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giovedì 11 dicembre 2025

La Siria un anno dopo Assad: il Terroristan della CIA

 di Davide Malacaria

Un anno fa la caduta di Assad e l’ascesa al potere di al-Jolani, attuale presidente della Siria. Così Kevork Almassian sul Ron Paul Institute ricorda quel regime-change iniziato nel 2011. Una nota che spiega perché l’ex terrorista sia stato accolto a braccia aperte da Washington e dall’Occidente. “Cominciamo con la cronologia”, scrive, “perché già solo questa fa pensare che fin dall’inizio si è trattato di un’operazione di intelligence”.

“Abu Mohammed al-Jolani era in una prigione gestita dalla CIA in Iraq – Camp Bucca – insieme a un altro nome familiare: Abu Bakr al-Baghdadi. Entrambi furono rilasciati all’inizio del 2011. ‘Per una singolare coincidenza’ è proprio allora che inizia la guerra per il regime-change in Siria. Nel giro di poche settimane al-Baghdadi diventa il capo di quello che diventerà l’ISIS e al-Jolani attraversa il confine con la Siria per fondare Jabhat al-Nusra – ufficialmente la filiale di al-Qaeda nel mio Paese”.

Al-Jolani e la sua rete sono identificati come terroristi, c’è anche una taglia che pende sulla sua testa, ma “per oltre un decennio, mentre gli Stati Uniti radevano al suolo intere città in Iraq e Siria per combattere il ‘terrorismo’, per qualche oscuro motivo non hanno mai trovato il tempo o le coordinate per colpire seriamente al-Jolani o la sua struttura di comando”. Ciò perché al-Jolani combatteva “contro un governo che Washington aveva deciso che doveva scomparire: lo Stato siriano di Bashar al-Assad”.

Così, mentre al-Jolani e la sua rete iniziano a imperversare in Siria, ha inizio anche “l’Operazione Timber Sycamore: un programma segreto multimiliardario della CIA che ha fornito armi, denaro e addestramento ai cosiddetti ‘ribelli’ siriani. Questi sono stati spacciati all’opinione pubblica occidentale come ‘opposizione moderata’. Sul campo, quei moderati erano una specie in via di estinzione. Ciò che esisteva in realtà erano fazioni salafite-jihadiste fondamentaliste, con al Nusra al vertice della catena”.

“L’Esercito Siriano Libero (ESL) era la maschera, il logo sui documenti, il marchio che si poteva vendere al Congresso e alla CNN. La vera forza sul campo erano gli uomini di al-Jolani e gli altri gruppi takfiri, che combattevano sul serio, conquistavano territorio e imponevano il loro potere. Le armi andavano ‘ai moderati’ e i moderati le consegnavano magicamente ad al-Qaeda. Tutti a Washington fingevano sorpresa, ma nessuno fermò il flusso”.  “Nel corso degli anni, la maschera è caduta. I funzionari statunitensi hanno iniziato a parlare di al-Jolani come di qualcosa di più di un semplice ex nemico. James Jeffrey, ex inviato di Washington in Siria, ha apertamente definito al-Jolani ‘una risorsa’ per la strategia statunitense […]. Robert Ford, ex ambasciatore statunitense in Siria, ha ammesso pubblicamente di aver collaborato personalmente con al-Jolani per ‘toglierlo dal mondo del terrorismo’ e trasformarlo in un politico”.

“Di recente, l’ex direttore della CIA David Petraeus si è persino seduto vicino ad al-Jolani e gli ha detto: ‘Il tuo successo è il nostro successo’. Cosa ha bisogno di vedere la gente? La firma su un contratto di lavoro? Ma supponiamo, per un momento, che pensiate ancora che sia una forzatura. E qui entra in scena John Kiriakou […] un ex agente della CIA finito in prigione per aver denunciato un programma di tortura [della CIA] e aver fatto i nomi dei torturatori. La sua lealtà non è chiaramente rivolta al dipartimento PR dell’Agenzia”.

Di recente, in un programma Tv Kiriakou ha descritto la situazione di al-Jolani senza mezzi termini: “Il ‘nuovo presidente’ della Siria è un ex membro di al-Qaeda e co-fondatore dell’ISIS; lo stesso uomo è accolto alla Casa Bianca; alti funzionari statunitensi lo incontrano […]; il presidente Trump revoca improvvisamente le sanzioni alla Siria mentre al-Jolani consolida il suo potere, spingendo i siriani, disperati ed esausti, a ballare per le strade. L’unica cosa sensata è che al-Jolani sia una risorsa della CIA, conclude Kiriakou”.

“Quando un ex agente della CIA che ha sacrificato la sua carriera e la sua libertà per dire la verità osserva lo schema e dice: ‘Questo è un nostro uomo’, non si tratta più di una teoria del complotto”.   “[…] Credo che al-Jolani sia stato reclutato a Camp Bucca. La cronologia altrimenti non avrebbe senso. Non si esce da una prigione gestita dagli americani e, dopo poche settimane, si hanno magicamente le reti, i soldi, le armi e la capacità logistica per fondare al-Qaeda in Siria, proprio nel momento in cui Washington e i suoi alleati hanno bisogno di un ariete contro Damasco”.

Ma perché gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sostenuto “un uomo simile? La risposta sta in ciò che era la Siria e in ciò che è diventata. Prima di questa guerra, la Siria, nonostante tutti i suoi limiti, era uno Stato integrato. Le persone si identificavano prima come siriane e poi come armene, druse, cristiane, alawite, sunnite, sciite, curde e così via. La sua politica estera era allineata con l’Iran ed Hezbollah, sosteneva i palestinesi e manteneva un atteggiamento di deterrenza nei confronti di Israele. Per Washington e Tel Aviv tutto questo era inaccettabile”.

Da qui il regime-change: “L’obiettivo non era la ‘democrazia’; questa parola era solo la carta del pacco regalo. Il vero obiettivo era rimuovere un governo alleato con l’Iran e sostituirlo con un caos frammentato: un’autorità centrale debole a Damasco, circondata da cantoni settari ed enclavi dominate da signori della guerra, tutti dipendenti da protettori stranieri. Al-Jolani è perfetto per questo ruolo”.   E adesso “un uomo con un lungo passato in al-Qaeda governa la Siria, un incubo per le minoranze: cristiani, drusi, alawiti, sciiti, molti curdi e altre comunità più piccole non accettano il dominio di al-Qaeda. Quindi si ritirano, con le proprie milizie, nei propri cantoni, nei loro mini-stati di fatto, esattamente in linea con le vecchie dottrine strategiche israeliane come il Piano Yinon, che sosteneva apertamente la frammentazione degli stati confinanti a Israele lungo linee settarie”.

Washington ci guadagna il petrolio siriano e il gas dell’area del Mediterraneo adiacente, oltre alla ricostruzione: un affare da “300 miliardi di dollari”. Peraltro, attorno ad al-Jolani si muove “una costellazione di veterani dell’intelligence occidentale e di ONG impegnate nella ‘risoluzione dei conflitti’ che agiscono da intermediari. Gli ambienti dell’MI6 britannico, guidati da figure come Jonathan Powell – ex capo di gabinetto di Tony Blair – svolgono un ruolo centrale nella gestione di questo processo. Powell dirige un’organizzazione chiamata Inter Mediate, specializzata nel ‘dialogo con i gruppi armati’. Dietro il linguaggio umanitario si nasconde un’ingegnosa ingegneria politica”.

“Si dice che una delle agenti di Inter Mediate, una donna di nome Clare Haigh, abbia un ufficio all’interno del palazzo presidenziale siriano e consiglia al-Jolani su come parlare, come vestirsi, come trattare i giornalisti e a presentarsi come un jihadista pentito diventato statista. E poi c’è il Qatar. Ahmed Zaidan, un tempo il giornalista preferito di Osama bin Laden, fotografato mentre sorseggiava il tè con lui e trasmetteva i suoi filmati su Al Jazeera, è ora consigliere personale di al-Jolani”.

Tale la situazione dopo il successo del regime-change, accompagnato da una manipolazione mediatica e da una censura massiva. A subirne le conseguenze, lo stremato popolo siriano.

https://www.piccolenote.it/mondo/la-siria-un-anno-dopo-assad-il-terroristan-della-cia

mercoledì 10 dicembre 2025

A un anno dalla caduta di Assad c'è poco da festeggiare

Nonostante la nuova Siria sia un paese disastrato e con un regime violento che perseguita le minoranze, il suo leader al-Sharaa va all'Onu a prendersi gli applausi del mondo civile

di Elisa Gestri 

Jihadismo dilagante e nessuna democrazia. A un anno dalla caduta del regime di Assad, in Siria non si sta affatto meglio, soprattutto se si è membri delle minoranze religiose. E gli oppositori del nuovo regime di Al Sharaa sono braccati anche in Libano, dove le aree sunnite più estremiste sono legate al potere di Damasco. 

Domenica 8 dicembre 2024 la formazione islamista Hayat Tahrir Al Sham con a capo Abu Mohamed al Jolani entrò trionfalmente a Damasco, mentre il dittatore Bashar al Assad lasciava la Siria a bordo di un aereo diretto a Mosca.

Mentre scriviamo, sono in corso in tutta la Siria grandi celebrazioni del primo anniversario della caduta di Assad organizzate dal “nuovo governo” siriano. In realtà, leggendo il regime change attraverso la lente del rispetto dei diritti umani c'è poco da festeggiare: in quest’anno il Paese è stato teatro di migliaia di esecuzioni sommarie ai danni di supposti “membri del regime di Assad”, di ondate di omicidi, stupri, violenze, rapimenti e brutalità di ogni tipo nei confronti delle minoranze religiose (alawiti, sciiti, drusi e cristiani), è stata introdotta la shaaria nella Costituzione, allestite finte elezioni democratiche e istruiti finti processi agli autori delle atrocità di cui sopra.

I cambiamenti occorsi durante questo anno in Siria sono ormai sotto gli occhi del mondo intero, a partire dal nome del leader di HTS, tornato all’anagrafico Ahmed al Sharaa, e al suo abbigliamento, passato repentinamente dalla mimetica del miliziano al doppiopetto di Presidente autonominato della Siria. Altrettanto repentinamente i leader occidentali hanno dato fiducia al “nuovo governo” formato da uomini rimasti fedeli alle vecchie abitudini dei tempi di al Qaeda - per citare solo l’esempio più clamoroso, Donald Trump ha ricevuto a Washington l’ex ricercato dall’antiterrorismo USA al Sharaa (con taglia di 10 milioni di dollari sulla testa), a cui è stato riservato anche l’onore di parlare davanti all’Assemblea Generale dell’ONU.

Ma si sa, «gli accordi economici e militari e le partnership strategiche pesano di più dei diritti umani», come ha affermato in una recente intervista Metin Rhawi, uomo politico e attivista svedese siro-cattolico che si occupa delle minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente. Alla domanda sul perché l’Occidente taccia davanti alle palesi violazioni dei diritti umani perpetrate in Siria e altrove dall’estremismo islamico, Rhawi ha risposto che «le potenze occidentali hanno timore di parlare apertamente di estremismo religioso; non vogliono offendere partner di cui hanno bisogno per interessi economici e geopolitici». A proposito in particolare dei cristiani, «Le comunità cristiane in Siria sono al collasso», ha dichiarato. Città come Qamishli, Hassake, Homs e Aleppo, dove i cristiani vivono da più di 2000 anni, si stanno svuotando.

Dal canto suo, la comunità alawita siriana, colpevole di annoverare tra i suoi membri la famiglia Assad, ha vissuto un anno di terribili e ingiustificate sofferenze. La guida spirituale alawita Sheikh Gazal Gazal ha invitato le comunità presenti nel Paese a uno sciopero generale di cinque giorni, dall’8 al 12 dicembre, per non essere costrette ad aderire forzatamente ai festeggiamenti preparati dal governo. «Lo scorso 8 dicembre ci aspettavamo che quel giorno sarebbe caduta la tirannia; in realtà è caduto ciò che era rimasto in piedi del nostro Paese» ha dichiarato in un video-appello. «Ora vogliono costringerci a festeggiare la sostituzione della tirannia con una tirannia più grossa. … Ci hanno arrestato, ucciso, massacrato, rapito e bruciato e ora stanno minacciando la nostra stessa sussistenza attraverso licenziamenti, trasferimenti, vessazioni e intimidazioni per privarci dei mezzi di sostentamento e costringerci a partecipare a celebrazioni realizzate sul nostro stesso sangue, sul nostro dolore e sulla nostra sofferenza, con palese disprezzo delle nostre ferite». Il mondo sappia, ha concluso Gazal, che “ogni violazione contro gli alawiti è una violazione contro tutti, e una pugnalata al cuore collettivo” della Siria.

Frattanto, non si fermano violenze e fatti di sangue: le nostre fonti ci segnalano che il 4 dicembre una mamma di tre figli è stata rapita alla stazione degli autobus di Homs, appena arrivata da Tartous; il 7 un giovane si è dato alle fiamme ad Aleppo dopo che una pattuglia delle “Forze dell’ordine” lo ha prelevato, tentando di arrestarlo.

Se quest’ultimo anno ci ha tristemente abituati a centinaia, se non a migliaia, di episodi simili in Siria, il dato preoccupante emerso in questi giorni di “celebrazioni” è l’espansione, del resto prevedibile, del fenomeno dell’estremismo islamico dal Paese a quelli circonvicini. Ci troviamo a Tripoli, capoluogo del nord del Libano, dove sono in corso massicci festeggiamenti per la “vittoria della rivoluzione siriana”. I salafiti libanesi, concentrati soprattutto nella città sunnita di Tripoli, intrattengono legami più o meno coperti con i “confratelli” siriani almeno dai tempi della guerra civile in Siria. Dalla caduta di Assad i jihadisti libanesi hanno cominciato a mostrare apertamente la loro solidarietà ad al Jolani / al Sharaa - c’è chi ha imbracciato le armi e dal Libano ha raggiunto i miliziani di HTS. Raggiungiamo un caffè isolato dal chiasso delle strade per incontrare B., trentacinquenne alawita siriano arrivato in città nei mesi scorsi, in fuga da Tartous, sulla costa siriana. Parlando con noi, si riferisce al Presidente della Siria come ad al Jolani; evidentemente, per lui l’abbandono del nome di battaglia del leader di HTS non ha nessun significato. Gli chiediamo come sta, e se si sente finalmente libero dalle persecuzioni che infuriano in Siria contro la sua comunità.

«Non si può vivere in pace con i jihadisti, né in Siria né qui nel Libano» risponde. «Nemmeno i miei amici che si sono rifugiati in Europa sono tranquilli: ricevono minacce di morte dagli estremisti islamici in Francia, in Olanda… non ci lasciano in pace da nessuna parte, e non possiamo tornare in Siria: ovunque è un inferno.»

Dunque non si sente un po’ più al sicuro in Libano rispetto alla Siria? «No, non mi sento al sicuro nemmeno qui. Quando gli estremisti islamici si imbattono in qualcuno di noi alawiti cominciano a tormentarlo; non è possibile che ci lascino in pace, anche perché si vantano tra loro di aver ‘stanato un alawita‘. Ci riconoscono dai nostri nomi e cognomi, oppure dal dialetto, quando ci sentono parlare»

Da quello che ha potuto vedere, crede che il fenomeno dell’estremismo islamico in Libano si fermerà o continuerà la sua espansione? «Credo che non si fermerà qui, perché ogni volta che al Jolani ottiene un riconoscimento da parte di un Paese straniero o della comunità internazionale gli estremisti lo leggono come un passo verso l’islamizzazione del mondo, e acquistano sempre più fiducia nella vittoria finale della jihad».

Dietro la conquista della Siria da parte di al Sharaa e dei suoi uomini ci sono potenze straniere che l’hanno permessa e supportata - ad esempio Israele, che ha grandi ambizioni su Damasco. Non crede che, in caso il fenomeno estremista si allarghi troppo sulla regione, questi stessi Paesi penseranno a ridimensionarlo? «Io credo che quanti hanno dato il potere ad al Jolani potranno in qualche modo addomesticarlo, ma sarà difficile addomesticare queste masse di fanatici religiosi».

Lasciamo B. pensando alle parole di Metin Rhawi in un passaggio dell’intervista citata nell’apertura di questo articolo: «Se l’Europa continua su questa strada (di collaborazione con regimi estremisti, nda), gli europei seguiranno la stessa sorte: non necessariamente attraverso la violenza, ma attraverso la lenta erosione dei valori democratici di libertà e pluralismo. Quando un Paese supporta forze che distruggono la democrazia all’estero, alla fine queste stesse forze influenzeranno la democrazia al suo interno».

https://lanuovabq.it/it/siria-a-un-anno-dalla-caduta-di-assad-ce-poco-da-festeggiare

martedì 2 dicembre 2025

Papa Leone abbraccia tutti i dolori del popolo libanese

 da  Agenzia Fides . di Pascale Rizk

Anche oggi nelle notti del Libano si possono “trovare le piccole luci splendenti” che possono aprire i cuori alla gratitudine. E riconoscere, come sempre, che il Regno che Gesù viene a inaugurare è come “un germoglio, un piccolo virgulto che spunta su un tronco, una piccola speranza che promette la rinascita quando tutto sembra morire”. Segni che possono essere intravisti “solo dai piccoli, da coloro che senza grandi pretese sanno riconoscere i dettagli nascosti, le tracce di Dio in una storia apparentemente perduta”.
Attingono al cuore della speranza cristiana le parole di rinascita che Papa Leone XIV consegna a tutti i libanesi, nell’ultimo giorno del suo viaggio nel Paese dei Cedri. Nell’omelia della messa finale, celebrata al Beirut Waterfront, il Vescovo di Roma abbraccia tutti i dolori del popolo libanese e chiama tutti a “riconoscere la piccolezza del germoglio che spunta e cresce pur dentro avvenimenti dolorosi. Piccole luci che risplendono nella notte, piccoli virgulti che spuntano, piccoli semi piantati nell’arido giardino di questo tempo storico possiamo vederli anche noi, anche qui, anche oggi”. E cita come prima luce e primo virgulto di rinascita “la vostra fede semplice e genuina, radicata nelle vostre famiglie e alimentata dalle scuole cristiane”. 

La preghiera del Porto e l’abbraccio ai disabili

Poco prima della liturgia eucaristica, celebrata davanti a 120mila persone, Papa Prevost era andato al Porto di Beirut e si era raccolto in preghiera silenziosa davanti al monumento alle vittime dell’esplosione avvenuta il 4 agosto 2020, per poi fermarsi a lungo a salutare uno per uno i loro famigliari.

Papa Leone aveva iniziato l'ultima giornata del viaggio apostolico in Libano recandosi in visita all’Ospedale psichiatrico dei disabili mentali “de la Croix” a Jal ed Dib. Pazienti, medici e assistenti all’arrivo del Papa continuavano a gridare «ahla w sahla», il ‘benvenuto’ libanese, e «alla yehmik » («che Dio ti protegga»), con la letizia incontenibile dei più amati da Dio.

L’ospedale psichiatrico «non sceglie i suoi pazienti ma che accoglie coloro che non sono accolti da nessuno». Così lo ha descritto la Superiora generale Suor Maria Maakhlouf, ringraziando nel suo saluto il Papa per la sua visita che «conferma ai più piccoli che sono amati dal Signore, hanno un posto speciale nel suo cuore» e sono un «tesoro per la Chiesa».
«Vorrei solo ricordare – ha detto loro Papa Prevost - che siete nel cuore di Dio nostro Padre. Egli vi porta sul palmo delle sue mani, vi accompagna con amore, vi offre la sua tenerezza attraverso le mani e i sorrisi di chi si prende cura della vostra vita»
 Il Convento della Croce è il luogo di fondazione delle Suore Francescane della Croce, e incarna la vocazione della Congregazione : ospitare le persone più bisognose che soffrono di ogni tipo di malattia mentale e psicologica.

Il congedo del Papa : cessino attacchi e ostilità

Nelle sue parole di congedo pronunciate all’aeroporto di Beirut, prima di salire sull’aereo diretto a Roma, Leone XIV ha fatto riferimento a “tutte le regioni del Libano che non è stato possibile visitare: Tripoli e il nord, la Beqa’a e il sud del Paese, Tiro, Sidone – luoghi biblici –, tutte quelle aree, specialmente nel sud, che sperimentano una continua situazione di conflitto e di incertezza. A tutti - ha proseguito il Pontefice - il mio abbraccio e il mio augurio di pace. E anche un accorato appello: cessino gli attacchi e le ostilità. Nessuno creda più che la lotta armata porti qualche beneficio. Le armi uccidono, la trattativa, la mediazione e il dialogo edificano”.

L’incontro a Harissa 


“Salam el Masseeh”, (la pace di Cristo) sono state le prime parole che Papa Leone aveva indirizzato di mattina a Vescovi, ai sacerdoti, alle suore, ai consacrati e agli operatori pastorali delle Chiese cattoliche presenti in Libano che lo avevano accolto nella basilica di Nostra Signora del Libano a Harissa. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze, il Papa ha ha sottolineato l’importanza dell’amore continuo nella costruzione della comunione nonché della forza della preghiera e della profondità della speranza nei momenti di difficoltà.


La visita alla grotta di San Charbel


Dalle prime ore del mattino tanti libanesi avevano iniziato ad affluire da tutte le regioni lungo le strade che avrebbe attraversato Papa Leone XIV per recarsi alla grotta che custodisce le spoglie mortali di San Charbel, nel monastero di Annaya.

Lungo tutto il viaggio da Byblos a Annaya le campane delle chiese hanno suonato ripetutamente, alternandosi con i canti in arabo e siriaco con alcuni momenti di silenzio. Prima dell’arrivo del corteo copie della preghiera che il Papa avrebbe recitato in francese davanti alla tomba di San Charbel, sono state distribuite ai fedeli sulle strade e nella piazza. Arrivato al Santuario, il Sommo Pontefice si è inginocchiato davanti alla tomba di San Charbel in un momento di preghiera per accendere poi, accanto alla tomba, una candela che aveva portato da Roma. Riassumendo l’eredità dell’eremita originario da Baakafra, Papa Leone si è soffermato sull’attrazione che tanti sperimentavano per il monaco, santo «come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto».

L’incontro coi giovani


Nella parte finale della lunga giornata, il Pontefice si è recato a Bkerke per l’incontro con i giovani, arrivati anche dalla Siria e dall’Irak, con le loro testimonianze « come stelle lucenti in una notte buia ». «La vostra patria, il Libano» ha detto ai giovani Papa Leone «, rifiorirà bella e vigorosa come il cedro, simbolo dell’unità e della fecondità del popolo. Sappiamo bene che la forza del cedro è nelle radici, che normalmente hanno le stesse dimensioni dei rami. Il numero e la forza dei rami corrisponde al numero e alla forza delle radici. Allo stesso modo, il tanto bene che oggi vediamo nella società libanese è il risultato del lavoro umile, nascosto e onesto di tanti operatori di bene, di tante radici buone che non vogliono far crescere solo un ramo del cedro libanese, ma tutto l’albero, in tutta la sua bellezza».
«Attingete» ha esortato il Pontefice «dalle radici buone dell’impegno di chi serve la società e non “se ne serve” per i propri interessi. Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo. Siate la linfa di speranza che il Paese attende».

http://www.fides.org/it/news/77110