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lunedì 3 giugno 2019

Pompieri e Incendiari


 Michel Raimbaud, 26 maggio 2019
L’autore francese di questo articolo, nato nel 1941 - saggista politico, scrittore, insegnante, una lunga e proficua carriera con incarichi diplomatici di rilievo, più volte ambasciatore, lunghi soggiorni in numerosi Paesi: Brasile, Arabia Saudita, Yemen, Egitto, Mauritania, Sudan…, dal giugno 2000 al febbraio 2003 direttore in Francia dell’Ufficio per la protezione di immigrati e apolidi (OFPRA), poi all'amministrazione centrale del Quai d'Orsay, poi ancora ambasciatore, nello Zimbabwe – osserva il mondo con spirito libero e racconta le vicende della geopolitica con grande passione e maestria anche nello stile, vivace e coinvolgente. Dopo il pensionamento nel 2006, intraprende l’attività di conferenziere e insegna presso il Centre d’Études Diplomatiques et Stratégiques (CEDS). Tra le sue numerose opere, ‘’Tempête sur le Grand Moyen-Orient’’ (Tempesta sul Grande Medio Oriente), del 2015. Continua a dedicare molti articoli alla drammatica e iniqua guerra contro la Siria con i suoi risvolti regionali e mondiali. Merita di essere letto.
Maria Antonietta Carta
Dicembre 1991. Ieri. E in due soli anni il mondo mutò. L'ordine bipolare est-ovest crollava in seguito alla scomparsa dell'URSS e l'Occidente usciva vittorioso da una competizione che, in effetti, non era durata più di 45 anni: un tempo piuttosto corto sulla scala della Storia. Prima di tutto, gli Stati Uniti, inebriati da un trionfo inaspettato, si pavoneggiarono senza sapere cosa fare. Nel 1992, uno dei loro politologi, Francis Fukuyama, dichiarò la fine della Storia per mancanza di protagonisti all’altezza dell’unica superpotenza superstite.
Sbigottito, il coro occidentale si bevette con piacere questa idiozia: secondo quel profeta troppo frettoloso, il mondo si sarebbe paralizzato, senz’altra scelta che schierarsi con il nuovo padrone. Per i potenziali refuznik, si trattava di sottomettersi o rassegnarsi e, adottando l’eredità del "mondo civilizzato" dell'era coloniale e del "mondo libero" della guerra fredda, ecco che la "Comunità internazionale" is born, come si dice nella lingua franca contemporanea. I Paesi che osarono rifiutare la nuova regola del gioco USA finirono nella gehenna degli Stati fuorilegge: in bancarotta, canaglie, emarginati, “preoccupanti", come diremo presto. Mentre i Paesi “liberati’’ dal comunismo dovettero intraprendere una riconversione incondizionata e senza fronzoli ... Bisognava sbarazzarsi di falci, martelli, dell'Internazionale proletaria e, per molte delle loro élite, di tutto un trascorso diventato ingombrante.

Non lo chiamavano ancora in questo modo, ma il “Momento unipolare americano" era già in marcia e non amava quelli che trascinavano i piedi. Tuttavia, l'eternità prevista implicitamente nel libro di Fukuyama (La fine della Storia e l'ultimo uomo) sarebbe terminata troppo presto per apparire lunga. Non avrebbe superato il ventesimo anno. Infatti, nel marzo 2011, dopo vent'anni di misfatti il momento unipolare iniziava ad andare a rotoli e la Storia riprendeva la sua marcia verso un ordine mondiale più equilibrato quando Russia e Cina si fecero forzare la mano e si unirono per l’ultima volta alla "Comunità internazionale" per lasciare "implicitamente” il campo libero all'intervento della NATO in Libia, ma nel mese di ottobre dello stesso anno un doppio veto di Russia e Cina metteva fine all’onnipotenza di Washington e dei suoi suppletivi vietando ogni intervento di regime change a Damasco.
Nel 2019, l'ordine imposto dagli Stati Uniti, ingiusto, tirannico e caotico, sta morendo, ma l'Occidente, riluttante ad ammetterlo, continua a credere fermamente nella loro leadership ‘’naturale’’, in nome di un'universalità proclamata e rivendicata. Preferisce non vedere che la loro pretesa è sfidata dall'immensa coorte di popoli. Nel terzo millennio, non è più possibile accettare questa prerogativa di stampo feudale data per scontata dai Signori del pianeta. In pochi anni, la geografia politica e la mappa di un ‘’Paese immaginario’’ di sicuro sono molto cambiate nel mondo arabo-musulmano, ma anche altrove.

Due “campi" polarizzano questa nuova realtà partorita nel dolore. Il primo scommette sulla legalità e il diritto internazionale per arrivare a tutti i costi a un mondo multipolare equilibrato in grado di vivere in pace. Il secondo, successore del "mondo libero" di un tempo, non ha trovato niente di meglio che inventarsi il caos "costruttivo" o "innovativo" per garantire la sostenibilità di un'egemonia contestata. Da entrambi i lati, gli uomini al potere mostrano uno stile in accordo con queste scelte di fondo.
Senza trascurare la concorrenza quotidiana più combattuta tra Stati Uniti e Cina e l'ineluttabile scontro tra gli obiettivi di Trump, promotore spontaneo del "caos creativo" e di XI-Jinping, adepto metodico della "distensione costruttiva", è il duo russo-americano che rimane per il momento al centro del confronto. I leader di entrambe le parti – Eurasia e Occidente - che hanno preso il posto dei protagonisti del conflitto Est/Ovest, Putin e Trump, sono attori importanti della vita internazionale e devono coesistere, che lo vogliano o no ...

Non è necessario essere un osservatore molto acuto per indovinare che tra i due uomini non esiste molta sintonia. Non si tratta di una semplice questione di stile, ma di universi mentali e intellettuali opposti. Se il caso, per sua natura spesso capriccioso, decidesse di rendere il mondo invivibile, non agirebbe diversamente, consentendo che in questo preciso e decisivo momento della Storia due personalità così diverse siano deputate a rappresentare e " gestire" una riunione al Vertice tra Stati Uniti e Russia nel modo conflittuale che conosciamo.
Vladimir Putin è un capo di Stato popolare nel suo Paese e rispettato all’estero perché è l'architetto indiscusso della rinascita della Russia. Questo invidiabile prestigio non si deve a un qualche populismo di bassa lega o a un atteggiamento demagogico, ma al suo lavoro. L'inquilino del Cremlino comunica volentieri. Dai suoi discorsi senza enfasi si può intuire un uomo sicuro del suo potere, ma assolutamente poco incline ai toni confidenziali. Eppure, dietro un volto placido si nasconde un umorismo caustico che di tanto in tanto può sorprendere con uno scherzo inaspettato, deliziando i suoi sostenitori e permettendo ai neo-kremlinologi di arricchire il loro armamentario di pregiudizi "occidentali".

Ecco perché la breve frase del presidente russo a Sochi lo scorso 15 maggio, dopo l'incontro con l’omologo austriaco Alexander Van der Bellen, non sarà rimasta inascoltata. Interrogato durante una conferenza stampa su ciò che il suo Paese potrebbe fare per "salvare" l'accordo nucleare iraniano, Putin ha spiegato tra il serio e il faceto: "La Russia non è una squadra di pompieri, non possiamo salvare tutto". Non avrei potuto scegliere parole migliori per dire che molti incendiari si insinuano tra gli "interlocutori’’ a cui Mosca ama riferirsi con instancabile ottimismo. Senza dubbio, Trump è considerato il più pericoloso.
Al fuoco, pompieri! C’è una casa in fiamme! La tiritera è all'ordine del giorno. "Fuoco e incendiario"? Si direbbe il gioco per una serata in famiglia, uno di quelli che si amavano un tempo: un po’ noiosi e polverosi, ma efficaci per distrarre i bambini quando piove, tra nano giallo e piccoli cavalli. Tuttavia, si sarà capito, gli incendiari a cui pensa Putin si collocano su un altro registro. Non si tratta di delinquenti che bruciano bidoni della spazzatura, auto e negozi nelle "strade" occidentali, per conto di una "militanza" deviata ... Il presidente russo sicuramente pensa a una classe di criminali che sfugge totalmente alle imputazioni, alle azioni giudiziarie e alle punizioni: quella dei piromani di Stato in giacca e cravatta, arroccati ai vertici del potere nelle grandi democrazie autoproclamate che rientrano nell’ "asse del bene’’ o nella sua orbita. Negli "Stati di diritto", si ritiene legittimo incendiare il pianeta per annientare ogni resistenza all'egemonia dell'Impero Atlantico.

In questi stessi Paesi, i professionisti del pensiero, della scrittura, dell'analisi, della diplomazia o della politica adoperano con compiacimento una roboante retorica sul “Grande disegno", sulla "Strategia planetaria”, sulle "Ambizioni geopolitiche" o altre frottole. È chiaro che non scorgono l'ombra di un’ingiustizia e non li sfiora il sospetto di un’arbitrarietà nelle campagne finalizzate a devastare Paesi, popoli, spesso intere regioni, e restano indifferenti quando si menziona il tremendo bilancio delle guerre funeste scatenate dai loro governanti mafiosi.
I nostri moderni piromani sono insaziabili: non contenti di non provare vergogna o rimorso per i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità, i genocidi o i politicidi già commessi, minacciano e sanzionano a destra e a manca annunciando apertamente le loro intenzioni aggressive: Siria, Libia, Ucraina, Iran, Venezuela, Russia, Cina… Insomma, tutti i Paesi che osano ignorare i loro diktat.

Addio al diritto internazionale, buonanotte agli accordi internazionali, all'inferno la Carta delle Nazioni Unite, alle fanfare della diplomazia, del suo linguaggio desueto e delle sue prassi astruse. Infatti, con quasi 700 basi documentate dal Pentagono un po’ ovunque e soprattutto in Europa, Asia-Pacifico, Medio Oriente e Africa e con oltre 200.000 militari di stanza all'estero (50.000 in Germania, decine di migliaia nel resto del Continente europeo, 40.000 in Giappone e 28.000 in Corea del Sud), gli Stati Uniti e i loro scagnozzi sono soli contro il mondo.
Sotto la copertura di scelte imprevedibili, di ordini, contro-ordini e di dissensi nella sua amministrazione, Trump e la sua bella squadra - il sinistro John Bolton, il mellifluo Mike Pompeo, l'elegante Mike Pence, per non parlare del genero damerino Jared Kushner - seminano il caos e provocano incendi in tutti i continenti: esattamente ciò che è al centro del grande disegno ideato dagli USA per imporre al mondo la loro legge.

Negli anni di Reagan, Washington era riuscita a trascinare l'Unione Sovietica nella corsa agli armamenti e poi a impantanarla in una guerra inutile in Afghanistan, che avrebbe causato il suo declino. Probabilmente, il team di Trump cerca di ripetere l'esperienza, moltiplicando ovunque gli incendi nella speranza che la Russia di Putin si lasci indurre a svolgere il ruolo del pompiere universale. In Venezuela, l'impegno di Mosca ricorda quello dell'Unione Sovietica a Cuba, lo sforzo per incendiare gli Stati baltici e l'ex baluardo dell'Europa orientale, la Georgia, poi l'Ucraina, sono altrettante provocazioni alle porte della Russia.

Rimane il Grande Medio Oriente di Debeliou, al centro del nuovo conflitto Est/Ovest: dal suo nucleo (Siria, Libano, Palestina, Giordania, Iraq) all’Iran e Turchia, Yemen e Penisola Arabica fino all’Africa (Nord, Sahel, Corno, Golfo di Guinea...). Infine, c'è “l’Accordo del secolo" inventato da Trump con l’intento di "eliminare" il popolo palestinese per compiacere Israele: i miliardi versati e il ghigno compiaciuto degli autocrati potrebbe infiammare la polveriera...
Questa moltiplicazione di focolai - in un mondo dove le fondamenta della legge e della vita internazionale sono violate senza scrupoli, e dove alle parole è stato sistematicamente sottratto il vero senso - mira a scoraggiare potenziali vigili del fuoco: che si lascino intrappolare e non sapranno più dove sbattere la testa nell’estenuante tentativo di smentire notizie false (fake news), o false accuse per denunciare operazioni sotto falsa bandiera, per mantenere una parvenza di ragione in un mondo sempre più caotico, e per rispettare unilateralmente i principi che i piromani deridono.

Due esempi illustreranno l'ipocrisia della situazione:
Nonostante numerosi esperti e osservatori la considerino terminata e vinta da Damasco, la guerra in Siria continua in un contesto confuso e con un rimescolamento delle carte impressionante, scoraggiando qualsiasi analisi attendibile.
Il Dr. Wafik Ibrahim, specialista di affari regionali, osserva che per la sola liberazione, simbolica e peculiare, di Idlib in questo nono anno di guerra, “l’esercito siriano affronta dieci avversari" che unificano i loro sforzi per ostacolare il ritorno alla pace.  Le maschere sono cadute.

Erdogan è incastrato in manovre acrobatiche tra Stati Uniti e Russia e in una strategia aggrovigliata tra Mosca, Teheran, i gruppi terroristici che sponsorizza e le milizie curde che combatte, mentre cerca un ipotetico "cammino” di Damasco. La Turchia è impegnata militarmente e senza riserve con l'invio diretto di rinforzi e armamenti pesanti alle organizzazioni terroristiche, in primo luogo Jabhat al-Nusra (marchio siriano di al-Qaida), ribattezzato Hay'at Tahrir al-Sham (in Arabo: هيئة تحرير الشام, transliterazione: Hayʼat Taḥrīr al-Shām, "Organizzazione per la liberazione del Levante").
Per gli Stati Uniti, si tratta, se non di impedire, di ritardare il ritorno dello Stato siriano nel nord del Paese - governatorato di Idlib e/o la sponda orientale dell'Eufrate - mantenendo alcuni elementi sul terreno come deterrenti, con il pretesto di combattere Daesh che è una creazione de facto del nostro zio Sam – e aggiungiamo i loro “supporti automatici”: Nazioni Unite e Lega Araba, nel ruolo di paraventi legali e utili ausiliari di Washington; Gran Bretagna e Francia, gli associati; L'Arabia Saudita, che continua a finanziare il terrorismo a est dell'Eufrate contro i Turchi, ma si unisce a loro nel governatorato di Idlib; gli Emirati, l'asso nella manica USA specialmente in Siria. Tutti questi protagonisti sostengono le forze resistenti del terrorismo (tuttora 30.000 jihadisti di tutte le nazionalità).

Allo stesso tempo, il capestro delle sanzioni - armi di distruzione di massa il cui uso è un vero crimine di guerra - mira a prevenire la ricostruzione del Paese e a provocare una rivolta contro "il regime ".
In questa congiuntura, il lancio alla fine di maggio di un ennesimo "caso’’ di attacco chimico debitamente attribuito al "regime di Bashar al Assad " (da Latakia) sarebbe quasi una buona notizia, in quanto significherebbe che l'esercito siriano sostenuto dalle forze aeree russe, nonostante le manovre del nuovo Grande Turco, ha finalmente iniziato la liberazione di Idlib, congelata dal settembre 2018 (in seguito alla creazione di una zona di de-escalation sotto l'egida di Russia e Turchia). Lo scenario è ben noto e vi ritroviamo Hayʼat Taḥrīr al-Shām (ex-Jabhat al-Nusra). Le intimidazioni volano, senza dubbio invano, e storie di comodo hanno sempre meno successo.

L'offensiva degli USA contro l'Iran, in seguito al loro ritiro dal “Trattato sul nucleare" del 2015, ha creato profonde tensioni in Medio Oriente. Lo scambio di minacce attiene per lo più alla gesticolazione diplomatica, ma la saggezza è una qualità rara nell'entourage del Paperon de Paperoni alla Casa Bianca. I pompieri si affaccendano per spegnere l'incendio sempre pronto a riaccendersi nei giacimenti di gas e petrolio della regione: tra la Svizzera, l'Oman e la Russia, a chi toccherà di gettare il suo secchio d'acqua sulle scintille? Il Cremlino veglia per non lasciarsi sopraffare: ha sostenuto l'accordo sul nucleare e ha incoraggiato Teheran a rimanervi fedele, ma "gli Americani sono i primi a dare la colpa", "L'Iran è oggi il Paese più controllato e più trasparente al mondo sul nucleare", "La Russia è pronta a continuare a svolgere un ruolo positivo", ma il futuro del trattato "dipende da tutti i partner: Stati Uniti, Europa e Iran ...".

Aiutati che la Russia ti aiuterà... Il discorso è così ragionevole che a volte ci si chiede se la diplomazia russa, tanto "insopportabilmente paziente" non si sia sbagliata d’epoca davanti al fenomeno Trump, al suo Puffo, agli Europei rassegnati e ai pazzi loro alleati ... C’è ancora tempo per le chiacchiere?
       Michel Raimbaud
      Traduzione di: Maria Antonietta Carta
https://www.iveris.eu/list/tribunes_libres/429-pompiers_et_incendiaires_