Traduci

Visualizzazione post con etichetta S.I.R. Servizio Informazione Religiosa. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta S.I.R. Servizio Informazione Religiosa. Mostra tutti i post

lunedì 24 giugno 2019

Homs, germogli di speranza tra le macerie...


di Daniele Rocchi
S.I.R.  24 giugno 2019

Tra i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il suo impegno per i più poveri e vulnerabili.  
Un uomo di riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il 7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare sulla sua tomba.

Recuperare speranza. 
Padre Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di padre Frans. “L’assedio è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega – raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la voglia di rinascere. Cerchiamo di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può non piacere a qualcuno. Il nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani, indistintamente”. Durante gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante. “Molta gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda padre Michel – veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo per noi è motivo di grande speranza”.
Continuare a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di beatificazione”.
Oggi come allora.  La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte, la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere versi e leggere poesie.
Nonostante la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è la domanda di padre Michel – costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”. Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono tornate. Siamo ben consapevoli – ammette il gesuita – che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci circondano”.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto
Le spalle degli anziani. 
Homs resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
È un quadro desolante” racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dalla locale chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour. “Quello degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs – spiega la religiosa – la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di macerie”.
Nella struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90 anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla” dice la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter ripartire da loro”.
  Ma intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai jihadisti. “Sono stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda suor Valentina. “Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti. Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
Tutti sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei più anziani.

mercoledì 19 giugno 2019

La sfida dei cristiani di Maaloula, che provano a rinascere dopo la devastazione

di Daniele Rocchi
S.I.R.  18 giugno 2019

Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno. 
È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.


Ferite ancora aperte. Oggi Maaloula è un villaggio che porta ancora addosso, chiari, i segni della guerra, ferite profonde inferte contro la comunità locale, sfregiata come le sue chiese, le sue icone, i suoi quadri, le sue statue. Qui si è combattuto per circa nove mesi, da settembre del 2013 a maggio del 2014. A ricordare quei lunghi giorni è padre Toufic Eid, parroco melkita della chiesa di san Giorgio. E lo fa dall’alto della grande roccia che sovrasta il villaggio, a ridosso del monastero dei santi Sergio e Bacco, dove non manca di pregare il Padre Nostro in aramaico:
“Maaloula era lo specchio della convivenza siriana – ricorda il sacerdote indicando il villaggio e le sue macerie -. Lo hanno voluto mandare in frantumi per dare un segnale forte. Militarmente e strategicamente Maaloula non aveva particolare importanza. Ma hanno attaccato un simbolo della cristianità, il luogo dove gli abitanti parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”.
La notizia della caduta di Maaloula in mano ai jihadisti fece il giro del mondo. Il villaggio fu conquistato e preso come base militare dai miliziani dell’allora Jabhat al Nusra (oggi Hay’at Tahrir al-Sham, ndr.), vicini ad Al Qaeda. Con loro, all’inizio, anche membri dell’opposizione armata del Free Syrian Army, che si erano accreditati come difensori dei cristiani locali. “Controllavano il villaggio dall’alto – spiega il sacerdote –. I terroristi, infatti, avevano occupato l’hotel al-Safir, divenuto il loro quartier generale arrivando a distruggere anche una statua della Vergine Maria, Signora della Pace, messa dai cristiani locali a protezione del villaggio”. L’hotel non esiste più, delle stanze nessuna traccia, solo una giostra piegata dalle bombe, piena di ruggine. Fu l’inizio della devastazione.  “Da quel momento in poi – aggiunge il parroco – furono solo distruzioni di case e di chiese, profanazioni, incendi, saccheggi, esecuzioni sommarie. Le suore di santa Tecla furono prese in ostaggio per circa 4 mesi. Lo stesso destino toccò a 6 giovani cristiani, cinque dei quali ritrovati poi morti. Del sesto, invece, non abbiamo più notizie. Non sono stati gli unici martiri di Maaloula”. 
Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare “l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre: Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle. Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui”, afferma con orgoglio padre Toufic.  Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride: “sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”. È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra.  Cinque anni dopo essere stata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente. La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa.  Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo.  La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere.  Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”.  Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”. Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.

Una speranza condivisa con l’archimandrita Matta Reza, priore della comunità delle suore ortodosse di Santa Tecla. I mesi passati nelle mani dei jihadisti che le avevano prese in ostaggio non hanno tolto il sorriso alle religiose che continuano la loro missione nel monastero “ripulito dal sangue dei combattenti, rimesso in piedi e reso di nuovo agibile”. “Si sono lasciate il passato alle spalle per avere pace nel cuore e per aiutare la gente a superare il momento. Guardano avanti nonostante tutto” afferma il priore che non esita a citare il passo evangelico di Luca, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. Non c’è tempo a Maaloula per guardare indietro. “Nonostante tutta la distruzione la luce del Sepolcro ci ha illuminato. Le porte degli inferi non si sono aperte. Per questo incoraggiamo le famiglie, le pietre vive di questa terra, a restare saldi nella fede”  ribadisce l’archimandrita Reza. Un attimo di pausa prima di riprendere il discorso per dire quello che non ti aspetti: "anche tra i jihadisti vi era gente buona, il bene è dappertutto":  “I nostri cristiani in fuga da Maaloula sono stati salvati dai musulmani dei villaggi confinanti. Ricostruire è possibile, lo stiamo già facendo. Siamo figli della vita e chi crede nella vita può farlo. Ogni parola buona, ogni gesto di pace contiene un germe di Dio”.  È quasi sera quando, uscendo da Maaloula in direzione Homs, sale il desiderio di lanciare un ultimo sguardo alla cima più alta, a quella roccia dove è tornata la statua di Maria, Signora della pace. A riportarla lassù sono stati cristiani e musulmani, insieme. 
Maaloula è tornata in buone mani.

sabato 15 giugno 2019

I mattoni della ricostruzione siriana tenuti insieme con la malta della sofferenza.


Viaggio negli ospedali cattolici di Damasco e Aleppo

di Daniele Rocchi
Sir, 13 giugno 2019

Un crocifisso insanguinato, privo di arti, coronato da proiettili e bossoli sparati durante la guerra. Che non è ancora finita. Impossibile non guardarlo mentre si passa nel lungo corridoio che dalla cappella porta ai padiglioni dell’antico (1905) ospedale cattolico di Saint Louis di Aleppo (60 posti letto), città martire siriana, gestito dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione. Un’immagine che meglio di ogni parola descrive quanto avviene in questo nosocomio e in altri due, quello italiano e l’altro francese – sempre dedicato a Saint Louis – di Damasco, gestiti rispettivamente dalle suore salesiane e dalle Figlie di san Paolo. Veri e propri “ospedali da campo”, per dirla con Papa Francesco, che fanno parte del progetto “Ospedali aperti”, avviato in Siria nel 2017, per iniziativa del nunzio apostolico, card. Mario Zenari, con l’apporto sul campo di Avsi. Lo scopo è uno solo: offrire cure gratuite ai più poveri e ai più vulnerabili. Bombardati, danneggiati, vessati dalle sanzioni di Usa e Ue, ma sempre aperti e pronti a curare.

Dal novembre 2017 ad oggi i tre nosocomi hanno erogato 22.779 servizi medici gratuiti con moderne attrezzature sanitarie. E adesso, per la fine del 2020 si punta a quota 50 mila. “Poche gocce nell’oceano”, verrebbe da dire, guardando la drammatica situazione sanitaria della Siria, dove a causa della guerra più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di prima assistenza sono chiusi o parzialmente agibili e dove quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il Paese. Ma poi camminando nelle corsie di questi ospedali ci si accorge che non è così.
Tre gocce. Una di queste gocce è Ibrahim. Oggi balla, salta, solleva le gambe, muove la caviglia. E sorride. Il tempo di risistemarsi i capelli impomatati e poi torna a sedersi a terra sui cuscini. Quel giorno, di due anni fa, nella zona di Ghouta, alle porte di Damasco, quando un razzo gli fece crollare la casa addosso provocandogli fratture scomposte alla gamba, sembra oramai solo un brutto ricordo. “Sono stato lunghi mesi fermo, non potevo camminare e lavorare – ti racconta mentre si carezza la gamba operata piena di cicatrici – non avevo soldi nemmeno per comprare una caramella a mio figlio. Se oggi posso tornare a sognare un futuro per me e per la mia famiglia è anche grazie a chi mi ha permesso di curarmi e ai medici dell’ospedale francese di Damasco”.
Un’altra goccia è Evangelina Strambouli, anziana signora di origini greche, cristiana ortodossa. All’ospedale cattolico di Aleppo le hanno salvato la vita due volte. Non ha più nessuno, il marito è morto, ed è vegliata ogni giorno dal suo vicino di casa musulmano dal nome che è tutto un programma, Fadi, ovvero “Angelo”. E poi c’è Ahmed che dal suo letto non cessa mai di ringraziare i medici che lo hanno curato invocando su di loro la benedizione di Allah, seguito a ruota dal figlio, Imaad. Vengono da Hama, nella Siria centrale. Senza le cure nell’ospedale cattolico di Aleppo, dice “sarei già morto. Non ho parole per ringraziarvi”.
 Il primario dell’ospedale aleppino, George Theodory, risponde a tutti con un sorriso. Ma poi non nasconde le difficoltà che ci sono nel portare avanti questa missione. “Dei 141 ospedali e centri clinici attivi ad Aleppo prima della guerra ne sono rimasti funzionanti solo 44. I pazienti sono tanti e l’embargo Usa e Ue li costringe a lunghe attese per avere esami diagnostici. I nostri macchinari hanno bisogno di manutenzione e di pezzi di ricambio che non arrivano. Ma grazie al progetto del nunzio Zenari ora possiamo disporre di nuove apparecchiature, molte delle quali donate dalla Conferenza episcopale italiana. Cerchiamo di curare al meglio con ciò che abbiamo”.
Il sogno dei siriani. Ibrahim, Evangelina e Ahmed sono solo alcune delle migliaia di siriani che hanno ricevuto cure gratuite nell’ambito del progetto “Ospedali aperti”. I loro sogni sono quelli di tutti i siriani: “vedere la fine della guerra, tornare a condurre una vita serena con un lavoro e una casa”. A raccogliere questi sogni sono un team di assistenti sociali, tra loro Dhalia, Boshra, Shaza, Rama, Tala e Rima, guidate dal coordinatore del progetto, George N. e dalla capo progetto Flavia C. Sono loro per prime ad accogliere le persone che vengono a chiedere assistenza medica e ad ascoltare i drammi della guerra, della povertà. Ma anche i loro sogni, il primo su tutti: guarire e vedere il nostro Paese risorgere”.

E sono sempre loro ad accompagnarle nel percorso di cura che non è solo fisica ma anche morale e spirituale. La cosa più bella? “Vedere la persona guarita e pronta a ripartire con nuova forza e speranza”. Come il piccolo Amer, 11 anni di Deir Ezzor, rimasto ustionato dopo un bombardamento, impossibilitato a camminare e oggi sulla via della guarigione grazie anche ai sacrifici della madre che per restare con lui a Damasco si alza all’alba per vendere pagnotte di pane in strada. Non mancano i ringraziamenti che a volte assumono le sembianze di piccoli dolci o di profumi. “Il loro grazie – dichiara George – è anche per tutti quei donatori, piccoli e grandi, che da ogni parte del mondo contribuiscono al progetto. Senza di loro non potremmo fare molto”.

Tra disperazione speranza. Lo sanno bene suor Carol Tahhan, salesiana, e suor Fekria Mahfouz, vincenziana, che dirigono rispettivamente l’ospedale italiano (55 posti letto) e quello francese della capitale siriana. Quest’ultimo con i suoi 101 posti letto è il più grande dei tre nosocomi del progetto che ha da pochi giorni avviato la sua seconda fase che pone tra i suoi obiettivi anche un software gestionale per mettere in rete i tre ospedali e la formazione tecnica con corsi di aggiornamento e training per il personale sanitario. “Con il progetto del card. Zenari abbiamo aumentato le prestazioni mediche” afferma suor Fekria mentre scruta il display con le immagini delle 36 telecamere a circuito chiuso messe a protezione del nosocomio colpito da 40 colpi di mortaio (ben 4 volte nel gennaio 2018) durante gli ultimi anni. Nel suo pc mostra anche le foto dei feriti e dei morti portati in ospedale dopo un attacco, le fasi concitate nel pronto soccorso, le cure, le operazioni di urgenza, “la disperazione per una vita persa e la gioia per una salvata”.
Oggi – racconta – la situazione è molto cambiata. Non si combatte più se non nella zona di Idlib, ma c’è un’altra guerra che stiamo fronteggiando e si chiama povertà. Nel Paese il salario minimo mensile si aggira sui 50 dollari, circa 18 mila lire siriane (government salary). Una miseria”.


Anche la religiosa punta l’indice contro le sanzioni Usa e Ue che di fatto, afferma, “hanno conseguenze pesanti sulla popolazione. Elettricità, gas e benzina sono razionati. Problemi anche a livello sanitario dove il divieto di transazioni con banche internazionali impedisce a molte aziende farmaceutiche estere di commerciare con la Siria provocando mancanza di medicinali e difficoltà nel reperire forniture e macchinari sanitari. Nonostante tutto andiamo avanti, il nostro carisma è quello di accogliere i poveri. La popolazione si fida di noi, ha rispetto della nostra missione. Cerchiamo di stare al loro fianco curando e dando conforto e ascolto”.
Curare la persona significa anche curare la sua famiglia – conferma suor Carol, direttrice dell’Ospedale italiano.
La sofferenza accomuna tutti senza distinzione. Può diventare la malta per cementare la ricostruzione del nostro Paese”.
Le prime medicine che somministriamo sono la fraternità e l’accoglienza. Tutti vengono trattati con la dignità che meritano, sono malati bisognosi di cure” ribadisce il primario del nosocomio italiano, Joseph Fares, specialista in chirurgia generale e laparoscopica, mentre compie il suo giro tra le camere e i laboratori molti dotati di nuovi macchinari donati dalla Cei grazie ai fondi dell’8×1000. “La guerra lascia segni e ferite difficilmente rimarginabili. La medicina più efficace è l’umanità. Trattare le persone con umanità rispettando la loro dignità. Il bene è contagioso, si trasmette e ricostruisce corpo e anima. Nei nostri ospedali cattolici combattiamo la povertà e la guerra a colpi di bisturi, medicine e tanto amore”. Se vinceremo questa guerra? “Stiamo già vincendo. Ogni volta che un malato viene curato nel corpo e nello spirito per noi è una vittoria”.
  Come ricorda il Crocifisso insanguinato di Aleppo…

sabato 20 aprile 2019

Dai cristiani siriani nelle catacombe: "non ci toglieranno mai la gioia della Pasqua. Non potranno mai strapparci la nostra fede in Dio."

 Ai nostri cari lettori auguriamo una serena Pasqua 2019
 con le parole di Padre Hanna Jallouf, francescano siriano della Custodia di Terra Santa, parroco latino di Knayeh, nel governatorato di Idlib, ultima roccaforte degli jihadisti.






“Tra Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh raduno circa 70 giovani. Vivremo la Settimana Santa con il resto della comunità, circa 800 famiglie. Ma fare i conti con questo conflitto non è facile – racconta il parroco che nel 2014 fu rapito dai qaedisti – soprattutto se si è giovani. La guerra ha posto nel cuore dei giovani siriani, non solo cristiani, una grande sofferenza. Tantissimi sono cresciuti conoscendo solo armi, violenza, bombe, non hanno potuto frequentare le scuole, non sanno leggere e scrivere. Sono stati sradicati dalle loro case, allontanati, costretti a emigrare e peggior cosa indotti a uccidere l’altro. Soprattutto i maschi. Molti di loro hanno disertato il servizio militare perché affatto convinti della necessità di imbracciare le armi in questa guerra. Di giovani ne sono rimasti pochi e la maggior parte sono ragazze. Ci colpisce molto la tristezza nei volti dei bambini più piccoli”. 
Nonostante ciò, aggiunge il frate, “vedo nei giovani della mia comunità una fede che è cresciuta, maturata, che li ha spinti a rifiutare la violenza e a dedicarsi in opere di servizio sociale caritativo. Rimasti attaccati alla Chiesa, alla preghiera e alle liturgie, combattono così la loro guerra contro la mancanza di futuro, di prospettive certe, lottando per alimentare la speranza”.

“La Pasqua – ribadisce – ci dice che la morte non ha l’ultima parola. Questo è ciò che testimonieremo  domenica, quando nella nostra chiesa alzeremo le palme per salutare Cristo e chiedergli speranza e salvezza per noi e la nostra amata Siria”.

Non ci saranno addobbi pasquali a rendere visibile la Pasqua nei villaggi cristiani di Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh. Così come non ci sono, oramai da anni, croci, statue e altri segni esteriori sulla chiesa del convento di san Giuseppe. 
“I jihadisti ci hanno vietato di indossare l’abito francescano” rimarca padre Hanna che poi rivela: “ci hanno proibito anche di distribuire dolci la Domenica delle Palme. Non vogliono che facciamo festa. Ma non ci toglieranno mai la gioia della Pasqua. Non potranno mai strapparci la nostra fede in Dio.
Ci dicono che siamo infedeli perché crediamo in un Dio uno e trino, in più Dei. Ma non importa, proviamo a spiegare loro, di far conoscere i fondamenti della nostra fede, è dura ma restiamo saldi”.


Sono lontani i tempi, prima della guerra, in cui “si poteva fare la processione all’esterno della chiesa e cantare ‘Osanna al Figlio di Davide’, agitare le palme. Oggi i nostri fedeli piangono a quel ricordo” ammette il parroco. Per lenire il dolore dei suoi parrocchiani padre Hanna sta pensando di mostrare loro le immagini via satellite delle celebrazioni del triduo pasquale presiedute da Papa Francesco, “non so se sarà possibile ma certamente
 per noi la vicinanza del Pontefice è un balsamo. Sapere che nella Chiesa si prega anche per noi ci aiuta a non sentirci soli, abbandonati a questo destino. Sappiamo di fare parte del grande popolo di Dio”
.

In questi anni di “persecuzione jihadista” la comunità cristiana di Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh ha ulteriormente stretto i propri vincoli e si è ancora più unita.  “Alla processione delle Palme – afferma il parroco – verranno tanti giovani con le famiglie. Molti di loro cammineranno per chilometri per arrivare qui. Per le persone più anziane, impossibilitate a muoversi, abbiamo organizzato un servizio di auto con dei volontari che andranno a prenderle a domicilio”. Domenica anche nella roccaforte jihadista di Idlib si leveranno le Palme e si farà festa in attesa della Pasqua: “Con Cristo la morte è sconfitta – ribadisce padre Hanna – non ci toglieranno mai la gioia più grande.
E i giovani domenica lo grideranno forte, ‘non siamo vinti’”.

sabato 23 marzo 2019

Riflessioni quaresimali dai cristiani nelle catacombe siriane


Riflessioni di padre Hanna Jallouf, consegnate al S.I.R., che accompagneranno il cammino quaresimale verso la Pasqua.  Padre Hanna Jallouf è il parroco latino di Knayeh, villaggio siriano non distante proprio da Idlib. Francescano siriano della Custodia di Terra Santa, padre Hanna, 66 anni, è rimasto con il suo confratello Louai Bsharat a prendersi cura della sparuta comunità cristiana locale. Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono fuggiti dopo che molte chiese e luoghi di culto sono stati distrutti o bruciati. Lo stesso parroco fu rapito, nell’ottobre 2014, con altri suoi parrocchiani da un gruppo islamista e poi rilasciato. “Come agnelli in mezzo ai lupi”, dice ricordando le parole del Vangelo.

1  Mercoledì delle Ceneri
 La Quaresima è un tempo di grazia durante il quale prepararsi alla Pasqua. Un tempo privilegiato per guardarsi dentro e rifare i conti con noi stessi davanti al Signore. Così come un bravo contadino che fa i suoi conti alla fine dell’anno per vedere come è andato il raccolto.
 Questo tempo è basato su quattro colonne: digiuno, preghiera, carità e pentimento.
 Ma spesso siamo soliti ricordare solo la carità e dimenticare il digiuno, la preghiera e il pentimento. Il nostro essere ha bisogno di uscire dal quotidiano di tanto in tanto, per rinnovarsi e per riscoprire il suo valore. Ma non si può fare questo passo se non seguiamo le quattro colonne della Quaresima.
La Chiesa ha semplificato il digiuno affinché ogni cristiano scelga il modo di passare questo periodo, per arrivare alla Pasqua del Signore. Cerchiamo di scoprire questa strada grazie alla parola del Signore che ci viene offerta ogni Domenica nell’Eucarestia.
 Da noi, qui in Siria, tanti cristiani ancora osservano la vecchia forma del digiuno, cioè prendere un pasto al giorno. Senza carne, senza pesce, senza grassi, senza latte e formaggi. Solo erbe e cereali conditi con olio. Essi praticano tante forme di pietà religiosa per arrivare alla festa di Pasqua rinnovati umanamente e spiritualmente.
 Cerchiamo, dunque, di vivere questo tempo per riscoprire la nostra fede e la nostra dignità cristiana”.

2  Guardiamo al deserto di Gesù
 Il deserto è il luogo della prova secondo la Bibbia, in cui il popolo di Dio ha imparato a fidarsi del Signore. Il deserto è anche il luogo dei grandi prodigi di Dio, dove Egli ha unito a sé il suo popolo.
 Gesù fa l’esperienza del deserto, spinto dallo Spirito Santo, perché possa il deserto porre le basi della sua missione di salvezza e mostrare che il maligno va sconfitto attraverso la piena fedeltà al Padre e la totale donazione ai fratelli. In tale modo Cristo inaugura il cammino, che ogni uomo deve compiere, per tornare al Padre.
 Quaranta anni, quaranta giorni, sono un tempo di purificazione e di rinnovo per riscoprire la nostra dignità umana. Un tempo per rigettare tutta la polvere che è stata accumulata durante il nostro cammino verso il Signore.
 Gesù esce vittorioso da questa prova, è perciò è modello e speranza anche per le molte tentazioni che la vita di ogni uomo incontra.
 In questo tempo particolare orientiamo il nostro cuore alla sobrietà, all’essenziale, al primato di Dio e alla sua parola, alla ricerca di ciò che realmente è necessario, guardando al nostro modello Gesù che nel deserto ha orientato il suo cuore.

3  All'improvviso una schiarita e si intravede la destinazione
 La Quaresima che abbiamo iniziato è un cammino diretto verso un avvenire di luce. Quando camminiamo per una strada, nel fondo di una valle, sotto il cielo piovoso, ci capita di non vedere più la mèta della nostra direzione. All’improvviso una cima, una schiarita: di nuovo riusciamo ad intravedere la destinazione. Abbiamo ritrovato l’orientamento. Ritorna il coraggio ed è possibile riprendere il cammino.
 Impegnati nel quotidiano della vita, abbiamo riconosciuto mediante la fede, che la vita può condurci a Dio, ma a volte le difficoltà ci sovrastano, ci sentiamo disperati.
 Allora ecco la trasfigurazione illumina la nostra via e la nostra vita. La trasfigurazione non è uno spettacolo a cui si è invitati ad assistere, ma una esperienza mistica che non si coglie con gli occhi della carne, dei sensi, ma con lo sguardo della fede. Mosè ed Elia sono lì a rassegnare le loro dimissioni e per di più ad accettare lo sfocio conclusivo del disegno di Dio, che si apre nel paese di Canaan, ma si chiude nel mondo della Resurrezione. Gesù si trasfigura, per dirci che in Lui sono compiute tutte le profezie e le leggi, e la sua resurrezione illumina la nostra strada nel mondo.
 Lo scandalo della croce diventa, trono e mèta di salvezza.
 Nella mia parrocchia, durante la Quaresima, prima di iniziare la Via Crucis, con la benedizione si recitano i salmi penitenziali. Si conclude la messa della reliquia della Santa Croce, in cui si dice: “La grazia del Signore sia sempre con voi. Il ricordo della Sua passione rimanga nei vostri cuori e il segno della Sua Croce vi protegga da ogni male, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”.

4  Quaresima: liberare il mondo dal potere del terrorismo
 Le letture di questa domenica ci parlano della necessità di convertirsi per non perire e portare frutti di bene nel mondo. Questi frutti hanno all’origine la chiamata divina, che ci chiede di cambiare il nostro cuore e di aprirlo al suo messaggio di salvezza per essere, nel luogo in cui Egli ci manda, suoi messaggeri. L’esempio ci viene da Mosè, il quale conduceva una vita tranquilla, quando Dio entra nella sua esistenza e gli affida una missione “impossibile”: Liberare Israele.
 Mosè, davanti al roveto che non si consuma, è il simbolo dell’uomo davanti alla trascendenza di Dio, e il simbolo dell’accettazione umile della chiamata divina a compiere una missione.
Davanti a questa visione, Mosè deve restare scalzo; il terreno su cui cammina è sacro, è in presenza del Santo del santi. E tale presenza richiede purezza, incontaminazione.
 Nulla di ciò che può condurre alla morte può esserci in chi è chiamato da Dio, altrimenti la sua missione rischia di fallire, di diventare vana. Tale purezza è essenziale per fare trasparire Dio; perché in ogni opera condotta nel nome di Dio, è lui che deve essere riconosciuto e non l’uomo.
 Anche noi oggi come cristiani, siamo chiamati ad una grande missione “impossibile”, liberare il mondo dal potere del male, dal potere del terrorismo, che aumenta giorno dopo giorno.
 La strada inizia da noi stessi, cioè ritornare all’origine della nostra credenza in Cristo Gesù unico Salvatore, combattere il male con il bene e non con le armi, combattere il male con il buon esempio.
Un giorno, un integralista musulmano, parlando con lui, mi disse: “Voi cristiani, vero che non avete portato armi contro di noi, ma ci avete ucciso con il vostro amore e con la vostra carità”.

Padre Hanna,  parroco latino di Knayeh-Siria

martedì 25 settembre 2018

Nella tana qaedista di Idlib una sparuta comunità di Cristiani vive e testimonia la propria fede

Testimonianza dalla roccaforte jihadista di Idlib: “Resteremo cristiani fino alla morte”

Da Knayeh, non distante da Idlib, ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad e dei jihadisti filo-qaedisti del fronte Hayat Tahrir al-Sham (al-Nusra), arriva la testimonianza dei pochi cristiani rimasti sostenuti dagli unici religiosi, due frati della Custodia di Terra Santa, rimasti al loro fianco, padre Hanna Jallouf e padre Louai Bsharat. Minacciati da rapimenti e omicidi, privati di case e terreni, tollerati nel culto sottoposto a rigide restrizioni: "Ai fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. Anche se nella sofferenza viviamo un tempo di grazia"

di Daniele Rocchi
Agensir, 25 settembre 2018

Ringraziamo il Signore che ancora siamo vivi”. La voce di padre Hanna Jallouf, 66 anni, francescano siriano della Custodia di Terra Santa, è quella dei cristiani che vivono nei villaggi di Knayeh, Yacoubieh e Gidaideh che si trovano nella zona di Idlib, nel nord della Siria, ultimo bastione degli oppositori al presidente siriano Assad e dei terroristi islamisti. Qui, a poca distanza dal confine turco, si sono concentrati, in questi anni di guerra, decine di migliaia di combattenti, anche stranieri, del fronte Hayat Tahrir al-Sham – gruppo jihadista di ideologia salafita, affiliato ad Al-Qaeda ed erede del meglio conosciuto Jabhat Al Nusra – decisi a non arrendersi all’esercito regolare siriano e ai suoi alleati russi e iraniani. Nei giorni scorsi si era parlato di un’imminente attacco volto alla riconquista della roccaforte jihadista poi rientrato in seguito al vertice di Sochi, sul Mar Nero, durante il quale il presidente russo Putin e il leader turco Erdogan hanno trovato un accordo per creare, intorno a questa area contesa, una zona demilitarizzata. L’accordo dovrebbe portare al “ritiro di tutti i combattenti radicali” da Idlib, scongiurando una crisi umanitaria di vaste proporzioni dal momento che nell’area vivono anche due milioni e mezzo di siriani, molti dei quali sfollati interni.
Una sofferenza comune. L’accordo ha fatto tirare un sospiro di sollievo a padre Hanna, e al suo confratello Louai Bsharat, gli unici religiosi cristiani rimasti a Knayeh e Yacoubieh, nei conventi di san Giuseppe e di Nostra Signora di Fatima. Allontanato per ora lo spettro di nuovi combattimenti, sul terreno restano i problemi di sempre e “condizioni di vita sempre più dure man mano che sale la tensione”.
Non sappiamo come andrà a finire – dice padre Hanna che è parroco latino di Knayeh – i ribelli non intendono né arrendersi né ritirarsi. Se lo facessero tutti noi che viviamo qui, cristiani e musulmani, ne trarremmo giovamento. Anche i nostri fratelli musulmani soffrono molto. Vengono costretti ad andare in moschea e a seguire pratiche che sono solo nella mente di questi fanatici”.
Cristiani vittime di rapimenti e omicidi. Dal canto loro i cristiani di Knayeh e Yacoubieh vivono rintanati in casa terrorizzati. “La paura è enorme per le nostre comunità già povere – dichiara il frate -. Gli aiuti non arrivano come un tempo e sono iniziati i rapimenti  non conosciamo gli autori di questi crimini, se siano semplici malviventi o membri delle milizie che controllano la zona. Alcuni giorni fa è stato rapito il nostro avvocato e la famiglia ha dovuto sborsare circa 50mila dollari per il suo rilascio. Una cifra enorme”. Anche padre Hanna ha vissuto l’esperienza del rapimento: venne prelevato da miliziani del fronte Jahbat Al-Nusra, nell’ottobre del 2014, con 16 parrocchiani. “Dopo diversi giorni sono stato riportato al mio convento di Knayeh”, ricorda il religioso.
Volevano costringerci alla conversione e prenderci il convento. Ma siamo rimasti saldi nella fede e tornati a casa più forti e motivati di prima”.
Adesso ai rapimenti si sono aggiunte le esecuzioni sommarie e gli omicidi: Il 19 settembre – rivela padre Hanna – un uomo, da sempre vicino alla nostra parrocchia, è stato ucciso. La sua unica colpa? Quella di aiutare i cristiani”. Nella comunità locale cresce la paura e nessuno vuole uscire più. “Nessuno va più a lavorare i propri terreni. Dentro casa si sentono più al sicuro”. Tuttavia i timori vengono messi da parte quando si tratta di andare a messa. “Ogni giorno vengono in chiesa almeno 50-60 persone. La domenica sono molte di più perché arrivano anche dai villaggi vicini. I cristiani che vivono nei tre villaggi – spiega padre Hanna – sono circa 1.100, tra latini, armeno ortodossi e greco ortodossi”.
La loro sofferenza non è di oggi. “Viviamo così dal 2011, dall’inizio della guerra. Qui sono passati tutti i gruppi di ribelli e terroristi, da Isis fino ad al-Nusra e Hayat Tahrir al-Sham – sottolinea il francescano -. Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono andati via o fuggiti. Molte chiese e luoghi di culto armeni e greco ortodossi sono stati distrutti o bruciati. Tra questi anche il nostro convento di Ghassanie. Siamo rimasti due frati in due conventi e cerchiamo di assistere materialmente e spiritualmente i cristiani. La vita è difficile, manca praticamente tutto, i prezzi per acquistare i beni necessari sono altissimi. Non abbiamo elettricità e acqua corrente”.
I miliziani di al Nusra hanno preso le nostre terre, anche quelle dei conventi, e hanno cacciato i cristiani dalle proprie case per dare alloggio ai loro profughi e ai loro combattenti”.
Gli aiuti ai cristiani locali arrivano dalla Custodia di Terra Santa e dalla sua ong “AtsPro Terra Sancta”: “Ogni mese – racconta padre Hanna – riusciamo a dare alle nostre famiglie, circa 260, beni di prima necessità come medicine e latte oltre a voucher per acquistare gasolio per elettricità e riscaldamento, vestiti e libri scolastici. Abbiamo organizzato anche un servizio per portare i bambini a scuola. Le scuole non danno sostegno che per il Corano, l’arabo, l’inglese e la matematica. Ai nostri alunni diamo anche altro materiale di studio ma all’insaputa dei gruppi fondamentalisti che controllano la zona. Se lo sapessero sarebbe un guaio per noi”.
Testimonianza e martirio. 
Nella tana del fronte qaedista Hayat Tahrir al-Sham questa sparuta comunità di poco più di 1000 cristiani vive e testimonia la propria fede, anche se le restrizioni sono tante. 
Le nostre celebrazioni sono tollerate solo se svolte all’interno della chiesa, ma ci è vietato esporre all’esterno croci, statue dei santi, immagini sacre, suonare campane”, spiega il parroco, che poi rivela: “Due mesi fa sono stato convocato dal tribunale religioso dove mi è stato intimato di non vestire più l’abito da frate in quanto segno religioso indicante la fede cristiana. Così mettiamo il saio in valigia quando dobbiamo muoverci e lo indossiamo nelle zone dove ci è permesso”.
Padre Hanna sa bene che questo è il prezzo da pagare da chi ha scelto di    “restare tra la nostra gente e il nostro popolo. Restiamo saldi nella fede con la nostra comunità. Qui è nato il cristianesimo, qui sono le nostre radici. A 500 metri da Knayeh, nella strada che da Apamea portava ad Antiochia è passato san Paolo. Ai fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. I nostri avi sono nati e morti qui. Così faremo anche noi”.
 “La situazione è grave – conclude padre Jallouf – ma continuiamo a pregare e sentiamo ogni giorno sentiamo la mano di Dio che veglia su di noi. Preghiamo per la pace in Siria, perché finisca questa strage inutile.   Abbiamo paura del futuro ma nel dolore e nella sofferenza viviamo un tempo di grazia”.

martedì 13 febbraio 2018

Mons. Abou Khazen, “Gesù sta patendo sulla croce per tutta la popolazione della Siria"


La drammatica testimonianza del vicario apostolico di Aleppo, mons. Georges Abou Khazen.  È un Paese lacerato quello che fra un mese entrerà nel suo ottavo anno di guerra.


S.I.R.  12 febbraio 2018

“Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Era l’agosto del 2014, quando Papa Francesco, durante il suo viaggio apostolico in Corea del Sud, pronunciava queste parole. Parole quanto mai attuali se riferite a quanto sta avvenendo in questi giorni in Siria dove si registra una escalation del conflitto dopo lo scontro tra Iran e Israele che hanno visto abbattuti rispettivamente un drone iraniano e un caccia F-16 con la Stella di David. E sebbene la guerra sia stata dichiarata conclusa dal presidente Assad e dal suo primo alleato, il presidente russo Putin, sul tavolo verde siriano le potenze regionali e internazionali continuano a giocare le loro carte: turchi, israeliani, curdi, russi, americani, iraniani, hezbollah libanesi, sauditi, i resti di Daesh e le milizie di al-Nusra. Si combatte nell’enclave curda di Afrin, a Idlib nel nord-ovest del Paese, teatro di un’offensiva governativa contro i ribelli, a Deir ez-Zor.

Bombe anche a Damasco dove fonti locali parlano di colpi di mortaio che hanno centrato il patriarcato siro ortodosso, causando morti e feriti. L’Onu ha aperto un’inchiesta relativa all’uso di bombe al cloro da parte dell’esercito regolare. Accusa respinta da Damasco. E nel risiko siriano affondano anche le tenui speranze di negoziati legate all’ultima conferenza di pace di Sochi, di fine gennaio, nella quale è stato chiesto rispetto per l’integrità territoriale del Paese e ribadito che solo il popolo siriano dovrebbe decidere la forma del proprio governo. Nella stessa conferenza è stata approvata la creazione di una commissione costituzionale con una lista di 150 partecipanti, due terzi in rappresentanza del governo siriano, un terzo dell’opposizione.
“Qui è di nuovo l’inferno. Piovono bombe e la povera popolazione siriana non smette mai di soffrire. Perché tutto questo? Quando finirà?”.
È un fiume in piena mons. Georges Abou Khazen, francescano della Custodia di Terra Santa e vicario apostolico di Aleppo. Al telefono, dalla città martire siriana, denuncia: “Ogni volta che rinasce un briciolo di speranza ecco che questo viene sepolto di nuovo dalle bombe. Ogni volta che si compiono timidi passi in avanti per la ripresa di negoziati, ecco che ci ricacciano indietro. Perché?”. Non ci sono risposte certe, l’unica, dice, “è continuare a sperare”. Ciò che sta accadendo nel Ghouta orientale, a Damasco, Idlib e Afrin è una tragedia immane. Qui secondo l’Unicef sono stati uccisi, nel solo mese di gennaio, 60 bambini e molti altri sono stati feriti durante i combattimenti in corso.

“Siamo addolorati – prosegue mons. Abou Khazen - La gente soffre e si chiede cosa accadrà. Ci sono migliaia di famiglie, donne, anziani intrappolate dalle bombe delle parti in lotta. Sono queste persone la parte più debole della popolazione. Ma soprattutto ci sono migliaia di bambini malnutriti, abbandonati, orfani, che vagano soli, che hanno bisogno di ogni forma di assistenza materiale e morale”.

Piccoli che diventano preda delle fazioni armate in lotta: “In alcune zone, soprattutto quelle sotto controllo dello Stato Islamico (Daesh) e di Al Nusra – spiega il religioso francescano – i più piccoli vengono arruolati, addestrati alla guerra e mandati a combattere”.
 Ma l’emergenza non finisce qui. “Urgono aiuti di ogni genere. In tante zone del Paese manca il lavoro, migliaia di famiglie hanno necessità di rimettere in piedi la propria abitazione per avere di nuovo un tetto sulla testa. Come Chiesa stiamo cercando di aiutare quante più persone possibile ma i bisogni sono enormi. Non abbandonateci”, dice con voce accorata il vescovo.

La tragedia siriana non conosce fine. Daesh? “Sembra essere stato sconfitto ma non è così – risponde mons. Abou Khazen – 
Daesh è il cavallo di Troia per le potenze coinvolte nella guerra.

Serve loro per spostare il conflitto da un punto all’altro della Siria, a seconda delle convenienze.

Ma non c’è solo Daesh, nel campo di battaglia siriano. Ci sono Al Nusra e tanti altri gruppi affiliati teleguidati da tutte le potenze, regionali e internazionali, coinvolte in questo conflitto per procura. Li assoldano, li addestrano e li armano: questo è il maggiore ostacolo al dialogo tra le parti siriane”.

Mai come oggi le sorti della Siria sono nelle mani di Usa, Arabia Saudita, Israele, Russia, Iran, Turchia:
“Si stanno dividendo le vesti del nostro Paese. 
Abbiamo paura di una spartizione della Siria.
È giusto che per interessi economici e politici un intero popolo debba soffrire così?”. 

“Gesù sta patendo sulla croce per tutta la popolazione della Siria, senza distinzione di etnia e fede. Siamo un corpo solo. La guerra – ricorda il vicario – ha allontanato i siriani dalle loro terre e case, metà della popolazione è profuga, centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti, almeno diecimila rapiti, spariti nel nulla e dei quali non si conosce la sorte. Cosa altro vogliono da noi queste potenze?”.



È un Paese lacerato quello che fra un mese entrerà nel suo ottavo anno di guerra.
Il pensiero del vicario apostolico va ai più giovani: “Quelli che hanno potuto, hanno lasciato il Paese.
Che generazioni future avremo se non verranno formate alla giustizia, al diritto e alla pace? Cosa ne sarà di loro? E cosa sarà della società che verrà? La speranza non deve abbandonarci perché abbiamo la certezza che il nostro destino non è nelle mani di un uomo o di una superpotenza. Il nostro destino è nelle mani di Dio, Padre provvidente.

In Lui, e solo in Lui, poniamo la nostra salvezza”.