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mercoledì 19 febbraio 2020

Libano, terra di santi... anche italiani.

 Padre Romano Bottegal  (28 dic 1921- 19 febb 1978) 
e l'offerta della vita per la pace in Oriente

L’“eremita missionario”, come è stato chiamato, figura monastica fuori dell’ordinario e grande mistico, la cui fama di santità si sta sempre più allargando, nasce, ultimo di sei figli, a san Donato di Lamon (Belluno) nel 1921, in una famiglia di condizione molto modesta. Dopo le scuole elementari, il piccolo Romano entra nel seminario minore di Feltre e poi in quello maggiore di Belluno, dove ha come vice-rettore don Albino Luciani, il futuro papa Giovanni Paolo I, che lo apprezza molto e lascerà di lui una testimonianza significativa. 
Durante gli anni di teologia matura una forte vocazione monastica, ma i suoi superiori ed il direttore spirituale gli consigliano di aspettare l’ordinazione sacerdotale, che riceve il 29 giugno 1946. Dopo l’ordinazione lascia la diocesi ed entra nell’abbazia delle Tre Fontane, a Roma. Qui fa la professione solenne nel 1951, segue dei corsi all’università Gregoriana, dove nel 1953 ottiene la licenza di teologia, ed è maestro dei fratelli conversi, cantore, poi maestro dei novizi e priore. 
Nel 1961 risponde all’appello dell’abate di Latroun, in Israele, che cercava dei volontari per realizzare in Libano una fondazione trappista di rito maronita e partecipa a questo tentativo, iniziando a studiare l’arabo, il siriaco e la liturgia orientale. Nel mese di dicembre del 1963, dopo che il progetto libanese non riceve l’approvazione del capitolo generale dell’Ordine, lascia il Medio Oriente e rientra alle Tre Fontane, dove, l’abate, che conosce la serietà del suo impegno monastico e la sua virtù interiore,  gli permette di condurre una vita solitaria nel territorio del monastero. Poco più tardi, però, quando il nuovo superiore pensa di non potergli più concedere di continuare la sua esperienza di vita solitaria nella sua comunità, P. Romano, che ha ormai la certezza della chiamata del Signore a una vita più austera e solitaria, domanda alla Santa Sede un indulto di esclaustrazione, che gli viene accordato, per poter condurre vita eremitica. 


Dopo un tempo di ricerca, parte per il Libano, mettendosi sotto l’autorità del vescovo melkita di Baalbek e vivendo in vita solitaria a Jabbouleh, in un eremitaggio appartenente alla diocesi. Qui condusse una vita molto austera, con un regime alimentare appena sufficiente, senza mai riscaldamento, né mobili, né alcun agio. 
Il suo eremo era formato da 4 minuscole celle: l’oratorio, il dormitorio, la cucina, il deposito e luogo di lavoro. Il suo letto consisteva in assi di legno poste su blocchi di cemento, come materasso aveva un pagliericcio e per coprirsi una vecchia coperta di lana. Nella cucina c’era una caminetto rudimentale a legna su cui faceva cuocere delle gallette di pane e un po’ di riso o grano. Per vestirsi una sola tonaca bianca da monaco trappista che gli serviva anche per celebrare la Messa, e per il lavoro un abito di canapa che si era cucito da sé. Rifiutava tutti i doni, dicendo che doveva provvedere lui stesso alle sue necessità. 
La penitenza, però, non lo indurì, anzi, era gioioso, sorridente, amabile pieno di amore e anche di tenerezza. Tutti i testimoni parlano della sua gioia e dell’irradiazione della presenza del Signore dal suo volto, frutto anche di qualche esperienza mistica, di cui ha conservato un geloso segreto, ma che traspare chiaramente dai suoi diari. P. Romano ha vissuto in mezzo ai musulmani, semplicemente pregando e perdonando. Si racconta che, arrestato nella notte da dei soldati siriani che avevano invaso e saccheggiato il suo eremo, sospettandolo ingiustamente di spionaggio, lì perdonò di cuore e fu subito rilasciato dal comandante musulmano, che poi si raccomandò alle sue preghiere. Era convinto che il miglior apostolato in mezzo ai musulmani fosse una vita povera, di preghiera, di lavoro e che la sua missione in mezzo a loro era di vivere solo, ma vicino a loro più povero di loro, aiutandoli e amandoli. Colpito dalla tubercolosi e sfinito dalle privazioni, P. Romano si spense il 19 febbraio del 1978, all’età di 56 anni, all’ospedale di Beirut, dopo 32 anni di vita monastica, di cui 14 passati in solitudine. Il Capitolo generale del 1999 ha approvato l’inizio della causa di beatificazione, Papa Francesco l’ha dichiarato Venerabile il 9 dicembre 2013.
È stato scritto che se “la sua austerissima vita è difficilmente imitabile, la semplicità e l’unificazione da lui raggiunte sono invece il cammino normale di ogni ricercatore di Dio”. L’archimandrita Hanna Naddaff ha testimoniato di lui: «P. Romano mi impressionava molto per la sua semplicità: semplicità di cuore, d’anima, di mente; penso che questa semplicità fosse il risultato dello spogliamento totale nel quale viveva. A lui importava solo Dio, tutta la sua vita era orientata a Dio: viveva senza preoccupazioni, come un bambino. Mi sembra che guardasse con gli occhi di un bambino, amasse con il cuore di un bambino, ammirasse con lo spirito di un bambino, pregasse con la fiducia di un bambino». In una lettera del 5 ottobre 1974 lo stesso P. Romano spiegava il senso della sua vita monastica: «La vita eremitica da me concepita non era tanto il vivere solo, ma vivere meglio la regola da me professata nel suo spirito di amore, di regalità, di umiltà, di obbedienza, di silenzio, di povertà, di lavoro, di astinenza e digiuno, di preghiera, sì da realizzare più che possibile la vita fervorosa della Chiesa, la vita fervorosa della vita monastica che si ha in una vita quaresimale e pasquale».
Sr. Patrizia – Monastero Trappiste di Valserena

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