Traduci

giovedì 29 giugno 2023

Ritorno da Damasco: note di viaggio

Articolo scritto da Michel Raimbaud.  Traduzione dal francese di  OraproSiria.

Michel Raimbaud è saggista, politologo, docente di relazioni internazionali, ex ambasciatore francese in Sudan, Mauritania e Zimbabwe e direttore onorario dell’Ofpra (Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi). Autore di numerosi articoli e libri di geopolitica, tra cui 'Le Soudan dans tous ses états', 'Tempête sur le grand Moyen-Orient', 'Les guerres de Syrie'.

In un lontano passato, quando il Deep State non era ancora altro che un incubo statunitense (come descritto da Ike Eisenhower o John Kennedy) e il mainstream non era altro che il sogno di un apprendista stregone, davamo credito ai "grandi reporter" e ad altri testimoni d’urto. La formula magica "Secondo un viaggiatore di ritorno da Baghdad" metteva il chiodo nella bara degli scettici di professione o degli antenati dei "cani da guardia" di una doxa nascente... Quei giorni sono passati. I milioni di morti, mutilati e feriti nelle innumerevoli guerre condotte dall’Asse del Bene in decine di paesi, i milioni di profughi e sfollati gettati sulle strade o sui mari, non bastano più a risvegliare le coscienze o a scuotere la buona coscienza della miriade di affiliati o membri di affinità che hanno scelto di servire incondizionatamente le tesi dell’Occidente in tutta la sua pompa… 

Il sottoscritto non è appena tornato da Baghdad, ma da Damasco. Da qui sento gli instancabili scettici, le "menti forti" che strombazzano: "Sì, ma la Siria non è la stessa, è Bashar...". Tranquilli, qui non si tratta di convincerli, perché si può vivere o morire consapevoli o stupidi: sta a ciascuno farsi un’idea propria. Ci limitiamo a ricordare che la Siria ha dovuto affrontare due guerre consecutive.

Colpita nel marzo 2011 dalla pandemia "rivoluzionaria" della Primavera araba, ha sperimentato per la prima volta, per oltre sette anni (fino all’autunno 2018), gli orrori di una guerra di aggressione non dichiarata, orchestrata dai tre membri permanenti occidentali del Consiglio di Sicurezza, sostenuti da una coalizione fluttuante nota come "Amici della Siria" (120 membri nel dicembre 2011, una dozzina nell’aprile 2012). 

Un’alleanza non ammessa, ma assunta, con gli islamisti ha rapidamente generato un flusso eterogeneo di 400.000 jihadisti accorsi dai quattro punti cardinali per prendere parte a questo "crimine supremo" (secondo le parole del Tribunale di Norimberga), dando alla sporca guerra di aggressione una sfumatura di "guerra santa". Santa ma sadica, visto che le sanzioni illegali euro-statunitensi cominceranno a piovere dalla primavera del 2011, a secchiate, con una foga maniacale che la dice lunga sul livello intellettuale di chi ha ideato il piano. 

L’esercito siriano ha resistito valorosamente per quattro anni e mezzo, aiutato dai suoi alleati regionali, permettendo allo Stato di "resistere". L’intervento della Russia, richiesto dal governo di Damasco, ha ribaltato la situazione: il settembre 2015 ha segnato l’inizio di un riflusso inesorabile come la marea crescente. Alla fine del 2018 non era solo una voce, ma un dato di fatto: il Presidente siriano aveva vinto la guerra, sia militarmente che politicamente.

In realtà, già nel 2016, il presidente Barack Obama, alla fine del suo mandato, non aveva fatto mistero delle sue ansie di signore della guerra. Sorridendo e indossando il premio Nobel per la pace come scudo, aveva menzionato una delle sue scoperte strategiche. O meglio, è stato Robert Malley, suo amico e consigliere per il Medio Oriente, a far uscire il gatto dal sacco quando ha confidato in un’intervista: "Gli Stati Uniti preferiscono che il conflitto in Siria continui se non hanno una carta forte sul terreno contro la Russia... Anche se questo significa prolungare la guerra all’infinito o favorire temporaneamente Da’esh". Per inciso, l’amabile presidente è stato l’inventore della teoria del "Leading from behind", che suona come un’ammissione di perversione o di impotenza: perché "guidare da dietro" se non per farsi vedere da davanti? Il modo migliore per prolungare il piacere dell’aggressione non sarebbe quello di trasformarla in una guerra ibrida, invisibile e infinita, con sanzioni, blocchi, embarghi, Caesar Act, misure coercitive lanciate a tutto spiano, sotto la copertura dell’extraterritorialità delle leggi statunitensi ancora in vigore, per punire collettivamente il popolo siriano? 

È in questo contesto che, per la prima volta dall’inizio della guerra, l’Association d’Amitié France-Syrie (Afs) ha organizzato una visita a Damasco di una delegazione di sei persone, con l’obiettivo di portare un messaggio di amicizia a un paese percosso dalle difficoltà, ma infinitamente coraggioso. La delegazione non aveva un mandato ufficiale o ufficioso, ma il suo scopo era quello di raccogliere impressioni e testimonianze, alla luce della situazione e dell’attualità (dal 15 al 19 maggio 2023), e anche di far conoscere la capitale e la Siria a coloro per i quali questo viaggio era una prima volta. 

Questo aspetto della visita è stato ben accolto dagli ospiti siriani. Sebbene l’accoglienza sia stata calorosa, non possiamo trascurare le domande sulla posizione della Francia negli ultimi dodici anni, provenienti da ogni parte. I nostri interlocutori non hanno nascosto le loro perplessità sulla logica di questa politica, sulle sue motivazioni e sulla sua validità.


È stato un viaggio emozionante, secondo tutti i membri della delegazione, che sono rimasti colpiti dal coraggio, dalla serenità e dall’orgoglio di questa popolazione duramente provata. Una popolazione orgogliosa di aver resistito e vinto, e a ragione... È questo che ci è saltato agli occhi quando abbiamo visto le strade trafficate e operose, stavo per dire come al solito. Era uno "spettacolo" amplificato dalla vista delle meraviglie della capitale che alcuni di loro avevano scoperto o rivisitato, a seconda dei casi, un campione dei tesori nascosti in questo bellissimo e magnifico paese abitato da una storia onnipresente dalla notte dei tempi, nei palazzi, nei templi, nelle moschee, nelle chiese, nelle cittadelle, nei vecchi quartieri, nelle rovine e nei siti archeologici...

Durante le numerose visite in cui hanno potuto parlare e ascoltare con calma, i visitatori sono stati anche sopraffatti dall’alta qualità e dall’enorme competenza dei loro interlocutori, donne e uomini, che erano privi di arroganza, parlavano in piena libertà e senza peli sulla lingua. Chi aveva dubbi e pregiudizi al suo arrivo ha potuto constatare che la tolleranza religiosa è profondamente radicata nel patrimonio: la moschea degli Omayyadi, la più antica del paese, non ospita forse la tomba di san Giovanni Battista, e la moschea del Saladino, all’ombra del minareto del Gesù?

Vivere la storia o abbandonarla?

Oggi un viaggio in Siria è una vera e propria lezione di coraggio. Vedere con i propri occhi un paese devastato, testimoniare il coraggio e l’orgoglio di un popolo ferito da oltre dodici anni di guerra ingiusta, illegale e criminale, significa compiere un pellegrinaggio, raccogliere testimonianze nel cuore della storia. Un viaggio del genere porta indubbiamente a meditare, se non a riflettere, sul destino dei cinquecentomila morti, dei due milioni di feriti e mutilati, dei sei milioni di persone gettate sulle strade dell’esilio e dei sette milioni di sfollati, senza dimenticare le vittime del terremoto dello scorso gennaio. L’incapacità degli occidentali di rispondere agli appelli di solidarietà che ci si aspetta in questi casi non è passata inosservata e a nessuno sarà sfuggito che essi stanno approfittando delle circostanze per sottoporre i loro esigui aiuti a condizioni inaccettabili, pretendendo che gli aiuti vengano convogliati attraverso il confine settentrionale, che è sotto il controllo di gruppi terroristici.

Come possiamo partecipare alla vendetta collettiva di un Occidente amareggiato dalla propria mediocrità contro un popolo già soffocato e asfissiato da sanzioni inique, degne di tempi che credevamo finiti? Come possiamo spiegare l’inspiegabile quando ci rifiutiamo di ammettere che siamo lontani cento leghe da qualsiasi cartesianesimo o logica? La nostra comprensione della situazione siriana è così lontana dalla realtà e basata su tali menzogne che è illusorio immaginare un ritorno al passato. Eppure il tempo stringe... 

Questo decennio 2020 potrebbe passare alla storia come una grande prima volta nella storia moderna e contemporanea. È la prima volta che la "comunità internazionale" è vittima di una frattura apparentemente irreversibile, al termine di un processo di rottura a cui nessuno voleva credere quando è iniziato, tra il dicembre 2021 e il febbraio 2022. È accaduto l’irreparabile: la cosiddetta "comunità" si è trovata divisa in due gruppi di nemici che si guardano in faccia e si contrappongono in un confronto globale: da una parte l’Occidente, dominante, arrogante e sicuro di sé, ma una piccolissima minoranza (dal 12 al 15% dell’umanità), e dall’altra il resto del pianeta, in altre parole la stragrande maggioranza della comunità delle nazioni, che chiede con veemenza di prendere il posto che le spetta. Si tratta di una richiesta legittima se prendiamo sul serio i valori branditi dai difensori dei diritti umani, sinceri o ipocriti che siano.


Tutti gli esseri umani, senza eccezioni, nascono uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità: questo è il principio principale che l’umanità dovrebbe iscrivere nella sua lista del patrimonio mondiale, prima di aggiungere l’aria di mare, le baguette, l’Himalaya, i parchi eolici, l’aereo a pedali o la macchina per fare i buchi nel formaggio gruviera. 

I leader della Francia farebbero bene a tenere la bocca chiusa, per evitare di aggravare ulteriormente l’angoscia in cui si trova la sua diplomazia assediata. In piedi sui suoi stivali o sui suoi tacchi alti, come Le Drian prima di lei, il ministro per l’Europa e gli affari esteri, la signora Colonna, probabilmente non sa che le sue parole non interessano a nessuno e non sono attese da nessuno. Le si potrebbe suggerire di limitarsi al dialogo con quegli europei che condividono la sua ignoranza, indifferenza e malafede. Processare Bashar al-Assad e portarlo davanti alla Corte penale internazionale o a qualsiasi altro organismo agli ordini dell’Occidente è un trucco che non funziona più e che ha esaurito tutto il suo fascino. Forse sarebbe utile sussurrare all’orecchio del ministro un elenco di persone che dovrebbero fare la fila alla Corte penale internazionale o comparire nell’agenda di altri organi di tale giustizia. Questa lista comprenderebbe molte persone che lei conosce, vivi e morti, dei morti o dei vivi ...

Non ha senso sabotare il futuro solo per il gusto di farlo, piaccia o meno ai guerrafondai del mainstream francese che fingono di ignorarlo. È criminale predicare a favore del mantenimento o dell’inasprimento di sanzioni economiche unilaterali, illegali e assassine di ogni tipo, che stanno avendo un effetto devastante sulle popolazioni civili, duramente colpite dal terremoto dell’inizio del 2023. Gli ingenui che attirano l’attenzione dei colletti bianchi, puliti e ben nutriti padri della virtù, sperando di farli sentire dispiaciuti, hanno sbagliato bersaglio, perché l’etnocidio pianificato del popolo siriano è il loro obiettivo, sia che provengano dall’altra parte dell’Atlantico, della Manica o qui in patria. E sono riusciti nel loro sporco intento: ancora oggi, l’80% dei siriani sopravvive al di sotto della soglia di povertà, spesso senza acqua, elettricità, benzina o gasolio, ma con un coraggio incommensurabile. 

Le nostre élite dovrebbero rendersi conto che, nel grande sconvolgimento del mondo e nella ricomposizione in corso, la Francia è considerata appartenere al campo degli aggressori. La Siria, invece, si è ritagliata un posto d’elezione nel campo dei vincitori, ed è a loro che si rivolgerà innanzitutto per la ricostruzione, oltre che ai paesi arabi "pentiti" (o rinsaviti) e ad alcuni paesi europei che, senza dire nulla, non hanno tagliato i ponti o sono tornati durante i dodici anni di guerra: Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Ungheria, Cipro, Grecia, Italia, ecc.

La Francia ha ancora la possibilità di unirsi al grande movimento di ritorno a Damasco, valorizzando il suo patrimonio di eccellenza: tutti hanno ricordato il nostro posto un tempo eminente nell’importante settore dell’archeologia, dove si affollano i candidati (anche europei) alla nostra successione, nel campo dell’insegnamento della lingua francese. Abbiamo visto l’ex scuola secondaria Charles de Gaulle, chiusa dal governo francese e riaperta grazie all’impegno di volontari, formando diverse centinaia di allievi; abbiamo parlato della nostra collaborazione con un paese il cui sistema medico, prima della guerra, era ai vertici mondiali in ogni campo e che, volontariamente o sotto la spinta degli eventi, ci ha fornito migliaia di medici.

La Francia ha ancora una possibilità, ma la finestra di opportunità è stretta, sia nel tempo che nello spazio. Il tempo stringe e la Siria, di cui la Francia fu la potenza delegata dopo la grande guerra, quando l’Impero ottomano fu smantellato, si appresta a tornare a essere il perno del Medioriente e del mondo arabo, a riprendere il suo posto nel cuore della storia.

Damasco, la perla d’Oriente, non sarà solo la capitale di un paese rinato dopo tante difficoltà, ma sarà anche la porta del mondo arabo in pieno risveglio, di cui la Siria è tornata ad essere "il cuore pulsante".

Domani sarà troppo tardi, se la terra dei lumi non ristabilisce il collegamento...

https://geopragma.fr/retour-de-damas-breves-de-voyage/

mercoledì 14 giugno 2023

Armenia, paese cristiano e martire

«Nel monastero di Narek in Armenia, san Gregorio (951 – 1003), monaco, dottore degli Armeni, insigne per la dottrina, gli scritti e la scienza mistica.»
 

Articolo di Antoine de Lacoste 

Nel 314, sotto l'influenza di San Gregorio l'Illuminatore, il re Tiridate si convertì al cristianesimo contemporaneamente a sua moglie e a tutta la sua corte. Tutto il suo esercito e sudditi seguirono il suo esempio e tutti furono battezzati. L'Armenia divenne ufficialmente il primo regno cristiano al mondo.

Con l'Editto di Milano del 313, l'Armenia, in fondo, accompagnò il movimento generale di transizione dal paganesimo al cristianesimo, che avrebbe potuto guadagnarle una felice storia cristiana all'ombra del suo potente vicino bizantino. Faceva i conti senza la presenza del grande impero persiano, allora chiamato impero sassanide. Ansioso di non entrare in guerra contro una tale potenza, e sostanzialmente felice di annettere un nuovo territorio, Bisanzio accettò di condividere la sfortunata Armenia: ai Persiani i due terzi del paese, a est, e a Bisanzio l'ultimo terzo a ovest. Fu chiamata la spartizione del 387. Fu solo nel 1920 che l'Armenia riacquistò una breve indipendenza.

Secoli di prove e disgrazie sarebbero caduti sul paese, ma non avrebbe mai rinnegato la sua fede cristiana.

Un tipico episodio storico attesta questo radicamento cristiano nell'anima armena. Dopo la spartizione del 387, i governanti sassanidi decisero di convertire l'Armenia allo zoroastrismo, una religione pagana simboleggiata dagli altari del fuoco. Il clero di Zoroastro si stabilì gradualmente nel paese e cacciò i sacerdoti dalle chiese. Sotto la pressione popolare, i principi armeni si ribellarono ma furono schiacciati nella battaglia di Avaraïr nel 451. Determinato, il popolo si lanciò in una guerriglia che alla fine scoraggiò il tiranno sassanide. L'Armenia era ancora occupata ma poteva rimanere cristiana grazie alla caparbietà dei fedeli.

Zvartnots, cattedrale risalente al VII secolo.

LA ROTTURA CALCEDONICA

Le molteplici controversie ed eresie che interessarono i primi secoli della Chiesa comportarono la rottura tra Armenia e Bisanzio.

Nel 431, il Concilio di Efeso aveva condannato il nestorianesimo che negava parzialmente la natura divina di Cristo. Vent'anni dopo, al Concilio di Calcedonia, fu condannata l'eresia monofisita per aver negato la natura umana di Cristo.

La Chiesa armena non ha accettato la nuova redazione calcedoniana sulle due nature di Cristo. A sua difesa, sembra che un problema di traduzione abbia avuto un ruolo e abbia mantenuto la confusione tra le parole natura e persona che non avevano proprio lo stesso significato in greco e in armeno. Inoltre, alcuni storici affermano che i nestoriani inviati in Armenia abbiano svolto un ruolo di disinformazione sulle vere intenzioni del Concilio di Calcedonia. Comunque sia, la Chiesa armena ha dichiarato di attenersi alla redazione di Efeso proclamando “l'unicità del Verbo Incarnato. »

Bisanzio (Costantinopoli) tentò invano di allineare la Chiesa armena. Nel 506, il capo della Chiesa armena si autoproclamò “catholicos”, cioè capo di una chiesa nazionale indipendente. Si chiama Chiesa Apostolica Armena. È questa chiesa che continua ancora in Armenia, raccogliendo il 90% dei fedeli. Il restante 10% è diviso tra cattolici romani e protestanti.

La rottura è stata consumata. Tuttavia, non ha impedito all'Armenia di inviare migliaia di soldati a combattere i Sassanidi insieme all'imperatore bizantino Eraclio. Quest'ultimo era partito per invadere il territorio sassanide per recuperare la reliquia della Vera Croce rubata a Gerusalemme nel 614 dagli eserciti pagani. La battaglia di Ninive nel 627 vide la vittoria degli eserciti cristiani e il ritorno trionfante della Vera Croce a Gerusalemme.

Questa alleanza ebbe felici ripercussioni e fu firmato un accordo tra la Chiesa bizantina e la Chiesa armena, che sembrava porre fine allo scisma.

Ma l'arrivo degli arabi musulmani e la loro vittoria contro i bizantini a Yarmouk nel 636 cambiò tutto.

L'ARRIVO DELL'ISLAM

All'inizio, i conquistatori musulmani trattarono bene gli armeni. Non erano così numerosi e non volevano aggiungere il fronte del Caucaso agli altri loro obiettivi: l'Impero Bizantino, l'Impero Sassanide e il Nord Africa.

Il VII secolo vide poi uno sviluppo architettonico e religioso su larga scala in tutta l'Armenia. Sarà “The Golden Age” con molte costruzioni di chiese superbe. Molte sono ancora in piedi e visitarle è un piacere.

Tuttavia, come sempre, la pace dell'Islam è stata solo uno stratagemma e nell'VIII secolo un pugno di ferro si è impadronito dell'Armenia.

Cominciò con il massacro della cavalleria dei principi, che furono arsi vivi in ​​una chiesa, con il pretesto di un incontro con l'emiro di Nakichevan. Rivolte e repressioni si susseguirono e gli arabi giocarono abilmente sulle divisioni tra le grandi famiglie armene.

Ma l'impero bizantino si era ripreso dalle sconfitte iniziali e aveva riconquistato i territori a est. Gli arabi furono indeboliti e l'Armenia ne approfittò per fondare due regni: il primo a nord, della famiglia Bagratouni, che si diede come capitale Ani, "la città delle mille e una chiese". La seconda a sud, con la famiglia Arstrouni che stabilì la propria capitale sul lago di Van. Ani e il lago Van si trovano ora nella Turchia orientale e non più in Armenia.

Ciò accadde nel IX secolo e l'Armenia ebbe allora un'indipendenza de facto che fu accompagnata da un grande risveglio monastico.

L'impero bizantino, rinvigorito dall'indebolimento del califfato arabo, riprese purtroppo la sua espansione verso oriente a scapito degli armeni. Fu allora che furono sconfitti a Mantzikert nel 1071 dai nuovi arrivati: i Selgiuchidi. Questi turcomanni, provenienti dalle steppe dell'Asia centrale, avrebbero gradualmente conquistato l'intero impero bizantino. Un ramo della famiglia, gli Otmani, avrebbe poi fondato l'Impero Ottomano.

L'AVVENTURA DEL REGNO DI CILICIA

La Cilicia, regione situata nel sud dell'attuale Turchia di fronte a Cipro, fu colonizzata dagli armeni a partire dal X secolo. Avevano agito per conto dei Bizantini e avevano conquistato queste terre a spese degli Arabi, in piena rotta.

Dopo la sconfitta di Mantzikert, molti armeni vi si stabilirono per fuggire dai Selgiuchidi. Fecero alleanze con i Crociati e la Cilicia, divenendo il fulcro del commercio cristiano nel Mediterraneo orientale, conobbe un grande periodo di prosperità.

Le città di Tarso (quella da cui è originario San Paolo) e di Adana risplendevano e i vari re di Cilicia furono riconosciuti da Roma e dal Sacro Impero. Notevole anche l'attività religiosa con molte traduzioni di padri greci ma anche latini, cosa nuova. L'arte dell'illuminazione raggiunse il suo apice.

Tuttavia, l'arrivo delle orde di Gengis Khan nel XIII secolo e poi quello dei Mamelucchi egiziani ebbero la meglio sul piccolo regno cristiano. L'ultimo re di Cilicia, Léon VI de Lusignan fu fatto prigioniero nel 1375. Riscattato, finì i suoi giorni alla Corte di Francia, a Parigi.

I TURCHI UNICI COMANDANTI A BORDO

Gli ottomani scacceranno gradualmente le altre forze musulmane e, nel XVII secolo, saranno gli unici al comando.

L'Armenia era diventata una piccola provincia nel nord-est della Turchia e subiva gli abusi del suo padrone. Molti giovani furono rapiti per farne dei giannizzeri e l'emigrazione colpì duramente il Paese. Gli armeni andarono in Europa, Tracia o nell'Asia Minore occidentale.

È quindi all'estero che hanno brillato gli armeni. Le loro grandi doti commerciali fecero miracoli e un gran numero di navi battenti bandiera dell'Agnello Pasquale solcò il Mediterraneo, spingendosi fino all'Oceano Indiano.

Il XVIII secolo vide un interessante tentativo di riportare la Chiesa apostolica armena nell'ovile di Roma. Molti giovani armeni vennero a studiare a Parigi in una scuola creata per loro da Colbert. Un prete armeno, tornato al cattolicesimo, fondò il monastero di San Lazzaro al largo di Venezia dove vive ancora una comunità di monaci armeni cattolici.

A poco a poco, subendo un graduale collasso, l'Impero Ottomano allentò il cappio intorno agli armeni. Si formò un'élite urbana e dal 1856 i cristiani godettero degli stessi diritti degli altri abitanti dell'Impero, sull'orlo del collasso.

Era questo il momento scelto dalla Russia per riprendere la marcia verso il Caucaso, ostacolata dalla sconfitta subita durante la guerra di Crimea che aveva visto la vittoria dell'innaturale alleanza anglo-franco-turca. Nel 1877 le truppe dello zar occuparono (di fatto liberarono) l'intera Armenia, compresa la sua parte occidentale. Furono quindi accolte tutte le speranze per l'indipendenza di una grande Armenia sotto la protezione della Russia.

Ma gli inglesi, ansiosi di contrastare la Russia con ogni mezzo, fecero un accordo segreto con la Turchia per impedire, in cambio della cessione di Cipro, il sequestro russo dell'intero territorio armeno. Riuscirono a determinare lo svolgimento del Congresso di Berlino nel 1878 dove, nonostante le suppliche degli armeni, fu presa la decisione di affidare la parte occidentale dell'Armenia all'Impero Ottomano da dove le truppe russe si ritirarono. Rimasero solo nella parte orientale, che corrisponde ai confini dell'attuale Armenia. L'accettazione russa di questo piano rimane un mistero.


IL GENOCIDIO DEL 1915

Le riforme previste nella parte occidentale non verranno mai applicate: le tessere del dramma sono a posto. Quando gli armeni si organizzarono per formare partiti politici, si verificarono i primi massacri. Tra il 1894 e il 1896, 300.000 armeni furono sterminati dagli ottomani. Nel 1908 il movimento dei Giovani Turchi prese il potere. Il loro programma islamo-nazionalista prevedeva chiaramente la distruzione del popolo armeno, ritenendo che questi avrebbero impedito la rinascita della nazione turca.

Lo scoppio della prima guerra mondiale sarà l'occasione per organizzare il genocidio armeno. Dopo i massicci arresti di sacerdoti, notabili e intellettuali che furono sistematicamente giustiziati, la grande deportazione fu organizzata segretamente in tutto il paese ottomano. Gli sfortunati furono inviati nel deserto siriano, vicino a Deir es-Zor. Ma la maggioranza è morta sulla via dello sfinimento o assassinata dai gendarmi o dai curdi, zelanti servitori del genocidio.

Questo genocidio, che la Turchia si rifiuta ancora di riconoscere, ha causato circa 1.500.000 morti. Diverse centinaia di migliaia di armeni riuscirono a fuggire verso est, diretti in Libano o a Damasco. A Costantinopoli ci furono anche molti sopravvissuti perché la città era troppo esposta agli occhi occidentali perché i turchi potessero perpetrarvi i loro crimini.

I casi di resistenza erano rari perché i malcapitati ignoravano il destino che li attendeva. Erano tutte uguali ma solo una è stata coronata dal successo, quella di Musa Dagh. Si può leggere su questo argomento il bel romanzo di Franz Werfel, I quaranta giorni di Musa Dagh .

La guerra del 14-18 aveva visto le vittorie dei russi sui turchi, ma la rivoluzione bolscevica cambiò tutto e le truppe russe si ritirarono per prendere parte alla guerra civile che stava iniziando.

La Turchia ne approfittò e lanciò una vasta offensiva contro ciò che restava dell'Armenia. Le truppe turche arrivarono vicino a Yerevan ma alla fine furono respinte da armeni eroici e in inferiorità numerica. Dal 21 al 25 maggio 1918 furono ottenute diverse vittorie e i turchi riconobbero l'indipendenza dell'Armenia.


IL PERIODO SOVIETICO

Questa indipendenza durò poco: i sovietici e la nuova Turchia di Mustapha Kemal si accordarono sul tracciato dei confini e l'Armenia si integrò nella nascente URSS nel 1922 come i suoi vicini caucasici, la Georgia e l'Azerbaigian.

Molti armeni abbracciarono con entusiasmo gli ideali marxisti. In questo paese così cristiano, rimane un enigma ma è necessario riconoscere questo fatto. Inoltre, una parte significativa della diaspora armena in Francia era un membro del Partito Comunista. Tuttavia, la maggioranza rimase cristiana e sostenne coraggiosamente la Chiesa nella sua lotta contro le persecuzioni di Stalin.

Simbolo di questa lotta mai cessata, il Catholicos fu assassinato dalla Ceka nel 1938. La seconda guerra mondiale costrinse Stalin a sospendere queste persecuzioni e molti armeni morirono sotto i colpi dell'esercito tedesco: tra i 150.000 e i 200.000.

Il dopoguerra sarà meno doloroso e se la Repubblica Sovietica d'Armenia subirà il pugno di ferro comune a tutta l'URSS, non si verificherà una grande ondata di persecuzioni.

Questo periodo fu teatro di un importante progresso culturale per l'Armenia con la costruzione del Matenadaran a Yerevan. Vi sono conservati più di 15.000 antichi manoscritti scritti in armeno: è esposta l'intera memoria cristiana, assicurando la trasmissione della storia antica e poi paleocristiana, le cui origini greche sono scomparse nelle successive distruzioni della biblioteca di Alessandria. 

1991 INDIPENDENZA E GUERRA

Subito dopo la caduta dell'Unione Sovietica, l'Armenia ha proclamato la propria indipendenza il 21 settembre 1991. Poco prima, nel 1988, il Nagorno-Karabakh aveva rivendicato il proprio attaccamento all'Armenia. Questa provincia è un'enclave cristiana situata in Azerbaigian. Stalin aveva deciso che sarebbe stato così, contro ogni logica culturale, etnica e religiosa. Logicamente, anche i cristiani del Nagorno-Karabakh hanno proclamato la loro indipendenza nel settembre 1991.

L'Azerbaigian ha immediatamente inviato truppe nell'enclave ed è scoppiata la guerra tra questi due vicini che hanno così poco in comune. Questo conflitto, che causerà 30.000 morti, è andato a vantaggio dell'Armenia che ha conquistato i territori azeri che portano al Nagorno-Karabakh. Poi si sono verificati movimenti di popolazione: migliaia di armeni hanno lasciato l'Azerbaigian dove non erano più al sicuro, mentre gli azeri sono stati cacciati dai territori situati tra l'Armenia e il Nagorno-Karabakh.

LA GUERRA PERSA CONTRO L'AZERBAIGIAN

Ma tutti sapevano che la questione non si sarebbe fermata qui. L'Azerbaigian ha pazientemente tramato la sua vendetta. Aliyev, il dittatore succeduto al padre nel 2003, si è avvicinato alla Turchia. I due paesi hanno una grande differenza: la Turchia è sunnita mentre l'Azerbaigian è sciita. Ma hanno un punto fondamentale in comune: sono turcomanni. Con l'aiuto dei soldi del petrolio di Baku, Aliyev ha acquistato i famosi droni Bayractar in grandi quantità e più in generale ha modernizzato il suo intero esercito. L'Armenia, molto più povera, non ha fatto nulla in questa direzione, convinta di beneficiare di un ombrello russo incondizionato.

Ma un evento politico importante si è verificato con le elezioni del 2018 che hanno portato alla vittoria di Nikol Pashinian, un liberale filoamericano. Come tanti altri, è stato eletto sulla base di un programma anticorruzione piuttosto confuso ma così seducente. Il suo governo prese immediatamente le distanze dalla Russia, con grande gioia dei suoi amici occidentali che avevano già portato la vicina Georgia nella loro sfera di influenza.

Inoltre, quando l'Azerbaigian ha lanciato un attacco a sorpresa sul Nagorno-Karabah nel settembre 2020, Pashinian si è trovato di fronte a una situazione molto grave: una ritirata degli armeni di fronte alle truppe azere, la distruzione dei loro carri armati da parte dei droni turchi e la mancanza di reazione dei russi. Questi alla fine sono intervenuti mentre gli azeri, rinforzati da migliaia di islamisti siriani inviati dalla Turchia dalla provincia di Idleb, si avvicinavano a Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh.

Temendo i russi, Aliyev accettò di negoziare ma gli fu concessa una parte significativa del Nagorno-Karabakh così come i territori situati tra l'Armenia e il Nagorno-Karabakh che tornarono così ad essere un'enclave collegata all'Armenia tramite un corridoio sorvegliato dalla Russia.

Da allora, le vessazioni azere non sono cessate contro il resto dell'enclave i cui confini sono quotidianamente minacciati, per non parlare dei molteplici abusi subiti dalle popolazioni della parte invasa del Nagorno-Karabakh. Alla fine, lasciare la loro terra era l'unica soluzione.

Pashinian ha potuto meditare sulla solidità del sostegno occidentale, che abbiamo saputo essere più massiccio su altri temi... Tante belle parole ma, alla fine, siglato un corposo contratto sul gas tra Unione Europea e Unione Europea L'Azerbaigian ha mostrato chiaramente quali fossero le priorità occidentali.

UN FUTURO INCERTO

Oggi l'Armenia è di nuovo in pericolo. La pressione azera non vale più solo per la parte del Nagorno-Karabakh che è rimasta libera, ma anche per gli stessi confini armeni dove le provocazioni sono molto frequenti.

La Russia non lascerà scomparire l'Armenia ma non ha apprezzato il passo di danza di Pashinian verso l'Occidente e la Turchia non ha rinunciato al suo progetto di collegarsi con l'Azerbaigian per accedere al Mar Caspio e, oltre, all'Asia centrale dove vivono milioni di turcomanni nei cinque paesi dell'ex Unione Sovietica.

L'Armenia cristiana non ha finito di soffrire

Antonio di Lacoste

lunedì 12 giugno 2023

Stop al micidiale embargo in Siria! Lo ripetiamo ancora, di fronte alle decisioni internazionali sulla Siria

Adnan Azzam, presidente del Movimento Internazionale per la Sovranità dei Popoli, ha effettuato una lunga visita in Siria con una dozzina di membri del movimento. Hanno osservato quanto la popolazione soffra per la carenza di cibo, elettricità, riscaldamento, bisogni primari... a causa dello strangolante embargo imposto da USA e UE. L'80% dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà. Questo è un crimine contro l'umanità. Chiedono la fine immediata di tutto questo.


Siamo appena tornati da un viaggio di studio in Siria, invitati da Adnan Azzam, scrittore e presidente del Movimento Internazionale per la Sovranità dei Popoli.

Siamo andati a Damasco, Aleppo, Soueïda e abbiamo potuto vedere le disastrose conseguenze dell'embargo imposto alla Repubblica Araba Siriana da Stati Uniti e Unione Europea. Proseguire la guerra sul piano economico è destinato al fallimento, perché il popolo siriano, lungi dall'essere rassegnato, rimarrà fedele alle proprie tradizioni, alla propria cultura e alla propria libertà.

Ma le condizioni di vita del popolo siriano, a causa degli effetti devastanti dell'embargo e delle conseguenze del recente terremoto nel nord di questo Paese, si fanno sempre più difficili. Neonati e bambini sono le prime vittime delle sanzioni economiche. 

Mancanza di medicinali, cibo, beni di prima necessità, elettricità, riscaldamento, questa è la sorte quotidiana del popolo siriano. Abbiamo visto che ad Aleppo le condizioni di vita degli abitanti sono molto difficili. Il recente terremoto ha solo peggiorato la situazione. 

– Abbiamo il diritto di permettere che questa situazione intollerabile continui senza batter ciglio? 

– Abbiamo il diritto di distogliere lo sguardo senza fare domande? 

– Abbiamo il diritto di non pronunciarci contro questa persecuzione che dura da più di 10 anni? 

– Abbiamo il diritto di non chiedere ai nostri leader di porre fine a queste morti inutili? 

Se ufficialmente le sanzioni americane ed europee non riguardano gli aiuti umanitari, le loro conseguenze sono comunque drammatiche, perché nessuna banca o azienda osa esportare attrezzature per ospedali o medicinali in Siria per paura di sanzioni da parte degli Stati Uniti. Praticano l'extraterritorialità legale, che penalizza pesantemente tutti i rapporti con gli stati sotto embargo. Infine, questa situazione comporta anche il rischio – noto e calcolato dai promotori dell'embargo – di creare alla fine disordini civili più o meno gravi.

L'80% dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà. I prezzi del cibo sono aumentati del 133%. Quello che sta accadendo sul suolo siriano è un crimine contro l'umanità.

Questo intollerabile disprezzo per la vita umana deve cessare immediatamente. La Francia, patria dei diritti umani, deve manifestare la sua vocazione e affermare i suoi valori umanisti. 

Chiediamo solennemente la fine immediata dell'embargo che affama il popolo siriano. Le morti e le sofferenze inutili di neonati e bambini devono cessare IMMEDIATAMENTE e IMPERATIVAMENTE.

 https://www.mondialisation.ca/stop-a-lembargo-mortel-en-syrie/5677658

giovedì 8 giugno 2023

L'archeologo italiano Paolo Matthiae ha ricevuto l'Ordine al Merito siriano in riconoscimento del suo contributo negli scavi archeologici in 59 anni

 Il ministro siriano della Cultura, Lubana Mechaweh, ha affermato che Matthiae ha trascorso quasi 40 anni della sua vita a scavare nel sito archeologico di Ebla ed è rimasto capo e direttore della missione archeologica italiana a Tell Mardikh dal 1963 al 2011 quando i lavori sul sito è stato interrotto a causa della guerra in Siria.

“Ha anche fondato una missione archeologica a Tell Afes e un'altra a Tell Tuqan”, ha aggiunto, sottolineando che Matthiae ha sempre considerato la Siria la sua seconda patria e nonostante tutti gli ostacoli e le pressioni è tornato nel 2022 dopo 11 anni di assenza obbligatoria, come direttore scientifico di una nuova missione italiana. “Tra il 1963 e il 2019 ha pubblicato circa 185 articoli scientifici sulla Siria, la sua civiltà e i suoi siti archeologici, e 23 opere che sono tra i più importanti riferimenti scientifici sulle antiche civiltà siriane, in particolare sul sito archeologico di Ebla”. 

Nel suo discorso in questa occasione, Paulo Matthiae ha espresso la sua gratitudine per aver ottenuto il più alto grado di merito per Ebla, "Paese di una civiltà molto importante",  il più importante nella storia dei secoli dell'Antico Oriente e del Medio Oriente.

Ha chiarito che l'importanza di Ebla risale all'anno 23 aC “Questo è importante per tutta la storia a causa dell'emergere di una nuova lingua e cultura dopo la scoperta del palazzo di Ebla, e quindi la Siria ha rafforzato la sua posizione e prestigio per raggiungere lo stesso livello della civiltà del Nilo e della Mesopotamia”, ha concluso.

( dal sito governativo SANA, 6-05-23)

Per comprendere, almeno come accenno, l'importanza del lavoro scientifico che il prof Matthiae ha svolto, scoprendo un'antica civiltà simile alla civiltà della Valle del Nilo e parallela alla civiltà mesopotamica, riportiamo dal sito del Meeting di Rimini la parte della conferenza tenuta nel 2014 dal professore in occasione della presentazione della Mostra DAL PROFONDO DEL TEMPO: ALL’ORIGINE DELLA COMUNICAZIONE E DELLA COMUNITÀ NELL’ANTICA SIRIA

PAOLO MATTHIAE:
Una barbarie antica e nuovissima, fondata, da un lato, sulla deprecata bramosia dell’arricchimento e, dall’altro, sull’inespiabile ed infame odio dell’”Altro”, ha riportato, in modi inattesi, nei tempi più recenti all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale quei luoghi del pianeta che usualmente si definiscono, in maniera impressionistica ma del tutto a ragione, “la culla della civiltà”. Culla della civiltà è un’espressione che vuole, non soltanto, indicare quei luoghi dove la civiltà umana ha compiuto, riguardo ai tempi, i suoi primi passi, ma anche significare che già in quei primi passi, riguardo ai modi, si realizzarono progressi nella storia dell’umanità che sempre poi, nel corso millenario del suo sviluppo, caratterizzarono quelle forme di vita associata che nelle interpretazioni moderne si definiscono appunto “forme di civiltà”. I motivi per cui, ai nostri giorni, in modi inimmaginabili solo pochi anni fa, questi luoghi memorabili della storia dell’umanità sono venuti tristemente alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale sono stati, e sono tutt’oggi, i saccheggi depredatori e le distruzioni selvagge cui questi centri antichissimi della civiltà umana sono stati soggetti soprattutto negli ultimi quindici anni, con intensificazioni vertiginose negli ultimi tempi.
Dove è, dunque, geograficamente la culla della civiltà umana? Come si configura, ecologicamente, il paesaggio della culla della civiltà? Quando quei luoghi divennero, cronologicamente, la culla della civiltà? Perché, socialmente, in quelle regioni si crearono le condizioni per la nascita della civiltà? Chi furono, storicamente, i protagonisti di quei mutamenti che resero luoghi apparentemente inospitali l’accogliente culla della civiltà? A questi quesiti, che sono i quesiti fondamentali di ogni ricerca storica – Dove? Come? Quando? Perché? Chi? – l’archeologia orientale si è impegnata da decenni a dare risposte efficaci, spesso tanto complesse quanto problematiche, elaborando imponenti masse di dati provenienti da numerosissime esplorazioni archeologiche sviluppatesi dalla metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni in alcune delle regioni politicamente più tormentate e umanamente più straziate del nostro pianeta.
La “culla della civiltà”, quanto ai luoghi, si localizza, primariamente, nella Bassa Mesopotamia, l’odierno Iraq meridionale, e nell’Egitto e, secondariamente, nell’Alta Siria, in regioni piuttosto differenziate ecologicamente. Infatti, l’ampia regione che gli antichi chiamavano Babilonia che corrisponde approssimativamente oggi all’Iraq meridionale tra Baghdad a nord e Bassora a sud era un’ampia valle alluvionale formata dai corsi, spesso mutevoli, del Tigri e dell’Eufrate non troppo diversa dalla straordinaria valle del Nilo, che si presenta, peraltro, come una stretta fascia fertile dove corre il gran fiume che fece dire ai Greci che l’Egitto era un “dono del Nilo”. Nella Bassa Mesopotamia, tuttavia, certo oggi non molto diversamente da 5000 anni orsono tranne che nella parte più meridionale che era allora ancora sommersa dalle acque marine del Golfo, si alternano oggi terreni coltivati con orti e giardini lussureggianti, aride steppe desolate con sabbie invadenti, acquitrini paludosi ricchi di una flora e di una fauna uniche, confondendosi e mutandosi in un ambiente naturale di eccezionale suggestione. Al contrario, nella valle del Nilo il corso del fiume pressoché immutabile, tranne che nel Delta, scorre tra le sottili fasce di terreni verdeggianti fertilizzati dall’annuale regolarissima piena fluviale, bordate dagli aridissimi deserti occidentale e orientale al punto che si è detto, a ragione, che l’Egitto è l’unico luogo al mondo dove si può passeggiare con un piede che calca la terra nera e grassa di una delle regioni più fertili del pianeta e con l’altro che affonda nella terra rossa della sabbia di un deserto desolato ed ardente. In queste regioni le precipitazioni atmosferiche, estremamente ridotte, non consentono alcun tipo di agricoltura, che, invece, è resa possibile, con rendimenti anche elevati, dalla presenza delle abbondanti acque dei grandi fiumi.
L’Alta Siria, sia nelle regioni orientali tra Eufrate e Tigri, sia in quelle occidentali tra l’Eufrate e il Mediterraneo, è un’area completamente diversa: un ondulato tavolato calcareo privo di fiumi di grande portata, perché l’Eufrate vi scorre tra alte falese, ma dove le piogge nella media annuale divengono progressivamente più intense quanto più ci si avvicina alla lunga catena montuosa del Tauro che limita a nord la cosiddetta Fertile Mezzaluna consentendo addirittura le coltivazioni della triade mediterranea, grano, vite e ulivo. 

Nelle piane alluvionali del Tigri e dell’Eufrate a Oriente e nella valle del Nilo ad Occidente attraverso un lento processo evolutivo, fortemente favorito dall’eccezionale situazione ecologica particolarmente adatta ad un’agricoltura intensiva, che si colloca per tutto il IV millennio a.C. e che conobbe accelerazioni decisive negli ultimi secoli prima del 3000 a.C., nelle fasi archeologiche dette di Uruk Tardo e di Gemdet Nasr tra 3300 e 2900 a.C., da un lato per la Mesopotamia, e di Nagada IIIB-C tra 3300 e 3000 a.C., dall’altro per l’Egitto, si determinò quella che è stata definita in maniera assai efficace anche se in parte impropria la “rivoluzione urbana”. Sono questi i secoli che, con l’urbanizzazione primaria, videro l’attuarsi di un epocale rivolgimento nella storia dell’umanità: la formazione delle prime città-stato nella Mesopotamia meridionale e del primo stato territoriale nella valle del Nilo, due sviluppi di grandissimo significato e di grandissime conseguenze nella storia economica, sociale, ideologica del nostro pianeta. Le prime città e il primo stato della storia trovarono la loro forma storica in Mesopotamia e in Egitto negli anni attorno al 3000 a.C., condizionati dalla straordinariamente favorevole situazioni ecologica delle grandi valli alluvionali del Tigri ed Eufrate e del Nilo.
Le prime città della storia nella Bassa Mesopotamia, soprattutto nella regione di Nippur e di Uruk, ma forse parallelamente nella regione di Ninive nell’Alta Mesopotamia, erano caratterizzate da una concentrazione demografica prima sconosciuta, dall’esistenza di una cerchia di mura che le separava dal contado, dalla presenza di un’architettura monumentale pubblica di natura sacra e secolare, dal configurarsi di una particolare gerarchia insediamentale, dal consolidarsi di una complessa economia agraria integrata, dall’affermarsi di classi professionali di artigiani specializzati, dal costituirsi di una stabile élite dirigente che esercita il controllo amministrativo e assicura il governo, dallo sviluppo di una crescente diseguaglianza sociale conseguente ad un’incipiente formazione di classi, dall’impiego sempre più sistematico della scrittura per rispondere ad esigenze amministrative.
Questi elementi dello sviluppo culturale mostrano con evidenza quanto rivoluzionaria sia stata questa fase della storia sulle sponde dell’Eufrate e del Tigri e del Nilo. L’irreversibilità delle innovazioni, pur apparentemente fragili e soggette a crisi, si palesò ben presto attraverso tre modalità maggiori dell’espansione di questa nuova originalissima formula della vita associata. In primo luogo, l’incremento della popolazione che si trasferì all’interno del protetto e delimitato circuito delle mura urbane crebbe presto in maniera esponenziale, fino a far ritenere che tra il 50 e l’80% della popolazione attorno al 3000 a.C. vivesse nelle città. In secondo luogo, la dimensione delle città, che agli inizi era stata molto varia da una ventina di ettari delle minori fino ai poco meno di 500 ettari della gigantesca Uruk del XXX secolo a.C., due volte l’Atene di Pericle del V secolo a.C., si dilatò dovunque in maniera notevole. In terzo luogo, aumentarono sensibilmente il numero e la densità dei centri urbani, per cui le cinte turrite e gli alti santuari su terrazze che dominavano l’ambiente urbano divennero visibili da una città all’altra e mutarono radicalmente il panorama insediativo di tutta la regione con segni impressionanti imposti al territorio.
Ma un limite grave e all’apparenza insormontabile doveva sembrar incombere sulla rivoluzionaria svolta impressa allo sviluppo di quella remota umanità delle due grandi valli alluvionali mesopotamica e egiziana, che, se veramente si fosse rivelato rigidamente condizionante, avrebbe impedito una diffusione ampia del nuovo modello non solo insediamentale e territoriale ma economico, sociale e ideologico creato in Mesopotamia ed in Egitto: l’ambiente appunto della valle alluvionale.
Fu proprio il definitivo affermarsi del modello della città mesopotamica e dello stato egiziano nella prima metà del III millennio a.C., con le fiorenti città-stato dell’Età Protodinastica nei paesi di Sumer e di Akkad, da un lato, e con lo straordinario stato faraonico dell’Antico Regno egiziano dall’altro che lanciò alle donne e agli uomini di quei secoli lontanissimi una sfida epocale, che, se vinta, avrebbe segnato la diffusione universale e il trionfo durevole di quelle affascinanti modalità di vita associata. Poteva il modello urbano e statale della Mesopotamia e dell’Egitto riprodursi, sussistere ed espandersi anche in condizioni ecologiche molto diverse, dove non fossero presenti l’abbondanza delle acque di grandi fiumi e le ampie piane delle valli alluvionali ovvero quelle condizioni ecologiche erano vincolanti nel senso che senza di esse quei modelli non si sarebbero potuti non solo temporaneamente riprodurre, ma soprattutto durevolmente affermare?
E’ nella risposta positiva a questo quesito che le genti della terza regione che abbiamo citato all’inizio, l’Alta Siria, dimostrarono, nei secoli attorno alla metà del III millennio a.C., una straordinaria originalità e contribuirono in maniera decisiva, attraverso quella che noi chiamiamo oggi la fase dell’”urbanizzazione secondaria”, al definitivo affermarsi della città e dello stato in ambienti ecologicamente diversi da quelli delle valli alluvionali. L’età dell’urbanizzazione “secondaria” vide nella Siria Occidentale e nell’Alta Mesopotamia, territori oggi nei confini della Repubblica Araba Siriana, nei secoli compresi tra circa il 2700 e il 2500 a.C., mentre si consolidavano definitivamente le città sumeriche nella Bassa Mesopotamia e lo stato faraonico nell’Egitto, la crescita vertiginosa e quasi improvvisa di centri urbani formatisi al di fuori e lontano dalle valli alluvionali.
L’incanto di quel condizionamento era spezzato e si apriva una nuova prospettiva, perché le nuove città dell’area siriana nascevano e crescevano, certo in parte e per certi aspetti in funzione dei floridi grandi centri urbani dei paesi di Sumer di Akkad e del potente stato unitario dei faraoni d’Egitto, ma soprattutto traevano le ragioni del loro sviluppo da differenziate basi economico-sociali e da diversi fondamenti ideologici, le une e gli altri non determinate dal condizionamento delle situazioni ecologiche delle valli dei grandi fiumi, anche se i contatti frequenti e decisivi con quelle poderose e suggestive realtà sociali non fu certo senza influenza.
In regioni dove l’agricoltura non poteva che essere dipendente dalle precipitazioni atmosferiche, le nuove città di Siria Occidentale e Nord-Orientale si formarono e prosperarono perché ad un’agricoltura irrigua intensiva si sostituì un’agricoltura secca estensiva e perché una diversa e paradossalmente più ricca e variegata integrazione alimentare si riuscì ad istituire tra più differenziate colture agrarie, tra le quali accanto ai cereali primeggiavano l’ulivo e la vite, e più differenziate specie animali sul versante complementare della pastorizia, in cui i bovini sfruttavano i pur limitati pascoli collinari e i capro-ovini le ampie estensioni della steppa. Anche al di là del puro orizzonte alimentare, l’originalità delle nuove e nascenti formazioni urbane di Siria rispetto a quelle più antiche ed affermate di Mesopotamia, si manifestava sul piano economico più generale per lo sfruttamento delle risorse di materie prime fondamentali, assenti nel mondo alluvionale sud-mesopotamico e presenti invece nelle regioni collinari e pedemontane adiacenti ai luoghi delle città nord-siriane: il legname delle foreste e i metalli, rame e argento soprattutto, delle montagne del Tauro, dell’Amano, dell’Antilibano e del Libano.
Tra i centri urbani che emersero fuori delle valli alluvionali soprattutto nel secondo quarto del III millennio a.C., per motivi diversi, un ruolo fondamentale per l’importanza del potere politico, la complessità della struttura sociale, l’originalità dell’elaborazione ideologica ebbero certo Ebla nella Siria Occidentale e Urkish nella Siria Nord-Orientale, riportate alla luce rispettivamente dalle Missioni italiana e americana guidate, nel primo caso, da chi vi parla e nel secondo da Giorgio e Marilyn Buccellati. Riferendosi ora all’ultimo dei quesiti che ci eravamo proposti all’inizio di questa presentazione, riguardo a chi furono i protagonisti di questa “urbanizzazione secondaria”, non v’è alcun dubbio che ad Ebla protagonisti furono Semiti nord-occidentali, che parlavano un’antichissima lingua semitica molto prossima morfologicamente all’akkadico della Mesopotamia, ma da esso abbastanza differenziata lessicalmente e che ad Urkish protagonisti furono invece Hurriti orientali, il cui idioma è tuttora tra le grandi lingue di cultura dell’Oriente antico quella meno conosciuta e più misteriosa per il suo singolare isolamento linguistico.
In ambienti etnicamente differenziati, dunque, quasi negli stessi decenni in regioni separate da spazi geografici non brevi, ma in ambienti ecologicamente simili, Ebla ed Urkish hanno avuto una funzione essenziale come centri promotori della grande seconda urbanizzazione dell’Oriente antico. Le scoperte di Ebla e di Urkish, già solo per l’identificazione sul terreno di queste due città a lungo ricercate dagli archeologi durante gran parte del Novecento in contrade non molto esplorate dall’archeologia tradizionale, sono di fondamentale importanza perché, con la loro formazione e la loro fioritura dimostrarono alla consapevole attenzione dell’umanità di oltre 4500 anni orsono nell’Alta Siria e nell’Alta Mesopotamia che la sfida contro i condizionamenti della natura era stata trionfalmente vinta dalle straordinariamente duttili capacità di adattamento e di adeguamento degli uomini per l’affermazione del modello della città e dello stato in qualunque situazione ecologica.
L’efficienza economica, la solidità amministrativa, la complessità sociale, l’originalità ideologica, il prestigio politico di centri urbani come la semitica Ebla e la hurrita Urkish subito dopo i decenni centrali del III millennio a.C. furono la dimostrazione, di cui certo presero atto anche i potenti di quei tempi remoti dalle rive del Nilo alle sponde del Golfo – i faraoni dell’età delle Piramidi e i principi dei paesi di Sumer e di Akkad – che nuove civiltà urbane erano sorte lontano dai corsi dei fiumi, che erano in grado di controllare vie commerciali importanti, che potevano gestire imprese militari rischiose e soprattutto che, pur con particolarità istituzionali originali, nuove città e nuovi stati, in ambienti etnicamente fino a quegli anni trascurabili, come quello semitico occidentale e hurrita orientale, avrebbero presto arricchito uno scenario internazionale dominato fino ad allora quasi soltanto da due orgogliosi protagonisti nel mondo sumerico e nel mondo egiziano.


L’importanza storica fondamentale di scoperte archeologiche epocali, come quelle di Ebla e di Urkish, è proprio nel fornire una documentazione impressionante su un’epoca di assoluto rilievo nella storia dell’umanità: l’epoca che vide il definitivo affermarsi della città e dello stato, agli inizi della civiltà urbana, come modelli di insuperabile significato per la diffusione e il progresso della civiltà.
Se il modello della città sumerica e dello stato faraonico avesse dovuto esser vincolato da una determinata situazione ambientale, quel vincolo avrebbe, nei secoli futuri, condizionato duramente e limitato enormemente lo sviluppo della civiltà. Sarebbe certo accaduto, come in effetti accadde, che quei modelli sarebbero stati adottati in luoghi anche lontanissimi del pianeta, come la valle dell’Indo in India e la valle del Fiume Giallo in Cina, ma solo il trionfo, nell’Alta Siria, in siti come Ebla e Urkish, di quella aspra sfida contro le difficoltà frapposte dalla natura alla universalizzazione dei modelli di città e di stato, fece sì che la città divenisse, da allora per millenni ed ancora oggi, sinonimo di civiltà. Grazie