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sabato 9 luglio 2022

In Turchia, i Siriani sono privati dei diritti e della dignità

Cittadini turchi hanno attaccato i negozi di rifugiati siriani

 

"Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. "

canto XVII del Paradiso dantesco


Articolo di Steven Sahiounie14 giugno, 2022

Traduzione di Maria Antonietta Carta


Suleyman Soylu, Ministro dell'Interno turco, ha annunciato sabato nuove misure riguardanti i Siriani che vivono in Turchia.

In primo luogo, Ankara vieta a tutti i Siriani di visitare i loro parenti in Siria durante la prossima festa musulmana di Eid al-Adha, che si svolgerà a metà luglio. Un divieto simile era stato applicato all'inizio dell'anno per la festa di Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan. I rifugiati possono perdere il loro status di protezione se tornano in Siria.

In secondo luogo, segno del crescente malcontento sociale, Ankara ha adottato nuove misure per limitare la circolazione in Turchia ai Siriani titolari di permessi di soggiorno. La percentuale di quelli autorizzati a vivere nei quartieri sarà ridotta al 20 per cento e 1.200 distretti saranno chiusi dal 1° luglio.

La Turchia rinnovava i permessi di soggiorno ogni sei mesi, ma recentemente ha ridotto la loro durata a tre mesi. Secondo le nuove regole, i Siriani che richiederanno il loro prossimo permesso di soggiorno non potranno continuare a vivere in quartieri o città con più del 20% di popolazione siriana. Saranno costretti a scegliere tra tornare in Siria o trasferirsi in nuove località che hanno una minore concentrazione di Siriani. Ciò significherà perdere la casa, il lavoro e amici o vicini turchi da cui ricevevano un supporto emotivo.

Gli esperti prevedono che le tensioni sociali aumenteranno con il nuovo schema di distribuzione che costringe i Siriani a trasferirsi in altre aree. Essi cercheranno probabilmente di rimanere invisibili per evitare conflitti con le popolazioni locali.

La Turchia attua un regime di protezione temporanea, che garantisce il diritto al soggiorno legale e un certo livello di accesso ai diritti e ai servizi di base, ma deve essere periodicamente rinnovato. Sono presenti oltre 3.735.000 di rifugiati siriani registrati, di cui circa 51.000 vivono in sette campi situati principalmente nelle regioni sud orientali del Paese. Il resto vive in comunità ospitanti, principalmente nelle città di Istanbul, Gaziantep, Hatay e Sanliurefa. A Kilis risiedono 145.826 cittadini turchi e 107.468 siriani registrati; segue da Hatay con il 20,6% di popolazione siriana. In base alle nuove misure, i tassisti possono chiedere ai clienti i loro documenti ufficiali quando viaggiano in città diverse. Gli esperti hanno criticato il governo turco per aver utilizzato i civili come controllori dell'immigrazione.


I Siriani sono pedine nelle prossime elezioni

Nel giugno 2023, si svolgeranno le elezioni politiche. L'economia è in crisi, con la lira turca ai minimi storici. I Siriani che vivono in Turchia sono considerati la causa di tutti i mali domestici. I politici di estrema destra capitalizzano l'indignazione sociale con una retorica provocatoria anti-migranti per ottenere vantaggi politici alle elezioni.

I Turchi incolpano i Siriani di aver rubato i loro posti di lavoro e fatto aumentare i prezzi degli affitti. È noto che i Siriani accettano salari bassi per sopravvivere e cercano di mantenere un basso profilo per evitare ritorsioni.

Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito popolare repubblicano all'opposizione, si è impegnato a farli tornare in Siria entro due anni nel caso vincesse e altri partiti di opposizione hanno fatto promesse simili. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo partito AK devono placare il risentimento pubblico contro i rifugiati per rimanere in carica. Erdogan sta cercando di tenere il passo con il sentimento anti-migranti che risuona in tutta la Turchia, ma rispettando il patto con l'UE per mantenere rifugiati e migranti in Turchia, che è costato miliardi di euro all'UE.

I Siriani sono registrati in Turchia con lo status di protezione temporanea designato dalle Nazioni Unite e il governo non può espellerli finché non infrangono le leggi o violano i termini del loro status.


Il piano di Erdogan per il reinsediamento in una zona sicura

Erdogan ha incoraggiato un ritorno volontario in Siria e già circa 500.000 Siriani lo hanno fatto. Il mese scorso ha annunciato che intende reinsediare un milione di Siriani in "zone sicure" nel nord della Siria, vicino al confine turco. Il suo piano ha due scopi: ripulire l'area dai Curdi, che considera terroristi, e promuovere la sua campagna per la rielezione mantenendo la promessa di sbarazzarsi dei Siriani in Turchia.

Erdogan ha dichiarato di aver costruito 59.000 case a Idlib per i Siriani che rientrano. Idlib è l'ultima area occupata dai terroristi. Hayat Tahrir al-Sham, l’affiliata di al-Qaeda in Siria ex Jibhat al-Nusra, controlla Idlib e tiene circa tre milioni di civili come scudi umani. Il Presidente turco ha sostenuto e protetto i terroristi a Idlib e ha eretto dozzine di avamposti militari per prevenire attacchi russi o siriani contro i terroristi.

Nel 2019, si era accordato con Putin per separare i terroristi dai civili a Idlib e salvaguardare l’accesso all'autostrada M4 che collega Latakia con Aleppo, ma la Turchia non è riuscita a mantenere l'accordo. Gli analisti hanno accusato Erdogan di utilizzare le "zone sicure" per effettuare la pulizia etnica che altera i dati demografici nel nord della Siria. Le forze turche e le forze democratiche siriane (SDF) si scontrano spesso nelle aree occupate dalla Turchia. Le SDF, sostenute dagli USA, hanno collaborato nella lotta all'ISIS, ma Erdogan considera la milizia sostenuta dagli Stati Uniti un gruppo terroristico a causa dei suoi legami con l'YPG e il PKK.

Organizzazioni per i diritti umani hanno accusato questi terroristi alleati del governo turco di torturare, rapire, ricattare civili e sequestrare le proprietà dei Curdi fuggiti dagli attacchi turchi.“

La Turchia ha trasferito i residenti siriani ad Ankara dopo lo scoppio di una rivolta contro i migranti. I Siriani hanno segnalato commenti razzisti e temono di parlare arabo in pubblico per paura dell'incolumità personale. Una donna siriana di 70 anni è stata recentemente presa a calci in faccia da un turco a Gaziantep.

Il numero di rifugiati espulsi dalla Turchia è aumentato del 70 per cento quest'anno.

"La Turchia sotto Erdogan non dovrebbe e non può essere vista come un alleato", ha affermato il senatore Bob Menendez del New Jersey, il democratico a capo della Commissione per le relazioni estere del Senato, dopo l'incursione della Turchia in Siria del 2019. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito Erdogan un "autocrate", ha detto che avrebbe sostenuto gli sforzi dell'opposizione per sconfiggerlo e ha insinuato che la Turchia aveva aiutato l'ascesa dell'ISIS permettendo ai combattenti stranieri di attraversare il confine con la Siria.

https://www.mideastdiscourse.com/2022/06/14/syrians-live-in-turkey-without-dignity-or-rights/


mercoledì 15 giugno 2022

Memorie di Siria

Deir Sim'an, Campo Santo
 
di Maria Antonietta Carta

Una volta, più di duemila anni fa, su un piccolo colle, Tell Neshin, Collina delle donne in Siriaco, sorgeva il villaggio di Telanissos, Collina delle donne in Greco.

Gli uomini, in quei tempi, Dio lo chiamavano Madre e poi sole Sole e anche Tempesta. Gli alberi e le grotte erano templi e già si sapeva che la Vita nasce dalla Morte.

Poi vennero i tempi in cui Dio cominciò a essere chiamato Cristo, Alfa e Omega, Salvatore, e Telanissos, abitata da asceti, mercanti, artigiani e visitata da folle di pellegrini che vi giungevano per venerare un santo vivente, cominciò a trasformarsi in una piccola città paleocristiana dove il sacro si mischiava al profano, le preghiere ai commerci e alle giostre di cavalli. Una fiorente piccola città del turismo religioso di allora. Le terre circostanti erano attraversate da numerose vie di comunicazione. Da Antiochia a Chalcis, il deserto di San Gerolamo, ad Apamea E ai porti dell’Eufrate, le piste si affollavano di carovane, eserciti, pellegrini e monaci infervorati che per esaltare la nuova fede abbattevano spesso i templi dei padri.

Più di mille anni fa, Telanissos fu abbandonata e rimase deserta finché, sulle rovine, da pochi decenni è tornato a nascere un villaggio che però ha un nome nuovo, Deir Sim‛an, monastero di Simeone in Arabo, dal santo venerato quindici secoli prima: Simeone Stilita.

I moderni abitanti, che chiamano Dio Allah cioè Dio, non celebrano più Simeone, ma hanno chiamano il loro villaggio con il suo nome!

Deir Sim'an, edifici del villaggio moderno

Deir Sim‛an, avvolto in una quiete particolare: la placidezza di chi ha conosciuto tutto ed è anche rinato dalle ceneri, e che niente può più stupire. Così mi apparve la prima volta che vi arrivai, assolutamente per caso: una città morta che stava rinascendo. Abitazioni nuove a pan di zucchero e rovine di edifici monumentali con porticati su pilastri e colonne, chiese, sepolcri. Qualcuno aveva stabilito la sua dimora nelle solenni vestigia di una basilica con il suolo disseminato di colonne e capitelli abbelliti da lussureggianti foglie di acanto come mosse dal vento. Massaie stendevano al sole il loro bucato tra le pietre rovesciate. Una mucca e un cavallo, affrontati come in un disegno dell’antica Mesopotamia, riposavano tranquilli, i corpi possenti adagiati con grazia dentro l’emiciclo dell’alta abside centrale. Mi sembrarono gli emblemi di una natura che fu divina. Un arco trionfale ferito si stagliava solitario nell’azzurro del cielo alle pendici di una collina.

Erano i primi anni ’80, vivevo da poco in Siria e non avevo mai sentito parlare di Simeone Stilita, delle Città morte paleocristiane, numerosissime nella regione come avrei scoperto in seguito, e neppure dei movimenti monastici del deserto sorti nei primi secoli per sfuggire alle pastoie di una Chiesa trionfante e subito complice-asservita al potere temporale.

Rimasi incantata da quell’apparizione inattesa.

andron

Sono tornata spesso nei luoghi in cui quel giorno ormai lontano mi condusse il caso impersonato da mio marito. Trascorrevamo le vacanze a Bedrusiyyeh. Un villaggio ai piedi del Jebel Akra‛ - il monte sul quale un tempo sorgeva la dimora dorata del dio ugaritico Baal e dove l’imperatore Adriano aveva celebrato sacrifici a Giove - con una lunghissima spiaggia scura bagnata dal Mediterraneo. Appena svegliati, Maarouf disse: sono stanco del mare. Perchè non andiamo a farci un giro?

Lui ama guidare l’auto. Dietro a un volante è felice come un bambino felice. Così, ce ne andammo a spasso attraversando il jebel costiero, il fiume Oronte a Jisr al-Shughour, le ultime propaggini del Jebel Zawiyeh e ancora su, verso nord-ovest, lasciando la via di Aleppo per Bab el-Hawa, la porta del vento, e sempre avanti senza meta spensierati fino alla visione di quello straordinario sito.

Non dimenticherò mai l’improvvisa visione di quegli antichi edifici inaspettati, quelli che avrei in seguito scoperto essere monasteri paleocristiani e le chiese in rovina come risaltavano nell’aria piena di luce, e dentro Maarouf e nostra figlia Salima, la mia cara famiglia sorpresa ed emozionata per l’avventura di quella tarda mattina d’estate.

Ero giovane allora, e non troppo contenta al pensiero di trascorrere la vita in Siria. Ma ci avrebbe pensato la Siria, strega incantatrice, a farmi cambiare idea. A sedurmi.

Come si chiama questo posto? – chiedemmo a un contadino. Deir Sim‛an – ci rispose, invitandoci a casa sua.

Ho finito per appassionarmi a questa straordinaria regione delle Città Morte.

panorama del Massiccio Calcare

Quante volte poi, non più per caso, Maarouf ha dovuto accompagnarmi!

L’ho studiata e ne ho scritto. Eppure, visitandola provo sempre la stessa emozione di quel giorno lontano. ‘’Chissà - spesso mi domando durante le mie peregrinazioni tra le rovine - dove saranno i discendenti degli antichi abitanti che hanno dovuto abbandonare questi luoghi fuggendo a guerre e carestie. Avranno conservato la coscienza di una patria perduta? ‘’ 

Qatura, mausoleo di Aemilius Reginus

È un altro mattino d’estate. Sono qui per fare delle foto per una rivista spagnola. Ecco le vestigia della via sacra e dell’arco trionfale che forse fu danneggiato da un terremoto o da una guerra.

Entrambi piaghe di questa terra.

Un’alta colonna superstite incoronata da un capitello corinzio si erge ancora solenne verso il cielo.

Oltre la spianata in cui si radunavano i pellegrini, una cappella mortuaria paleocristiana è diventata mausoleo di un santo islamico e per lui adesso ardono a Deir Sim‛an le lampade a olio in terracotta. Il mihrab indica la direzione della Mecca a chi vuole pregare.

In un Campo Santo, preceduto da un portico su colonne e annesso a un monastero monumentale, ostinate resistono al suolo poche tessere di mosaico.

Sul muro di un ospizio per gli antichi viaggiatori è incisa una croce-fallo: il principio fecondatore.

Sono moltissime le pietre delle costruzioni che recano scolpiti simboli: quadrati, triangoli, ottagoni, cerchi, alberi della Vita, colonnette votive, rosette, stelle, ruote...

Immagini di universi invisibili.

Radici.

L’architrave della porta di una casa è decorato con una croce svastica racchiusa da un quadrato e da un cerchio. Rappresentazione del Principio, della Conoscenza, geometria del Sole e di Gesù, eppure inevitabilmente legata a un turbinoso livore. Allo strazio di una guerra.

Emblemi – maschere.

Pretesto per dissimulare oscuri abissi.

Risalgo il monte.

Questi territori, che nei primi secoli della nostra era fertili e ricchi di traffici e colori, si presentano ora come un mare procelloso di rocce grigie. Se ne riceve una sensazione d’immenso abbandono. Di cataclisma cosmico che ogni volta mi affascina e mi sgomenta. 

Qualche albero, però, sta crescendo nuovamente, tenace come un’attesa difficile e qualche campo arato nasce tra le pietre.

Deir Sim'an, monastero

Arrivo in cima alla collina dove, miraggio dorato nel caos del deserto calcareo, sulla spianata sorge il grandioso santuario di Simeone stilita, edificato quindici secoli fa per un ‘’pazzo di Dio’’ che si era messo in testa di soggiogare il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere mantenendo la padronanza di se per elevare lo spirito. Visse esponendosi per trentasei anni alle tempeste, al gelo e al sole bruciante su una colonna. Protagonista di una fede estrema, soggiogava il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere vivendo i patimenti come fuga mistica dalle passioni terrene. Alla morte di Simeone, l’esercito di Leone I si era assicurato con la forza le sue utili spoglie mortali e l’imperatore Zenone aveva fatto erigere il monumento, probabilmente più per calcolo politico che per celebrare il santo carismatico.

Ammiro e capisco la maestosità dell’opera architettonica, ma resto sconcertata davanti alla vicenda umana e spirituale dell’uomo che la ispirò.

Essa mi appare folle.

La ragione si sente inadeguata.

È ciò che ho provato sin dalla prima volta che salii su questa montagna deserta, guardando il grande tempio solitario col tetto e le finestre spalancate al cielo e battuto dal vento che filtrava tra i rami degli alberi come una musica o un respiro arcano. Avvertendo l’assurda sensazione di aver raggiunto un luogo che dovevo aver già incontrato in non so quale sogno.

Mi capita spesso di provare la suggestione di un legame lontano con questo Paese che sembra, da millenni, una specie di tempio cosmico in cui gli esseri umani si sono inventati ogni genere di culti e di riti. È quello che avverto sia nei centri abitati sia negli spazi aperti, dove ogni altura, ogni valle, ogni anfratto nascosto pare conservare il segno di una qualche devozione. Perché?

Mi sgomenta l’ostinazione dell’uomo a voler restare sottomesso ai numi tutelari che non cessa mai d’inventarsi. Mi tornano in mente due leggende su Simeone. Una amara e una gentile. Come le due facce della vita: terrifica e benigna. Mi piacciono le leggende e mi è sempre piaciuto ascoltarle. In esse si occultano le debolezze più intime, i dubbi più profondi, i sogni più audaci e il timore e la fragilità umana che da sempre ha sentito l’irresistibile bisogno di forgiare divinità da cui dipendere.

1. Dopo venti anni, la madre di Simeone scoprì dove si trovava il figlio. Accorsa in gran fretta, dopo la lunga separazione desiderava vederlo senza dovere ancora attendere. Ma non le fu concesso di contemplarlo. Poiché lei bramava ricevere la benedizione dalle sue sante mani, dovette salire sul muro. Avvenne che, mentre saliva sulla scala, fu precipitata a terra prima di aver potuto vedere Simeone. Allora, egli le mandò a dire: «Perdonami, madre. Se ne siamo degni, potremo vederci in questo mondo.» Avendo udite queste parole, sua madre ardeva ancora di più dal desiderio di vederlo. Allora S. Simeone le mandò a dire: «Calmati, signora madre. Poiché tu sei arrivata da molto lontano e ti sei stancata per me miserabile, bene! Siedi e ristorati. Io ti vedrò più tardi.» A quelle parole, sua madre sedette e, immediatamente rese l’anima a Dio.

I guardiani del luogo vennero a risvegliarla, ma la trovarono morta e annunciarono la notizia al santo. 

2. Sul corpo di un serpente femmina spuntò una grossa pustola e a causa delle sofferenze essa fece una corsa di circa un miglio. Il maschio, addolorato per le sue pene, la prese e la condusse da San Simeone, ma arrivati presso la colonna si separarono. La femmina, non osando mostrarsi al giusto, si recò nel luogo destinato alle donne. Il maschio invece confusosi tra la folla dei pellegrini raggiunse la colonna e la abbracciò levando e abbassando la testa in segno di venerazione verso il giusto. Vedendo quel serpente enorme gli uomini fuggirono lontano, ma Simeone disse loro: non fuggite, fratelli, esso è arrivato qua con una supplica. La sua femmina è molto ammalata ed è andata nella sezione delle donne. Poi disse al serpente: « prendi dalla terra un po’ di fango e portalo a tua moglie, applicaglielo e soffia su di esso. Questo fango la guarirà.»

Dopo aver raccolto un po’ di fango, il serpente tornò dalla compagna. I pellegrini lo seguirono per vedere cosa avrebbe fatto e videro oltre il recinto il serpente femmina con una grossa escrescenza. Il serpente maschio le applicò il fango e dopo averci soffiato sopra la guarì alla presenza di tutti. Poi andò via con lei. Assistendo a questo mistero la folla rese grazie a Dio.

Faccio le foto poi torno a piedi al villaggio, alla via sacra che si perde tra le pietre rovesciate, e ancora immagino le processioni di Arabi, Germani, Galli, Bretoni, cittadini della decadente Roma imperiale e Iberici, che con i ceri in mano cantavano preghiere e speravano miracoli.

Una moltitudine di uomini diversi uniti da una fede.

Per alcuni secoli.

Un giorno.

Una monade di eternità.

In un piazzale desolato, confinante con i monumenti, alcuni uomini fabbricano mattoni di fango e paglia. Come i loro antenati.

Sono le dodici, l’ora della seconda preghiera. Il muezzin intona il Takbir: la lode a Dio. 

Dio é il più grande. Dio è Uno. 

Nei campi circostanti, lavorano delle donne. Le loro schiene sono curve sul terreno. I loro vestiti a colori vivaci screziano le zolle ferrigne scivolate dai fianchi nudi della collina. Quelle liete macchie di colore mi riempiono di mestizia. Le incolpo di mistificare la fatica contadina. La fanno bella e dolce come un quadro di Corot.

L’intensa bellezza del dolore! Penso arrabbiata. E ingiusta.

Non è la bellezza una meravigliosa riposante consolazione?

Anche nelle case più povere, nelle baracche, nelle tende dei nomadi ho sempre trovato un qualche adorno, e anche nelle donne più stanche un qualche commovente segno di civetteria.

Poco lontano, oltre una valle, si staglia il cono solitario del Jebel Sheikh Barakat, il monte Korifeo, sulla cui sommità si offrivano sacrifici a Giove. E al Sole. 

O Signore, o luce della terra

Solamente tu sei risplendente.

È un giorno di festa. Il pulmino per il vicino centro di Deiret Azzeh ritarda.

Il sole sta ormai diventando alto e troppo caldo.

Non ho voglia di aspettare. Decido di fare l’autostop.

Mi danno un passaggio alcuni uomini provenienti dalla valle di Afrin su un autocarro carico di cipolle che stanno trasportando ad Aleppo. Il loro sguardo è riservato – rispettoso - incuriosito. Dall’alto della cabina, ci viene incontro la valle di Qatura, dove si conserva un insediamento di legionari e coloni romani con i loro culti agrari scolpiti nella pietra e la necropoli e il mausoleo di Emilio Regino ,un soldato ventunenne morto duemila anni fa. 

Giù in basso a Ovest verso il Mediterraneo, la valle di Antiochia che attraversarono gli eserciti assiri, Alessandro il Grande, Dario, Zenobia di Palmira, Aureliano, Giuliano l’Apostata..., è coperta da una leggera bruma. A Nord, la valle del fiume Afrin e le grotte dove uomini di Neanderthal ricevettero una sepoltura rituale. Più lontano, si leva la catena dell’Amanus che Plinio chiamò Montagne d’argento.


A Deiret Azzeh ci separiamo, ma essi continuano a salutarmi sventolando le mani dall’alto dell’autocarro. Rispondo al loro saluto finché scompaiono all’orizzonte.

Noleggiata un’auto, scendo verso la valle dell’Oronte fino a Derkush, villaggio situato su una striscia di terra lambita dal fiume che qui scorre dentro la stretta gola tra il Jebel Wastani e il Jebel el-Qussayr, che Strabone chiamò Cariddi. Rovine del ponte romano e del porto fluviale da cui partivano i blocchi di calcare e i prodotti agricoli per la vicina città di Antiochia. Un sacrarium con centinaia di nicchie, tracce di un tempio forse risalente al regno di Antonino Pio e dedicato a Zeus Betylos; grotte votive, si pensa per il culto popolare della divinità delle acque, Atargatis - la Dea Syria e Tifone - il fiume Oronte divinizzato. Sopra l’ingresso ad arco di un sepolcro ipogeo sono incise le parole di un racconto di pietà:

L’anno quattrocento (di Antiochia, 352 d. C.)

il giorno ventisette del mese di Panemos

Eutikes Marone capo battelliere

alla dolcissima Domitilla madre mia:

Coraggio mamma, nessuno è immortale.

 

Precarietà di foglie al vento e amore sconfinato.

Passioni che incessantemente attraversano il tempo e gli spazi.

Che sempre confondono, travagliano o esaltano.

Uguali per tutti e non vogliamo accorgercene.

Nello specchio del fiume si riflettono giardini di melograni.


Queste sono alcune pagine del mio diario scritte a metà degli anni ‘90 del secolo scorso, molto prima che la guerra devastasse quel prezioso Paese che era la Siria. Quando in Siria era dolce vivere. Ora, il santuario di S.Simeone e la maggior parte degli altri luoghi descritti sono occupati, devastati e saccheggiati dai terroristi o dagli occupanti turchi.  Domenica prossima sarà pubblicato un mio articolo dedicato al monastero di S. Simeone stilita.

Le foto pubblicate in questo articolo sono dell'autore, M.A.Carta

lunedì 19 luglio 2021

Cinema siriano "Il Sangue delle Palme"

Intervista all’attore Mohamad Folfola, 
che interpreta l’archeologo
Khaled al Assaad torturato e ucciso 
dai terroristi dell’ISIS a Palmira.

Di Maria Antonietta Carta e Salima Karroum


Il film (del 2019) ricorda gli ultimi giorni e la fine tragica dell’illustre archeologo che dedicò l’intera esistenza a ricostruire il passato di Palmira. Tuttavia, si tratta di un’opera corale che oltre al martirio di Khaled al-Assaad rievoca la dolorosa via crucis di un manipolo di soldati della guarnigione, che tra l’altro devono portare in salvo i tesori archeologici, e degli abitanti della propinqua Tadmor quando un’orda di criminali terroristi invade la regione. Ma non si tratta soltanto di un racconto particolare sull’assalto brutale all’antica città carovaniera. Mentre scorrono le immagini, dense di pathos e richiami simbolici, appare sempre più evidente che gli autori hanno inteso evocare l’immane sciagura che si è abbattuta sull’intera Siria causando sconvolgimenti e sofferenze inenarrabili.

L’archeologo e la regina. Tra dura realtà e sogno 

All’inizio del film, Khaled al-Assaad appare in momenti felici della sua infanzia e della prima giovinezza, tra le antiche rovine per lui colme d’incanto, insieme all’immagine onirica di Zenobia, che lo accompagnerà anche durante la sua prigionia e nell’epilogo. Queste due figure sono i fili conduttori di una narrazione cinematografica in cui non prevalgono le scene del conflitto guerreggiato ma che rappresenta, con profonda pietas, l’anima di un popolo travolto dalla brutalità della guerra, il suo coraggio, la fierezza, la dignità, l’amor patrio, la passione per la poesia e per la vita, ma anche il tradimento e la slealtà degli avidi e dei vigliacchi.

La regina di Palmira, come la Grande Dea Syria Atargatis custode delle città o l’Atena protettrice delle arti e soccorritrice degli eroi, invisibile ma sollecita presenza al fianco dei soldati e dell’archeologo sembra l’emblema della Siria che, come una madre, non può abbandonare il suo popolo.

Il martirio e la speranza

Se i cronisti della storia riportassero onestamente le tormentate vicende che sta attraversando questo infelice Paese da più di dieci anni dovrebbero raccontare, oltre alla somma ingiustizia di una guerra infame, la forza morale e la nobiltà di una nazione straordinaria, rappresentate mirabilmente nella scena finale quando Zenobia e Khaled al-Assaad fidenti consegnano il futuro a un bimbo.

Una scena breve ma di magnifica bellezza tra le dorate vestigia, mentre versi del poeta palmirene Omar al-Farra risuonano come un testamento spirituale per le nuove generazioni.

La patria è fierezza, dignità e risveglio della coscienza.

La patria è pazienza, determinazione e forza della fede.

La patria figlio mio non abbandona,

Come può accadere a chiunque in un attimo di follia.

La patria è di chi ha radici che affondano nella storia che attraversa i tempi.

La patria è di chi fa verdeggiare il deserto

E semina nella roccia un giardino.

E la speranza sembra rifiorire, come una luce che illumina un buio e impervio sentiero, per il popolo indomito della Siria.


‘’Il Sangue delle Palme’’ doveva arrivare in Italia l’anno scorso. Non fu possibile a causa della pandemia. Oltre a essere un film bello e originale, è una testimonianza, se ancora ce ne fosse bisogno, dello spirito di resistenza dei Siriani.

 

Scena con soldati della guarnigione e l’archeologo



Uno dei personaggi del film di Tadmor, 
protagonista anche della scena finale. 


 

L’attrice Majd Na’im che interpreta la regina Zenobia


Mohamad Folfola con Najdat Anzour, regista del film.


Intervista a Mohamad Folfola

1) Vuole presentarsi ai lettori italiani?

Sono nato nel 1956 a Maarrat Masrin nel nord della Siria. Ho lavorato per lunghi anni nel teatro per bambini e delle marionette. Poi sono passato a lavorare nella radio, nella televisione e nel doppiaggio.

2. Com’è per lei vivere in Siria durante i lunghi anni di guerra?

La guerra è molto difficile per tutti. Io non ho lavorato nel campo artistico per quasi nove anni.

3. Che cosa ha provato quando le è stato proposto di interpretare Khaled al- Assaad negli ultimi, drammatici, giorni della sua esistenza?

All’inizio, una felicità traboccante. Subito dopo però ho sentito un grande timore. Era un ruolo molto sensibile e di grande responsabilità.

4. Com’è stato lavorare con un regista particolare come Najdat Anzour?

Lavorare con Najdat è molto piacevole. Lui ha una visione originale della regia e lavora con grande passione. Sa cosa vuole dagli attori e dai tecnici. Mi ha sempre messo nella condizione ideale per esprimermi al meglio.

5. Com’era l’ambiente durante la realizzazione del film, mentre la guerra continuava a imperversare?

Si girava in condizioni molto difficili e rischiose. Abbiamo lavorato con grande prudenza e sempre in completa segretezza nei diversi luoghi di ripresa.

6. Com’è nata l’idea di includere nella narrazione la figura della regina Zenobia?

L’idea è stata di Diana Kamal Eddin, una scrittrice molto creativa, in sintonia con Najdat.

7. La colonna sonora, del musicista Ra’d Khalaf, molto bella e suggestiva, è stata composta per il film?

Si, sono musiche originali create espressamente per il film.

8. La scena finale esprime speranza e fiducia nel futuro, nonostante viviate nella tempesta della guerra. Che cosa può dirci di questa scelta?

Si è inteso dare un messaggio chiaro sul fatto che noi sacrifichiamo noi stessi perché le generazioni a venire possano vivere in pace.

9. In Occidente, molti purtroppo credono nella propaganda a favore della guerra contro il suo Paese, che ha convinto la maggior parte delle persone che sia una guerra giusta per la democrazia e la libertà. Desidera fargli arrivare un messaggio?

Chi segue le notizie sa bene che la Siria è stata esposta a una guerra universale e sa che molti dei suoi territori sono stati occupati.

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Zenobia appare all’archeologo imprigionato

             Zenobia e Khaled al-Assaad conducono il bambino verso il futuro.

Mohamad Folfola è un uomo gentile e affabile. Ci ha colpito la sobrietà delle risposte. Quel suo non mettersi in evidenza sia quando risponde laconicamente alla nostra domanda sulle difficoltà di vivere dentro una guerra, sia a quella sui rischi affrontati durante la lavorazione del film. Una compostezza e una ritrosia spesso presenti in chi subisce un conflitto armato. Concisa ma tagliente l’ultima risposta. Sì, hai ragione, chi segue le notizie sa bene che il tuo Paese è stato esposto a una guerra universale, anche se si lascia più o meno confondere dalla propaganda vergognosa di chi vuole distruggerlo.

Grazie, Mohamad Folfola. Auguri vivissimi e speriamo di incontrarti in Italia a una prossima presentazione del film.

venerdì 30 ottobre 2020

La follia dei Guerrafondai e il senno dei Giusti

 Di Maria Antonietta Carta

Fra due settimane circa, uscirà in Italia Lettere da AleppoTestimonianze dalla Siria in guerra, di Nabil Antaki e Georges Sabé (ed. L’Harmattan), un libro sugli anni tremendi di una città divisa e sotto assedio e della sua sventurata popolazione, entrambe lacerate profondamente dalla guerra scellerata e funesta contro la Siria.


In quella città martoriata, gli autori vivono, soffrono, agiscono e gridano al mondo le ignominiose atrocità che vi si consumano. 

Il libro comprende una serie di lettere scritte negli oltre cinque anni  di conflitto (per aggiornare amici, estimatori e donatori stranieri sull’evolversi della situazione ad Aleppo e sulle numerose attività di sostegno svolte dalla loro associazione, i Maristi Blu, in favore degli sfollati e dei più indigenti), alcune interviste, brevi note su giorni o avvenimenti molto critici o cruciali e passi di una narrazione più personale, in cui traspaiono lo sconforto, una dolorosa impotenza, una giusta collera, momenti di accesa inquietudine, quando sopraggiungevano situazioni particolarmente dure, e la speranza, coltivata con fede incrollabile. Questi scritti impressionano per la tremenda realtà che raccontano ma anche per l’autentica e toccante umanità dei sentimenti rivelati, per la straordinaria forza d'animo e per la spiritualità profonda che li permea e che riflette la concezione dell’esistenza dei due autori, Siriani cristiani. Ma ognuno, credente, ateo o agnostico, può incontrare spunti di riflessione proficua nel loro libro, che tocca temi universali quali la dignità umana, la giustizia, l'asservimento dei mezzi di comunicazione, l'autodeterminazione dei popoli, la sofferenza e la devastazione causate dai prepotenti che si arrogano il diritto di dominare il mondo etc. 

 

L’autore siriano Hanna Mina scrive nel romanzo al-Shira‘ wa al-‘Assifeh (La Vela e la Tempesta): La speranza è come una fune lunghissima che si prolunga sino al confine estremo della vita.

Un amico di Latakia, Rami Makhoul, in un post che ho tradotto per un articolo recente, Voci dalla Siriaconsidera: Questa nostra vita che perde gusto e colore se non concediamo spazio alla speranza nel rinnovamento.

Speranza (Amal) è anche un nome femminile molto comune in Siria.

Forse, è proprio la speranza, declinata in varie maniere, che tiene i Siriani ancorati alla vita, nonostante patimenti e difficoltà indicibili.

 

Amo questo libro e sono grata a Nabil Antaki che me l’ha affidato per la versione italiana. In certi momenti, mentre traducevo, i miei occhi si velavano di lacrime per la commozione o per la pena.  Sicuramente, vi sono errori e imperfezioni dovuti alla mia negligenza ma anche al fatto che ho voluto rispettare il testo. Nella versione originale in francese, infatti, non furono apportate correzioni per lasciare intatto il carattere di urgenza e di spontaneità a quelle pagine scritte mentre si svolgevano gli eventi che gli Aleppini pativano: era la volontà degli autori e ho scelto di non tradirla.

 Mentre lo leggevo per la prima volta, le riflessioni si affollavano nella mia mente, ma ora provo quasi ritrosia a commentarlo.  Noi Occidentali ci arroghiamo troppo spesso la pretesa di capire, interpretare o commentare la realtà di coloro che consideriamo ‘’diversi’’ invece di ascoltare ciò che hanno da dire o leggere ciò che scrivono. 

Propongo quindi alcuni brevi passaggi con l’augurio che vi stimolino a voler conoscere Lettere da Aleppo, che non è soltanto un documento esemplare sul conflitto siriano ma una testimonianza inestimabile sul valore della conciliazione, dell’altruismo, del mutuo rispetto e sull’insensata, indecente bestialità di questa guerra. Per ciò, è un’opera che merita di essere letta e diffusa, soprattutto tra i giovani.


Se avete intenzione di regalare un libro per le prossime feste, scegliete Lettere da Aleppo; sarà un atto concreto contro l’ingiustizia e la prevaricazione di chi continua a perpetuare quel cancro immondo che distrugge l’essenza della pace e dell’armonia cioè la sacralità della vita, unica speranza di salvezza per l’umanità.  


Nabil Antaki. 

1. … abbiamo visto colonne di fumo salire verso il cielo e abbiamo incrociato decine di migliaia di persone, cariche di fagotti, che erravano nelle strade alla ricerca di un rifugio. Alcune si sono poi installate nei giardini pubblici, ma la maggioranza ha occupato le scuole pubbliche, chiuse per le vacanze estive, dopo averne forzato le porte. In pochi giorni, 500.000 persone hanno abbandonato il loro domicilio nei quartieri est e sud di Aleppo, diventando sfollati. E lo sono a tutt’oggi. I ribelli hanno invaso i quartieri in cui vivevano, adesso teatro di violenti combattimenti. 

A Jabal al-Sayideh, vi sono quattro scuole pubbliche e lì si ammassano circa trecento famiglie prive di tutto: niente acqua, elettricità e servizi igienici. Non hanno materassi per dormire né cibo per sopravvivere. Impossibile restare indifferenti! Il nostro gruppo ha deciso senza esitare di sostenerli. Con una trentina di volontari, ci rechiamo in queste scuole e cerchiamo di rimediare ai problemi più urgenti. Per identificarci, abbiamo cominciato a indossare magliette blu e ogni volta al nostro arrivo gli sfollati gridano: i blu sono arrivati! … 

Nelle nostre lettere, raccontiamo i drammi che abbiamo vissuto attraverso numerose persone: i nostri cari uccisi, feriti, amputati o scomparsi; la miseria e le sofferenze delle famiglie sfollate che abbiamo soccorso e dovuto alloggiare, nutrire, vestire e curare; la condizione dei bambini di cui siamo responsabili, a cui la guerra ha rubato l’infanzia; il problema dell’esodo di migliaia di nostri concittadini che hanno visto i loro sogni spazzati via e che sono emigrati per assicurarsi un futuro sotto cieli più clementi. 

Raccontiamo anche i gesti esemplari di solidarietà di cui siamo stati testimoni, i tesori di generosità che abbiamo scoperto; la straordinaria resilienza degli Aleppini e la nostra risposta a questa guerra tragica; le azioni e i progetti intrapresi con la nostra Associazione di solidarietà basata sulla relazione umana con la persona soccorsa, sul rispetto della dignità calpestata dalla guerra e dalla miseria, sull’accompagnamento e l’ascolto. Il nostro moto è «Seminare la speranza» e il nostro programma si riassume in una frase: «Viviamo la solidarietà con i più deboli per alleviare le sofferenze e promuovere l’uomo».


2. … Noi, ad Aleppo, non avevamo notizie; non sapevamo nulla di quanto succedeva poiché i telefoni cellulari non funzionano nella regione di Khanasser. Eravamo preoccupati perché l’autobus ritardava. Soltanto verso le ore 20, l’autobus può riprendere il viaggio. Finalmente riceviamo notizie. L’ambulanza è pronta all’entrata di Aleppo. Appena l’autobus arriva, portiamo Amin in ospedale, dove ci attendono medici e chirurghi, ma Amin è già morto quando arriviamo. Terroristi, perché avete sparato contro un autobus? Ammazzare un civile fa avanzare la vostra causa? La democrazia e la libertà non c’entrano niente con voi, banda di criminali. Sapete chi avete ucciso? Forse la madre di uno di voi è stata curata da mio fratello Amin per restare incinta, banda di assassini. (Da: Hanno ammazzato mio fratello)

 

Georges Sabé. 

1. E se domani mi svegliassi al rumore delle raffiche vicino a me o a casa mia, cosa farei? Prenderei anch'io la carta d'identità e il poco denaro che mi resta e partirei? Partire, dove, quando, come, cosa prendere, cosa lasciare? Addio, amici! Addio, famiglia! Addio, terra! Addio, strada! Addio, casa! Addio a noi. Più niente sarà casa mia. … Perché io? Quale errore ho commesso? Quale peccato? La vita è forse un eterno peregrinare? Al catechismo mi hanno insegnato che su questa terra noi cerchiamo il cielo; ma quale cielo? E se il cielo fosse il riflesso della terra? I miei occhi tacciono, non parlano più, non sorridono più e non piangono più. Nessuna lacrima. In ogni caso, perché piangere, perché ridere, perché parlare con gli occhi, perché esprimere ed esprimersi? Meglio essere discreti, non mostrarsi né mostrare. Sono vuoto, svuotato. Al mattino mi alzo per andare da nessuna parte, per pianificare un niente, per uscire sul posto, per sognare l'oblìo, per attendere l'istante che è là. Il giorno passa; è il sole che me lo annuncia. L'oscurità mi dice il tempo, la luna segna il giorno. Il giorno passa e non so più se è ieri o domani. Non si assomigliano per nulla e sono tutti uguali.


2. …Viene a sedersi al nostro tavolo, si stabilisce nei nostri cuori e nelle nostre menti, s’invita al nostro quotidiano e lo trasforma. La guerra è qui. Viene per annunciarci la sofferenza e la morte. Viene a dirci che bisogna odiare, che bisogna distruggere i ponti e le relazioni. La guerra è qui. Le sue macchine stanno funzionando a pieno ritmo e i suoi tamburi battono fortemente. Viene a trasformare le nostre notti in un lampo e il calore dei nostri giorni in una fornace. La guerra è qui. Viene a sporcare le nostre mani. Costringe tanti innocenti a impugnare le armi… La guerra è qui. Viene a dirci: «Non vi lascerò. Vi amo tanto. Vi voglio. Vi invito al mio banchetto. Non perdete l’appuntamento. Ecco l'indirizzo: Aleppo, strada della vergogna, palazzo della miseria, piano della sofferenza». 

La guerra è il nostro quotidiano, ma noi ci rifiutiamo di partecipare al suo banchetto. Scegliamo la vita… 

lunedì 28 settembre 2020

Voci dalla Siria

Aleppo, 21 settembre 2020. (Foto di Pierre le Corf)

di Maria Antonietta Carta

Damasco, 26 settembre 2020. Pierre le Corf, un umanitario francese che da molti anni condivide la vita e i patimenti della popolazione siriana, scrive: ‘’La vita qui si svolge tra guerra e sanzioni economiche, crimine contro l’umanità. Se riuscite a sopportare ciò senza che il vostro cuore tremi, proseguite per la vostra strada; altrimenti, considerate chi paga il prezzo di questa partita mortale su grande scala contro un Paese e la sua gente e tenete il cuore aperto’’.

Latakia, 18 settembre 2020. Rami Makhoul scrive: ‘’Che sapore ha la vita se non resta più spazio per la speranza? Tutto il popolo siriano è sotto la soglia di povertà e la nostra esistenza è diventata un inferno insopportabile? Questo non è veritiero del tutto. Non rispecchia puntualmente la realtà dei fatti.

In Siria oggi, esiste uno strato della popolazione che è riuscita, in breve tempo, a creare enormi ricchezze con la forza, con l'influenza e con il potere del denaro: corrotti, opportunisti, ladri e trafficanti della crisi. Essi sono riusciti a raddoppiare il loro denaro. Il meno che si possa dire è che sono percorsi illegali. Ma la domanda più importante che si pone è: Quale soluzione per affrontare questa condizione anomala e difficile che stiamo vivendo? Emigrare può essere la soluzione?

Un buon numero di Siriani ha bussato alle porte dell'emigrazione. Hanno chiesto asilo ​​in Paesi lontani. Estranei. Alcuni di loro sono riusciti a ottenerlo, ma la stragrande maggioranza non ha acquistato un'identità alternativa a quella originaria.

Sono ancora disponibili opportunità di lavoro all'estero, soprattutto in Libano, Iraq o Paesi del Golfo? Purtroppo, le opportunità sono diventate quasi inesistenti a causa delle battute d'arresto subite dalle economie di questi Paesi come effetto collaterale della pandemia, che ha provocato un crollo clamoroso dei sistemi economici tradizionali.

Ci sono altre soluzioni a cui ricorrere oltre a emigrare e lavorare all'estero? Purtroppo, non ci resta che cercare di rimanere in vita e affrontare le grinfie della fame... oppure rassegnarci e morire sconfitti. La sofferenza è indescrivibile. Enorme quasi per tutti. Molti di noi si rimproverano per non aver ceduto alla scelta di partire nel momento in cui le condizioni per l’emigrazione erano favorevoli, ma nessuno merita di essere biasimato per aver scelto di vivere nel proprio Paese come alternativa naturale all’emigrazione. Il senso di appartenenza alla patria è non soltanto istintivo, ma anche ragionevole per ogni essere umano ovunque si trovi.

Smettete di incolpare voi stessi per avere voluto aggrapparvi alla vostra identità ed essere rimasti fedeli alla memoria e ai vostri cari. E per avere rinunciato all’esodo nonostante l'amplitudine delle sofferenze e le difficoltà immani.

Si sa che niente dura per sempre, che tutto muta e che nella nostra terra natale c’è davvero qualcosa per cui resistere e vivere. Stiamo tutti in attesa della liberazione affinché la nostra esistenza migliori, ma anche per ritrovare il diritto di fare i conti con i corrotti e i negligenti. Insomma, perché la ruota della vita torni a girare normalmente. Questa nostra vita che perde gusto e colore, se non concediamo spazio alla speranza del rinnovamento e del ritorno ai bei vecchi tempi. A come eravamo.’’

Rami, che è stato per molto tempo il dentista della nostra famiglia ed era un ragazzino quando arrivai in Siria nel 1978, alla vigilia del primo embargo contro il Paese, ha vissuto 40 anni di sanzioni. Quasi la sua vita intera. La madre, Nawal, era una donna gentile e sensibile, ma aveva anche una grande forza d’animo. Però nel 2011, quando per le strade di Latakia si cominciarono a udire voci che gridavano: i cristiani a Beirut e gli Alawiti nelle tombe, lei ormai vecchia e fragile si spaventò molto perché è cristiana. Eppure, ha resistito. Madre e figlio hanno resistito con quella tempra morale che ammiro e mi commuove nei Siriani che da quasi dieci anni stanno subendo una persecuzione efferata soltanto perché resistono.

Latakia, 24 settembre 2020.
Taxi in attesa da un benzinaio.
(Foto di اللاذقية الآن)

Latakia, 23 settembre 2020. Lilly Martin Sahiounie, Statunitense sposata con un Siriano, che ha sofferto questi lunghi anni di guerra a Latakia, scrive: ‘’In Siria stiamo vivendo una grave carenza di benzina perché le forze armate statunitensi hanno confiscato tutto il petrolio dei due più grandi pozzi petroliferi. Attendiamo dall’estero l’arrivo di due petroliere, ma c'è la possibilità che siano bloccate prima di giungere in porto. Nel frattempo, anziani e malati che hanno bisogno di un mezzo di trasporto per andare dal medico o per altri motivi urgenti, sono quelli che soffrono maggiormente. Un'altra sanzione degli Stati Uniti che rende la vita in Siria un amaro cammino che a molti sembra senza speranza. La cosa triste è che la Siria è così bella e piena di persone adorabili: cordiali e generose. Perché il governo americano dovrebbe pensare che far soffrire i Siriani sia una buona cosa? Riponiamo la fede in Dio e speriamo in giorni migliori senza truppe americane di occupazione che rubano il petrolio.’’

Latakia, 24 settembre 2020, Code di auto, in attesa di poter raggiungere un distributore, ai lati della lunga via 8 Marzo e che proseguono nelle vie circostanti. (Foto Milagros de la Fuente)


Latakia, 25 settembre 2020. Milagros de la Fuente
, spagnola da oltre quaranta anni in Siria e anche lei vittima di questa guerra maligna. Ieri, mi ha inviato foto e cronaca delle code, lunghe perlomeno cinque chilometri, che da giorni ingorgano le vie della città in attesa di qualche litro di carburante. Il che significa migliaia di tassisti e camionisti fermi, lunghi spostamenti a piedi per recarsi a scuola e al lavoro, vecchi e ammalati che non possono andare dal medico… 

Poi al telefono mi ha detto: "Non puoi immaginare quanto costi un chilogrammo di carne di agnello: venti mila lire‘’ (più di un terzo di uno stipendio medio mensile). E siccome, nonostante una quotidianità a ostacoli per l’endemica mancanza di elettricità, di acqua, gas, 44 gradi all’ombra senza poter usare uno straccio di ventilatore e tante altre difficoltà riesce ancora a conservare la sua bella ironia, ha aggiunto: ‘’ Se non ci uccideranno le bombe moriremo tutti vegetariani! Anzi no, moriremo tutti per digiuno. Ricordi quanto costavano a ottobre prima della guerra i pomodori per la salsa?’’ 20, 30 lire, le ho detto. ‘’ Ecco, oggi costano 600 lire al chilo. Non smetteranno di farci la guerra prima di sterminarci tutti‘’. Ridiamo, come siamo sempre solite fare quando non ci va di farci schiacciare dalla vita, ma la sua voce è stanca e io provo una tristezza infinita.

Latakia, 22 ottobre 2019. Rimasto senza lavoro, per sopravvivere va alla ricerca e vende interruttori e fili elettrici vecchi. Una delle innumerevoli vittime della ‘’guerra umanitaria’’ che commina sanzioni mentre saccheggia le ricchezze della Siria. (Foto, M.A.Carta)

Quaranta anni di sanzioni per assoggettare la Siria

Torno ancora sul tema delle sanzioni, perché mi è impossibile non continuare a denunciare questa subdola arma di distruzione di massa che trova il suo compimento più atroce nelle rinnovate sanzioni europee contro una popolazione ormai allo stremo e sul cinicamente denominato ‘’Caesar Syria Civilian Protection Act’’: un vero e proprio strumento genocidiale che, se non sarà sospeso, sottoporrà al supplizio un intero popolo civile e valoroso.

Durante il mio viaggio a Latakia dell’autunno scorso, ho potuto constatare ancora una volta quanto i Siriani siano provati e straziati da questa persecuzione spietata e senza tregua che dura da oltre quarant’anni. Sì, perché la persecuzione economica contro la Siria non è iniziata con la guerra che attualmente la sta devastando.

Quando vi giunsi per la prima volta nel 1978, in un bel giorno di fine estate, la Siria era un cantiere in piena attività: si costruivano edifici residenziali (in parte destinati a militari reduci della guerra del 1973 o alle famiglie di chi in guerra era morto), scuole anche nei villaggi più sperduti, ospedali e Università. Poi, di repente, nel 1979 arrivò l’embargo, decretato dagli Stati Uniti e messo in pratica da tutti i suoi ‘’alleati’’ per punire la Siria che stava dalla parte dell’Iran, Paese aggredito, nella guerra con l’Iraq, Paese aggressore. Fu così che cominciai a imparare quali terribili conseguenze genera l’impiego delle sanzioni: un ricatto ignobile con gli stessi effetti deleteri dell’assedio medievale. L’embargo significò allora traffici commerciali bloccati anche per le enormi quantità di derrate di ogni genere che attraverso le vie terrestri e marittime giungevano a Latakia o ad Aleppo, destinate non soltanto al mercato locale ma a vari Paesi mediorientali. La prima conseguenza fu l’improvvisa perdita del lavoro per centinaia di migliaia di persone: impiegati, marittimi, portuali, camionisti, commercianti, artigiani, che prima conducevano un’esistenza dignitosa. Quindi fame, mancanza di tutti i prodotti essenziali di importazione dall’aspirina ai farmaci salvavita (non esistevano ancora fabbriche farmaceutiche locali), ai macchinari di ogni genere, al ferro per l’edilizia etc. etc. E ci fu una crescita aberrante della corruzione e del malaffare. Aumentarono povertà e privazioni contemporaneamente alla ricchezza scandalosa di affaristi senza scrupoli, autoctoni e internazionali in perfetta combutta, che si trasformarono purtroppo in imprescindibili procacciatori di tutti i beni indispensabili. Proprio come accade oggi. Perché quando a un intero Paese con scarsa autosufficienza di alcune materie prime e di industrie si impedisce l’attività commerciale lecita esso diventa ostaggio e vittima dell’illegalità.

E' difficile immaginare il numero di mutilati o morti per la mancanza di antibiotici, ma persino di sostitutivi del latte materno o di glucosio! o a causa di tante altre privazioni. Io, che ho vissuto in Siria per oltre trent’anni, so. I miei ricordi, indelebili e tremendi, sugli effetti nefasti delle sanzioni sono così tanti che servirebbero ore e ore per rievocarli tutti. Ho visto troppi sventurati patirne le conseguenze, perciò al solo sentirle menzionare provo sempre un dolore profondo. E rabbia, perché le sanzioni sono uno strumento irragionevole, spregevole, disumano.

Anche quelle dal 2006 fino al 2012 causarono danni molto gravi.  La Siria attraversava una difficile crisi a causa di una lunga siccità e per un conseguente aumento del proletariato urbano. Inoltre, doveva affrontare un aggiuntivo costo economico e sociale dovuto alle centinaia di migliaia di rifugiati iracheni, dopo la seconda guerra del Golfo, e di quelli libanesi in seguito alla seconda guerra israelo-libanese del 2006; perché è da sempre accogliente: con gli Armeni perseguitati dai Turchi, con i Palestinesi, con i vicini Libanesi, persino con gli Italiani durante la Seconda guerra mondiale e con tanti altri.

Il motivo pretestuoso fu: dare una risposta alla "minaccia inusuale e straordinaria del governo siriano agli interessi economici, di sicurezza nazionale e di politica estera degli Stati Uniti’’ (sic!). Sinceramente: vi sembra davvero credibile che un Paese più piccolo dell’Italia e con poco più di venti milioni di abitanti potesse costituire una così terribile minaccia per la prima potenza mondiale? Di certo, posso dire che dopo aver demolito l’Iraq si apprestavano a ripetere gli stessi crimini scellerati. Insomma, sanzioni propedeutiche all’inizio del caos in Siria. Ancora di più, molto di più, sono ferali oggi che questo infelice popolo è stanco, anzi stremato e dilaniato da un conflitto brutale che dura da oltre nove anni. Il costo della vita diventa proibitivo anche per chi prima era benestante, perché l’economia di un intero Paese è condannata. Una condanna iniqua contro vecchi, bambini, malati, mutilati, uomini e donne incolpevoli, con la giustificazione paradossale di ‘’misure umanitarie’’. 

Maria Antonietta Carta