«Lasciate il nostro popolo libero di risorgere». Parlano i cristiani Khaled Salloum, Mons Abou Khazen, Padre Mounir, Nabil Antaki
di
Leone Grotti
Anche
quest’anno, il sesto consecutivo, a Pasqua i siriani si
identificheranno più nella passione che nella risurrezione. E dire
che le premesse sembravano buone: a dicembre il governo di Bashar al
Assad, con l’aiuto della Russia e degli alleati sciiti, ha
riconquistato Aleppo e cacciato da Palmira lo Stato islamico. I
jihadisti indietreggiano e perdono terreno. La Turchia ha annunciato
a fine marzo la conclusione dell’operazione Scudo sull’Eufrate
(non proprio un successo), i colloqui di pace faticosamente vanno
avanti e l’ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite, Nikki
Haley, si è lasciata finalmente sfuggire parole che a Damasco si
attendono dall’inizio della guerra: «Non dobbiamo necessariamente
concentrarci su Assad, come la precedente amministrazione. La nostra
priorità è capire come far finire la guerra, con chi dobbiamo
lavorare per fare davvero la differenza per il popolo
siriano»
Tacitamente, ma inesorabilmente, davanti agli occhi dei siriani andava materializzandosi un sogno: la fine della guerra e la definitiva sconfitta delle milizie ribelli e jihadiste. Cinquantanove missili Tomahawk a stelle e strisce hanno spazzato via nottetempo questa immagine felice, causando un brusco risveglio a chi, come Khaled Salloum, sperava che Donald Trump «avrebbe agito diversamente da Barack Obama». L’ingegnere cristiano di 66 anni, oggi in pensione, abita a Homs, nella Valle dei cristiani, a una sessantina di chilometri dalla base aerea governativa di Shayrat, pesantemente danneggiata dal raid americano, che ha anche causato la morte di almeno 15 persone. «Non ci aspettavamo un attacco così diretto da parte degli Stati Uniti – confessa a Tempi – ma non credo che la situazione cambierà molto: è da anni che finanziano e armano gruppi di terroristi. E visto che questi non sono riusciti a vincere la guerra, ora intervengono direttamente. Trump parlava diversamente da Obama, ma ormai lo sappiamo: gli americani non possono mai essere presi sul serio».
Tacitamente, ma inesorabilmente, davanti agli occhi dei siriani andava materializzandosi un sogno: la fine della guerra e la definitiva sconfitta delle milizie ribelli e jihadiste. Cinquantanove missili Tomahawk a stelle e strisce hanno spazzato via nottetempo questa immagine felice, causando un brusco risveglio a chi, come Khaled Salloum, sperava che Donald Trump «avrebbe agito diversamente da Barack Obama». L’ingegnere cristiano di 66 anni, oggi in pensione, abita a Homs, nella Valle dei cristiani, a una sessantina di chilometri dalla base aerea governativa di Shayrat, pesantemente danneggiata dal raid americano, che ha anche causato la morte di almeno 15 persone. «Non ci aspettavamo un attacco così diretto da parte degli Stati Uniti – confessa a Tempi – ma non credo che la situazione cambierà molto: è da anni che finanziano e armano gruppi di terroristi. E visto che questi non sono riusciti a vincere la guerra, ora intervengono direttamente. Trump parlava diversamente da Obama, ma ormai lo sappiamo: gli americani non possono mai essere presi sul serio».
Il
presidente repubblicano, che ha ordinato l’offensiva dalla Florida
prima di mettersi a tavola con il suo omologo cinese Xi Jinping, ha
voluto così «rispondere all’orribile
attacco chimico contro civili innocenti con
cui Assad ha stroncato la vita di uomini, donne e bambini». È dalla
base di Shayrat infatti che si sarebbero alzati in volo gli aerei che
avrebbero ucciso circa 70 persone a Idlib. Il condizionale è
d’obbligo, visto che nella provincia governata dai jihadisti di Al
Nusra (ora hanno cambiato nome ma restano la branca siriana di Al
Qaeda) non ci sono giornalisti e l’unica fonte di informazioni
sull’attacco è quell’Osservatorio siriano per i diritti umani
che parteggia per i ribelli contro Assad.
«Non c’è diritto d’ingerenza»
«È sempre la stessa storia. Hanno fatto lo stesso in Iraq, in Libia e ora in Siria. Purtroppo l’ipocrisia degli Stati Uniti non cambia mai. L’attacco chimico è solo una scusa. Se volevano sapere davvero che cosa è successo, perché non hanno inviato una commissione? Perché non hanno mandato una squadra per capire chi sono i responsabili?». Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, non si dà pace. Il raid americano lo ha lasciato sgomento e arrabbiato. «Noi dobbiamo domandarci: a chi giova questo attacco chimico?», si sfoga con Tempi. «Chi avvantaggia? Non la Siria, non Assad ma i terroristi islamici. Io l’ho sempre detto: non si può cantare vittoria, con gli americani bisogna aspettarsi di tutto. Perché vogliono decidere loro per noi? Perché non lasciano che sia il popolo siriano a scegliere da chi vuole essere governato?».
Anche
Nabil Antaki, medico di Aleppo ovest che ha vissuto sulla sua
pelle la tragedia dell’assedio da parte dei ribelli e la gioia
della riunificazione, non riconosce alcuna superiorità morale a
Washington. «Che diritto hanno gli Stati Uniti di bombardare la
Siria?», risponde a Tempi via mail in uno dei pochi momenti della
giornata in cui è disponibile l’elettricità. «Chi li ha nominati
poliziotti globali? Questo famoso “diritto d’ingerenza” non è
semplicemente il diritto del più forte di intervenire a casa degli
altri senza il loro consenso? La popolazione di Aleppo è in collera
e abbiamo anche paura che scoppi una terza guerra mondiale». Mentre
gli alleati di Damasco, Russia e Iran, promettono infatti che non
resteranno a guardare («risponderemo se verrà ancora superata la
linea rossa»), l’ambasciatrice americana Haley rincara la dose:
«Non ci sarà soluzione politica con Assad alla guida del paese.
Siamo pronti a intervenire ancora».
«Dovete
dire la verità»
Dalla capitale economica della Siria a quella politica il sentimento della gente è sempre lo stesso. Padre Mounir, 33 anni, è originario di Aleppo, ma dopo essere entrato nell’ordine dei salesiani, e ordinato sacerdote quattro anni fa a Torino, è andato a svolgere il suo ministero a Damasco, dove si occupa in oratorio di oltre 1.200 giovani. Ha deciso lui di tornare in Siria: «Non vedevo l’ora», racconta a Tempi. «Non ho mai pensato di rimanere in Italia, anche se i miei genitori e la mia famiglia sono scappati e hanno dovuto lasciare Aleppo per la Germania. Hanno cercato di convincermi ma più infuriava la guerra, più desideravo di tornare a servire il mio popolo in difficoltà». Per padre Mounir l’attacco chimico è una «fake news». «I siriani sono arrabbiati, delusi e pensano tutti la stessa cosa», dice il sacerdote. «Il governo non è stupido: perché dovrebbe fare una cosa simile e rivitalizzare i suoi avversari? La verità è che gli Stati Uniti vogliono favorire l’Isis, ridare loro entusiasmo dopo le ultime sconfitte per mano del governo e dei russi. La gente non fa altro che parlare dell’Arabia Saudita e della Turchia, che hanno esultato all’indomani dell’offensiva americana. Qui anche i bambini sanno che senza questi sponsor internazionali la guerra sarebbe già finita. Ma se serviva una conferma, è arrivata». Chi, dopo sei anni, sembra ancora non capire, è l’Occidente: «Questa non è una guerra civile. Se Europa, America e paesi del Golfo smettessero di armare i terroristi, gli scontri finirebbero subito. Voi giornalisti avete un’enorme responsabilità: dovete dire la verità e dare voce al popolo siriano, non solo agli alleati dei governi europei. Purtroppo è difficile trovare un giornale occidentale che faccia questo lavoro».
Dalla capitale economica della Siria a quella politica il sentimento della gente è sempre lo stesso. Padre Mounir, 33 anni, è originario di Aleppo, ma dopo essere entrato nell’ordine dei salesiani, e ordinato sacerdote quattro anni fa a Torino, è andato a svolgere il suo ministero a Damasco, dove si occupa in oratorio di oltre 1.200 giovani. Ha deciso lui di tornare in Siria: «Non vedevo l’ora», racconta a Tempi. «Non ho mai pensato di rimanere in Italia, anche se i miei genitori e la mia famiglia sono scappati e hanno dovuto lasciare Aleppo per la Germania. Hanno cercato di convincermi ma più infuriava la guerra, più desideravo di tornare a servire il mio popolo in difficoltà». Per padre Mounir l’attacco chimico è una «fake news». «I siriani sono arrabbiati, delusi e pensano tutti la stessa cosa», dice il sacerdote. «Il governo non è stupido: perché dovrebbe fare una cosa simile e rivitalizzare i suoi avversari? La verità è che gli Stati Uniti vogliono favorire l’Isis, ridare loro entusiasmo dopo le ultime sconfitte per mano del governo e dei russi. La gente non fa altro che parlare dell’Arabia Saudita e della Turchia, che hanno esultato all’indomani dell’offensiva americana. Qui anche i bambini sanno che senza questi sponsor internazionali la guerra sarebbe già finita. Ma se serviva una conferma, è arrivata». Chi, dopo sei anni, sembra ancora non capire, è l’Occidente: «Questa non è una guerra civile. Se Europa, America e paesi del Golfo smettessero di armare i terroristi, gli scontri finirebbero subito. Voi giornalisti avete un’enorme responsabilità: dovete dire la verità e dare voce al popolo siriano, non solo agli alleati dei governi europei. Purtroppo è difficile trovare un giornale occidentale che faccia questo lavoro».
«Eppure
continueremo a lottare»
Ora i siriani sono divisi tra rassegnazione e voglia di reagire. L’ingegnere di Homs, Salloum, rientra sicuramente nella seconda categoria. «Siamo circondati da forze e milizie straniere che entrano nella nostra terra per conquistarla. Ma noi non la abbandoneremo e resisteremo», continua. «Dopo sei anni di guerra nessuno ha più paura, tutti hanno visto in faccia la morte e ormai non ci importa più. Non sarà bello da dire, ma io preferisco morire piuttosto che vedere comandare chi usurpa casa mia».
Ora i siriani sono divisi tra rassegnazione e voglia di reagire. L’ingegnere di Homs, Salloum, rientra sicuramente nella seconda categoria. «Siamo circondati da forze e milizie straniere che entrano nella nostra terra per conquistarla. Ma noi non la abbandoneremo e resisteremo», continua. «Dopo sei anni di guerra nessuno ha più paura, tutti hanno visto in faccia la morte e ormai non ci importa più. Non sarà bello da dire, ma io preferisco morire piuttosto che vedere comandare chi usurpa casa mia».
Certo
continuare a sperare in una risoluzione pacifica del conflitto che
lasci la Siria intatta, senza smembrarla in stati e staterelli
confessionali, è arduo. Anche per un prete alle porte della Pasqua.
«Davanti ai giovani cerco sempre di mostrarmi speranzoso, ma dopo
questo attacco dentro di me faccio fatica a credere che anche la
Siria prima o poi conoscerà la risurrezione pasquale», ammette.
«Eppure il popolo siriano ama la vita e ha ancora voglia di lottare.
Le celebrazioni di questi giorni, che noi siamo liberi di fare in
chiesa e per strada al contrario di quanto avviene in tanti paesi del
Medio Oriente, ci aiuteranno ad andare avanti».
Anche
il medico Antaki, membro laico dell’ordine dei frati maristi blu,
attende la Settimana Santa per non arrendersi alla disperazione:
«Malgrado il pessimismo che ci circonda, celebreremo ugualmente la
Pasqua nella speranza della risurrezione, della fine della guerra. Se
noi non avessimo creduto alla speranza che solo Gesù porta, avremmo
abbandonato il nostro paese da tempo e ce ne saremmo andati come
milioni di altri siriani».
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