Storie siriane 2018 (5)
raccolte da Marinella Correggia
L'Ordine.La Provincia , 16 dicembre 2018
«La
nostra storia millenaria ci aiuterà». Fra mosaici da primato, beni
archeologici da restaurare, energia fotovoltaica
per la ricostruzione, e
l’agricoltura che chiede pace
Trovare
posto nel Guinness per
aver realizzato il mosaico murale più grande al mondo con materiali
di recupero merita vivi complimenti eco-artistici. Ma ecco il vero
primato mondiale: gli artefici siriani di questa opera di 720 metri
quadrati nel quartiere di al Mezzeh a Damasco hanno fatto tutto in
piena guerra. Nelle strade damascene, dopo il 2013, fra tante
esplosioni belliche sono nati sette lunghi mosaici, un caleidoscopio
di colori, fantasia e speranza. Pezzi di piastrelle, tazzine rotte,
bottiglie, tubi, ruote di bicicletta, pezzi metallici elettronici,
chiavi e chiodi: scovati qui e là e portati in dono di cittadini.
Arte partecipata.
«Nelle
difficili condizioni in cui versava la città, abbiamo voluto offrire
un sorriso e mostrare l'amore dei siriani per la vita, la creatività
e l'arte. L'opera è iniziata nell'ottobre 2013 e a gennaio 2014
avevamo finito» spiega l'artista
Moaffak Makhoul, coordinatore del lavoro. Maglietta e pantaloni neri,
fa da guida nella biblioteca del museo di Damasco per l’educazione
a sua volta ricca di pitture murali e arredata all’insegna del
recupero. Anche bellico, in un certo senso: «In
questi scaffali hanno trovato accoglienza libri profughi dalle scuole
che sono state evacuate prima dell'arrivo di gruppi armati che le
occuparono, a Muhadamya, Ghouta, Daraya».
Fuori
dal silenzio bibliotecario, il traffico rumoroso e intenso provoca la
una domanda: Come fanno i siriani a mantenersi l’automobile, dopo
sette anni di guerra che hanno provocato inflazione e impoverimento?
La giovane agronoma Dima Hassan – un po’ il nostro Viriglio, in
Siria… - non ha l’auto e vive modestamente con il suo salario
che con la svalutazione della lira siriana equivale a 30 euro, ma
tenta questa risposta: «O
hanno parenti all’estero, o fanno tre lavori, una situazione ormai
comune qui, o stanno dando fondo ai risparmi di prima della guerra».
Chi si esaspera per gli ingorghi pensa al progetto di metropolitana:
«E’
vecchio di venti anni; è così difficile scavare? Si potrebbe
affidare l’opera a Jaysh al Islam e agli altri mercenari che in
pochi anni, trincerati nell’area di Ghouta orientale hanno scavato
chilometri di tunnel per assicurarsi gli approvvigionamenti in armi e
materiali!»
Davanti
alla scuola d'arte Abdel Hader,
vicina alla biblioteca, le due sorelle artiste Rajab
e Safa Wabi siedono davanti a un
alto muro decorato in rilievo. «Abbiamo
iniziato, con diversi allievi, l'arte di strada nel 2011,
contemporaneamente alla crisi poi sfociata nella guerra. E non
abbiamo smesso nemmeno sulla testa del quartiere piovevano colpi di
mortaio che provenivano provenienti dalle aree fuori Damasco in mano
ai gruppi armati» spiega la sorella
più giovane, mentre l'altra prosegue, allungando il braccio verso un
vicino edificio: «Ecco, là cadde un
missile. Lavorando
per strada, non avevamo proprio nessun riparo! Ma il nostro lavoro
attirava magneticamente tante persone, adulti e bambini, e questo ci
era d’aiuto».
Si
avvicinano zampettando due tortorelle, o forse sono, in piccolo e in
marrone screziato di bordeaux, la versione damascena dei nostri
piccioni. Le artiste indicano le colombe di sabbia e cemento posate
sulla cima del muro: «Le abbiamo
messe come simbolo di pace».
Una
pace che non c'è ancora in Siria, dove tanti fronti si sono chiusi
ma altri si sono riaperti. Di certo nelle aree maggiormente colpite
dal conflitto, invece dei mosaici ci sono macerie. Per
la ricostruzione post-bellica, un'opera titanica, si stima un costo
di 470 miliardi di dollari. La
macchina si è già messa in moto con la riabilitazione di edifici di
pubblica utilità e di spazi privati, preceduta dalla rimozione delle
macerie. La fondazione dell'Aga Khan sta già sostenendo il
ripristino del patrimonio storico architettonico, a cominciare
dall'enorme suq di Aleppo e di altri monumenti della Città vecchia.
Una
buona notizia è che l'immensa quantità di macerie sarà in parte
destinata al riciclo («sono già al
lavoro, oltre alla macchina governativa siriana, i cinesi»,
assicura Mohamed Merie, traduttore siriano che viveva in Spagna e che
decise di tornare nel suo paese nel 2014, nel pieno della crisi).
Un riutilizzo che fa il paio con un piccolo ma significativo progetto ad Aleppo. Il gruppo di volontari cristiani Maristi blu, fra i tanti progetti di riabilitazione ne ha uno chiamato Heart Made, che pratica l’up cycling senza chiamarlo così, come spiega uno dei responsabili del progetto, Leyla Antaki: «Ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. Poi con i ritagli, le maniche, i jeans facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle».
Un riutilizzo che fa il paio con un piccolo ma significativo progetto ad Aleppo. Il gruppo di volontari cristiani Maristi blu, fra i tanti progetti di riabilitazione ne ha uno chiamato Heart Made, che pratica l’up cycling senza chiamarlo così, come spiega uno dei responsabili del progetto, Leyla Antaki: «Ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. Poi con i ritagli, le maniche, i jeans facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle».
Sulla
ricostruzione, la domanda è: chi pagherà per rimettere in piedi il
paese? Chi ci guadagnerà? E’
drastico Juan, giovane artista di Damasco il cui padre è originario
della zona di Afrin, colpita dai bombardamenti dei turchi: «Spero
proprio che non diventi un business per i soliti che prima portano
rovina e poi ci guadagnano... Io dico che i paesi occidentali, la
Turchia, i monarchi del Golfo dovrebbero risarcire il popolo siriano!
Hanno fomentato per dolo o per stupidità una guerra per procura,
hanno sostenuto mercenari jihadisti… ».
I danni peraltro sono molto superiori alla cifra stimata per
ricostruire. Perché la perdita di vite umane e di parte del
patrimonio storico architettonico e archeologico sono senza prezzo.
La
guerra ha sconvolto il metodico e spesso oscuro lavoro di archeologi,
restauratori e funzionari. Siti occupati, magazzini di reperti
saccheggiati, musei danneggiati, personale che rischiava la vita. In
una delle grandi stanze laboratorio del museo archeologico nazionale
di Damasco, ingombro di casse di reperti, Rima Hawan,
direttrice del dipartimento restauro, indica pezzi di statua
provenienti da Palmira (Tadmor), sito
patrimonio dell'umanità che per dieci mesi a cavallo fra il 2015 e
il 2016 fu assediata dal sedicente Stato islamico (Isis, che nel
mondo arabo musulmano non integralista è chiamato Daesh, in senso
spregiativo): «La situazione era di
assoluta emergenza». Si temeva la
distruzione totale del sito, di fronte alle immagini orgogliosamente
diffuse da Daesh, con le decapitazioni di statue e non solo:
l’archeologo Khaled al Asaad, dopo una vita a Palmira a occuparsi
del sito, pagò con la vita - sgozzato il 18 agosto 2015 a 83 anni -
il rifiuto di rivelare i nascondigli dei reperti.
Il direttore del
museo di Palmira Khalil al Hariri riuscì
a fuggire all’ultimo momento, ma perse un fratello e un cugino
oltre a vari amici. Si trova al museo di Damasco per seguire i
progetti di restauro di alcune statue portate via in tempo e in modo
fortunoso: «Ci colsero di sorpresa
con la loro avanzata. Tutto sembrava
essere più forte di noi, in quei giorni. Oltre al terrore, avevamo
ben presente il saccheggio del patrimonio storico iracheno nel
2003...Ma siamo riusciti con fatica e pericoli a evacuare numerosi
reperti, una specie di mission
impossible» prima dell’arrivo dei moderni unni.
Alcune
addette sono impegnate, su grandi registri e al computer, nella
verifica minuziosa dei reperti. Najma è fra i restauratori che
hanno lavorato a Palmira dopo la fuga di
Daesh: «Ci sono opere totalmente
distrutte, altre che stiamo cercando di recuperare, qui lavoriamo
soprattutto sui volti.» Kawtar e
Hiba spennellano una statua monca. Chi vi ha aiutati in questi anni
di isolamento, e avete sempre a disposizione i materiali necessari?
Rima sorride cautamente: «Gli
archeologi sono una comunità mondiale. Gli esperti con i quali
lavoravamo per studiare l'immenso patrimonio siriano, ci sono stati
concretamente vicini Sempre».
@ foto Malatius Jaghnoon |
Raqqa:
un toponimo che per anni ha evocato il terrore da quando, nel 2014,
la città diventò la «capitale del califfato» del sedicente Stato
islamico. Il museo cittadino era ricco di reperti di varie epoche,
fino alla preistoria. Il Direttorato aveva immagazzinato la
maggioranza delle collezioni in una serie di edifici vicino alla
fortificazione del periodo Abbaside a Heraqla, a 7,5 chilometri al
museo. Ma già nel marzo 2013 il califfato saccheggiò i magazzini e
molti pezzi, mosaici, terrecotte, gessi, risultato di decenni di
missioni di scavi, uscirono dal paese attraverso la complice Turchia,
destinazione il mercato internazionale dei reperti. Del resto, pezzi
provenienti da Palmira sono stati trovati in vendita a Londra, uno
dei più importanti mercati di antichità… Gli addetti erano
riusciti a evacuare o nascondere una parte dei materiali
trasportabili, e in seguito a recuperare tre casse piene, ritrovate a
Tabqa. Durante l'offensiva antiDaesh da parte degli Usa e
delle Syrian Democratic Forces, l'Isis
arrivò a piazzare cariche esplosive in prossimità del museo. Dalle
foto scattate una volta sfrattato l’emiro, l'edificio non è
distrutto ma crivellato di colpi; l'interno è pieno di detriti e
molti reperti sono scomparsi.
Un
destino comune a circa 300 siti di rilevanza storica. La guerra è
davvero un elefante infuriato in un negozio di cristalli.
Torniamo
al museo archeologico di Damasco. Nel cortile, fra reperti e alberi,
un gruppetto di operai con giubbetto arancione e casco installa una
lampada fotovoltaica. Interessante
connubio fra passato e moderno. Normale oltre che auspicabile, per
Mahmoud Alawadi, titolare della ditta Htm Power solution: «Il
fotovoltaico e il patrimonio archeologico sono entrambi elementi
chiave del nostro futuro. I millenni di storia ci aiuteranno a
ricostruire. Penso che alla civiltà della forza che hanno messo in
scena certi Stati sulla nostra pelle si debba opporre la forza della
civiltà.» Del resto, la sua
vicedirettrice della ditta è Slava Abdo, studi di archeologia ed
entusiasmo futuribile: «La Siria è
la signora del Sole, il nome stesso di quest’area del Mediterraneo,
Sham, ha assonanza con il termine arabo che indica il sole, shams.
Il sole c’è sempre, l’energia
solare è il nostro futuro e deve avere la massima attenzione».
E il solare termico e fotovoltaico in giro si vedono. Qui e là, sui
tetti di Aleppo e perfino a Kafarbatna nella Ghouta orientale sui
palazzi rimasti in piedi, e nelle strade urbane ed extraurbane per
far funzionare semafori, lampioni, antenne; fino alle torce
distribuite nei centri per gli sfollati. Con la guerra,
l’approvvigionamento in energia elettrica e di conseguenza la
stessa fornitura di acqua sono diventati un problema. Le energie
rinnovabili rappresentano una soluzione, solo parzialmente
sperimentata, eppure «Se si
calcolano le spese per un generatore diesel che supplisce alla
mancanza di energia elettrica da centrali termiche, e le confrontiamo
con quelle di pannelli che poi lavorano per 24 anni…»
I
costi d’impianto possono disincentivare, ma la ricostruzione può
essere una buona occasione, prosegue Slava: «
Il fotovoltaico serve dovunque, nelle case, nelle strade, nelle
fattorie, nelle industrie…Non solo se ne possono dotare gli edifici
ricostruiti, ma può essere una grande risorsa nella stessa opera di
rifacimento.» E la produzione made
in Syria dei pannelli, che era stata avviata prima della guerra?
«Attualmente il rapporto
costi-benefici ci fa preferire l’import dalla Cina, ma fra due anni
contiamo di avere una fabbrica nostra, qui»
conclude Slava mentre appoggia il piede su una pedana che si
illumina. Alawadi mostra con orgoglio il funzionamento delle pompe
d’acqua fotovoltaiche, utilissime in agricoltura.
Anche
quest’ultima, nella terra della Mezzaluna fertile, ha alle spalle
una storia di molti millenni. Ne sa qualcosa il genetista italiano
Salvatore Ceccarelli, che con l’organizzazione internazionale
Icarda - Istituto internazionale per la ricerca agricola nelle zone
aride - ha lavorato a lungo nel paese con gli agricoltori,
migliorando in modo partecipativo i cereali tradizionali (quelli
coltivati da secoli e secoli), tanto da ottenere miscugli di varietà
in grado di rispondere alle crisi ambientali e idriche. Miscugli ora
coltivati in vari paesi compresa l’Italia. E in Siria?
Nel
paese mediorientale, dopo la siccità che ha colpito duramente dal
2008, sette anni di guerra hanno nuociuto gravemente alla produzione
alimentare, per via degli spostamenti di popolazione e degli scontri
che hanno coinvolto anche aree rurali e scombinato le filiere e i
trasporti.
Per
questo è un piccolo miracolo vedere il bel colore delle albicocche
spuntare da una cassetta sulla bici di un contadino a Mleha, Est
Ghouta, regione alle porte di Damasco che è stata nell’occhio del
ciclone bellico. I frutti costano 300 lire siriane al chilogrammo: un
tempo alla portata di tutti, ora per pochi visto l'abbassamento dei
salari. Squisiti, un insieme di sapori delicati. L’albicocco,
originario della Cina, sembra aver trovato la patria elettiva in
Siria e Turchia. Kobol el arb,
gli abitanti della capitale andavano in gita alla Ghouta al tempo
della fioritura. E attendevano con ansia la breve stagione
dell'albicocca, espressione che è
anche un modo di dire per indicare qualcosa di fugace. Al tempo dei
mamelucchi, a sentire il viaggiatore egiziano El Badri gli studiosi
si mettevano in...ferie lasciando cattedre e libri per andare a
rimpinzarsi del frutto. Che in Siria ha ispirato una vera arte della
conservazione e della trasformazione. «Del
resto da noi in Argentina le albicocche si chiamano Damasco e adesso
capisco perché» dice l'attrice
Susana Oviedo, in visita in Siria.
Quale
posto avrà il settore primario nella ricostruzione del paese? E
funzionerà davvero l’annunciato piano per le donne rurali?
Ecco
una potenziale destinataria. Una produttrice di Katana, cappello
giallo, foulard blu vivace, abito bordò arriva ogni giorno con il
pulmino da Katana nella capitale per vendere i suoi cibi. Il suo
posto è sotto uno dei mosaici. Cultura e coltura.
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