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di MARINA CORRADI
Avvenire , 26 settembre 2014
Nel giorno in cui le ultime vittime del terrorismo jihadista sono un qualunque turista francese, rapito e giustiziato in un Paese che si affaccia sul "nostro" Mediterraneo, e un tuareg che quasi non fa notizia nella nostra parte di mondo, la minaccia si allarga e sembra prendere di mira proprio ciascuno di noi – semplicemente in quanto occidentale.
E noi, che si sta a guardare, possiamo restarcene zitti, increduli e atterriti da questo odio totale; oppure, e forse peggio, abituarci a quel sangue, alla esecuzione quotidiana scrupolosamente filmata a uso del web – che forse fra un po’ si farà, nel flusso mediatico, opaca routine.
Ma come si sta, intendiamo come si sta umanamente, davanti a questo rigurgito barbarico eppure mediaticamente raffinato, alla esibizione orgogliosa del male? Istintivo non sarebbe cominciare, a nostra volta, a odiare?
L’altro giorno padre Romano Scalfi, novantunenne fondatore di "Russia Cristiana" e storico evangelizzatore dell’Est europeo, parlando del movimento del Samiszdat, la letteratura clandestina nell’Urss del dopoguerra, ha detto qualcosa che mi è rimasto in mente. Spiegava, il vecchio sacerdote che rischiosamente diffondeva proibite copie dei Vangeli, come gli appartenenti a quel movimento in realtà non combattessero tanto "contro" il sistema marxista, quanto "per" conservare la tradizione e la memoria di una bellezza, di una domanda originaria che nemmeno nell’annichilimento dell’uomo viene del tutto meno – anche se magari non le si sa più dare un nome.
Anche quello dell’Is è il progetto di un mondo annientato, con una ferocia e anzi una bestialità che ci smarrisce (ieri, nell’irachena Tikrit, un’altra chiesa antica e bella è stata rasa al suolo). Ma noi che non decidiamo di strategie e intelligence, noi che guardiamo in tv le stragi e le distruzioni, e potremmo sprofondare nella nostra impotenza, abbiamo una possibilità di non lasciarci legare nella catena d’odio innescata dal jihadismo.
La possibilità sta nel mantenerci, nei tempi più bui, non semplicemente "contro" i nemici, ma anche "per" una visione del mondo totalmente altra. Nell’educare i figli a mantenere viva la domanda di bene e di bellezza con cui vengono al mondo. Nell’insegnare Dante e Petrarca agli alunni, con passione, quasi in risposta a quelle mani lorde di sangue. Nel portare i ragazzini dell’oratorio in montagna, a vedere l’alba, e a restar zitti dentro a quell’istante di stupore. Nello stare accanto a chi è malato e a chi muore, mostrando quanto enormemente vale la vita di un uomo. Di ogni uomo.
A noi, che non decidiamo di alleanze e di raid o di ingerenze umanitarie, almeno questo rimane: non inchinarci alla logica del nemico, alle sue bandiere nere della distruzione e del nulla. È, del resto, una forma semplice di resistenza, la può fare chiunque. Una coltivazione tenace, caparbia del cuore umano: intendendo con cuore non un sentimento, ma la radice stessa nostra, il desiderio di vita e di felicità con cui veniamo al mondo.
In questi tempi di tenebre, difendersi, bisogna. Ci dicono che siamo un nulla, ci mostrano come basti una lama di coltello a cancellarci, annunciano che faranno a pezzi le nostre croci.
E noi, che vediamo questa fontana di odio e poi ogni mattina andiamo a lavorare? Forse siamo chiamati anche a una interiore militanza. A essere, nella speranza cristiana, più fedeli. A restarle attaccati come le foglie a una pianta; a tramandare ai figli la capacità di meraviglia davanti al mondo che ci è dato, e l’ostinazione a inseguire, pur con mille errori, il bene.
Passano i visi impietriti dei condannati col coltello alla gola, dalla tv nelle nostre case. Resistenza è anche, tenacemente, avere dei bambini, crescerli, lavorare, insegnare, leggere, curare, abbracciare, pregare. Essere ostinatamente "per" quell’uomo che crudelmente si vuole negare. Fedeli a un altro sguardo. Testimoni di un’altra, non domabile speranza.
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