Il
Sussidiario, lunedì 20/02/2017
di Patrizio Ricci
Il
16 di febbraio si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, il secondo
round di trattative dirette tra governo siriano e opposizione armata.
L'incontro non è cominciato con i migliori auspici: per minare le
trattative, la delegazione dei ribelli è arrivata con un giorno di
ritardo. Tale atteggiamento ha generato non poca confusione e
disappunto tra le parti. Tuttavia, cercando di salvare il salvabile,
i funzionari russi hanno insistito per spostare l'apertura dei
colloqui a mezzogiorno del giorno successivo. Così l'incontro si è
tenuto senza ulteriori interruzioni. Nella conferenza stampa finale
il rappresentante siriano Bashar Jaafari si è però dimostrato molto
contrariato per l'atteggiamento dei rappresentanti delle milizie
armate. Nello stesso tempo, ha denunciato la mancanza di serietà
della Turchia perché ancora "continua a facilitare l'ingresso
di decine di migliaia di mercenari stranieri provenienti da tutto il
mondo" in Siria. Jaafari ha anche detto che Ankara, come garante
del cessate il fuoco, non può continuare a svolgere il ruolo di
"pompiere" e nello stesso tempo di "piromane".
Ciononostante,
si può dire che la riunione sia stata coronata dal successo, tenendo
anche conto che si tratta di una riunione preparatoria a quella
successiva che si terrà tra breve a Ginevra. In questo senso, è
positivo che comunque si sia riuscito a prolungare ulteriormente il
cessate il fuoco ed a sottolineare la necessità di distinguere in
maniera sempre più precisa i gruppi che sono disposti ad una
soluzione politica da quelli che la rifiutano. Questi ultimi (che
continuano ad essere nel libro paga dei sauditi e dei qatarioti), per
ottimizzare le risorse disponibili, coordinarsi e penetrare più
profondamente sul territorio siriano, hanno dato vita il 28 gennaio
ad un nuovo raggruppamento chiamato Tharir al Sham. E' proprio questa
nuova formazione che sta dando filo da torcere all'esercito siriano a
Daraa, a sud della Siria.
Tuttavia,
mentre i combattimenti continuano specialmente contro l'Isis,
l'esigenza più urgente per la popolazione siriana non è di ordine
politico ma di aiuto immediato e di ricostruzione.
Venendo
incontro a questi bisogni, il centro russo per la riconciliazione
nazionale continua a mediare con i gruppi ribelli promettendo un
ruolo nella ricostruzione del paese: finora sono più di 900 gruppi
armati che si sono riconciliati con il governo. L'intensa attività
diplomatica di Mosca è riuscita ad attenuare l'atteggiamento ostile
di Turchia e Giordania nei confronti della Siria: Erdogan, con
l'operazione "scudo dell'Eufrate" a nord della Siria, ha
reindirizzato le bande armate filo-turche in funzione anti-Isis
e anti curda. La diminuzione delle pretese turche ha convinto Re
Abdullah di Giordania a ritirare le sue milizie dalla Siria. Il
sovrano hascemita sta attuando un più stretto controllo dei confini
ostacolando i rifornimenti forniti da sauditi e qatarioti attraverso
le frontiere giordane.
Parlavamo
della necessità di ricostruzione: la Siria è completamente
distrutta, ma visto che è ricca di fonti energetiche queste potranno
essere utilizzate come mezzo per finanziare la ricostruzione del
paese. Le risorse interessano tutti, tant'è che sono anche la chiave di lettura della dislocazione di Isis in Siria. Non so se ci avete
fatto caso, l'Isis si è dislocato solamente in zone ricche di
petrolio: i pozzi petroliferi di AlTanak, AlOmar, AlTabka,
AlHarati, AlShula, Deira, AlTime e AlRashid, sono
situati tutti in zone conquistate dal califfato lungo il corso del
fiume Eufrate.
Il
basso costo del greggio e la presenza a Raqqa di raffinerie spiega
anche perché lo stato islamico l'abbia scelta come capitale. Pure
l'insistenza del califfato nel conquistare Deir el Zor e Palmyra non
è casuale: la sola regione di Deir el Zor produceva a metà 2015
(prima dell'intervento dei russi) 3440 milioni di barili di
greggio al giorno.
La
conservazione di risorse vitali gioca un ruolo di primo piano nelle
strenua resistenza del governo per non cedere queste aree. Il fattore
petrolio spiega anche perché l'obiettivo principale dei turchi
continui ad essere la città di Al Bab (a nord di Aleppo): secondo i
dati del Financial Times, Al Bab insieme ad Aleppo è stata uno dei
principali mercati per la vendita illegale di prodotti petroliferi in
Siria con la Turchia. Allo stesso modo, la presenza di due raffinerie
ha indirizzato la scelta dei ribelli di conquistare la città di
Idlib: anche in questo caso, le fonti energetiche e la vicinanza al
confine turco sono due ottime ragioni. Il desiderio di accaparrasi il
petrolio è anche una delle chiavi di lettura del vecchio piano "B"
americano (o "Safe zones" di Trump) che prevede la
divisione della Siria in zone etniche (sunniti, sciiti ecc.) ma mira
soprattutto alla sottrazione delle fonti energetiche al governo
centrale.
In
questo contesto, l'Europa non è rimasta a guardare: ci sono segnali
che la "vecchia Europa" stia valutando i benefici economici
derivanti dalla partecipazione alla ricostruzione della disastrata
economia del paese.
In
questo senso, nelle ultime settimane sono avvenute frequenti visite a
Damasco di delegazioni parlamentari europee: l'ultima è stata una
nutrita delegazione francese (ed è la prima volta dall'inizio del
conflitto). Anche le interviste ad Assad da parte dei media
occidentali si sono moltiplicate: le ultime sono state quelle di
Yahoo News e della francese Europe 1, TF1 e LCI.
E'
ingenuo pensare che queste delegazioni abbiano agito senza il placet
della leadership europea e dei rispettivi governi: è chiaro che i
paesi europei stiano cercando di riposizionarsi per trarne vantaggio.
Tuttavia, per ora non si dovranno fare grandi illusioni: nel corso di
un incontro con parlamentari belgi, Assad ha detto chiaramente che
dall'inizio della guerra, la maggior parte dei paesi europei hanno
adottato una politica non realistica verso la Siria e ha aggiunto che
questa politica "ha isolato ed eliminato qualsiasi ruolo che
l'Europa ora potrebbe svolgere a causa del proprio sostegno alle
organizzazioni che hanno praticato ogni forma di terrorismo contro il
popolo siriano".
Ed
ancor più esplicito è stato il ministro dell'Economia siriano Adib
Mayala, che su Ria Novosti ha detto: "alcuni paesi stanno
cercando di penetrare con imprese e fondi non governativi di loro
proprietà, che vengono creati nei paesi vicini della Siria come il
Libano, così come nei paesi che sono rimasti neutrali durante la
crisi". Il ministro ha precisato che contro tale prospettiva, il
governo siriano ha promesso "uno stretto monitoraggio di coloro
che vogliono partecipare al restauro dell'economia siriana,
vanificando i tentativi di intervento di coloro che di recente hanno
partecipato alla distruzione dello Stato".
In
sostanza, chi beneficerà dei vantaggi derivanti della
ristrutturazione dell'economia siriana saranno i più stretti alleati
di Damasco: Mosca, Pechino e Teheran. La cooperazione con questi tre
paesi, inserita in un piano per rilanciare l'economia, si svolgerà
in molti settori come l'industria petrolifera, l'agricoltura, le
comunicazioni.
Invece, per quei paesi che hanno sostenuto l'attività
delle bande armate in Siria (ed ora si dicono interessati al recupero
dell'economia siriana) il ministro Mayala pone come condizione
preliminare che "riconoscano il proprio errore e si scusino con
il popolo siriano": sarebbe la cosa da fare più semplice e
giusta, ma scusarsi ed imparare dai propri errori sembra non essere
nello stile dei paesi europei.
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