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giovedì 4 luglio 2024

Memorie di Siria. Damasco 1997

bottega di ramai a Damasco- 1894

Di Maria Antonietta Carta

Luoghi incontrati per caso mi sfidano coi loro silenzi e con le loro penombre che custodiscono storie. E io mi lascio attirare. 

Sono le tre del pomeriggio e la calura agostana avvolge Damasco, s’insinua nelle pietre degli edifici, nell’asfalto, nelle foglie delle svettanti palme del quartiere Abu Rummane e nell’acqua del fiume Barada. Le mie gambe si trascinano nella città estenuata per il torrido splendore del sole. Finalmente arrivo a un suq quasi deserto. Devo trovare un regalo da spedire domani in Italia per l’anniversario di nozze dei miei genitori, e ho pensato di donargli per l’occasione - o imporgli? - un pezzetto del mio mondo lontano dal loro. 

Ecco la bottega di un ramaio, forse l’unica bottega di ramaio a Damasco che non conosco, benché vi sia passata davanti molte volte. Adesso sembra invitarmi a entrare. Ancora stordita dalla camminata nell’abbacinante solleone, varco la soglia. La stanza è un tacito vuoto buio e io mi smarrisco in quest’oscurità quieta, finché un rumore  mi fa tornare alla realtà. Gli occhi ancora ciechi non riescono a capire, ma immaginando il ramaio al lavoro saluto voltandomi verso il rumore.

La pace sia su di te. – dico.

Su di te sia la pace. – risponde una voce. Poi torna il silenzio. Un silenzio che giunge dalla corte assopita, dall’aria affaticata, da tutta la città in attesa del soffio di brezza che la sera dell’oasi porta sempre con sé. I miei occhi stanno tornando a vedere e la bottega, che riceve soltanto una luce fioca dalla porta d’ingresso, mi appare adesso velata di penombra. Riesco a scorgere il ramaio che siede su uno sgabello basso in fondo alla stanza. Mi avvicino. L’uomo, anziano, ma di un’età indefinibile, ha il capo chino su un grande vassoio di rame che le sue mani, mani attente, preparano per l’incisione. Solleva la testa e mi rivolge uno sguardo distratto o forse indifferente o forse un poco infastidito. Non sembra ciarliero. Strano! Gli artigiani damasceni sono di solito loquaci e accoglienti. Neppure io mi sento di ottimo umore. Sono stanca, disidratata, impolverata.

Poco a poco la penombra fresca, che il tenue riverbero dei metalli rende ancora più accogliente e riposante, mi ristora. Comincio a cercare tra l’infinità di oggetti accatastati sul pavimento o appesi alle pareti fino al soffitto: incensieri, bracieri, aspersori per l’acqua di rose, caffettiere e boccali dalle forme soavi, piatti e vassoi arabescati. Osservandone le decorazioni mi lascio prendere da uno dei miei giochi preferiti: cercare simboli, scoprire linguaggi che traducono fedi o speranze.

Ecco degli zig-zag che disegnano l’acqua: principio di ogni cosa. Ecco la rosetta di Astarte: fonte della vita divina, linfa della natura e della donna. Ecco volute intrecciate: oceano primordiale, mare metafisico. Ecco la pianta e la croce: sigilli universali. Ecco spirali: l’essenza dell’Universo, labirinto del cosmo o dello spirito, principio e fine, vita e morte. Ecco fiori di loto: porte che introducono all’ignoto. E ancora e ancora segni arcaici mai completamente svelati. Ecco il nome di Dio, tracciato con ricercate calligrafie che diventano un solenne tributo all’insondabile. Potrei trovarmi in una bottega di tanti secoli fa. Una di quelle botteghe di ex-voto che prosperavano in prossimità degli antichi luoghi di culto. Non finiranno mai di affascinarmi questi disegni forse nati con l’uomo e che in questa parte della terra, spesso, sembrano essere, ancora, inconsapevolmente chiari. Il ramaio inizia a incidere il vassoio. Io seguito a vagare nella costellazione di simboli scolpiti nel rame, commentando a voce alta. «Nemmeno mi sente.» penso, vedendolo sempre intento al suo lavoro. Invece, a un tratto egli solleva la testa e si mette a osservarmi. Adesso si alza, si avvicina, cerca tra un mucchio di ciotole di rame. Cerca a lungo, senza impazienza finché senza impazienza ne raccoglie una delicatamente, come se si trattasse di un oggetto troppo fragile e infinitamente prezioso. Si volta e me la mostra sollecitando la mia attenzione con lo sguardo. Senza dire una parola. La ciotola nelle sue mani è una di quelle che si adoperano negli hammam per rovesciarsi addosso acqua fresca, quando il vapore cocente diventa insopportabile e il corpo ansia un poco di refrigerio. Appena comprende che sono attenta, la colpisce con il bulino e onde, onde morbide di suoni limpidi, si spandono nella stanza muta, mi avvolgono, mi conducono lontano. Lontano dai pensieri. Per un tempo lunghissimo. Poi, svaniscono.

È una ciotola dei jinn. – mi confida il ramaio, nel nuovo silenzio.

Ah! I jinn. – dico io senza sorprendermi.

Da quando, anni fa, cominciai a occuparmi di cultura popolare, addentrandomi nel mare sconfinato delle fiabe e delle leggende siriane, l’anima di questa regione del mondo sembra condurmi spesso, a mia insaputa, presso quelli che mi diverto a chiamare i suoi archivi viventi. Nelle città, nei villaggi, negli accampamenti dei nomadi, accanto a siti antichi e presso le rive dell’Eufrate e dell’Oronte ho incontrato persone che sembravano attendermi per raccontarmi storie.

Nel mio quartiere, quando ero bambino, c’erano il palazzo e l’hammam del re dei jinn. Li hanno distrutti per fare case nuove. Non resta quasi niente. Se l’Unesco l’avesse saputo, forse li avrebbe protetti. – mi dice il ramaio, con la disarmante innocenza di un bimbo ancora innocente. E la sua voce rivela il rimpianto per il vecchio quartiere della sua infanzia.

Io non ho paura dei jinn – continua – neanche di notte quando i jinn escono da sotto terra, si mettono a girare per casa e si arrabbiano se li disturbi. Bene! Io mi alzo al buio tranquillamente. Entro in bagno e in cucina senza temere. Gli hammam e tutti i luoghi in cui vi è dell’acqua sono affollati di jinn durante la notte, quando gli uomini dormono. Lo sai? Succede anche che, talvolta, mentre lavoro non trovo un utensile che un momento prima avevo in mano. Non perdo tempo a cercarlo. Sarebbe inutile. So che l’hanno preso loro. Evidentemente ne hanno bisogno. O vogliono giocarci. So che lo rimetteranno al suo posto, quando vorranno rendermelo.

Il ramaio ha smesso di parlare e aspetta. Aspetta, lo so, che anch’io gli confidi qualcosa.

Capita anche a me con una penna o un foglio di carta o un libro. Talvolta scompaiono proprio quando ne ho bisogno. Erano davanti a me e d’improvviso svaniti! Prima impazzivo a cercare. Poi ho imparato a fare come te: mi prendo una tregua – gli dico, pensando divertita ai miei invisibili e dispettosi folletti della distrazione. O dell’immaginazione? Forse i jinn m’infastidiscono ma anche mi aiutano, quando mi arriva un’idea che stavo aspettando di avere.

Mi diresti un racconto di jinn? – chiedo. Glielo chiedo con voce rispettosa perché, da queste parti, i jinn, buoni e cattivi, sono davvero, per fede, vivi e veri. Creature a cui si deve riguardo. Esseri che bisogna lasciare tranquilli o temere. Arcani a cui bisogna testimoniare lo stesso timore sacro che un tempo tutti gli uomini dovevano avere per la Natura e per il mondo dell’immaginazione. Lo stesso mondo nel quale forse, inconsapevoli, siamo tutti immersi?

Sì. – mi risponde indicandomi una seggiola e mettendo da parte il suo vassoio, perché raccontare una storia significa oltrepassare una soglia, iniziare un viaggio, celebrare un rito, e richiede dedicazione assoluta. 

Banconota siriana del 1977 con l'immagine della moschea degli Omayyadi  e l'effigie di un ramaio che incide con il bulino un grande vassoio di rame  

«Un re di un regno antichissimo ha quattro figli: tre femmine e un maschio» 

Il numero: l'essenza di tutta la realtà, le Madri, penso, lasciandomi attrarre dalla storia. 

Il ramaio vede svegliarsi la mia curiosità e i suoi occhi approvano.

Va bene? – mi chiede.

Si, si, vai avanti – dico, ed egli riprende il suo racconto. 

«Per il figlio del re, sorella mia, arriva il tempo del matrimonio. Gli trovano una bellissima ragazza. Si preparano le nozze. La ragazza va all’hammam, dove la massaggiano con unguenti, le colorano le dita e i capelli con la henna, le mettono un abito bello.»


La rossa henna la proteggerà dagli spiriti invidiosi.


«Si fanno le nozze con una grande festa. Cento montoni arrostiti, dolci, datteri.»


A me tornano in mente alcuni versi dell’Epopea di Gilgamesh, incisi in una tavoletta cuneiforme nella Mesopotamia di 5.000 anni fa. ‘’E t’innamorasti d’Ishullanu, giardiniere di tuo padre, che a sporte ti portava i datteri, e ogni giorno una splendida mensa t’imbandiva.’’


«Musica, giostre di cavalieri, e danze. Gli sposi entrano in casa. Lui prende la ragazza e la fa sua. Però, questo figlio del re del regno antichissimo sogna una nuova vita. Si! Una nuova vita. Una vita in un altro Paese. E appena arriva l’alba, lascia la casa del padre con sua moglie per cercare un’altra terra. Viaggiano per molte Lune. Cavalcano a lungo nella steppa cercando il luogo adatto. Finché un giorno Dio li fa giungere al posto giusto. Ci sono le palme e un pozzo e un mare d’erba. L’oasi! Sia benedetto l’Altissimo! Il figlio del re ferma il suo cavallo e dice:

Ecco il Paradiso! Questa sarà la nostra patria.

Va bene, o mio signore. – dice sua moglie.

Piantano la tenda. Cenano. Si mettono a dormire nella loro casa.»


La casa di lana bruna. La dimora dell’errante

«Da questo momento, il figlio del re vive una nuova vita. Ogni giorno si alza all’alba e va a caccia nella steppa con il suo falcone. Torna al tramonto. Presto, però, desidera conoscere altri luoghi. Ricomincia il viaggio. Percorrono molte piste. Finché, un giorno, giungono a un accampamento.»


Che ne pensi, sorella mia? Beviamo una tazza di tè? – mi chiede il ramaio.

Beviamola, fratello.

Il tè dolce e denso ha il colore del sole al tramonto e odora di cannella. Lo sorseggiamo in silenzio dai piccoli bicchieri di vetro così caldo che brucia le dita, e intanto il mio sguardo vagabonda tra i metalli scolpiti. I muezzin chiamano alla preghiera del vespro.

Allaaah u-Akbar, Allaaaah u-Akbar!

Dio è il più Grande, Dio è il più Grande!

La salmodia si leva in volo dai minareti, aleggia nell’aria, ridiscende sulla città. Le voci oranti sembrano arrivare da ogni parte. Per rispondere al richiamo, il ramaio posa il bicchiere sopra un minuscolo banchetto traballante, passa le mani, nel gesto di un lavacro rituale, sul suo volto intenso di credente e rivolge i palmi verso il cielo:

Nel nome di Dio Benevolo e Misericordioso. – dice. Poi recita i sette versetti della fatiha. Il Padre Nostro dell’Islam.


La lode spetta a Dio il Signore dei mondi,

Il Benevolo, il Misericordioso,

Re del giorno del Giudizio.

Te solo adoriamo. Te solo invochiamo a nostro soccorso.

Guida i nostri passi verso il retto sentiero.

Il sentiero di coloro verso i quali sei stato benevolo,

Che non hanno meritato la tua ira, che non hanno deviato.

Amin. Conclude. Così sia.


Il canto dei muezzin risale verso il cielo e si dissolve. Il tè è ormai tiepido.

Dov’eravamo rimasti? Chiede il ramaio

Il figlio del re e sua moglie arrivano a un accampamento. – rispondo.

Ah, sì, sì.


« Il figlio del re e sua moglie arrivano a un accampamento. Sono accolti con tutti gli onori dovuti agli ospiti. Gli porgono cibo e acqua. Quel giorno l’accampamento è in festa. I cavalieri giostrano, le donne danzano. Anche la moglie del figlio del re entra nella danza.»


La danza è il teatro dei miti e dei misteri.

il viaggio attraverso il labirinto

L’incessante turbinio del mondo.


«Il figlio del re dice a sua moglie: – Vado a caccia. Tu divertiti. Qui sarai al sicuro. – È ancora giorno e la luce illumina ogni cosa, ma appena egli si allontana, sull’accampamento discende una nube nera. È una nube portata da un tornado. Una nube tenebrosa che abbuia e sconquassa il mondo! Oh Dio! Che il Signore misericordioso ci risparmi una simile sventura! Tutto accade in un istante. È giorno, ma fa buio come di notte. Una notte di furia che annienta l’accampamento. Tutto accade in un istante: giorno e notte insieme. Poi, torna il sereno, ma ogni cosa è distrutta. Si! Ogni cosa è distrutta. E la moglie del figlio del re non c’è più! È scomparsa! Tutti la cercano. Invano. Torna anche il figlio del re e vede quella devastazione. Vede i nomadi annichiliti, ma sua moglie non c’è!

Dov’è mia moglie? – chiede.

È venuto l’uragano e l’ha portata via. – gli dicono.

Come?! Impossibile.

Per Dio! È la verità. Nessun essere vivente si è avvicinato al nostro accampamento. – gli rispondono.

Andrò a cercarla. – dice il figlio del re. – La cercherò nelle quattro regioni del mondo, se necessario.

Torniamo adesso nel regno antico, e vediamo cosa vi accade.

Un giorno arriva uno straniero, vede la sorella maggiore del figlio del re, gli piace, la chiede in moglie, si fanno le nozze e la porta via. Il giorno dopo arriva un altro straniero, s’innamora della seconda sorella, vuole sposarla, si fanno le nozze e la porta via.

Il terzo giorno passa da lì un altro straniero, vede la terza sorella, gli piace, la chiede in moglie, si fanno le nozze e la porta via.»


Tre è il numero magico delle fiabe e dei sentieri che conducono al mondo invisibile.


«Adesso, torniamo dal figlio del re che cerca sua moglie. Cammina e cammina, finché arriva in un Paese sconosciuto. Cerca, cerca, e arriva in un giardino. Nel mezzo del giardino c’è un palazzo. E chi vedono i suoi occhi? La sorella maggiore!

Cara sorella! Che cosa fai qui?! – le chiede, sorpreso.

Ho sposato il re dei Venti. Questo è il suo regno. E tu, caro fratello? Cosa ti porta da queste parti?

Ho perso mia moglie e la cerco. – dice il fratello. Mentre si scambiano queste informazioni si ode un fragore che fa tremare la terra.

Presto! Devi nasconderti! Arriva mio marito, che mangia carne umana. – dice la principessa al fratello, e lo nasconde in un armadio. Entrato in casa il re dei Venti dice:

Sento odore di carne umana.

Non c’è nessuno. – dice sua moglie.

Ti assicuro che c’è una creatura umana. – dice il re dei Venti. La poverina deve confessare:

Signore, in verità c’è mio fratello dentro l’armadio.

Come! Il mio caro cognato ci visita e tu lo nascondi?

Avevo paura che l’avresti mangiato.

Fallo uscire. – Il principe esce dal suo nascondiglio.

Come mai da queste parti? – gli chiede il re dei Venti.

Ho perso mia moglie, e la cerco.

Raccontami la tua storia. – dice il re dei Venti e il figlio del re racconta la sua storia.

Povero te! Da ciò che mi hai detto deduco che ti attendono prove terribili. Il rapitore di tua moglie è il Signore dalle tre gambe, il re dei jinn infedeli, l’imperatore del Mondo – dice il re dei Venti.

Lo cercherò per liberarla. – dice il figlio del re.

Sei pazzo? Nessuna creatura umana può riuscirci. Nessuna creatura è più forte di lui, ma se proprio sei deciso a continuare nella tua impresa ti accompagno da mio fratello, che è il re dei Mari e anche tuo cognato. – gli dice il re dei Venti. E lo porta in un Paese sconosciuto. Lì, cammina e cammina il figlio del re arriva a un giardino dove trova la seconda sorella, che gli chiede:

Come mai da queste parti, caro fratello?

Hanno rapito mia moglie e la cerco. – risponde. In quel momento, si sente un muggito spaventoso!

È mio marito! Il re dei Mari, che mangia carne umana! – dice la principessa a suo fratello e lo nasconde in un armadio. In verità, appena entra in casa, il re dei Mari dice:

Moglie! Sento odore di carne umana.

No. Ti sbagli. Non c’è nessuno. – dice la principessa.

Invece sì, c’è un uomo.

No.

Sì. – e va a finire che il re dei Mari trova il figlio del re, ma non lo mangia; anzi, gli fa una grande accoglienza.

Come potrei nuocere al fratello di mia moglie! – dice.

Cosa ti ha portato da noi, caro? – gli chiede.

L’imperatore del Mondo ha preso mia moglie e devo liberarla. - dice il figlio del re.

Se il re dalle tre gambe ha rapito tua moglie, nessuno può portargliela via, ma se tu vuoi, ti accompagno da mio fratello, il re delle Aquile, che è anche tuo cognato. Dopo averlo sentito, deciderai se continuare o no.

Va bene. – dice il figlio del re. E il re dei Mari lo conduce in un Paese sconosciuto, dove trova un giardino che ha al centro un palazzo. Nel giardino trova la terza sorella, che gli chiede:

Caro fratello, come mai da queste parti?

L’imperatore del Mondo ha preso la mia sposa e io cerco il suo regno per liberarla. – risponde. In quel momento sopra di loro il cielo comincia a tremare.

Arriva mio marito! Il re delle Aquile, che mangia carne umana. – gli dice la sorella, e lo nasconde nell’armadio. Tutto accade come le altre due volte.

La tua è un’impresa impossibile. Nessuno può vincere l’imperatore del Mondo, però, se lo desideri, ti porto alle frontiere del suo regno. Di più non posso. Ma devi fare attenzione! Appena trovi tua moglie, fuggite senza mai fermarvi e senza mai voltarvi. – dice il re delle Aquile.

Va bene. – dice il figlio del re. E il re delle Aquile lo porta ai confini del mondo. Alla porta di una grotta.»


La porta che introduce al regno nascosto. Il Paese delle ombre


«– Da qui si passa nel regno del re dei jinn infedeli, l’imperatore del Mondo. – dice il re delle Aquile. E se ne va. I figlio del re entra nella grotta, cammina e cammina finché arriva a un luogo desolato. E cosa vedono i suoi occhi? Un palazzo che sembra nascere dalle viscere della terra! É' il palazzo in cui l’imperatore del Mondo ha imprigionato la principessa. Entra e la trova legata con la testa in giù. Devi sapere che l’imperatore del Mondo l’ha legata in questo modo perché non vuole fare all’amore con lui. Il figlio del re la libera e insieme corrono a rifugiarsi nel Paese del re delle Aquile.

Vedi che sono riuscito? – dice il figlio del re a suo cognato.

Correte senza fermarvi e non dovete mai voltarvi. - lo avverte il re delle Aquile. Corrono. Corrono a lungo. Corrono finché la paura di essere ripresi non li fa voltare e l’imperatore del Mondo li raggiunge.

Credevate di farla franca, poveri stupidi? – dice. Poi afferra il figlio del re, lo scaglia verso il cielo e gli porta via la moglie. Il corpo del figlio del re ricade a terra in venti pezzi. Un domestico del palazzo del re delle Aquile, passando di lì, vede i pezzi del corpo del principe e informa la padrona. Lei chiede aiuto al marito, che le dice:

Portali e bagnali alla sorgente della vita. – Nella sorgente della vita, tutti i pezzi del corpo tornano a unirsi tra loro e il figlio del re risuscita. Esce vivo dall’acqua. Vivo!

Vado a riprendere mia moglie. – dice il figlio del re.

L’imperatore del Mondo ti ucciderà, fratello! – lo avverte sua sorella.

Sono pronto a tentare l’impossibile. – le risponde.

Quando arriva nel regno proibito, l’imperatore del Mondo è a caccia. Il figlio de re libera sua moglie e insieme fuggono via. Questa volta corrono senza mai voltarsi fino al regno del re dei Venti.

Mi raccomando! Correte senza mai fermarvi. – li avverte il re dei Venti. Essi corrono, corrono finché, troppo stanchi, si fermano per riposare all’ombra di un albero. E lì trovano ad aspettarli l’imperatore del Mondo!

Credevate davvero di potervi salvare? – dice l’imperatore del Mondo, che scaglia il figlio del re verso il cielo e si riprende la principessa. Il corpo del figlio del re cade al suolo in venti pezzi. Un abitante del palazzo, passando di lì, vede tutto e ne informa la padrona. Lei chiede aiuto al marito e anche il re dei Venti consiglia di bagnarli alla sorgente della vita. Il principe risuscita per la seconda volta. Il re dei Venti gli dice:

C’è una sola maniera per riuscire nell’impresa. Potresti farcela, ma devi trovare lo spirito dell’imperatore del Mondo. Fai cosi: dì a tua moglie di essere cortese con lui e di farsi rivelare dove lo nasconde. Appena saprete dove si trova, cercate di rubarglielo. – Il figlio del re torna dalla moglie, le racconta tutto e lei, quella sera stessa, dice all’imperatore del Mondo:

Caro! Sarò tua, ma a una condizione.

Quale?

Devi dirmi dove si trova il tuo spirito.

È qui – dice l’imperatore del Mondo, mostrandole un armadietto. L’indomani, appena l’imperatore del Mondo esce per andare a caccia, lei coglie dei fiori e ne orna l’armadietto.

Che cosa hai fatto! – le chiede l’imperatore del Mondo, al suo ritorno, vedendo quei fiori.

Ti amo e voglio prendermi cura del tuo spirito.

Quanto sei sciocca! Davvero credi che potrei lasciare indifeso il mio spirito? Però, adesso so che mi ami e voglio rivelarti un segreto. Il mio spirito è custodito da un maiale. Si trova nella sua pancia. Questo maiale è quasi invulnerabile. Può morire soltanto se si colpisce un neo che ha sulla faccia.»


Il neo! La macchia oscura. Il segno del disfacimento.


«Informato dalla moglie, il figlio del re trova il maiale, colpisce il neo con una freccia, uccide il maiale, gli apre la pancia e trova una scatola.»


Nelle fiabe, le scatole racchiudono prove difficili.


«Dentro la scatola ne trova un’altra, e dentro la seconda un’altra ancora! E un’altra e un’altra, fino a sette. Sette scatole una dentro l’altra! Sorella, potresti mai indovinare cosa trova in fondo all’ultima scatola? Un verme!»


Il verme, l’infima degradazione. E il rinnovamento


«Il figlio del re del regno antico lo prende, e cerca di schiacciarlo con le sue mani, ma il verme non muore. Allora lo mette in tasca e torna al palazzo. Torna anche l’imperatore del Mondo che sembra mezzo morto.

Non sto bene. – dice gettandosi sul letto.

Vuoi una tisana? – gli chiede la principessa.

Voglio soltanto dormire. – dice lui.

Va bene caro. – dice la principessa.

Il figlio del re schiaccia ancora il verme, ma l’imperatore del Mondo non muore. Allora, fugge con sua moglie. Corrono senza fermarsi e senza voltarsi mai fino al regno del re dei Mari.

Che cosa succede? – chiede il re dei Mari, vedendoli arrivare. Il figlio del re del regno antico racconta tutto.

Stai attento a non perdere il verme! L’imperatore del Mondo guarirebbe.

Non lo perderò. – dice il figlio del re, ma sua moglie, curiosa, per osservarlo meglio prende il verme in mano. Questo le sfugge e si getta nel mare. Appena il verme entra nell’acqua, l’imperatore del Mondo si alza dal letto guarito, li raggiunge per la terza volta, uccide e fa a pezzi il figlio del re, e gli porta via la moglie. Intanto, un pesce trova il verme e lo mangia. Ma il re dei Mari pesca il pesce che ha mangiato il verme. Il re dei Mari trova il verme nella pancia del pesce e lo rende a suo cognato, che risuscitato ancora una volta alla sorgente della vita torna al palazzo dell’imperatore del Mondo per riprendersi la moglie.

Dov’è il mio spirito? – chiede l’imperatore del Mondo appena lo vede.

Nella mia mano. – dice il figlio del re.

Rendimi lo spirito e tieniti pure tua moglie. – gli dice l’imperatore del Mondo.

Va bene. – concede il figlio del re, ma mentre glielo porge il verme cade a terra! Il verme cade a terra poi entra in una gamba dell’imperatore del Mondo. L’imperatore del Mondo muore. Il figlio del re e sua moglie se ne vanno.»


Il ramaio ha smesso di raccontare.

Termina così? – gli chiedo. Proprio come quando, da bambina, esortavo mia madre a raccontarmi epiloghi più esaurienti, che preparassero il commiato dalla fiaba; che mi riconducessero il più lentamente possibile alla realtà.

Si. – dice il ramaio.

Chi è l’imperatore del Mondo secondo te?

Mia cara, chissà! Ognuno vede o crede quel che gli conviene. – conclude riprendendo in mano il vassoio a cui lavorava quando sono entrata nella bottega e che aveva messo da parte per raccontarmi la storia. Lo osserva attentamente il suo vassoio, poi ricomincia a inciderlo. Io riprendo a cercare il regalo per i miei genitori. Vedo un vassoio con il bordo decorato da due anelli. Uno, dorato, è scolpito con piccolissimi crescenti lunari che al loro interno hanno una minuscola losanga con un punto e affiancata da due triangoli. L’altro, argenteo, racchiude una miriade di piccolissime spirali. Dal centro del vassoio nascono dodici grandi petali, color dell’oro e dell’argento, che creano, alternandosi, due rosette a sei petali. I petali argentati recano piccoli poligoni in rilievo che formano un intricato labirinto. I petali d’oro, che racchiudono al loro interno foglie e fiori minuscoli, sembrano giardini. Le due rosette sono immerse in un campo di fiori di loto. È un oggetto troppo esagerato, troppo complicato. Ne guardo altri molto più semplici. Come piacciono a me. Li ammiro, ma torno al vassoio con le due rosette gemelle che brillano come il sole e come la luna illuminata dal sole. Lo compro. Il ramaio e io ci congediamo.

Bkhatrak. Col tuo permesso – lo saluto

Maasalameh. Addio. – mi risponde.

Prima di allontanarmi, osservo ancora una volta le sue mani che scolpiscono il metallo. Sta disegnando delle lettere alfabetiche: aleif…lam…lam…ha… Allah: Dio in arabo. Forse, inciderà nel rame una formula apotropaica. O forse una preghiera.

Tornando a casa, passo davanti alla moschea Suleimanyeh, con le sue numerose cupole e i sottili minareti svettanti. Il sole a Occidente é quasi nascosto dal Jebel Qassium, che sovrasta la città e dove, secondo una leggenda, Caino uccise Abele. Più in alto la luna appena nata quasi si confonde con il cielo ancora azzurro, che però si sta preparando ad accogliere il crepuscolo vespertino. Quanto è lontana questa luna diafana come un bioccolo rotondo di nuvola leggera! É percettibile appena nella luce del sole che se ne va, ma fra poco splendidamente argentea essa adornerà la notte sopra Damasco. E, forse, fra qualche respiro, il nero tornado che abbuia e sconquassa il mondo, e che in questa sventurata regione si chiama guerra, tornerà per ingoiarsi tutto questo. Poi tutto ricomincerà. Forse. 

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