Storie siriane 2018 (3)
raccolte da Marinella Correggia
ordine.laprovincia.it/ 5 agosto 2018
Samarcanda,
la canzone di Roberto Vecchioni, sembra ispirata dalla storia che Om
Ahmad sta
raccontando. Robusta, foulard a fiori in testa e abito nero, seduta
sui cuscini che fungono da divano nello spoglio appartamento
affittato nel quartiere Masaken Barzeh, spiega che lei, il marito
meccanico e i loro tre figli maschi vivevano a Douma, l’area più
tradizionalista della regione Ghouta orientale. «Oltre
cinque anni fa, mentre diverse formazioni di musallahin
-
gruppi
armati islamisti, ndr –
stavano arrivando a controllare l’area, chiudemmo casa e arrivammo
qui a Damasco, dove avevamo conoscenze».
Guarda
il suo secondogenito Rabee, sedici anni, in carrozzella.
«Un
giorno di tre anni fa, lui e mio marito erano nel garage…. che fu
centrato da uno dei missili che colpivano Damasco partendo proprio
dall’area che ci eravamo lasciati alle spalle».
Letale: il padre di Rabee morì nell’esplosione, e al ragazzo
dovettero amputare le gambe maciullate. Tirano avanti con aiuti
pubblici e privati. Rabee va a infilarsi le gambe. Con le protesi
cammina, ma solo aiutato dal girello: l’amputazione è avvenuta al
di sopra delle articolazioni. Ahmed mostra sul cellulare la loro casa
a Douma («ci
hanno detto che adesso è distrutta»),
mentre sua madre dice: «Ho
un unico desiderio ormai: che mio figlio possa avere le protesi
migliori».
E’ probabilmente il sogno di 30.000 amputati di guerra, in Siria.
Ma
le donne rimaste a Douma
come hanno vissuto gli ultimi mesi di scontri acerrimi fra esercito
siriano da una parte e la galassia islamista dall’altra? Dove
vivono adesso, visto che così tanti palazzi bombardati sono
inabitabili? La nostra visita insieme a Sulaf
Maki,
giovane siro-sudanese studentessa di cinema impegnata in interviste
tutte al femminile in giro per il paese, è stata troppo breve per
convincere a parlare almeno una di quelle figure oscure incrociate
per strada sotto un sole cocente davvero inadatto alla loro mise:
cappotti neri e volto, testa, collo, spalle, talvolta anche gli occhi
coperti da stoffe ugualmente nere. Nemmeno le poche infermiere di un
ospedale hanno voluto parlare, forse intimorite dalla macchina da
presa. Forse molti mariti e figli di queste figure mute combattevano
insieme agli islamisti. Ma adesso il governo ricontrolla l’area e
nessuno lo ammetterebbe. Chi è rimasto ha accettato di deporre le
armi nella cosiddetta riconciliazione. Nondimeno, differenze e
diffidenze rimarranno a lungo.
Samar
è fra quei 150.000-200.000 abitanti (sul milione e mezzo
dell’anteguerra) a non essersi mai mossi dalla Ghouta orientale,
ampia area agricola. Vive nella cittadina di Kafarbatna ed è moglie
di un agricoltore i cui terreni hanno continuato a produrre
ortofrutta e legumi durante la guerra, pur pagando pesanti tangenti
in natura ai gruppi armati. Samar ricorda i rischi degli ultimi mesi
di guerra: «Ecco,
lì, quell’edificio distrutto proprio dall’altra parte della
strada, era occupato dai
musallahin,
l’aviazione lo ha bombardato. Quel giorno ci siamo rifugiati in
cantina, ma non abbiamo voluto andare via».
I gruppi islamisti che lei chiama «terroristi
occupanti»
lasciavano a stecchetto la popolazione: «Una
volta che sono andati via, si è scoperto che avevano i magazzini
pieni degli aiuti alimentari e medici arrivati da fuori Ghouta».
Ora nell’area e nei campi degli sfollati si susseguono racconti
così, opposti a quelli di chi denunciava un assedio affamante e
bombardamenti indiscriminati da parte del governo siriano. Ma in
guerra la narrazione è polarizzata.
Per
la video intervista, Samar ha indossato il niqab,
che lascia vedere solo gli occhi. Impossibile non confrontarla con la
donna dietro la telecamera: Sulaf, che sopra i pantaloni e la casacca
di maglina lunga porta il velo hijab
a coprire testa e collo, «ma
sono del tutto laica, lo faccio solo perché mia madre mi ci obbliga,
finché non sarò economicamente indipendente, poi basta…». Disapprova sia le donne murate di Ghouta sia quelle ragazze che a
Damasco mettono il velo su magliette iper-aderenti con biancheria
imbottita e fuseaux. E sgrana gli occhi a una scena che dal bus
intravvede su un marciapiede della capitale: un’ombra alta e
imponete in nero totale, con guanti pure neri e due strette feritoie
nel niqab.
Cosa avrà mai risposto all’uomo male in arnese che le chiedeva non
si sa che?
Portano
l’hijab
e lunghi soprabiti neri anche donne che nemmeno fanno il ramadan
(il
digiuno religioso dall’alba al tramonto, un mese all’anno). Come
Sarah
el Hawi, panettiera
nel quartiere damasceno di Jaramana; con la
famiglia
ha lasciato anni fa l’area di Deir Ezzor per sfuggire all’arrivo
di gruppi islamisti. O come donne appartenenti a gruppi politici
progressisti: Rabab
Sweid
del Fronte popolare per la liberazione della Palestinavive e milita
nel quartiere Rock Eddin sulle alture intorno a Damasco, insieme a
cinquemila palestinesi fuggiti negli anni dal campo di Yarmouk, a
lungo controllato prima da islamisti e poi da cellule dello Stato
islamico. Ma «mi
pare indiscreto parlarle dei suoi abiti; forse le servono a essere
accettata, in una comunità tradizionale»
fa notare la giovane economista agraria Dima
Hasan
che nel tempo libero fa volontariato presso gli sfollati.
Ventinovenne, capelli corvini e abbigliamento tranquillo privo di
eccessi, Dima abita
da sola a Damasco, in un seminterrato nel quartiere Bab Tuma,
popolato da molti cristiani: «Sono
nata e cresciuta nella regione di Tartous, in un villaggio sul mare;
i miei primi e in fondo unici contatti con gli islamisti sono stati i
missili lanciati da Ghouta e Jobar, la capitale ne è stata
bersagliata dal 2012 a pochi mesi fa.»
La
guerra ha coinvolto in modo ben più pesante Hayat
Awad,
madre di un soldato di leva ucciso anni fa a Deraa. A Homs dove vive,
percorre il quartiere Khalidia distrutto dagli scontri,
impolverandosi la camicia e i pantaloni neri del suo lutto
prolungato, e arriva nella via Share el Zon, dove la famiglia
Jabour è
tornata a casa. Erano partiti nel febbraio 2012 «perché
questo palazzo è proprio all’angolo con la cosiddetta via della
morte, una specie di linea di confine. Ecco là la carcassa di un
carro armato fatto esplodere due giorni dopo la nostra fuga, siamo
miracolati»
spiegano Norma
e
sua figlia Victoria.
I Jabour, per anni sfollati dai nonni in campagna, dal 2016 stanno
ricostruendo la parte superiore della casa, accampati intanto a
pianterreno. Il tetto per fortuna è a posto. Ricordano come
all’improvviso si ruppe la convivenza fra loro, cristiani, e i
vicini musulmani. «La
nostra casa fu poi occupata dai musallahin,
da qui sparavano contro l’esercito».
Ma adesso sono ottimisti. Victoria studia farmacia, «la
Siria era e tornerà a essere una grande produttrice di medicinali
con un buon servizio sanitario».
La
forza delle donne rimaste tenacemente in Siria è anche quella di
Naham,
studentessa ora reclutata in un ospedale pediatrico perché «almeno
il 30% dei medici del paese è andato all’estero e chi è rimasto
deve fare per tutti».
O di Bushra
Jawed,
irachena
di Nassirya. Da sola, nel 2007, lasciò l’Iraq preso fra l’incudine
dell’occupazione statunitense e il martello del crescente
terrorismo al qaedista. Come altre centinaia di migliaia di iracheni
trovò asilo nell’allora tranquilla Damasco, nel quartiere Jaramana
dove aprì un ristorantino. Dopo il 2011, «questo
quartiere è stato bersagliato dai missili dei terroristi, ne ho
vista morire di gente»,
dice senza scomporsi mentre nella via stretta un’autobotte
rifornisce d’acqua il serbatoio del palazzo.
Il cammino verso la normalità è ancora lungo.
Il cammino verso la normalità è ancora lungo.
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