Lettera aperta a Mario Mauro , ministro della Difesa
di Rodolfo Casadei
da Tempi , 29 aprile 2013
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La seconda metà dell’anno che ci aspetta non sarà segnata soltanto dalle difficoltà legate al debito sovrano dei paesi dell’Europa meridionale, non ci sarà solo il problema del rinnovo delle sottoscrizioni dei titoli di Stato e dello spread rispetto ai titoli tedeschi. Rischiamo di trovarci, da qui a non molto, coinvolti in un’altra guerra sulla sponda sud del Mediterraneo, più sanguinosa di quella in cui fummo coinvolti due anni fa in Libia e dai prevedibili esiti più infausti e destabilizzanti di quelli che l’intervento Nato contro Gheddafi ha determinato.
Alla fine di maggio scade l’embargo della Ue sulle vendite di armi alla Siria e sugli acquisti di idrocarburi dal medesimo paese, ed è certo che non verranno rinnovati perché alcuni paesi – primo fra tutti il Regno Unito – hanno già fatto sapere che intendono schierarsi decisamente dalla parte della ribellione al governo di Bashir el Assad anche con forniture di armi.
I report sull’utilizzo di armi chimiche da parte dei governativi si moltiplicano, e anche se le evidenze non sono conclusive, ovvero si tratta di utilizzi sporadici e alcuni dei quali riferibili ai ribelli che si sono impadroniti di depositi delle forze armate, il fatto vero o presunto potrebbe diventare il casus belli per un intervento almeno pari a quello in Libia: cioè la creazione di una no-fly zone e attacchi aerei alle infrastrutture militari dell’esercito siriano. ( NdR: qui le ultime info sull'inchiesta di Carla Del Ponte "Gas sarin in mano ai ribelli")
Dove condurrebbe un’opzione del genere, abbiamo negli ultimi due mesi cercato a più riprese di illustrarlo: è impossibile risolvere la crisi siriana per via militare, perché chiunque riuscisse a prevalere sul campo di battaglia si troverebbe poi ad avere a che fare con un paese distrutto e diviso, che non potrebbe veramente controllare o che controllerebbe solo dopo avere sterminato o messo in fuga interi gruppi di popolazione. All’eventuale caduta di Assad e del regime instaurato quarant’anni fa da suo padre in Siria non seguirebbe l’avvento della democrazia, ma una via di mezzo fra l’anarchia degli “Stati falliti” e la teocrazia dei talebani.
Nelle file dell’opposizione i democratici sono una minoranza, e nelle file dei combattenti i jihadisti e gli islamici radicali sono la maggioranza assoluta, come si poteva leggere anche sul New York Times del 27 aprile.
Del resto, gli sponsor regionali della ribellione siriana si chiamano Arabia Saudita, Qatar e Turchia: le prime due sono rette da regimi dinastici lontanissimi da qualunque sistema democratico, mentre la Turchia è una democrazia che rispetta molto scarsamente i diritti delle minoranze etniche e religiose. Chiedere informazioni a curdi, aleviti e cristiani sparsi fra Istanbul, Antiochia e Diyarbakir per ulteriori dettagli. Che i protetti siriani di questi paesi siano in grado di garantire democrazia e rispetto delle minoranze in un paese mosaico come la Siria una volta andati al potere, non è meno incredibile di quello che raccontavano i neo-conservatori Usa a proposito della democratizzazione del Medio Oriente perseguita manu militari. In paesi privi di tradizione politica democratica (per le ragioni strutturali che un Tocqueville o un Marx o un Weber saprebbero spiegare agilmente) e compositi dal punto di vista etnico e religioso, la democrazia politica diventa un puro esercizio aritmetico, come si vede nell’insanguinato Iraq: un anno e mezzo dopo il ritiro delle ultime truppe americane, il paese è tormentato dalle lotte fra sunniti, sciiti e curdi, che riversano i loro voti su partiti settari. Nella migliore delle ipotesi possibili, la Siria liberata del regime degli Assad si trasformerebbe in una sorella gemella dell’Iraq, con la principale differenza di avere come primo ministro un sunnita anziché uno sciita, come accade a Baghdad con Nuri al- Maliki.
Di fronte al rischio di coinvolgimento del nostro paese in un’avventura più fatale di quella libica, non mi sento rassicurato dal nuovo allineamento ministeriale. Temo che Roma torni ad ospitare conferenze degli “amici della Siria” tanto equivoche nella composizione quanto ipocrite nella valutazione della situazione dei diritti umani e delle violazioni degli stessi compiute dalla parti in lotta.
Non voglio pronunciare giudizi a priori su nessuno, ma non vedo nel governo attuale la volontà di differenziare sensibilmente la linea politica dell’Italia di fronte alle convulsioni del mondo arabo rispetto all’appiattimento del governo Monti sulle posizioni di Regno Unito e Francia (appena un po’ ammorbidite recentemente nel caso di Parigi). Mentre gli americani esitano di fronte alla prospettiva di intervenire militarmente a fianco dei ribelli di Damasco, consapevoli dei rischi di un’escalation, Londra, Parigi e Roma continuano a credere che si debba puntare sulla Coalizione nazionale siriana benché si tratti di un paravento che occulta l’ascesa di jihadisti e islamici radicali.
I cristiani stanno in politica esattamente per questo: per servire il bene comune sulla base della retta ragione e del senso di realtà. E per convincere, attraverso la loro decisa testimonianza, anche chi cristiano non è, a seguirli.
http://www.tempi.it/blog/lettera-aperta-a-mario-mauro-ministro-della-difesa-dovra-darsi-da-fare-in-siria-e-nel-mediterraneo#.UYJvQG1H45s
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