinodale a tutte le Chiese del Medio Oriente e per dire al mondo che vivere insieme tra culture e religioni diverse non è un’illusione, ma una realtà che esiste. Questo Libano nel quale Giovanni Paolo II vedeva, «più che un Paese», un «messaggio» di libertà, di convivialità e di dialogo.

Benedetto XVI ha inserito la novità geopolitica della primavera araba nel documento che renderà pubblico domenica a Beirut?

Il Papa non è un commentatore politico! Aspettarsi dall’esortazione post-sinodale una sorta d’interpretazione socio-politica della «primavera araba», o addirittura un programma politico specifico per i cristiani, sarebbe fraintendere il magistero del Santo Padre. L’esortazione post-sinodale sarà piuttosto un messaggio di speranza e un incoraggiamento per tutti i cattolici del Medio Oriente affinché possano offrire il loro prezioso contributo nelle società tanto diverse in cui vivono.

Questo testo inedito per il futuro di quei cristiani non rischia di essere già superato dagli eventi?

L’esortazione trae la sua ispirazione da un Sinodo che ha riunito a Roma per tre settimane tutti i vescovi e gli esperti del Medio Oriente. In quell’autunno 2010 sono state poste pubblicamente questioni molto precise — e a volte scomode— sulla libertà, la democrazia, la giustizia, lo Stato di diritto. Bisogna ammettere che le richieste del Sinodo, sostenute dai cattolici, hanno in un certo modo anticipato le aspirazioni della «primavera araba» del 2011.

Il Papa ha affrontato questi temi sociali nella stesura finale del documento?

Benedetto XVI ha seguito con molta attenzione l’evolversi della «primavera araba». È molto informato sulla situazione. Quando capi di Stato o primi ministri escono da un incontro con lui, sono sempre sorpresi dal suo livello di conoscenza delle diverse questioni. Per il Papa la promozione dei diritti dell’uomo è la strategia più efficace per costruire il bene comune, base della convivialità sociale. Ritiene che se la democrazia prenderà maggiormente consistenza nel mondo arabo, porterà a un maggiore rispetto dei diritti dell’uomo e a un migliore sviluppo della società a tutti i livelli. Ma allo stesso modo insiste nel dire che la religione e i suoi valori sono un elemento importante del tessuto sociale. La religione è anche un diritto fondamentale dell’uomo ed è per lui inimmaginabile che dei credenti si privino di una parte di se stessi — della loro fede — per essere cittadini attivi.

La primavera araba pone di nuovo la questione delle relazioni tra la Chiesa e l’islam; come vede oggi questo problema?

Conosciamo male la nostra storia comune! Le relazioni islamo-cristiane risalgono a molti secoli fa. Hanno conosciuto tutte le varianti, a seconda dei Paesi, andando dall’osmosi al rifiuto, in seno al mondo musulmano ma anche all’interno della Chiesa. Dal concilio Vaticano II, la linea direttrice è chiara: la comunità cristiana tende una mano aperta in segno di dialogo e di riconciliazione. Noi osserviamo, nel mondo islamico, i segni del desiderio di stringere questa mano e di camminare insieme. A Roma, il nostro Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, sotto la responsabilità del cardinale Tauran, viene in proposito interpellato da ogni parte del mondo. Certo, si levano voci contrarie, ma le società sempre più multietniche, multiculturali e multireligiose impongono questa coabitazione. È una scelta senza appello per la libertà di coscienza, la libertà religiosa, il rispetto e il dialogo. Il problema oggi consiste nel trasporre, soprattutto attraverso la formazione, questa qualità del rapporto dal livello delle élite a quello delle popolazioni che sono talvolta sotto l’influenza dei gruppi fondamentalisti.

Alcuni scettici preannunciano però un inevitabile scontro islamo-cristiano...

Non siamo d’accordo, poiché ci troviamo all’opposto di uno scontro con l’islam! Una simile visione conflittuale non dà ragione né alla realtà sul terreno, né a una visione del futuro, né al credo profondo della fede stessa.

Nell’attesa, sempre più cristiani lasciano il Medio Oriente. Questa partenza è inevitabile?

Bisognerebbe rispondere Paese per Paese, per evitare generalizzazioni. E non dimenticare che il primo motivo della partenza è spesso economico e sociale, mentre il secondo è legato all’instabilità creata dagli anni di guerra. Al contrario, e noi lo constatiamo, quando il contesto sociale e culturale è favorevole, i cristiani si mobilitano, anche in Paesi musulmani, per la costruzione di società in cui ognuno deve avere il proprio posto, indipendentemente dall’appartenenza religiosa. Su questo piano il ruolo degli Stati è decisivo.

I cristiani del Medio Oriente, minoritari, hanno una vocazione particolare?

Per comprenderla, occorre ribaltare la nostra prospettiva: il cristianesimo è nato lì! I cristiani in Medio Oriente non sono arrivati come missionari dell’Occidente o sulle orme di imperi coloniali. Allo stesso tempo, il Medio Oriente attuale deve molto alla presenza cristiana. Questa ha modellato il volto delle società. Un solo esempio: la rinascita araba del secolo scorso che ha visto la partecipazione di eminenti figure cristiane. I cristiani contribuiscono dunque all’edificazione di una società libera, giusta e riconciliata. La loro presenza è auspicata dalla maggior parte dei Paesi. La posta in gioco è di lavorare insieme per fare di questa regione una nuova culla di civiltà, di cultura e di pace.

Questo viaggio di Benedetto XVI a Beirut s’iscrive in un contesto d’instabilità generalizzata: incertezza in Egitto, tensione tra Israele e Iran, Siria a ferro e fuoco, Iraq frammentato. Qual è la principale posta in gioco della visita?

Aggiungerei la questione palestinese che dura da diversi decenni e non ha ancora trovato una vera soluzione. In effetti, accordi parziali, anche se positivi, non possono garantire una pace duratura se altre questioni non sono state risolte. La sfida più grande è di trovare una soluzione condivisa da tutti i protagonisti locali con l’aiuto della comunità internazionale, che è corresponsabile. La presenza del Papa è dunque un invito a tutti i responsabili del Medio Oriente e della comunità internazionale a impegnarsi con una volontà ferma per trovare soluzioni eque e durature per la regione. Benedetto XVI non ha però la pretesa di essere un leader politico. Come responsabile religioso, viene per confermare i suoi fratelli nella fede in Gesù Cristo e intende esortare tutti gli uomini e le donne di buona volontà a far sì che la religione non sia mai un motivo di guerra e di divisione. Cercherà di toccare i cuori affinché ognuno s’impegni a cambiare la situazione.
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#2

venerdì 7 settembre 2012

«Non temere, piccolo gregge»: colloquio con il patriarca di Antiochia dei siri sulla visita del Papa in Libano

Verità e giustizia in arabo
da L'Osservatore Romano - 7 settembre 2012
La parola araba haqq ha due significati: verità e diritto, nel senso di giustizia. Nessun’altra lingua, che io sappia, ha questa particolare ricchezza espressa da una sola parola. Per i popoli arabi non è forse una coincidenza significativa, e anche un impegno, che ci sia un legame così stretto tra verità e giustizia?». Per Ignace Youssif III Younan, dal 2009 patriarca di Antiochia dei Siri la cui sede è proprio nel quartiere siriano di Beirut, la capitale del Libano, «se la violenza è sempre un orrore in Medio Oriente lo è forse ancora di più». Parole che il patriarca pronuncia «con dolore», costatando quanto invece «la pace sia purtroppo al momento così tanto lontana dalla vita della nostra gente». Siriano di origine, il patriarca rilancia — nell’intervista al nostro giornale — la proposta di un tavolo per la pace per fermare le violenze e trovare una soluzione pacifica e condivisa che garantisca più democrazia e il rispetto dei diritti umani. E in questa prospettiva si aspetta molto dall’ormai imminente visita di Benedetto XVI, atteso a Beirut venerdì 14 settembre.


E proprio l’indissolubilità tra verità e giustizia, su cui lei sta puntando tutto, sarà probabilmente anche il cuore del messaggio del Papa.
Verità e giustizia non si possono separare: è un fatto che nel mondo arabo dovrebbe essere sempre tenuto in considerazione assoluta ogni volta che si pronuncia, consapevolmente, la parola haqq. È un’idea che ho rilanciato intervenendo al Sinodo dei vescovi del 2008 dedicato alla Parola di Dio e ripreso poi al momento di iniziare il mio servizio come patriarca. È sotto gli occhi di tutti che non ci possa essere verità senza giustizia né giustizia senza verità. Soprattutto è un linguaggio comprensibile a tutti in Medio Oriente.

Di diritti umani e giustizia, tracciando quasi un profilo della primavera araba, ha trattato anche il Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente, nel 2010, di cui lei è stato presidente delegato.
Il Sinodo per il Medio Oriente ha suscitato nuove speranze e non nascondo che abbiamo forti aspettative per l’esortazione apostolica post-sinodale che il Papa verrà a consegnarci personalmente. L’idea di fondo è semplice: riaffermare a chiare lettere la volontà dei cristiani e dei musulmani di vivere insieme, in pace, collaborando per costruire un sistema più democratico di convivenza pluralista. Le religioni sono motivo d’incontro e non di scontro.

Quindi, secondo lei, in Medio Oriente dovrebbe essere impossibile, ancor più che altrove, commettere violenze usando il nome di Dio.
Il Medio Oriente resta la culla delle civiltà e delle religioni dove tutti abbiamo davanti un’unica strada: convivere pacificamente e lavorare insieme per il bene della nostra gente. La religione non può mai essere violenza.

Eppure ciò che sta avvenendo nella regione è ben lontano da prospettive di convivenza pacifica. Lei è di origine siriana, come vede la situazione nella Siria di oggi?
Con grande timore. Un timore purtroppo realistico, guardando anche all’esperienza irachena. La necessità di trovare presto soluzioni che aprano la strada al dialogo e a riforme di libertà e giustizia non è un’idea solo della minoranza cristiana, ma di tutti i credenti e degli uomini di buona volontà. Le violenze devono cessare e le parti in causa devono trovare il coraggio di sedersi intorno a un tavolo di pace per ricercare insieme le soluzioni giuste per tutti, nell’interesse della popolazione che chiede un futuro di pace. Si aggiunga anche la questione terribile dei profughi. In Libano ne arrivano tanti di cristiani in fuga: è sempre più complicato accoglierli e garantire loro una vita dignitosa.

Ma cosa sta accadendo in Siria?
Duole confessarlo, in Siria lo scontro non è soltanto una questione politica ma tocca anche le diverse confessioni religiose. Una constatazione che fa male perché quella è una terra che ha visto fiorire una cultura importante, antica, improntata all’accoglienza e alla tolleranza. I cristiani oggi sono una minoranza esigua e più che mai vulnerabile. Il messaggio che portano alla società, anche solo con la loro presenza, va infatti in senso contrario ai progetti radicali che invece non tengono per niente conto del valore della persona. Ancora una volta la questione di fondo è il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani. Ai cristiani, invece, vengono sistematicamente negati i diritti più comuni.

venerdì 6 luglio 2012

Busso e ti bombardo

Origine e paradossi delle «guerre umanitarie»


Le guerre del XX e XXI secolo offrono una prevalenza di guerre civili, in cui le popolazioni non sono più solo elementi passivi dei conflitti. Con il tempo, queste guerre hanno innescato l’inedito fenomeno delle guerre umanitarie, la cui origine risale alla vecchia pratica del ricorso al male minore. Oggi lo spazio occupato dagli interventi umanitari e dalla militarizzazione dei diritti umani ha dato vita alla nozione di violenza legalizzata. «Bussare prima di bombardare» è la formula adottata nella guerra di Gaza, conflitto in cui la natura elastica del diritto umanitario («un atto proibito diventa lecito se compiuto da un numero consistente di paesi»), è stato messo alla prova. Questi e altri sono alcuni dei concetti che emergono dal libro di Carlo Jean, con Germano Dottori, Guerre umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani (Milano, Dalai editore, 2012, pagine 304, euro 17,50) in cui, a integrazione di quelle studiate da Eyal Weizman, le guerre prese in esame sono descritte come una fisiologia. Nate come guerre civili, si trasformano in guerre umanitarie quando le parti più deboli riescono ad assicurarsi il sostegno dell’opinione pubblica internazionale e di conseguenza l’intervento di Stati soccorritori. Così i musulmani di Bosnia e gli albanesi del Kosovo hanno trovato salvezza dall’oppressione serba. Non senza far ricorso tuttavia a trappole, provocazioni, inganni e pretesti congegnati in modo tale da fare apparire vittime innocenti i loro ideatori e criminali coloro che nelle provocazioni sono cascati determinando reazioni sproporzionate.

Paradossi e ossimori: è nell’ambito dei conflitti umanitari, dove nessun belligerante ammette di combattere una guerra non giusta, che hanno trovato spazio fenomeni come quello degli scudi umani. Bimbi messi a protezione di autobus lanciati in operazioni belliche. Il fatto nuovo è che oggi per prendere parte a una guerra umanitaria si va accompagnati dall’avvocato (che sorveglia la legalità delle azioni in cui ci si impegna), dal responsabile delle risorse umane (vigila che le regole di ingaggio siano rispettate) e dall’addetto alle pubbliche relazioni (sceglie il tipo di intervento in base all’opinione pubblica). Secondo Joseph S Nye, docente a Harvard, il tempo degli interventi umanitari è scaduto («La Stampa» 12 giugno): il detto «le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni» appare sempre più vero.
Oddone Camerana
6 luglio 2012