Cristiani siriani: «Non lasceremo questo inferno»
di Gian Micalessin
Tempi- 21 settembre 21, 2012
«Siamo figli di san Paolo. Non abbandoneremo la terra che ha bevuto il sangue dei nostri martiri». La fede di padre Hanna Jallouf e dei cristiani dell’Oronte, assediati dall’esercito siriano e usati come scudi umani dai ribelli «integralisti»
È appena arrivato a Damasco. Stavolta ce l’ha fatta. Padre Hanna Jallouf ci provava da un mese. Ora asciugato il sudore, ripulita la polvere della sua odissea siriana può indossare i paramenti, alzare il calice, recitare messa nella cappella del Memoriale di san Paolo. Qui iniziò la predicazione cristiana. Qui è tornato oggi il pastore Hanna. È sceso dall’Oronte, il fiume ribelle che dal Libano risale la Siria verso nord disegnando le vallate al confine con la Turchia. Lassù ha lasciato la sua comunità accerchiata, i suoi fedeli prigionieri di guerra e paura. «Sono il parroco superiore di Knaye e di un’altra missione. Lassù nella provincia di Idlib – racconta – siamo quasi 2.000 cristiani divisi fra le comunità francescane della Custodia di Terrasanta e quelle greco ortodosse, armene e protestanti. Siamo i discendenti dei primi cristiani, i figli della predicazione di san Paolo. Siamo i discendenti dei primi convertiti sulla strada per Apame e l’Antiochia. Siamo una presenza millenaria».
Da mesi quella presenza vive prigioniera. Circondata da violenza ed orrore. «È incominciato tutto quando i ribelli scesi dal confine turco hanno massacrato 83 soldati. È stata una strage terribile e io l’ho vista con i miei occhi. Hanno tagliato la testa al comandante e l’hanno issata sulla terra dell’orologio, poi ne hanno tagliate altre cinque e le hanno deposte davanti alla sede del partito. Ho visto cose che non dimenticherò mai, ma ho anche dovuto badare alla mia comunità. Ho incontrato il capo dei ribelli, ho negoziato, l’ho fatto salire in macchina sono andato a cercare assieme a lui i fedeli di cui avevamo perso le tracce».
Da quei giorni però nulla è più lo stesso. L’esercito circonda la zona, chiude in una morsa le comunità cristiane controllate a loro volta dai ribelli. Quest’ultimi sembrano incapaci di governare il territorio, poco interessati a garantire ordine e sicurezza. «Come cristiani cerchiamo di restare neutrali, ma credimi, è difficile avere fiducia. Non sono un esercito di liberazione, sono delle bande che si muovono alla rinfusa. Più parlo con i loro capi più comprendo quanto i loro progetti siano confusi o pericolosi. Molti, moltissimi sono d’ispirazione integralista, almeno il 40 per cento sono dei fanatici mandati avanti e finanziati da paesi stranieri. Arrivano dai posti più caldi del medioriente come lo Yemen, l’Iraq e il Libano. Si danno appuntamento alla frontiera turca e da lì scendono verso i nostri villaggi. Questa è la nostra più grande sventura. In ogni villaggio musulmano c’è qualcuno che dopo il loro arrivo si proclama “emiro” e distribuisce ordini. Chi resta nelle campagne semina la paura. Nei nostri villaggi i rapimenti sono ormai all’ordine del giorno. I figli dei cristiani vengono catturati per strada e le famiglie ricattate. Ogni settimana dobbiamo fare delle collette per riuscire a riaverli. L’assurdo è che non rapiscono solo i cristiani, ma anche i musulmani moderati. La comunità di uno sceicco sunnita non lontana da noi ha versato diecimila dollari per riaverlo indietro vivo».
Il racconto di padre Hanna Jallouf sembra il controcanto di quel che italiani ed europei apprendono da giornali e dalle televisioni. Ma lui non si stupisce. Sorride. «Noi siamo prigionieri della guerra, voi di messaggi distorti e parole false. L’esercito è accusato di mettere a segno dei massacri, ma se succede è perché non riesce a distinguere, perché i ribelli vanno a rifugiarsi nei villaggi e si fanno scudo dei civili. Questa è una guerra e come in tutte le guerre il sangue non scorre da un parte sola».
A Damasco, rischiando la vita Dietro le barriere di questa tragedia i cristiani dell’Oronte attendono impotenti una via d’uscita, un ritorno alla ragione. «Ora le mie prime preoccupazioni – racconta padre Hanna – sono il pane per la mia gente, le medicine per le nostre donne, il latte per i nostri bambini, il lavoro per i loro padri. Per questo ogni tanto rischio il tutto per tutto e vengo a Damasco, tengo i contatti con la Custodia di Terrasanta. Ma questo è solo un modo per sopravvivere. La soluzione vera non passa da me e non è neppure all’orizzonte della politica. Quando parlo con i ribelli o con i capi dell’esercito spesso ascolto parole confuse», ripete rassegnato il pastore dell’Oronte. «Del resto neppure la diplomazia sembra capirci troppo. L’unica soluzione, non solo per noi cristiani, ma per tutta la Siria è il dialogo. La comunità internazionale dimentica che il sangue chiama sangue e l’uso della violenza alimenta l’odio. Pensare che la colpa sia solo da una parte è il peggiore degli errori. Senza misericordia, senza perdono, questa tragedia non finirà mai».
Ora per padre Hanna è tempo d’andare. Ripiegati i paramenti, risale dalla grotta del Memoriale di san Paolo e si prepara a tornare dai cristiani dell’Oronte. All’andata ha superato i posti di blocco dei ribelli, attraversato i villaggi delle milizie alawiste, visto la morte in faccia quando una trappola esplosiva ha dilaniato i soldati fermi lungo un tratturo. Il viaggio del ritorno sarà altrettanto difficile. Ma padre Hanna non si preoccupa. «Era la terza volta che provavo ad arrivare. Le altre due avevo dovuto rinunciare a metà strada. Ma due giorni fa mi è caduta sotto gli occhi una frase del Vangelo. “Io – recita il Signore – apro le vostre vie”. Allora ho deciso di riprovarci. In fondo la nostra vita è bella solo se possiamo realizzare la nostra missione e vivere in mezzo alla nostra gente. Per questo ho fretta di tornare al loro fianco. Siamo i figli di san Paolo, siamo la testimonianza della presenza cristiana. I nostri progenitori sono sono morti in quei villaggi e noi faremo lo stesso. Il cristianesimo non può abbandonare la terra che ha bevuto il sangue dei propri martiri».
http://www.tempi.it/cristiani-siriani-non-lasceremo-questo-inferno
Da mesi quella presenza vive prigioniera. Circondata da violenza ed orrore. «È incominciato tutto quando i ribelli scesi dal confine turco hanno massacrato 83 soldati. È stata una strage terribile e io l’ho vista con i miei occhi. Hanno tagliato la testa al comandante e l’hanno issata sulla terra dell’orologio, poi ne hanno tagliate altre cinque e le hanno deposte davanti alla sede del partito. Ho visto cose che non dimenticherò mai, ma ho anche dovuto badare alla mia comunità. Ho incontrato il capo dei ribelli, ho negoziato, l’ho fatto salire in macchina sono andato a cercare assieme a lui i fedeli di cui avevamo perso le tracce».
Da quei giorni però nulla è più lo stesso. L’esercito circonda la zona, chiude in una morsa le comunità cristiane controllate a loro volta dai ribelli. Quest’ultimi sembrano incapaci di governare il territorio, poco interessati a garantire ordine e sicurezza. «Come cristiani cerchiamo di restare neutrali, ma credimi, è difficile avere fiducia. Non sono un esercito di liberazione, sono delle bande che si muovono alla rinfusa. Più parlo con i loro capi più comprendo quanto i loro progetti siano confusi o pericolosi. Molti, moltissimi sono d’ispirazione integralista, almeno il 40 per cento sono dei fanatici mandati avanti e finanziati da paesi stranieri. Arrivano dai posti più caldi del medioriente come lo Yemen, l’Iraq e il Libano. Si danno appuntamento alla frontiera turca e da lì scendono verso i nostri villaggi. Questa è la nostra più grande sventura. In ogni villaggio musulmano c’è qualcuno che dopo il loro arrivo si proclama “emiro” e distribuisce ordini. Chi resta nelle campagne semina la paura. Nei nostri villaggi i rapimenti sono ormai all’ordine del giorno. I figli dei cristiani vengono catturati per strada e le famiglie ricattate. Ogni settimana dobbiamo fare delle collette per riuscire a riaverli. L’assurdo è che non rapiscono solo i cristiani, ma anche i musulmani moderati. La comunità di uno sceicco sunnita non lontana da noi ha versato diecimila dollari per riaverlo indietro vivo».
Il racconto di padre Hanna Jallouf sembra il controcanto di quel che italiani ed europei apprendono da giornali e dalle televisioni. Ma lui non si stupisce. Sorride. «Noi siamo prigionieri della guerra, voi di messaggi distorti e parole false. L’esercito è accusato di mettere a segno dei massacri, ma se succede è perché non riesce a distinguere, perché i ribelli vanno a rifugiarsi nei villaggi e si fanno scudo dei civili. Questa è una guerra e come in tutte le guerre il sangue non scorre da un parte sola».
A Damasco, rischiando la vita Dietro le barriere di questa tragedia i cristiani dell’Oronte attendono impotenti una via d’uscita, un ritorno alla ragione. «Ora le mie prime preoccupazioni – racconta padre Hanna – sono il pane per la mia gente, le medicine per le nostre donne, il latte per i nostri bambini, il lavoro per i loro padri. Per questo ogni tanto rischio il tutto per tutto e vengo a Damasco, tengo i contatti con la Custodia di Terrasanta. Ma questo è solo un modo per sopravvivere. La soluzione vera non passa da me e non è neppure all’orizzonte della politica. Quando parlo con i ribelli o con i capi dell’esercito spesso ascolto parole confuse», ripete rassegnato il pastore dell’Oronte. «Del resto neppure la diplomazia sembra capirci troppo. L’unica soluzione, non solo per noi cristiani, ma per tutta la Siria è il dialogo. La comunità internazionale dimentica che il sangue chiama sangue e l’uso della violenza alimenta l’odio. Pensare che la colpa sia solo da una parte è il peggiore degli errori. Senza misericordia, senza perdono, questa tragedia non finirà mai».
Ora per padre Hanna è tempo d’andare. Ripiegati i paramenti, risale dalla grotta del Memoriale di san Paolo e si prepara a tornare dai cristiani dell’Oronte. All’andata ha superato i posti di blocco dei ribelli, attraversato i villaggi delle milizie alawiste, visto la morte in faccia quando una trappola esplosiva ha dilaniato i soldati fermi lungo un tratturo. Il viaggio del ritorno sarà altrettanto difficile. Ma padre Hanna non si preoccupa. «Era la terza volta che provavo ad arrivare. Le altre due avevo dovuto rinunciare a metà strada. Ma due giorni fa mi è caduta sotto gli occhi una frase del Vangelo. “Io – recita il Signore – apro le vostre vie”. Allora ho deciso di riprovarci. In fondo la nostra vita è bella solo se possiamo realizzare la nostra missione e vivere in mezzo alla nostra gente. Per questo ho fretta di tornare al loro fianco. Siamo i figli di san Paolo, siamo la testimonianza della presenza cristiana. I nostri progenitori sono sono morti in quei villaggi e noi faremo lo stesso. Il cristianesimo non può abbandonare la terra che ha bevuto il sangue dei propri martiri».
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