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lunedì 2 maggio 2016

"Aleppo sta bruciando!" : il grido e l'affidamento dei Cristiani

Dichiarazione dall'Assemblea dei Vescovi Cattolici in Aleppo



"Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che con la sua grande misericordia ci ha generato in una speranza viva mediante la Risurrezione di Gesù Cristo dai morti". (1Pt 1,3).

          Con queste sante parole, ci rivolgiamo a voi figli amati, e con voi il nostro cuore emana dolore e sofferenza, per la violenza che la nostra amata città subisce, Aleppo, la città dei martiri, i cui abitanti rimasti con pazienza e dolore, non meritano se non tutto il bene. Perciò non lasciamoci vincere dalla tristezza e dalla disperazione, perché noi siamo figli della Risurrezione, figli della Speranza, crediamo fermamente che queste sofferenze non accadranno invano, ma, sull'esempio dei Santi e dei Martiri, le facciamo partecipi con la Passione di Cristo, perché diventino sofferenze santificate e santificanti, per la pace in Siria e la salvezza della nostra città. Questo è il significato più importante della nostra rimanenza in Aleppo.

Rivolgiamo il nostro grido alle coscienze di chi progetta e di chi esegue questa guerra, dicendo: per amor di Dio BASTA! Per misericordia degli uomini BASTA! Per il grido del sangue dei bambini e dei martiri che sale a Dio BASTA! Per le lacrime delle madri in lutto BASTA! Per i dolori dei feriti BASTA! Per i senza tetto BASTA! Per quelli che non sono più in grado di nutrire i loro figli BASTA! Non è giunta l'ora dei fatti e non delle parole? Della risurrezione e non della morte in tutte le sue forme?

Annunciamo con voi figli amati, il rinnovo della consacrazione della nostra città di Aleppo, al Cuore Immacolato di Maria, Lei che aveva chiesto nelle sue apparizioni a Fatima la consacrazione del mondo al suo Cuore Immacolato per ottenere la pace.
Cogliamo l'occasione del mese Mariano, domandando a tutti voi di offrire le preghiere, e specialmente il Rosario, nelle nostre chiese per questa intenzione; convertiti a Dio, e supplicando l'intercessione di Maria Vergine, Regina della pace, mettiamo il nostro paese Siria e la nostra città Aleppo sotto la Sua protezione.

            Chiediamo l'eterno riposo ai martiri e la pronta guarigione ai feriti, e la Pace di Dio sia con tutti voi.

Aleppo, 30 Aprile 2016

L'Assemblea dei Vescovi Cattolici in Aleppo

 Parole di un fratello Marista che vive ad Aleppo

" Tessere una tela di misericordia... "

Vergognatevi mezzi di comunicazione...
non tessete che odio... la violenza e la morte...
Tacete voi mezzi di comunicazione che festeggiate l' 8 MAGGIO 2016 la vostra giornata mondiale...
Faccio tutti i giorni l'esperienza della vostra menzogna...
Io vivo ad Aleppo..
Sono sicuro che siete voi che ci fate la guerra... Siete voi a decidere il nostro futuro.. Voi decidete della nostra vita... voi decidete della nostra morte...
Voi create l'evento della guerra dissimulata in termini pacifici... democratici e umani...
State zitti... Fateci decidere il nostro destino...
State zitti, non vi verrà consegnato il nostro segreto... la nostra volontà di vivere...
State zitti... non manipolate le immagini del nostro quotidiano...
Noi siamo un popolo che sceglie di vivere e voi, siete dei mercanti di morte...
Noi siamo un popolo che sceglie di vivere in pace e voi siete delle macchine distributrici di guerra...
Noi siamo un popolo che sceglie di essere e voi, siete in cerca di maimón...
Noi siamo un popolo che sceglie la misericordia e voi, voi siete in cerca di sangue e di vendetta...
Noi siamo un popolo che ama un solo Dio e voi, voi siete degli adoratori degli dei...
Noi viviamo nella verità e voi non vivete che della menzogna...



Messaggio di fra Ibrahim Alsabagh ad una amica:


"Amica mia, ho appena saputo che le bombe hanno ucciso due dei nostri amici: un ragazzo e un bambino. Il piccolino chiamava Said. I missili degli jihadisti non ci danno tregua. Ci sono morti ovunque, non riusciamo a raggiungere tutti. Tante famiglie se ne stanno andando, fuggono lungo la costa. So che noi frati dobbiamo rimanere per aiutare la nostra gente e so che la nostra amicizia è più forte della morte. Ce lo ha insegnato Gesù e per questo non scappiamo. Oggi però non riesco a sorridere, oggi non ce la faccio" 


Padre Ibrahim, Aleppo. 2 maggio 2016

venerdì 25 marzo 2016

Siria: «È come un Calvario in attesa di Pasqua»

Monsignor Vasil'di ritorno dalla Siria : "Una sofferenza che però porta in sé speranza della risurrezione"

Vescovi Cattolici di Siria

Terrasanta.net

di Carlo Giorgi | 23 marzo 2016

«Pochi sanno che tre delle quattro suore di Madre Teresa trucidate in Yemen, avevano svolto un lungo 
servizio in Siria. A Damasco ho incontrato le loro consorelle e ricordo bene le loro parole. Mi hanno ricordato il loro impegno per i siriani nonostante le difficoltà e, anzi, contro ogni speranza…». 
L’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese orientali, è appena tornato dalla Siria dove si è recato per incontrare, prima della Pasqua, i cattolici locali. 
Il 17 marzo ha partecipato all’Assemblea dei vescovi cattolici di Siria, nella città costiera di Tartus. Nei giorni precedenti però si è recato, grazie a una scorta militare, a Damasco, nelle città di Saydnaya e Yabrud; riuscendo a visitare anche il monastero di Mar Musa, del cui fondatore, padre Paolo Dall’Oglio, rapito dai fondamentalisti nel 2013, non si hanno purtroppo ancora notizie.
«Il Papa parla sempre de “la mia amata Siria” e anche il prefetto della Congregazione delle Chiese orientali, il cardinal Leonardo Sandri, è sempre in contatto con clero e vescovi del posto – spiega mons. Vasil’ –. Così il mio viaggio è stato solo la conferma di questa attenzione della Santa Sede per i cristiani siriani.
Oltre ai vescovi, ho potuto incontrare sacerdoti, religiosi e laici. Ho trovato molto interessante poter parlare coi sacerdoti dei problemi pastorali in questa situazione di guerra: ad esempio, i pastori della diocesi di Bosra e Horan, a sud di Damasco, guidano piccole parrocchie di una zona abbastanza povera. Molti loro fedeli per via della guerra sono andati all’estero o si sono rifugiati nelle grandi città. Questo li pone in una situazione del tutto nuova».
Qual è l’atteggiamento dei cristiani oggi in Siria? Nella comunità cristiana convivono due desideri contrastanti. Da una parte c’è il desiderio di rimanere e continuare a vivere in patria nel modo più normale possibile. Dall’altra non si può negare che c’è una tendenza allo scoraggiamento. Si fatica a trovare una prospettiva per il futuro, non solo a causa delle persecuzioni dirette, ma anche per una situazione di tensione nei confronti dei cristiani che perdura da molto tempo. Così i cristiani sono portati a emigrare. Si tratta di due tendenze presenti in tutte le comunità parrocchiali, diocesane e nelle famiglie stesse… Spesso gli anziani preferiscono rimanere, ma al tempo stesso desiderano un futuro per i loro figli. Questo provoca grande sofferenza.
I cristiani siriani vedono la convivenza con i musulmani ancora possibile? Ci sperano ancora perché nel recente passato non hanno mai avuto difficoltà di convivenza con i musulmani; anzi, la società siriana è stata contrassegnata da una fraterna e pacifica convivenza. Adesso una radicalizzazione del fondamentalismo islamico, spesso di radice straniera, ferisce questo tessuto. L’equilibrio di un tempo è danneggiato e purtroppo è difficile dire cosa avverrà in futuro.
Che impressione generale del Paese ha riportato? Gli effetti della tregua in atto si vedono? Ero stato in Siria anche un anno fa e ricordo che sopra Damasco sentivo continue esplosioni, mentre in cielo sfrecciavano aerei militari. Questa volta sono stato in zone sotto il controllo del governo centrale e tutto mi è sembrato sicuro e pacifico. Anche per la tregua, che sembra reggere, non ho visto alcun tipo di ostilità. La vita nelle grandi città sembra normale, se non fosse per i continui check-point della polizia e dell’esercito. Certamente la situazione non è così nelle zone in cui il conflitto è vivo. Non ho potuto verificare di persona, ma la testimonianza delle persone che vengono da zone periferiche conferma che la situazione è molto precaria sia per aspetti umanitari come cibo, acqua e corrente elettrica, sia per il pericolo immediato di essere feriti o rapiti anche dalla criminalità comune.
Mar Musa, il monastero di padre Paolo Dall’Oglio, è ancora abitato? 
Sì. Questa volta ho potuto visitare anche fisicamente il monastero di Mar Musa, dove mi ero recato diverse volte anche prima della guerra. I monaci e le monache sono ancora presenti e svolgono la loro attività nella vicina cittadina di Nebeq. Ho potuto incontrarli assieme agli altri religiosi siriani.
Via Crucis a Homs
I cattolici siriani quest’anno riusciranno a celebrare la Pasqua? 
Nelle grandi città, dove c’è libertà di culto e tranquillità, spero che il triduo si riesca a celebrare normalmente. Ricorderò sempre una frase che mi disse lo scorso anno il parroco della cattedrale siro-cattolica di Homs. Erano appena finiti i combattimenti e si cercava un luogo in città dove fare la via crucis. “Dove farla? Un luogo vale l’altro - diceva il parroco - tutto qui è un calvario”. All’epoca era tutto segnato da quella sofferenza che ricorderemo in questi giorni.
Una sofferenza che però porta in sé speranza della risurrezione. Una risurrezione che vogliamo per la Siria, per l’intera nazione e per i cristiani in modo particolare.

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=8229&wi_codseq=%20%20%20%20%20%20&language=it



Fra Ibrahim da Aleppo: La Pasqua è pace e misericordia per una comunità ferita dalla guerra

AsiaNews, 25 marzo 2016

La comunità cristiana di Aleppo si avvicina alla Pasqua “preparando le liturgie”, abbellendo le chiese “con fiori e addobbi preparati dai giovani; stiamo cercando di coinvolgere tutti i fedeli, soprattutto quanti hanno sofferto, persone che hanno avuto dei morti, famiglie spezzate che abbiamo cercato di curare dal punto di vista materiale, psicologico e spirituale”. È una festa all’insegna della pace, della misericordia e della riconciliazione quella che si apprestano a vivere i cristiani di Aleppo, città martoriata da cinque anni di sanguinoso conflitto.
Come racconta ad AsiaNews p. Ibrahim Alsabagh, 44enne francescano, guardiano e parroco della parrocchia latina di Aleppo, la “fragile tregua” nel conflitto siriano, che “funziona in parte”, ha permesso alla gente “di respirare, infondendo una nuova speranza”. Dopo mesi è tornata l’elettricità e anche sul fronte dell’acqua la situazione è migliorata, e questo ha portato sollievo fra gli abitanti.
Nel periodo di Quaresima e nella Settimana Santa la parrocchia ha coinvolto “bambini e giovani” nell’organizzazione delle celebrazioni: “Ieri hanno preparato l'adorazione - racconta p. Ibrahim - e i più piccoli hanno seguito con attenzione il gesto della lavanda dei piedi fatta dal vescovo. Un rito che insegna loro il senso dell’autorità e il valore della responsabilità”. Sempre ieri si è svolta una processione, con i bambini “contentissimi” nel “portare le candele”. Un gesto che hanno compiuto anche “in occasione della festa delle Palme. Oggi celebreremo la Via Crucis - aggiunge - mentre domani ci saranno i battesimi, per far sentire anche i bambini partecipi delle iniziative della comunità”. 
Per rendere ancora più gioiosa la festa di giovani e piccoli, fra quanti hanno sofferto di più per la guerra, la parrocchia ha deciso di distribuire dolci e alimenti legati alla festa: “Due settimane fa - sottolinea il sacerdote - abbiamo realizzato che nelle case non ci sono cioccolatini, uova, carne. Per questo abbiamo organizzato una piccola festa nella sala parrocchiale, in cui verrà riservato un angolo ai bambini per dipingere le uova e preparare gli addobbi, sotto la guida attenta degli scout”. 
Nell’anno della Misericordia, anche la comunità di Aleppo ha voluto insistere sull’importanza del sacramento della riconciliazione: “I fedeli - spiega p. Ibrahim - si sentono chiamati a tornare ad attingere alla fonte della misericordia, accostarsi alla lavanda dei piedi, l’adorazione e le confessioni. A ogni funzione le chiese sono gremite di fedeli”. 
Certo, prosegue, i fedeli “aspettano tempi migliori” ma “sono pieni di gratitudine” per quanto è stato fatto. “La gente da sola non riesce a sostenersi - prosegue - perché manca il lavoro, i prezzi sono alti, non sempre vi è l’elettricità. Il sostegno che ha dato la Chiesa in questi mesi è immenso e loro ce ne sono grati, lo vedono come segno e gesto di misericordia. Fra le molte iniziative vi sono la riparazione di case danneggiate dalla guerra, il pagamento di debiti bancari, la distribuzione di cibo, cisterne di acqua, etc… tutte cose rese possibili grazie all’impegno della Chiesa e il contributo di molti benefattori”. 
In queste settimane il vicariato latino di Aleppo ha insistito sul fatto che è necessario coinvolgere i fedeli nella preparazione delle feste, per far comprendere il valore del sacrificio, della partecipazione. Per questo durante la Quaresima i parrocchiani “hanno visitato anziani e malati, messo da parte piccoli quantitativi di denaro e altri beni, per offrirli ai più poveri”, all’insegna dello slogan: “C’è sempre un piatto, un oggetto o un bene in più da donare. Tutti, anche i poveri, devono essere partecipi e donare a chi è ancora più povero”. 
Lo scorso 21 marzo si è celebrata la festa della mamma. Per l’occasione i giovani hanno distribuito più di 200 pacchi di dolci alle madri del quartiere. Mamme che vivono da sole perché i figli sono scappati e il marito non c’è, e poi le vedove, alcune delle quali giovani e con figli. Una distribuzione che ha coinvolto tutte le mamme, senza distinzioni fra cristiane e musulmane perché “la mamma è di tutti” afferma il sacerdote. 
Domenica, infine, è prevista la solenne celebrazione presieduta dal vicario apostolico dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, alla quale parteciperà l’intera comunità, cui seguirà il tradizionale scambio di auguri. Il giorno successivo, dopo alcuni anni in cui l’iniziativa era “sospesa per via della guerra”, le classi del catechismo e le loro famiglie (600 persone) andranno al Collegio di Terra Santa, dove vi è “un grande spiazzo all’aperto in cui si celebrerà la messa; poi un pranzo al sacco in comune”. La guerra, la crisi, hanno “distrutto molte famiglie e persone”, conclude p. Ibrahim, ma al contempo “hanno fatto tornare tante famiglie al Padre, alla Chiesa, al valore della misericordia. Ha risvegliato in loro qualcosa di dimenticato e abbandonato, per questo godiamo di questa gioia e siamo contenti di vivere la comunione e la testimonianza”

giovedì 21 gennaio 2016

Aleppo muore di sete. Uccisa dai ribelli.

Mentre l’attenzione dei media occidentali è focalizzata – e forse non in maniera disinteressata – sulla situazione di Madaya, “Aiutiamo la Siria!”, una onlus italiana che si occupa di sostenere i civili siriani intrappolati nella guerra lancia un drammatico appello per Aleppo. 
Una nota triste per un amico aleppino che è scomparso.

di Marco Tosatti


“La situazione degli abitanti di Aleppo, è sempre più drammatica. Alle bombe che minacciano quotidianamente la città (ieri colpita la chiesa Armena Evangelica, per fortuna senza vittime), si aggiunge la mancanza di energia elettrica, l’interruzione dell’erogazione dell’acqua e infine il freddo intenso di questo periodo”, ci scrive il presidente della Onlus, Francesco Giovannelli.  
Le varie formazioni antigovernative – Isis, Jabhat al Nusrah e altri – interrompono da mesi il flusso idrico nella città, per fiaccare la resistenza degli aleppini che non vogliono andarsene. “Tra la popolazione debilitata si sta diffondendo in queste ultime settimane l’influenza H1N1 che ha costretto molte persone al ricovero in ospedale mentre la carenza di medicinali rende la situazione ancora più problematica”.  


E ieri Aleppo ha ricordato un’altra ferita provocata dalla guerra: ricorreva infatti il 1000° giorno dal rapimento dei due Arcivescovi ortodossi della città, Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, scomparsi il 22 aprile 2013, catturati dai ribelli antigovernativi, e dei quali non si sono mai più avute notizie.

Qui troverete i link che vi permettono di partecipare a dei progetti umanitari per aiutare la gente di Aleppo ad avere acqua, e riscaldamento.
Mentre ricordiamo che il quotidiano della CEI, Avvenire, chiede che l’Italia si dissoci dalle sanzioni anti Siria, che non colpiscono il governo, ma rendono la vita tragicamente più dura per la popolazione. 

E permettetemi di aggiungere un triste tocco personale a questo post. Nei giorni scorsi è morto ad Aleppo, Armen Mazloumian, il proprietario del Baron Hotel, la fonte primaria – e uno dei protagonisti – de “I Baroni di Aleppo” . I Baroni di Aleppo era una finestra sul Medio Oriente e un secolo di storia vista attraverso le finestre di quello che fu il più chic e famoso albergo della regione, l’hotel in cui soggiornarono Lawrence d’Arabia e Agatha Christie, nelle cui stanze furono venduti e comprati i documenti che diedero una delle prime prove testimoniali del Genocidio degli Armeni. Armen raccontò a Flavia Amabile e a me la storia dell’albergo, che non ha voluto abbandonare in questi anni di guerra, nonostante fosse malato seriamente, e curarsi diventasse sempre più difficile. Un’altra vittima “collaterale” di questa guerra assurda scatenata moyennant i fondamentalisti islamici dalle monarchie del Golfo e da alcune potenze occidentali.  


Quei bimbi siriani uccisi 
dall' embargo (2)
Avvenire, 20 gennaio 2016
«Ieri nel nostro quartiere un bambino è morto per il freddo. In casa sua da giorni non avevano di che scaldarsi, e lui non ce l’ha fatta. Non è il primo, sa? E non sarà l’ultimo, in questo gelido inverno di Aleppo». È rotta dalla commozione la voce di padre Ibrahim Alsabagh, francescano della Custodia di Terra Santa, che guida la parrocchia di San Francesco nella città martire del conflitto siriano, dove da mesi si consuma lo scontro più accanito tra l’esercito regolare e la miriade di gruppi armati che controllano molti quartieri. «Qui si muore per la guerra e per i frutti avvelenati che la guerra porta con sé – sospira il frate –. Ma c’è un nemico altrettanto insidioso, di cui si parla troppo poco, e di cui porta grande responsabilità l’Europa: è l’embargo decretato quattro anni fa nei confronti della Siria e più volte riconfermato, che sta silenziosamente strangolando il nostro Paese».

Pesantissime le conseguenze delle sanzioni sulla vita quotidiana: scarseggiano i generi alimentari di prima necessità – un fenomeno che alimenta le speculazioni e il mercato nero da parte di chi li possiede –, ogni giorno diventa più difficile procurarsi le materie prime per le fabbriche, la benzina per i trasporti, il gasolio per il riscaldamento nelle case (con l’aumento dei casi di anziani e bambini colpiti da malattie respiratorie, che in molti casi hanno portato alla morte), le medicine, i pezzi di ricambio per i macchinari. 

Negli ospedali l’attività viene rallentata dalla scarsità del materiale sanitario o dall’impossibilità di riparare le attrezzature medicali, senza contare le carenze nella qualità dell’assistenza conseguenti al massiccio esodo del personale sanitario (secondo alcune fonti avrebbe lasciato il Paese il 50 per cento dei medici). Un dramma nel dramma è rappresentato dalla scarsità di acqua, causata soprattutto dal taglio delle risorse idriche da parte delle milizie jihadiste che controllano l’acquedotto. Anche le poche merci che riescono ad arrivare in zona entrano con difficoltà nella città, circondata dalle postazioni delle formazioni jihadiste che presidiano molti punti di accesso. E spesso i convogli umanitari per poter passare devono sottostare al pagamento di mazzette ai vari gruppi di “combattenti”.

Le sanzioni rendono praticamente impossibile inviare denaro in maniera diretta tramite bonifici bancari, costringendo a triangolazioni finanziarie con il Libano o a fare i conti con pesanti commissioni bancarie. I canali regolari si sono fatti sempre più stretti, frenando di fatto anche gli slanci di solidarietà che in questi anni sono arrivati da molti Paesi, con l’Italia in prima fila. Il risultato finale – paradossale ma non troppo, se si pensa a quanto è già stato sperimentato in altri contesti – è un popolo che nei fatti viene colpito da provvedimenti messi in atto da chi a parole proclama di volerlo aiutare. Oggi, di fatto, milioni di siriani si trovano loro malgrado a combattere ogni giorno «un’altra guerra», quella contro malnutrizione e denutrizione per carenza di cibo, contro malattie, povertà e disoccupazione che sono le conseguenze indotte dallo strangolamento a cui il Paese è stato sottoposto a causa dell’embargo.

«Seguendo l’esempio di Gesù, siamo a fianco del popolo, di tutto il popolo, senza alcuna distinzione di fede religiosa – racconta padre Ibrahim Alsabagh –. Non ci hanno fatto cambiare idea neppure i missili caduti nei giorni scorsi sul nostro quartiere cristiano di Azizieh e lanciati da una zona controllata dai jihadisti. Ma l’aiuto che riusciamo a dare è una goccia nel mare di bisogno in cui siamo immersi. Togliere l’embargo è una necessità evidente per chi vive qui, altrimenti Aleppo come altre città morirà. E chi pensava di danneggiare il governo con le sanzioni – dimenticando gli esiti infausti di analoghe iniziative condotte negli anni scorsi contro altri Stati – porta sulle spalle la pesante responsabilità di condannare a morte una popolazione già sfiancata. Muovetevi anche voi italiani, vi scongiuriamo: se l’Unione Europea persevera nell’errore, abbiate il coraggio di uscire dal coro, di rompere il fronte dell’embargo. Prima che sia troppo tardi, e che non vi resti che piangere sulle nostre rovine».
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/bimbi-siriani.aspx

Preghiamo per suor Margherita Slim, dell'ospedale francese di Aleppo
Da alcuni giorni, suor Margherita Slim, superiora delle suore di San Giuseppe dell'apparizione e direttrice dell'ospedale Saint Louis, a Aleppo, ha grossi problemi di salute e chiede le nostre preghiere. Le sorelle ci hanno inoltre fatto pervenire un messaggio sabato:
" tra le 15 e le 16, sette o otto bombe sono cadute... Pensavamo che fosse proprio vicino a noi ma era nel vicino quartiere Azizieh.  Avevamo in questo quartiere una scuola, che ora appartiene al governo dopo nazionalizzazioni del 1967. Ma abbiamo ancora una grande cappella e una casa che ormai è diventata foyer per giovani universitarie.  Una bomba è caduta sotto la cucina: una ventina di finestre sono andate in pezzi ma la bomba alla fine non ha esploso.... San Giuseppe le ha protette, davvero!
Vi prego, pregate anche per la pace! "  (SOS Chretiens d'Orient)

domenica 27 dicembre 2015

Da Aleppo, la città che non si arrende e non dispera malgrado la grande sofferenza e l'enorme minaccia quotidiana di morte ...

ULTIMA ORA:   Comunicato della Custodia di Terra Santa

Rapito ( di nuovo) il francescano  padre Dhiya Azziz 

Dal mattino del 23 dicembre scorso, abbiamo nuovamente perso ogni contatto con padre Dhiya Azziz, ofm, parroco di Yacoubieh (Siria).
Padre Dhiya era in viaggio con un taxi. C’erano altre persone a bordo. Era partito da Lattakia di buonora e diretto verso Yacoubieh, passando probabilmente per Hama, per essere in parrocchia per le festività natalizie. Era di ritorno dalla Turchia, dove era andato a visitare la sua famiglia che li si è rifugiata dopo l’ingresso di Daesh (ISIS) a Karakosh (Iraq), suo paese natale.
L’ultimo contatto telefonico si è avuto il 23 dicembre scorso alle ore 9. Da allora nessuno sa più dove sia. Avrebbe dovuto arrivare a Yacoubieh nel primo pomeriggio del 23 dicembre.
Non si hanno notizie di nessun genere di nessuno dei passeggeri. 
Stiamo cercando di contattare le diverse fazioni in campo per capire se qualcuno è in grado di darci informazioni. Finora senza risultato.

È lecito pensare che sia stato preso da qualche gruppo. Stiamo facendo il possibile per comprendere chi. La situazione altamente caotica del Paese non ci permette di fare molto, purtroppo.

Se avremo altre notizie, lo comunicheremo.

Invitiamo tutti alla preghiera e alla solidarietà con padre Dhiya, con i suoi parrocchiani, i confratelli in Siria, i pastori e tutti coloro che si spendono in quel Paese per fare ancora del bene.

La Custodia di Terra Santa

P. Dhya Azziz ofm è nato a Mosul, l’antica Ninive, in Iraq, il 10 Gennaio 1974. Dopo alcuni studi presso l’Istituto medico della sua città, aveva abbracciato la vita religiosa e dopo il noviziato ad Ain Karem, aveva emesso la prima professione dei voti religiosi il 1° Aprile 2002. Nel 2003 si è trasferito in Egitto, dove è rimasto per diversi anni. Nel 2010 rientra in Custodia e viene inviato ad Amman. È successivamente trasferito in Siria, a Lattakia. Si era reso poi volontariamente disponibile ad assistere la comunità di Yacoubieh, nella regione dell’Oronte (provincia di Idlib, distretto di Jisr al-Chougour), divenuta particolarmente pericolosa in quanto sotto il controllo di Jaish al-Fatah. Fu rapito e detenuto da un gruppo jihadista dalla quale riuscì a fuggire nel luglio del 2015.





Da Aleppo, la città che non si arrende e non dispera malgrado la grande sofferenza e l'enorme minaccia quotidiana di morte, vi auguriamo amici buon Natale e felice anno prospero e sereno 2016. 
Questi miei amici son scampati da una morte imminente la Pasqua scorsa. La loro casa di riposo è stata completamente distrutta. Solo San Francesco d'Assisi ha aperto il cuore e le braccia per accoglierli. Ora sono il loro custode. Loro pregano per voi ogni giorno!
In questi giorni la Madonna di Fatima è in visita ad Aleppo. La statua che vedete contiene la pallottola che poteva uccidere San Giovanni Paolo II, la potente intercessione della Vergine è stata più forte della morte. Ci affidiamo alla intercessione e protezione della nostra madre celeste in questi giorni di Natale affinché salvi i suoi figli ai pericoli che ci circondano: nel giorno di Natale ci hanno bombardato con 8 bambole di gas, ma grazie a Dio le celebrazioni sono andate a buon fine. 
Insieme a questi miei amici e ai miei fratelli francescani che vivono e testimoniano la misericordia di Dio per ogni persona umana, vi saluto e vi auguro ogni bene e pace nel Signore!
fra Firas Lufti, Aleppo-Siria,  27 Dicembre 2015.


Il parroco di Aleppo: "E' Natale ma qui cadono le bombe"






Fra Ibrahim Sabbagh, siriano nativo di Damasco, è da un anno e mezzo parroco ad Aleppo. La sua chiesa, San Francesco, è nel cuore della città vecchia, nel quartiere di Azizieh.  La sua gente, i cattolici latini, sono una minoranza percossa e offesa nella guerra civile che da cinque anni scuote senza tregua il Paese. 
È Natale ma per Aleppo, per la città martire della Siria non c’è pietà.
«In questi giorni ci sono stati tanti bombardamenti», dice fra Ibrahim, «anzi: siamo forse arrivati al punto più alto dello sforzo dei jihadisti, che ormai sono pressati da Sudest e Sudovest, per ricuperare terreno in città. 
So che da voi si incolpa di tutto il Governo ma in pochi giorni sul solo quartiere di Khalidiya gli islamisti hanno sparato più di 500 razzi. Ci sono stati morti, feriti, case distrutte. Da trentacinque giorni siamo senz’acqua, l’elettricità va e viene, manca il riscaldamento. E quest’anno il freddo è arrivato anche prima del solito. Ero qui anche a Natale dell’anno scorso e devo ammettere che vedo crescere nei cuori l’amarezza, e la sofferenza farsi più profonda».
Fra Ibrahim, insieme con gli altri quattro frati della Custodia di Terra Santa che lavorano ad Aleppo, e come tutti gli esponenti delle Chiese cristiane, si batte per dare un sollievo a chi vive nel dramma. Ma i bisogni sono enormi, visto che l’80 per cento delle famiglie ora vive in assoluta povertà, quando non è alla fame. «Ci sforziamo di creare qualche oasi in questo deserto. Sentiamo che il Signore è in mezzo a noi e proviamo a rendere ancora più chiara e palpabile questa presenza agli occhi della gente».
In concreto questo cosa vuol dire?   «Cerchiamo di operare in due campi allo stesso tempo. Il primo è quello dei bisogni concreti, urgenti. Posso fare tanti esempi. Abbiamo distribuito ai bambini scarpe, biancheria e abiti caldi per l’inverno. Abbiamo garantito alle famiglie una dotazione di 200 litri di gasolio, sufficienti per scaldare l’acqua per le docce due volte a settimana per tre mesi o a tenere accesa la stufa per un mese. Ogni mese provvediamo ai pannolini per le famiglie con neonati. Nelle scorse settimane abbiamo installato nelle case 100 serbatoi d’acqua da 500 litri, perché le famiglie, e soprattutto gli anziani, possano farne provvista nei momenti in cui arriva. Non è cosa da poco, visto che un serbatoio oggi costa quanto il salario mensile di un operaio. Potrei continuare con gli esempi, e farne magari di più drammatici: ci sono le vedove, le madri con i figli sotto le armi, le coppie con bambini Down o sordomuti o traumatizzati dalle esplosioni e dalle violenze. I bisogni del corpo, qui, sono infiniti. Ma non meno numerosi e urgenti sono quelli dello spirito».
Che cosa fate dal punto di vista spirituale, quale soccorso provate a portare ai fedeli?  «La parrocchia lotta per diventare una piccola luce nel buio, capace però di alleggerire la croce che la gente deve portare. I cristiani di Aleppo sono degli eroi, per come riescono ancora a vivere la loro fede. Il 25 ottobre, proprio durante la celebrazione delle prime comunioni, una bomba ha colpito la cupola della chiesa, che era piena di fedeli: per fortuna ci sono stati solo pochi feriti leggeri. Non è un caso, mirano a noi, ad Aleppo più di 100 chiese di tutte le confessioni sono state distrutte da quando è cominciata la guerra. E ormai, chi vive da anni in questa situazione non crede più alle parole ma solo ai fatti. In parrocchia abbiamo aperto la Porta Santa per il Giubileo della misericordia e per l’Avvento abbiamo organizzato una serie di brevi ritiri spirituali per gruppi e associazioni. Con i Legionari di Maria, inoltre, abbiamo programmato una serie di visite ai nostri 200 anziani, per stare con loro, condividere la loro condizione, pregare e distribuire qualche dolce».
E per Natale ?  «La notte di Natale ci sarà una piccola festa, e qualche giorno fa, in parrocchia, abbiamo anche messo in scena un recital. La gente non può e non vuole stare chiusa in casa ad aspettare la prossima esplosione. Abbiamo la fede, e la convinzione che la nostra resistenza di cristiani possa ancora cambiare la storia di questo Paese».

sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

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