Piccole Note, 7 agosto
La scorsa settimana la Casa Bianca ha annunciato che l’esercito degli Stati Uniti è pronto difendere i cosiddetti ribelli siriani moderati, chiamati a presidiare un’area di sicurezza profonda cento chilometri al confine turco. Annuncio che è risuonato come una dichiarazione di guerra diretta al governo di Damasco. L’iniziativa, infatti, ricorda quel che successe al tempo della guerra libica, dove la no-fly zone servì appunto a garantire il successo della cosiddetta ribellione.
Un
decisione senza alcuna base legale, come ha candidamente
confessato il portavoce della
Casa Bianca Mark
Toner in
una conferenza stampa. Ma d’altronde la legalità internazionale è
diventata da tempo un optional.
La
presa di posizione dell’amministrazione Usa è arrivata poco
dopo l’annuncio dell’accordo
Washington-Ankara per
creare la “safe-zone”
in Siria,
stipulato in fretta e furia dopo la svolta della Turchia,
che da Paese sostenitore dell’Isis è
passato, almeno in apparenza, a suo acerrimo nemico. Una svolta più
che ambigua perché Ankara sembra invero perseguire altri scopi,
cioè impedire la nascita di una entità curda ai suoi
confini e, all’interno, rimettere al centro della scena politica
l’Akp, il cui ruolo è stato messo in crisi proprio
dall’affermazione di un partito curdo nelle ultime elezioni.
E
però, accanto e insieme a queste intenzioni più o meno
occulte, scopo non dichiarato del primo ministro Tayyp Erdogan sembra
essere quello di voler prevenire l’esclusione del suo Paese da una
possibile risoluzione della crisi siriana, che dopo l’accordo
Usa-Iran sul nucleare appare meno impossibile.
Tanto
è vero che la nuova assertività turca inizia proprio dopo
la sigla di tale accordo, che sdogana l’Iran e gli affida
il ruolo di protagonista di una possibile risoluzione
dell’annoso conflitto, come dimostra la visita del ministro degli
Esteri siriano a Teheran di questi giorni, ai margini della quale
sembra, il condizionale è d’obbligo, sia fiorita una nuova
ipotesi di pacificazione della regione.
Che
qualcosa sia nell’aria d’altronde lo dimostra la rinnovata
azione dei russi, strenui sostenitori di Assad, che hanno
moltiplicato gli sforzi diplomatici nell’area, in particolare
tentando di mediare tra Siria e Arabia
Saudita,
nemici irriducibili di Assad insieme al Qatar. Significativa in
questo senso la visita a Mosca del ministro degli Esteri
saudita, Mohammad
bin Salman,
e del suo vice, Faisal
al Mekdad,
uno dei principi ereditari delle monarchia del Golfo, avvenuta a fine
giugno,
Una visita
alla quale avrebbe fatto seguito, secondo indiscrezioni
rilanciate dal giornale siriano Al Akhbar, il viaggio
del capo della sicurezza siriana Ali
Mamluq a
Ryad, dove avrebbe incontrato proprio Muhamad bin Salman. Evento
che fino a un mese fa era semplicemente impensabile.
Non
solo, il vice-ministro degli Esteri russo Mikhail
Bogdanov ha
annunciato una prossima visita del ministro degli Esteri saudita
a Mosca. Si tratta della prima visita di così alto livello di un
esponente saudita in Russia e
dovrebbe servire a preparare quella, ben più importante,
dello stesso re, Salman
bin Abdulaziz Al Saud, fissata per
la fine di agosto.
A
spingere l’Arabia Saudita a riposizionarsi sono tanti fattori:
l’accordo sul nucleare
iraniano di
certo è stato subito da Ryad, dal momento che ha sdoganato un suo
attuale nemico, ma anche i sauditi sanno bene che un confronto troppo
aspro con l’Iran per loro oggi sarebbe devastante.
La crisi siriana, quindi, può essere occasione per rilanciare quel
dialogo con Teheran che comunque in questi ultimi anni, nonostante
tutto, è proseguito
sottotraccia.
Altro
motivo sotteso alle iniziative saudite la strenua resistenza di Assad
(che oltre al sostegno della Russia, gode dell’appoggio, sul
campo di battaglia, dei miliziani iraniani, ma soprattutto di Hezbollah). Il presidente siriano, nonostante la
masnada di tagliole mercenari che gli è stata scatenata contro,
controlla ancora buona parte del Paese, cosa che tra i suoi avversari
sta moltiplicando i dubbi sul tentativo di rovesciarlo per
via terrorista.
Infine
la strenua resistenza in Yemen degli
sciiti houti legati
a Teheran, i quali, rovesciato il precedente regime
filo-saudita, si sono trovati a fronteggiare una coalizione
internazionale guidata appunto da Ryad. La monarchia saudita pensava
di spezzare in fretta le reni ai rivoltosi. Non è andata così e la
sanguinosa campagna militare si sta rivelando un pantano che rischia
di minare la credibilità internazionale di Ryad. Da qui la necessità
di un dialogo con il vero avversario, ovvero l’ex impero persiano.
In
questo scenario la politica di Washington appare
contraddittoria: l’appoggio a Erdogan alimenta un fuoco
che l’accordo con Teheran, fortemente voluto da Obama, tende invece
a spegnare.
È
la contraddizione insita nell’attuale presidenza degli Stati
Uniti, stretta tra il realismo politico dei suoi grandi elettori
e la follia bellicista dei neocon ai quali il presidente deve cedere più spesso di quanto
voglia.
Una
contraddizione che è insita anche nell’accordo stretto con Ankara,
se è vero, tra l’altro, quel che riferiscono diverse fonti
siriane interpellate da al
Manar,
media libanese vicino a Hezbollah, secondo il quale dagli
Usa sarebbero giunte segrete rassicurazioni a Damasco
sul fatto che gli aerei Usa eviteranno scontri con truppe e velivoli
siriani. Rassicurazione che sarebbe stata raccolta da Damasco che,
sempre secondo al Manar, cercherà a sua volta di evitare simili
incidenti.
D’altronde
i raid della cosiddetta coalizione internazionale anti-Isis messa su
da Obama anche in precedenza presentavano rischi – limitatamente –
analoghi, ma finora sono stati evitati.
Così anche
l’accordo
Washingoton-Ankara potrebbe
essere meno di quel che appare: un modo per prendere tempo da
spendere in mediazioni e per incanalare, e così attutire, la follia
bellicista di Erdogan, nel tentativo di trovare una mediazione anche
con l’unico protagonista del mattatoio mediorientale finora tenuto
fuori dal dialogo (il Qatar, legato a doppio filo con
Ankara, seguirà).
Ma l’accordo
con la Turchia e una nuova e più assertiva presenza nell’area del
conflitto, serve all’amministrazione Obama anche per dimostrare
(all’interno e all’esterno) che un’eventuale soluzione
globale non può che passare da Washington, che di certo
sta lasciando libertà di manovra ai russi nella speranza di
uscire dal pantano, ma non vuole abbandonare l’intera regione
alla sua influenza.
L’ambiguità della
strategia Usa riserva molte incognite: i nemici della pace
– legati all’Isis o a essi (apparentemente) contrapposti –
cercheranno di sfruttare la perigliosa situazione per provocare
un’escalation ed incalzare ancora di più Assad.
Eppure nonostante
le incognite, e le stragi quotidiane (di curdi e siriani soprattutto), qualcosa è cambiato nel funesto scenario che
solo un mese fa sembrava senza uscita. Qualcosa che potrebbe portare
a un vero e proprio dialogo ad alto livello.
Una
prospettiva che ha reso ancor più nervosa la reazione di quanti
hanno visto nell’Isis e
affini un catalizzatore in grado di scatenare una reazione
a catena capace di scardinare i vecchi assetti geopolitici
del Medio Oriente (e dell’Asia)
per determinarne altri, a loro più favorevoli. Di questo
nervosismo è indice l’attentato targato
Isis avvenuto ieri in una moschea di Abha,
in Arabia Saudita, nel quale hanno perso la vita
tredici poliziotti di Ryad.
La
nuova fase del mattatoio mediorientale, che apre alla speranza ma
conserva oscure incognite, è appena iniziata.
Nella foto il capo del Dipartimento di Stato Usa John Kerry, il ministro degli Esteri saudita Adil Al-Jubayr e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Doha.
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