Michel
Raimbaud, 26 maggio 2019
L’autore
francese di questo articolo, nato nel 1941 - saggista politico,
scrittore, insegnante, una lunga e proficua carriera con incarichi
diplomatici di rilievo, più volte ambasciatore, lunghi soggiorni in
numerosi Paesi: Brasile, Arabia Saudita, Yemen, Egitto, Mauritania,
Sudan…, dal giugno 2000 al febbraio 2003 direttore in Francia
dell’Ufficio per la protezione di immigrati e apolidi (OFPRA), poi
all'amministrazione centrale del Quai d'Orsay, poi ancora
ambasciatore, nello Zimbabwe – osserva il mondo con spirito libero
e racconta le vicende della geopolitica con grande passione e
maestria anche nello stile, vivace e coinvolgente. Dopo il
pensionamento nel 2006, intraprende l’attività di conferenziere e
insegna presso il Centre d’Études Diplomatiques et Stratégiques
(CEDS). Tra le sue numerose opere, ‘’Tempête sur le Grand
Moyen-Orient’’ (Tempesta sul Grande Medio Oriente), del 2015.
Continua a dedicare molti articoli alla drammatica e iniqua guerra
contro la Siria con i suoi risvolti regionali e mondiali. Merita di
essere letto.
Maria Antonietta Carta
Dicembre
1991. Ieri. E in due soli anni il mondo mutò. L'ordine bipolare
est-ovest crollava in seguito alla scomparsa dell'URSS e l'Occidente
usciva vittorioso da una competizione che, in effetti, non era durata
più di 45 anni: un tempo piuttosto corto sulla scala della Storia.
Prima di tutto, gli Stati Uniti, inebriati da un trionfo inaspettato,
si pavoneggiarono senza sapere cosa fare. Nel 1992, uno dei loro
politologi, Francis Fukuyama, dichiarò la fine della Storia per
mancanza di protagonisti all’altezza dell’unica superpotenza
superstite.
Sbigottito,
il coro occidentale si bevette con piacere questa idiozia: secondo
quel profeta troppo frettoloso, il mondo si sarebbe paralizzato,
senz’altra scelta che schierarsi con il nuovo padrone. Per i
potenziali refuznik, si trattava di sottomettersi o rassegnarsi e,
adottando l’eredità del "mondo civilizzato" dell'era
coloniale e del "mondo libero" della guerra fredda, ecco
che la "Comunità internazionale" is
born, come si dice nella lingua franca
contemporanea. I Paesi che osarono rifiutare la nuova regola del
gioco USA finirono nella gehenna degli Stati fuorilegge: in
bancarotta, canaglie, emarginati, “preoccupanti", come diremo
presto. Mentre i Paesi “liberati’’ dal comunismo dovettero
intraprendere una riconversione incondizionata e senza fronzoli ...
Bisognava sbarazzarsi di falci, martelli, dell'Internazionale
proletaria e, per molte delle loro élite, di tutto un trascorso
diventato ingombrante.
Non lo
chiamavano ancora in questo modo, ma il “Momento unipolare
americano" era già in marcia e non amava quelli che
trascinavano i piedi. Tuttavia, l'eternità prevista implicitamente
nel libro di Fukuyama (La fine della Storia e
l'ultimo uomo) sarebbe terminata troppo
presto per apparire lunga. Non avrebbe superato il ventesimo anno.
Infatti, nel marzo 2011, dopo vent'anni di misfatti il momento
unipolare iniziava ad andare a rotoli e la Storia riprendeva la sua
marcia verso un ordine mondiale più equilibrato quando Russia e Cina
si fecero forzare la mano e si unirono per l’ultima volta alla
"Comunità internazionale" per lasciare "implicitamente”
il campo libero all'intervento della NATO in Libia, ma nel mese di
ottobre dello stesso anno un doppio veto di Russia e Cina metteva
fine all’onnipotenza di Washington e dei suoi suppletivi vietando
ogni intervento di regime change
a Damasco.
Nel 2019,
l'ordine imposto dagli Stati Uniti, ingiusto, tirannico e caotico,
sta morendo, ma l'Occidente, riluttante ad ammetterlo, continua a
credere fermamente nella loro leadership ‘’naturale’’, in
nome di un'universalità proclamata e rivendicata. Preferisce non
vedere che la loro pretesa è sfidata dall'immensa coorte di popoli.
Nel terzo millennio, non è più possibile accettare questa
prerogativa di stampo feudale data per scontata dai Signori del
pianeta. In pochi anni, la geografia politica e la mappa di un
‘’Paese immaginario’’ di sicuro sono molto cambiate nel mondo
arabo-musulmano, ma anche altrove.
Due “campi"
polarizzano questa nuova realtà partorita nel dolore. Il primo
scommette sulla legalità e il diritto internazionale per arrivare a
tutti i costi a un mondo multipolare equilibrato in grado di vivere
in pace. Il secondo, successore del "mondo libero" di un
tempo, non ha trovato niente di meglio che inventarsi il caos
"costruttivo" o "innovativo" per garantire la
sostenibilità di un'egemonia contestata. Da entrambi i lati, gli
uomini al potere mostrano uno stile in accordo con queste scelte di
fondo.
Senza
trascurare la concorrenza quotidiana più combattuta tra Stati Uniti
e Cina e l'ineluttabile scontro tra gli obiettivi di Trump, promotore
spontaneo del "caos creativo" e di XI-Jinping, adepto
metodico della "distensione costruttiva", è il duo
russo-americano che rimane per il momento al centro del confronto. I
leader di entrambe le parti – Eurasia e Occidente - che hanno preso
il posto dei protagonisti del conflitto Est/Ovest, Putin e Trump,
sono attori importanti della vita internazionale e devono coesistere,
che lo vogliano o no ...
Non è
necessario essere un osservatore molto acuto per indovinare che tra i
due uomini non esiste molta sintonia. Non si tratta di una semplice
questione di stile, ma di universi mentali e intellettuali opposti.
Se il caso, per sua natura spesso capriccioso, decidesse di rendere
il mondo invivibile, non agirebbe diversamente, consentendo che in
questo preciso e decisivo momento della Storia due personalità così
diverse siano deputate a rappresentare e " gestire" una
riunione al Vertice tra Stati Uniti e Russia nel modo conflittuale
che conosciamo.
Vladimir
Putin è un capo di Stato popolare nel suo Paese e rispettato
all’estero perché è l'architetto indiscusso della rinascita della
Russia. Questo invidiabile prestigio non si deve a un qualche
populismo di bassa lega o a un atteggiamento demagogico, ma al suo
lavoro. L'inquilino del Cremlino comunica volentieri. Dai suoi
discorsi senza enfasi si può intuire un uomo sicuro del suo potere,
ma assolutamente poco incline ai toni confidenziali. Eppure, dietro
un volto placido si nasconde un umorismo caustico che di tanto in
tanto può sorprendere con uno scherzo inaspettato, deliziando i suoi
sostenitori e permettendo ai neo-kremlinologi di arricchire il loro
armamentario di pregiudizi "occidentali".
Ecco perché
la breve frase del presidente russo a Sochi lo scorso 15 maggio, dopo
l'incontro con l’omologo austriaco Alexander Van der Bellen, non
sarà rimasta inascoltata. Interrogato durante una conferenza stampa
su ciò che il suo Paese potrebbe fare per "salvare"
l'accordo nucleare iraniano, Putin ha spiegato tra il serio e il
faceto: "La Russia non è una squadra di pompieri, non possiamo
salvare tutto". Non avrei potuto scegliere parole migliori per
dire che molti incendiari si insinuano tra gli "interlocutori’’
a cui Mosca ama riferirsi con instancabile ottimismo. Senza dubbio,
Trump è considerato il più pericoloso.
Al fuoco,
pompieri! C’è una casa in fiamme! La tiritera è all'ordine del
giorno. "Fuoco e incendiario"? Si direbbe il gioco per una
serata in famiglia, uno di quelli che si amavano un tempo: un po’
noiosi e polverosi, ma efficaci per distrarre i bambini quando piove,
tra nano giallo e piccoli cavalli. Tuttavia, si sarà capito, gli
incendiari a cui pensa Putin si collocano su un altro registro. Non
si tratta di delinquenti che bruciano bidoni della spazzatura, auto e
negozi nelle "strade" occidentali, per conto di una
"militanza" deviata ... Il presidente russo sicuramente
pensa a una classe di criminali che sfugge totalmente alle
imputazioni, alle azioni giudiziarie e alle punizioni: quella dei
piromani di Stato in giacca e cravatta, arroccati ai vertici del
potere nelle grandi democrazie autoproclamate che rientrano nell’ "asse del bene’’ o nella sua orbita. Negli "Stati di
diritto", si ritiene legittimo incendiare il pianeta per
annientare ogni resistenza all'egemonia dell'Impero Atlantico.
In questi
stessi Paesi, i professionisti del pensiero, della scrittura,
dell'analisi, della diplomazia o della politica adoperano con
compiacimento una roboante retorica sul “Grande disegno",
sulla "Strategia planetaria”, sulle "Ambizioni
geopolitiche" o altre frottole. È chiaro che non scorgono l'ombra
di un’ingiustizia e non li sfiora il sospetto di un’arbitrarietà
nelle campagne finalizzate a devastare Paesi, popoli, spesso intere
regioni, e restano indifferenti quando si menziona il tremendo
bilancio delle guerre funeste scatenate dai loro governanti mafiosi.
I nostri
moderni piromani sono insaziabili: non contenti di non provare
vergogna o rimorso per i crimini di guerra, i crimini contro
l'umanità, i genocidi o i politicidi già commessi, minacciano e
sanzionano a destra e a manca annunciando apertamente le loro
intenzioni aggressive: Siria, Libia, Ucraina, Iran, Venezuela,
Russia, Cina… Insomma, tutti i Paesi che osano ignorare i loro
diktat.
Addio al
diritto internazionale, buonanotte agli accordi internazionali,
all'inferno la Carta delle Nazioni Unite, alle fanfare della
diplomazia, del suo linguaggio desueto e delle sue prassi astruse.
Infatti, con quasi 700 basi documentate dal Pentagono un po’
ovunque e soprattutto in Europa, Asia-Pacifico, Medio Oriente e
Africa e con oltre 200.000 militari di stanza all'estero (50.000 in
Germania, decine di migliaia nel resto del Continente europeo, 40.000
in Giappone e 28.000 in Corea del Sud), gli Stati Uniti e i loro
scagnozzi sono soli contro il mondo.
Sotto la
copertura di scelte imprevedibili, di ordini, contro-ordini e di
dissensi nella sua amministrazione, Trump e la sua bella squadra - il
sinistro John Bolton, il mellifluo Mike Pompeo, l'elegante Mike
Pence, per non parlare del genero damerino Jared Kushner - seminano
il caos e provocano incendi in tutti i continenti: esattamente ciò
che è al centro del grande disegno ideato dagli USA per imporre al
mondo la loro legge.
Negli anni
di Reagan, Washington era riuscita a trascinare l'Unione Sovietica
nella corsa agli armamenti e poi a impantanarla in una guerra inutile
in Afghanistan, che avrebbe causato il suo declino. Probabilmente, il
team di Trump cerca di ripetere l'esperienza, moltiplicando ovunque
gli incendi nella speranza che la Russia di Putin si lasci indurre a
svolgere il ruolo del pompiere universale. In Venezuela, l'impegno di
Mosca ricorda quello dell'Unione Sovietica a Cuba, lo sforzo per
incendiare gli Stati baltici e l'ex baluardo dell'Europa orientale,
la Georgia, poi l'Ucraina, sono altrettante provocazioni alle porte
della Russia.
Rimane il
Grande Medio Oriente di Debeliou, al centro del nuovo conflitto
Est/Ovest: dal suo nucleo (Siria, Libano, Palestina, Giordania, Iraq)
all’Iran e Turchia, Yemen e Penisola Arabica fino all’Africa
(Nord, Sahel, Corno, Golfo di Guinea...). Infine, c'è “l’Accordo
del secolo" inventato da Trump con l’intento di "eliminare"
il popolo palestinese per compiacere Israele: i miliardi versati e il
ghigno compiaciuto degli autocrati potrebbe infiammare la
polveriera...
Questa
moltiplicazione di focolai - in un mondo dove le fondamenta della
legge e della vita internazionale sono violate senza scrupoli, e dove
alle parole è stato sistematicamente sottratto il vero senso - mira
a scoraggiare potenziali vigili del fuoco: che si lascino
intrappolare e non sapranno più dove sbattere la testa
nell’estenuante tentativo di smentire notizie false (fake news), o
false accuse per denunciare operazioni sotto falsa bandiera, per
mantenere una parvenza di ragione in un mondo sempre più caotico, e
per rispettare unilateralmente i principi che i piromani deridono.
Due esempi
illustreranno l'ipocrisia della situazione:
Nonostante
numerosi esperti e osservatori la considerino terminata e vinta da
Damasco, la guerra in Siria continua in un contesto confuso e con un
rimescolamento delle carte impressionante, scoraggiando qualsiasi
analisi attendibile.
Il Dr. Wafik
Ibrahim, specialista di affari regionali, osserva che per la sola
liberazione, simbolica e peculiare, di Idlib in questo nono anno di
guerra, “l’esercito siriano affronta dieci avversari" che
unificano i loro sforzi per ostacolare il ritorno alla pace. Le maschere
sono cadute.
Erdogan è incastrato in manovre acrobatiche tra Stati
Uniti e Russia e in una strategia aggrovigliata tra Mosca, Teheran, i
gruppi terroristici che sponsorizza e le milizie curde che combatte,
mentre cerca un ipotetico "cammino” di Damasco. La Turchia è
impegnata militarmente e senza riserve con l'invio diretto di
rinforzi e armamenti pesanti alle organizzazioni terroristiche, in
primo luogo Jabhat al-Nusra (marchio siriano di al-Qaida),
ribattezzato Hay'at Tahrir al-Sham (in Arabo: هيئة
تحرير الشام,
transliterazione: Hayʼat Taḥrīr al-Shām, "Organizzazione
per la liberazione del Levante").
Per gli
Stati Uniti, si tratta, se non di impedire, di ritardare il ritorno
dello Stato siriano nel nord del Paese - governatorato di Idlib e/o
la sponda orientale dell'Eufrate - mantenendo alcuni elementi sul
terreno come deterrenti, con il pretesto di combattere Daesh che è
una creazione de facto
del nostro zio Sam – e aggiungiamo i loro “supporti automatici”:
Nazioni Unite e Lega Araba, nel ruolo di paraventi legali e utili
ausiliari di Washington; Gran Bretagna e Francia, gli associati;
L'Arabia Saudita, che continua a finanziare il terrorismo a est
dell'Eufrate contro i Turchi, ma si unisce a loro nel governatorato
di Idlib; gli Emirati, l'asso nella manica USA specialmente in Siria.
Tutti questi protagonisti sostengono le forze resistenti del
terrorismo (tuttora 30.000 jihadisti di tutte le nazionalità).
Allo stesso
tempo, il capestro delle sanzioni - armi di distruzione di massa il
cui uso è un vero crimine di guerra - mira a prevenire la
ricostruzione del Paese e a provocare una rivolta contro "il
regime ".
In questa
congiuntura, il lancio alla fine di maggio di un ennesimo "caso’’
di attacco chimico debitamente attribuito al "regime di Bashar
al Assad " (da Latakia) sarebbe quasi una buona notizia, in
quanto significherebbe che l'esercito siriano sostenuto dalle forze
aeree russe, nonostante le manovre del nuovo Grande Turco, ha
finalmente iniziato la liberazione di Idlib, congelata dal settembre
2018 (in seguito alla creazione di una zona di de-escalation sotto
l'egida di Russia e Turchia). Lo scenario è ben noto e vi
ritroviamo Hayʼat Taḥrīr al-Shām (ex-Jabhat al-Nusra). Le
intimidazioni volano, senza dubbio invano, e storie di comodo hanno
sempre meno successo.
L'offensiva
degli USA contro l'Iran, in seguito al loro ritiro dal “Trattato
sul nucleare" del 2015, ha creato profonde tensioni in Medio
Oriente. Lo scambio di minacce attiene per lo più alla
gesticolazione diplomatica, ma la saggezza è una qualità rara
nell'entourage del Paperon de Paperoni alla Casa Bianca. I pompieri
si affaccendano per spegnere l'incendio sempre pronto a riaccendersi
nei giacimenti di gas e petrolio della regione: tra la Svizzera,
l'Oman e la Russia, a chi toccherà di gettare il suo secchio d'acqua
sulle scintille? Il Cremlino veglia per non lasciarsi sopraffare: ha
sostenuto l'accordo sul nucleare e ha incoraggiato Teheran a
rimanervi fedele, ma "gli Americani sono i primi a dare la
colpa", "L'Iran è oggi il Paese più controllato e più
trasparente al mondo sul nucleare", "La Russia è pronta a
continuare a svolgere un ruolo positivo", ma il futuro del
trattato "dipende da tutti i partner: Stati Uniti, Europa e Iran
...".
Aiutati che
la Russia ti aiuterà... Il discorso è così ragionevole che a volte
ci si chiede se la diplomazia russa, tanto "insopportabilmente
paziente" non si sia sbagliata d’epoca davanti al fenomeno
Trump, al suo Puffo, agli Europei rassegnati e ai pazzi loro alleati
... C’è ancora tempo per le chiacchiere?
Michel
Raimbaud
Traduzione
di: Maria Antonietta Carta
https://www.iveris.eu/list/tribunes_libres/429-pompiers_et_incendiaires_