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martedì 9 marzo 2021

Uno sguardo allo storico viaggio del Papa in Iraq

Dopo l'incontro con il Papa che gli ha fatto un simbolico dono, il leader delle brigate Babylon , Rayan alKaldani, cristiano caldeo recentemente sanzionato dagli Stati Uniti, è stato ricevuto dal Patriarca siro-cattolico Younan 


da: Piccole Note, 9 marzo 

La visita del Papa in Iraq è andata bene, anzitutto perché ne è tornato, cosa non scontata come si potrebbe pensare (si immagina che anche un eventuale contagio da Covid-19 sia stato evitato).

Non ha solo confortato il piccolo gregge cristiano del Paese, ma tutta la popolazione, per lo più islamica, afflitta prima da un regime crudele, che per conto degli Usa lo trascinò in una guerra terribile contro il vicino Iran, e poi da indebite attenzioni internazionali, fatte di interventi militari diretti, sanzioni durissime e un’occupazione che ancora permane, nonostante il Parlamento abbia chiesto il ritiro delle truppe Usa.

Tanti i momenti toccanti della visita. Più di tutti, sicuramente, quando, con un  rilancio in mondovisione, è stato recitato il “Padre nostro” in aramaico, la lingua di Gesù.

Il Papa ha incontrato la popolazione sofferente, il grande imam sciita Alì al Sistani, punto di riferimento incontrastato degli islamici, in un incontro pieno di significato, e la Chiesa locale, dai presuli ai fedeli che attendevano una visita papale, ritardata per anni.

Non che la Chiesa abbia abbandonato questo popolo. Tante le attenzioni, le preghiere, gli appelli profusi dai papi in favore di questo povero paese, che sotto il pontificato di Benedetto XVI fu beneficato anche dalla creazione a cardinale di Emmanuel Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, il secondo porporato iracheno nominato a distanza di un secolo dall’altro.

Ma una visita papale ha un significato alto e altro, dimostrazione di una prossimità concreta che non si ferma neanche davanti a pericoli reali, come quelli che hanno messo a rischio il viaggio.

Il Papa ha visitato le rovine della guerra, in particolare quelle lasciate dalla recente invasione del Califfato, ché di invasione si è trattata, dato che la maggior parte dei militanti dell’Isis proveniva da terre straniere, d’oriente e d’occidente, dai miliziani libici, ai sanguinari ceceni, agli uiguri cinesi dello Xinjiang.

Le Tv hanno rimandato lo scempio delle chiese ad opera di questa legione straniera, dimenticando le chiese bombardate dagli americani durante i loro interventi passati, e dimenticando di raccontare chi avesse salvato il Paese dalla marea nera dell’Isis, cioè l’Iran, in una campagna guidata dal generale Qassem Soleimani, ucciso poi dai missili Usa (vedi New York Times: “Perché l’Isis è contento che Soleimani sia morto“).

Della storica visita ha scritto anche il National Interest, commentando: il viaggio di papa Francesco “dovrebbe anche essere occasione di una solenne riflessione da parte degli Stati Uniti, nazione in cui due persone su tre si professano cristiane e anche la nazione che con la sua politica estera errata ha contribuito alla  quasi estirpazione  del cristianesimo in Iraq”.

L’articolo ricorda che quando gli Stati Uniti “invasero” l’Iraq (“invasero”: parola esatta e normalmente evitata in altri report), i cristiani erano il 6 per cento della popolazione.

Racconta che il regime di Saddam perseguitava i cristiani (cosa non vera dato che Tareq Aziz, il vicepresidente che si era scelto, era cristiano, l’unico leader politico cristiano in un Paese arabo, Libano a parte), ma anche generalmente tollerati, come avvenuto per 2000 anni.

Ma dopo l’invasione americana, le guerre settarie, i rapimenti, gli attentati e quant’altro, hanno flagellato la popolazione irachena, cristiani compresi, la cui presenza si è fatta residuale.

Ma se riportiamo l’articolo è per la sua conclusione, che riferisce le parole del reverendo Andrew White, pastore anglicano che opera in Iraq, il quale alla CBS ha dettagliato la drammatica situazione odierna, sedata ma non per questo pacificata.

“White ha detto alla CBS – si legge sul NI – che la situazione dei cristiani iracheni è ‘chiaramente peggiorata’ sotto il regime forzato dagli Stati Uniti rispetto a prima. ‘Non c’è paragone tra l’Iraq di allora con quello odierno’, ha detto. ‘Le cose non sono mai state così difficili per i cristiani. Probabilmente mai nella storia [i cristiani iracheni] hanno conosciuto una situazione come l’attuale'”.

Così, nella tragedia che si perpetua, papa Francesco ha portato l’inerme conforto che può portare un successore di Pietro. I suoi appelli alla pace non verranno accolti, ché prima di scendere dall’aereo gli americani hanno dichiarato che avrebbero risposto ai missili lanciati contro una loro base da Kata’ib Hezbollah, ma almeno per qualche giorno questa parola ha coperto il rumore delle bombe e dei missili.

E per una volta, oltre ai vacillanti apparati di Sicurezza iracheni, a vigilare sull’incolumità di papa Francesco anche i due più attrezzati contendenti, Hezbollah (che già vigilò sulla sicurezza di Benedetto XVI nella sua visita in Libano del 2012) e americani (il cattolico Biden ha grande stima del Papa, fu lui a ricercare la visita di Francesco negli Stati Uniti nel 2017).

Tale insolita convergenza può essere annoverata tra i successi della visita. Per una volta, invece di farsi la guerra, i due nemici hanno collaborato. Non è cosa da poco.

https://piccolenote.ilgiornale.it/50024/la-visita-di-francesco-in-iraq

martedì 2 marzo 2021

Il viaggio di Papa Francesco in Iraq

 

Tre sono gli assi principali attorno ai quali sembra ruotare questo viaggio: l'incontro con la comunità cristiana irachena; il dialogo con l'Islam, in particolare l'Islam sciita; una risposta alla crisi politica in cui l'Iraq è precipitato da decenni. 

Per aiutare i suoi lettori a comprendere queste dimensioni, la rivista Oasis ha prodotto uno speciale dossier.

Riprendiamo qui l'articolo di Maria Laura Conte sulla storia delle persecuzioni dei cristiani in Iraq.


È buio pesto a Mosul nella notte tra il 15 e 16 luglio 2014, quando d’improvviso il silenzio si rompe. Gli uomini neri dello Stato islamico, calati da Raqqa il 10 giugno, lanciano ai cristiani un ultimatum: «Convertitevi all’Islam, pagate la jizya [1] o lasciate la città senza portare nulla con voi entro il 19 luglio a mezzogiorno. Altrimenti vi aspetta la decapitazione».

Da quel momento in poi è l’inferno: è fuga per migliaia e migliaia di famiglie che si mettono in marcia verso villaggi considerati più sicuri, verso il Kurdistan. Ai checkpoint gli uomini di Isis strappano loro tutto, denaro, documenti, le chiavi di casa, perfino gli orecchini. Non risparmiano neppure i neonati, ai quali portano via il biberon di latte, lasciandoli affamati e urlanti.

Nella calura insopportabile di un’estate di sangue viene sradicato quel che restava dell’antichissima comunità caldea di Mosul. L’antica Ninive del libro di Giona, dove nel settimo secolo ebbe origine la liturgia caldea, si svuota degli ultimi quindicimila cristiani. Questo piccolo resto aveva scelto di rimanere nonostante le violenze ripetute, esacerbatesi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, come attesta il rapimento e l’uccisione nel 2006 del vescovo caldeo mons. Farraj Rahho, per citare solo uno tra i tanti casi.

Ma quella notte di luglio la violenza conosce un’impennata: le chiese sono profanate, le croci strappate dai tetti per far posto alle bandiere nere del terrore, tutti i miscredenti cacciati. Una nuova pagina surreale, nella sua tragicità, per Mosul, dopo la caduta in sole sette ore nelle mani di poche centinaia di terroristi a fronte dei 60.000 uomini dell’esercito iracheno.

Da quel momento il terrore dilagante nella piana di Ninive genera un mare di sfollati: solo da Mosul fuggono 500.000 persone, un quarto della popolazione circa. Nel giro di poche settimane naufraga nel Kurdistan iracheno, tra Erbil, Dohuk e Zakho, un milione di persone, che si aggiungono a una popolazione di cinque milioni circa e ai 500.000 profughi dalla Siria.

Non è la prima volta nella storia che i cristiani, per sfuggire a persecuzioni e ingiustizie trovano riparo nella regione alla quale, dopo decenni di scontri con Baghdad (nei quali i cristiani stessi sono rimasti schiacciati pagando un altissimo prezzo), è stata riconosciuta l’autonomia nel 1992. Ricca di petrolio, è considerata l’area più sicura del Paese grazie alla presenza dei quasi mitologici peshmerga, oggi addestrati anche da eserciti stranieri, e nonostante le costanti tensioni con il governo federale che non ha mai sopportato le spinte indipendentiste locali.

Ma è in tutto l’Iraq che il numero degli IDPs (internal displaced people, sfollati), come li definiscono le agenzie delle Nazioni Unite, sta rasentando livelli da collasso: le violenze settarie che hanno incendiato e spaccato il Paese dopo la guerra del 2003 hanno lasciato senza un tetto due milioni di persone, per metà bambini. Si adattano per mesi a vivere in campi allestiti con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil attorno alla parrocchia di Mar Elia) o in edifici in via di costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in piccole casette o negli appartamenti di palazzi ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. Perché in Kurdistan l’attività edilizia paradossalmente ferve: sorprendono gli ambiziosi grattacieli incompiuti che svettano nel centro della capitale e i quartieri residenziali che si intravedono lungo la strada che collega la capitale a Dohuk. Investono qui i ricchi iracheni del Sud, così come stranieri facoltosi, tra cui i turchi, perché la zona è considerata appunto “stabile”.


Trama di destini, non masse senza nome

Finché si leggono nei rapporti delle organizzazioni umanitarie accorse sul campo, le statistiche dei rifugiati e sfollati impressionano, ma finiscono per coincidere con masse di uomini e donne senza volto, ai quali occorre procurare urgentemente enormi quantità di acqua, cibo, vestiti… Gente da organizzare e gestire con progetti specialistici, per esempio di winterizationeducationprotection, come prevede il gergo tecnico. Ma se ognuna di queste azioni è indispensabile per garantire loro la sopravvivenza, non si può arrivare a confondere con una massa impersonale quella che è una trama articolata di profili singolari e vicende uniche. Ogni storia è diversa, ha in sé dettagli particolari che concorrono a comporre quel fenomeno travolgente, dalle radici lontane, che è lo spostamento di intere comunità da Est a Ovest. Un “trasloco” che va cambiando la geografia umana dell’Iraq, dei Paesi vicini e in parte, forse, benché in modo non misurabile, di Paesi anche molto lontani, fino all’altra parte dell’Oceano Atlantico.

«Se va avanti così, in sei o sette anni non avremo più cristiani in Iraq», sostiene mons. Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil.  Ogni giorno pare che una settantina di persone lasci il paese per guadagnarsi un futuro altrove. Goccia dopo goccia, la costante partenza dei cristiani si configura come un processo inarrestabile, che ha innescato un cambiamento profondo, di ecosistema, a prescindere dalla consapevolezza o meno dei suoi protagonisti. Perché il fatto che a Mosul dal luglio 2014 non si celebri più la messa per la prima volta in quasi duemila anni di storia di presenza cristiana, non può essere tema esclusivo di quella particolare comunità o dei cristiani di qui.

L’emorragia continua che sta dissanguando il Medio Oriente, almeno da un secolo, da un lato ne cambia la composizione, privandolo di una presenza garante della sua pluralità, come scrisse già nel 2002 non un cristiano, ma un saudita, il principe Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud: «Gli arabi cristiani, in forza della loro pluralità culturale, erano e sono sempre, una sfida costante per la cultura e il pensiero. La loro presenza è una garanzia contro lo svilupparsi dell’arbitrio e dell’estremismo, e di conseguenza, di una violenza che conduce a catastrofi storiche»[2]. E dall’altra la diaspora impianta altrove comunità che custodiscono – e nessun checkpoint di terroristi glielo può sottrarre – il deposito di una tradizione millenaria. Che destino avranno loro, le loro famiglie e il loro patrimonio di cultura, tradizioni e religione? Si “integreranno” fino al punto di confondersi completamente nelle nuove società o inietteranno una differenza nei nuovi contesti? Se si entra in una chiesa a Erbil e si assiste alla messa secondo un rito rimasto intatto nei secoli, celebrato nella stessa lingua dell’apostolo Tommaso che evangelizzò queste terre, o se si ascoltano i racconti di uomini e donne che per fedeltà al loro battesimo si sono lasciati uccidere, sembra impossibile accettare che questa cultura e fede siano destinate a sbriciolarsi nell’innesto in Occidente. Eppure anche questo pericolo incombe, accanto a quello più immediatamente violento di Isis.


Quando è cominciato?

Se si volesse fissare una data di inizio per l’esodo dei cristiani mediorientali, si potrebbe risalire a un secolo fa, al 1915, data del genocidio di armeni e siriaci. Cominciarono a partire dalla Turchia, dall’Iraq e dalla Siria. Gli anni del regime baatista hanno solo aggravato la tendenza all’esodo. Secondo stime non ufficiali oggi sono circa 350-400.000 i siriaci e i caldei che vivono in Europa, in Svezia e Germania soprattutto. Il resto è disperso tra Belgio, Francia, Olanda, Austria, Scandinavia e Inghilterra. Circa 100.000 sono in Australia i cristiani che arrivano da Oriente, con qualche presenza in Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti sono 800-900.000. Ma recuperare dati certi sulla parabola demografica dei cristiani in Iraq è un’impresa. Il patriarca di Baghdad dei caldei, Louis Sako, parla di un milione e mezzo circa prima del 2003. Secondo l’ultimo censimento realizzato, che risale al 1965, i cristiani erano 250.000 circa[3], equivalenti al 3% della popolazione. Per quanto riguarda l’oggi, secondo il patriarca caldeo i cristiani si aggirano tra i 100.000 e i 400.000.


Non solo cristiani i perseguitati

Sebbene i numeri della cancellazione dei cristiani siano i più imponenti, va sempre ricordato che non sono solo cristiane le vittime della violenza praticata da Isis. Le minoranze come gli yazidi, i turcomanni, i mandei, sono state tutte prese di mira dai jihadisti nel loro disegno di purificazione dello Stato dalla presenza dei “miscredenti”. Gli yazidi pare fossero 500.000 in Iraq, la maggioranza residente attorno a Sinjar. Oggi almeno 400.000 di loro sono sfollati. Mentre sono 3.000 circa le loro donne rapite da Isis, delle quali solo 240 sono riuscite a tornare libere. Molte sono rimaste incinta dopo gli abusi subiti, e hanno scelto nella maggior parte dei casi di abortire. Una strage di innocenti dentro un’altra strage. Chi è riuscita a scappare dalla morsa nera ha raccontato dell’assurda violenza e dell’abbrutimento di quegli uomini. Come Amsha, 19 anni, il viso pallido stretto da un velo cupo, lo sguardo basso, le mani inquiete a tranquillizzare il suo bambino aggrappato alla gonna. Si è rifugiata in una località nel nord del Kurdistan, Sharia, insieme ai suoi famigliari e ai suoi due bambini, il primo di due anni e il secondo appena nato, in una casetta in costruzione, dove l’odore di una convivenza sovraffollata si mescola a quello del cibo in cottura e della campagna brulla. Fu catturata e assegnata come schiava a un jihadista dello Stato islamico originario di Falluja, stabilitosi a Mosul con moglie e figli. È rimasta in quella casa per alcune settimane, chiusa in una stanza con il figlio. Finché una notte, spinta dal pianto disperato del bimbo affamato, è riuscita a scappare e, dopo ore di marcia nella notte, a trovare aiuto. Il suo racconto dei giorni di prigionia è molto asciutto: Amsha non riesce a offrire molti dettagli, ma non può dimenticare che tre delle sue compagne per la disperazione si sono tagliate le vene, e che del marito non ha più notizie dal giorno del rapimento.


In attesa del VISA

Di quella trama sottile che lega milioni di sfollati in un destino assurdo fanno parte anche Foco e sua sorella Lary, chiamati così dai genitori legati al movimento dei Focolari. Diciott’anni, esile, lo sguardo di pece, durante la permanenza provvisoria a Dohuk, Foco dava una mano agli operatori della Caritas che si occupa là, come nel resto del Paese, almeno fin dove può spingersi, delle migliaia e migliaia di iracheni sfollati, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa: «Avevamo una profumeria a Qaraqosh – racconta Foco – un bel negozio. Quando abbiamo capito che stavano per arrivare i terroristi, il 6 agosto alle 11 siamo scappati. Tutti i cristiani del mio villaggio sono fuggiti. Ora siamo qui, in attesa del permesso di entrare in Francia, dove vive una zia. Per ricominciare da capo». “In attesa di ripartire”: la fuga, decisa quando ormai il tam-tam confermava l’avanzata inarrestabile degli assassini e l’abbandono inaspettato della città da parte delle forze curde che dovevano difenderla, approda in prima battuta in Kurdistan. Ma la lunga sosta in quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio, qual è un campo di profughi, non spegne il desiderio vitale di chi è stato privato di tutto e si sente braccato, né rimuove il bisogno di ri-partenza, di lasciarsi riafferrare da una speranza di ripresa.

Il visto alla fine è arrivato, a fine febbraio, e il giovane di Qaraqosh è partito con tutta la famiglia per Lione. La foto che ha postato su Facebook con poche valigie all’aeroporto di Erbil prima del decollo è la traccia di quel viaggio che conduce lui e migliaia di altri dagli antichi villaggi iracheni verso l’Europa. Tornerà un giorno alla sua casa? Ci sarà una nuova chance per lui in Iraq? Intanto a Lione ha ricominciato ad andare a scuola.


L’addio dei Vescovi

Lungo la direttrice da Oriente a Occidente si colloca anche la vicenda di mons. Amel Shamon Nona, già vescovo di Mosul. Papa Francesco l’ha nominato vescovo della comunità di Sidney, che conta circa 50.000 fedeli, al posto di mons. Djibrail Kassab, che a sua volta lasciò Bassora nel 2006. La città era stata abbandonata in massa dai cristiani per il massacro sistematico perpetrato contro di loro, quella volta da milizie sciite. «Quando mi hanno detto “o ti converti o paghi la jizya o te ne vai”, io ho scelto di andarmene – spiega mons. Nona, a febbraio ancora a Erbil. Basta, era arrivato il momento di dire basta: la misura era stata superata. Da 1400 anni i cristiani in queste terre vivono pagando il prezzo della loro fede. Ci si sorprende di Isis come di un fenomeno recente, ma noi a Mosul lo conoscevamo almeno dal 2003: la vita per i cristiani era drammaticamente peggiorata. Quando uscivano la mattina per andare al lavoro, non sapevano se sarebbero ritornati la sera. Chi aveva attività commerciali doveva pagare la jizya e riceveva una ricevuta con la scritta Stato islamico. Dopo la morte del mio amico e predecessore, quando mi muovevo cercavo di fare percorsi sempre diversi, per ridurre il pericolo di attentati».

Nona è rimasto dall’arcivescovo di Erbil per qualche mese, prima del trasferimento in Australia. Anche lui “ospite” del quartiere cristiano, Ankawa, che tra giugno e agosto 2014 ha visto più che raddoppiata la sua popolazione: da 40.000 gli abitanti sono passati a 80-90.000. Non è mancata la solidarietà immediata di tanti che hanno ospitato sotto il loro tetto per mesi famiglie intere, mentre la Caritas irachena e le diocesi hanno moltiplicato gli sforzi per rispondere ai bisogni di persone sconosciute, strappate dal ciglio della strada. 

«Vogliamo aiutarli non solo assicurando cibo, coperte, cure mediche, ma promuovendo la loro dignità integrale – spiega mons. Warda. Desideriamo “aiutarli ad aiutarsi”. La sfida che incombe prepotente è l’emigrazione verso la Turchia, il Libano, la Giordania, prime tappe di un viaggio che spesso ha destinazioni ancora più remote. Se non possiamo arginarla del tutto, almeno possiamo tentare di contenerla. Per esempio offrendo un contributo economico per pagare l’affitto di una casa qui. Erbil non è il loro villaggio, ma almeno non è straniera. L’Europa, l’America sembrano promettere molto, quanto le immagini da qui, ma poi cosa troverà lì davvero, chi parte esattamente non lo sa. Magari solo porte chiuse e ancora la strada». Un progetto in controtendenza per tutelare la ricchezza di una stoffa umana variegata come quella del popolo iracheno: «Per l’Occidente può essere facile accogliere cento o mille profughi – osserva il patriarca Sako – il punto è come aiutare coloro che vogliono rimanere in patria. Tutti parlano di democrazia, di riforme, di cambiamento. Ma prima di tutto ci vuole un’educazione nuova, che sradichi fin dai suoi primi germogli la mentalità del jihadista. Solo così si può pensare a un futuro per i cristiani qui. E anche a un futuro sicuro per l’Occidente. L’islamizzazione radicale è l’obiettivo di chi non vuole i cristiani qui e voi in Occidente non li conoscete, non sapete cosa intendono dire quando parlano».


Senza scarpe nel fango

Non c’è spazio per le illusioni quando si cammina tra tende di sfollati e bagni comuni provisori, si parla con bambini che giocano nel fango nel pieno dell’inverno e non hanno le scarpe, o si incrocia lo sguardo con chi è scampato alla morte, è stato derubato di tutte le sue cose e dei suoi progetti, e vive appeso a un filo. «Nella migliore delle ipotesi – osserva ancora mons. Warda –, se anche lo Stato islamico fosse sconfitto e i suoi miliziani eliminati, che cosa potrebbe trovare chi si azzardasse a rientrare in quei villaggi? Case distrutte, terreni minati e soprattutto il tessuto di fiducia reciproca tra gli abitanti stracciato».

Tra quanti sono stati cacciati dai loro villaggi c’è anche chi non vuole abbassare la testa e cerca di costituire delle milizie cristiane, come Yoseph Yacoub Methy, del Bethnarin Patriotic Party: «Nessuno prende le nostre difese fino in fondo, l’esercito iracheno e i peshmerga curdi hanno già dimostrato nella piana di Ninive che sanno abbandonare i cristiani nella mani di Isis senza muovere un dito. Dobbiamo imparare a difenderci da soli». Un’impresa quasi impossibile considerata la situazione di frammentazione dei pochi cristiani nel Paese (divisi politicamente in oltre sette partiti), a fronte di nemici numerosi e molto ben armati.

Dove si è installata la furia diabolica di Isis, casi come quello di Mahmad al-Assali, professore all’università di Mosul ucciso per aver contestato l’espulsione dei cristiani e testimonianza potente di quale tipo di coesistenza poteva essere possibile, sono rimasti rari. Se per pavidità o calcolo, resterà da decifrare. Più si affonda nella complessa realtà e storia irachena, più diventano martellanti due interrogativi: perché tanto odio nei confronti dei cristiani? E perché provare ad aiutarli a restare? Un principio di risposta si può attingere da una riflessione del patriarca Sako: «Il nostro problema è che siamo assimilati all’Occidente. E molti musulmani pensano che di là vengano tutti i loro mali: l’Occidente sostiene Israele, l’Occidente attacca i musulmani e sfrutta il petrolio… Siccome considerano l’Occidente cristiano, la sua colpa ricade anche su di noi. I membri dello Stato islamico in particolare ritengono che i cristiani con la loro libertà, i loro costumi diano fastidio. Guardate le giovani cristiane in jeans e senza velo! In questo presunto califfato una cristiana libera, vestita diversamente, obbliga le altre donne a porsi delle domande. I cristiani con la loro differenza seminano il dubbio»[4]. Sono insopportabili, vanno eliminati.

Insopportabili come la croce, che nelle chiese caldee è senza il Cristo crocifisso, solo legno. A sottolineare che Gesù ha sconfitto la morte, la violenza, la spada, ed è risorto. La croce dei caldei è una croce gloriosa, la certezza alla quale non smettono di restare aggrappati.

[1] La jizya, l’imposta di “protezione” prevista dalla sharî‘a, pare si aggirasse intorno ai 450 dollari, cifra esorbitante che non sarebbe stata comunque sufficiente a salvare la vita di chi non si convertiva, tanto più in uno Stato che non può accettare al suo interno la presenza di “miscredenti”.

[2] Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud, Arabes chrétiens, ne partez pas !, «an-Nahar», 28 marzo-3 aprile 2002, p. 28.

[3] Andrea Pacini (a cura di), Comunità cristiane nell’Islam arabo, Fondazione Agnelli, Torino 1996, p. 69.

[4] Louis Sako, « Ne nous oubliez pas ». Le SOS du patriarche des chrétiens d’Irak, Bayard, Paris 2015, p. 34.

Iraq

venerdì 26 febbraio 2021

Provocazioni di guerra in Siria, il popolo siriano ne fa la spese

Il recente rafforzamento delle truppe statunitensi in Iraq;

l'ulteriore messa in sicurezza dei campi petroliferi siriani da parte delle forze curde e di occupazione nel NordEst della Siria;

il recente aumento degli attacchi in Siria da parte di cellule isolate dell'ISIS (sferrati partendo dalle vicinanze delle aree di occupazione statunitense);

la consegna di 200 Land Rover britannici per pattugliare i confini libanesi (che pochi dubitano sia una mossa per prevenire l'accesso di Hezbollah a sostegno della Siria, piuttosto che - come propagandato - per prevenire incursioni terroristiche in Libano); 

 l'improvviso riaccendersi ancora una volta nei media britannici e statunitensi [ e italiani ] della sbraitante retorica delle fotografie "Caesar" finanziate dal Qatar ( da tempo screditate);

gli attacchi aerei statunitensi sulle posizioni "iraniane" in Siria la scorsa notte:

  tutti questi fatti presentano un quadro profondamente preoccupante di una rinnovata politica aggressiva che intensifica gli sforzi per isolare ulteriormente la Siria - e l'Iran - che è stato a lungo l'obiettivo finale degli interessi israeliani, statunitensi e degli alleati nella regione.

Non hanno importanza i numerosi crimini di guerra e i massacri di massa commessi dai molteplici gruppi che essi hanno supportato in Siria, che non sono mai menzionati dai media o dai governi occidentali, o la sistematica fame delle popolazioni civili e la distruzione delle nazioni che hanno effettuato per raggiungere i loro obiettivi...

Nel frattempo, il popolo siriano continua a soffrire insopportabilmente le conseguenze di tutte queste azioni e il mondo come al solito è sordo e cieco alle loro voci e non si preoccupa minimamente della realtà sul terreno.

E i governi si preoccupano dell'aumentata e continua instabilità che questo causa alla regione e a tutta la sua gente? Ne dubito. Dopo tutto, la guerra può essere un affare altamente redditizio per coloro che hanno le risorse militari...  Signore, abbi pietà.

      rev. Andrew Ashdown


Sacerdote a Damasco: Altro che Covid, i siriani sono affamati e disperati  

Damasco - (AsiaNews)

La fame si vede anche per le strade, fra persone disperate che si svegliano alle tre del mattino e passano ore fra lunghe code (nella foto) per comprare il pane, poi alle 8 vanno al lavoro. Quando ritornano a casa, il pomeriggio, hanno solo la forza di trascinarsi a letto”. È quanto racconta ad AsiaNews padre Amer Kassar, sacerdote della chiesa della Madonna di Fatima a Damasco, confermando una situazione sempre più drammatica in Siria, dove una fetta crescente della popolazione è a rischio fame.

Il pane costa 250 lire, ma servono ore per comprarlo. L’alternativa sono i forni privati, dove non si fa la coda, ma lì costa mille lire e sono in pochi a poterselo permettere. E poi i bambini - prosegue il sacerdote - che non vanno a scuola ma vagano per le strade, in cerca di un lavoretto per contribuire al sostentamento della famiglia”

La situazione difficile, non solo a Damasco ma in molte aree e centri urbani del Paese, emerge anche dal dato relativo alla microcriminalità e alle violenze a essa legate. “Altro elemento molto grave, che si verifica da qualche tempo anche nella capitale - sottolinea p. Kassar - sono i ladri che compiono sempre più furti nelle case, nei negozi, rubano le auto per rivenderle. Nel nostro quartiere [cristiano] nei giorni scorsi hanno assaltato un uomo dopo che aveva prelevato dei soldi in banca. Durante la rapina, i malviventi hanno anche cercato di ucciderlo e il fatto è avvenuto di mattina, alla luce del sole. Il ‘coraggio’ della disperazione”.

Secondo le stime del Programma alimentare mondiale (Pam), a oggi vi sono circa 12,4 milioni di persone in condizioni di “insicurezza alimentare” in Siria, nazione devastata da un conflitto decennale che ha provocato quasi 400mila morti e milioni di sfollati. Il livello di criticità, avvertono gli esperti, è ormai “allarmante”. Dai risultati emersi da uno studio realizzato a fine 2020, afferma l’agenzia Onu, emerge che “circa il 60% della popolazione” è “in una situazione di insicurezza alimentare” ed è di gran lunga “il dato peggiore mai registrato” dall’inizio del conflitto.

In una nazione abitata da circa 20 milioni di persone, sono sempre più quanti non riescono a mettere insieme il pranzo o la cena. Il dato è in netta crescita rispetto ai 9,3 milioni fatti registrare nel maggio scorso e il trend sembra aumentare per il futuro. L’83% della popolazione, da stime delle Nazioni Unite, vive al di sotto della soglia di povertà. Dieci anni di guerra civile, violenze jihadiste, l’emergenza profughi, le sanzioni internazionali e la crisi delle banche libanesi hanno messo in ginocchio il Paese e i più colpiti, come ha sottolineato l'arcivescovo maronita di Damasco, sono i più fragili, i malati, i bambini e gli anziani nel contesto di una crisi mai vista prima.

Questi ultimi mesi - spiega il sacerdote a Damasco - sono stati molto duri per i siriani, perché la lira nazionale si è di molto abbassata. Prima del nuovo coronavirus il rapporto era di uno a 1500, adesso siamo a 3600 lire per un dollaro. Uno stipendio medio è di 25/30 dollari, mentre i prezzi delle materie prime sono di molto aumentati a causa dell’inflazione. Il governo elargisce dei bonus un paio di volte all’anno, ma servono a poco. Una famiglia, in molti casi, è costretta a sopravvivere con un dollaro al giorno, o anche meno”.

In questo contesto di enorme bisogno, in cui la pandemia di Covid-19 “è ormai ignorata, perché la gente non può permettersi il lusso di non lavorare, di comprare mascherine o gel per l’igiene personale la Chiesa è presente, ma i bisogni sono molto più grandi”. Uno dei progetti di maggiore successo è quello legato agli Ospedali aperti che coinvolge due strutture a Damasco e una ad Aleppo, “ma non possiamo sostituirci al governo o alle organizzazioni internazionali”, ammette sconsolato p. Kassar.

Conclude: “Il popolo siriano è in condizioni terribili, senza speranza per il futuro, senza una luce in fondo al tunnel. Serve collaborazione a tutti i livelli, bisogna allentare le sanzioni e garantire la possibilità di viaggiare, di far rientrare i soldi in Siria oggi bloccati dalle varie crisi che passano dall’Europa al vicino Libano”.

giovedì 25 febbraio 2021

Quaresima: Le cinque vie della riconciliazione con Dio

 di Manuel Nin 

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo.

Volete che parli delle vie della riconciliazione con Dio? Sono molte e svariate, però tutte conducono al cielo. La prima è quella della condanna dei propri peccati. Confessa per primo il tuo peccato e sarai giustificato. Perciò anche il profeta diceva: «Ho detto: Confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato». Condanna dunque anche tu le tue colpe. Questo è sufficiente al Signore per la tua liberazione. E poi se condanni le tue colpe sarai più cauto nel ricadervi. Eccita la tua coscienza a divenire la tua interna accusatrice, perché non lo sia poi dinanzi al tribunale del Signore.

Questa è dunque una via di remissione, e ottima; ma ve n’è un’altra per nulla inferiore: non ricordare le colpe dei nemici, dominare l’ira, perdonare i fratelli che ci hanno offeso. Anche così avremo il perdono delle offese da noi fatte al Signore. E questo è un secondo modo di espiare i peccati. «Se voi in fatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi».

Vuoi imparare ancora una terza via di purificazione? E quella della preghiera fervorosa e ben fatta che proviene dall’intimo del cuore.

Se poi ne vuoi conoscere anche una quarta, dirò che è l’elemosina. Questa ha un valore molto grande.

Aggiungiamo poi questo: Se uno si comporta con temperanza e umiltà, distruggerà alla radice i suoi peccati con non minore efficacia dei mezzi ricordati sopra. Ne è testimone il pubblicano che non era in grado di ricordare opere buone, ma alloro posto offrì l’umile riconoscimento delle sue colpe e così si liberò dal grave fardello che aveva sulla coscienza.

Abbiamo indicato cinque vie di riconciliazione con Dio. La prima è la condanna dei propri peccati. La seconda è il perdono delle offese. La terza consiste nella preghiera. La quarta nell'elemosina. La quinta nell'umiltà.

Non stare dunque senza far nulla, anzi ogni giorno cerca di avanzare per tutte queste vie, perché sono facili, né puoi addurre la tua povertà per esimertene. Quand'anche ti trovassi a vivere in grave miseria, potrai sempre deporre l’ira, praticare l’umiltà, pregare continuamente e riprovare i peccati, e la povertà non ti sarà mai di intralcio. Ma che dico? Neppure in quella via di perdono in cui è richiesta la distribuzione del denaro, cioè l’elemosina, la povertà è di impedimento. No. Lo dimostra la vedova che offrì i due spiccioli.

Avendo dunque imparato il modo di guarire le nostre ferite, adoperiamo questi rimedi. Riacquistata poi la vera sanità, godremo con fiducia della sacra mensa e con grande gioia andremo incontro a Cristo, re della gloria, e conquisteremo per sempre i beni eterni, per grazia, misericordia e bontà del Signore nostro Gesù Cristo.


Uno dei bei testi di San Giovanni Crisostomo, che poi è entrato nella grande maggioranza delle tradizioni cristiane di Oriente e di Occidente, è l’omelia sulle Cinque vie della riconciliazione con Dio. Un testo in cui il Crisostomo presenta al suo uditorio, le vie per la riconciliazione col Signore, che è a sua volta riconciliazione con l’altro. È un testo bello, chiaro, di un predicatore che si trova davanti al suo gregge, un gregge che sicuramente ha i suoi problemi, i suoi limiti, ma che ha le sue grandezze, le sue cose belle e positive, e, soprattutto un gregge che, come tutti noi, è stato battezzato in Cristo ed è stato redento dal sangue di Cristo. Vi propongo, in questi giorni all’inizio della Grande Quaresima, di leggere il testo del Crisostomo e di cercare direi di sentirlo, di ascoltarlo nella propria vita. D’altronde l’omelia, non è altro che una rilettura dei capitoli 5 e 6 del vangelo di Matteo. Le cinque vie che san Giovanni Crisostomo ci propone, sono delle vie, degli aiuti possiamo dire, che ci faranno vivere la Quaresima in modo direi molto cristiano. In fondo riprendono il filo conduttore delle pericopi evangeliche delle quattro domeniche dell’inizio del Triodion.

Giovanni Crisostomo propone cinque vie che il cristiano ha in mano per riconciliarsi con Dio. Alla conclusione della breve omelia dice:

Abbiamo indicato cinque vie di riconciliazione con Dio, la prima è la condanna dei propri peccati, la seconda è il perdono delle offese, la terza consiste nella preghiera, la quarta nell’elemosina, la quinta nell’umiltà.

  La prima è la condanna dei propri peccati. Si può dire anche la confessione dei propri peccati affinché il Signore misericordioso li perdoni. Una confessione in primo luogo della sua misericordia; confessare che Lui ci ama, ci perdona, ci salva; questo è il cammino quaresimale cristiano. Confessare, riconoscere i propri peccati per diventare, per essere coscienti che abbiamo bisogno di lui, che non siamo, non saremo mai, autosufficienti; forse è questo il primo peccato di cui dovremo accusarci: la tentazione ad essere autosufficienti, il credere che possiamo prescindere in tutto da Dio, e degli altri, dei fratelli.

         La seconda via è il perdono delle offese, cioè anche il non ricordare le colpe dei nostri nemici; è un tema che nasce dal Vangelo stesso e si trova quindi presente in tutta la letteratura spirituale da Oriente ad Occidente. Il perdono dell’offesa, il non condannare l’altro –lo ripeteremo spesso nella preghiera di sant’Efrem durante la Quaresima. Guardate che questa sarà la pietra angolare della nostra vita cristiana: accettare il perdono e darlo. Accettare il perdono da Dio e dal fratello, e questo delle volte ci chiederà una buona dose d’umiltà, perché accettarlo è ammettere in qualche modo che abbiamo sbagliato, che abbiamo peccato. E, legato allo stesso tema, il non ricordare le colpe degli altri, il ricordo dei mali subiti.

         La terza via consiste nella preghiera. Preghiera fervorosa, ben fatta, che viene dal profondo del cuore. E una preghiera per noi, per la nostra vita, ma anche e soprattutto una preghiera per gli altri, per la Chiesa, per il mondo.

         La quarta via consiste nell’elemosina. Il dare gratuitamente, con compassione nel senso più forte del termine, cioè dando qualcosa che ci faccia uscire da noi stessi, uscire dal nostro utile soltanto, e ci porti a compatire con gli altri, a condividere quello che siamo e viviamo.

         La quinta via consiste nell’umiltà. Collegata questa quinta via con la quarta; umiltà come atteggiamento di accoglienza del dono; del dono di misericordia e di perdono di Dio, del dono dell’amore e della compassione dell’altro.

Vi propongo questo testo del Crisostomo -e proponendolo non vi propongo altro che il discorso della montagna del capitolo 5 del Vangelo di Matteo. Sono cinque vie che dovrebbero configurare il nostro vivere quaresimale, configurarci a Cristo Signore. La dimensione penitenziale che spesso si dà alla Quaresima non avrà -non ha- nessun senso se non come preparazione alla Pasqua: la penitenza, il digiuno, le altre forme di privazione guardano non a se stesse ma alla Pasqua di Cristo.

          Giovanni Crisostomo non ci propone altro che vivere la Quaresima –tutta la nostra vita cristiana con un atteggiamento di sincerità e di verità come cristiani, per arrivare a configurarci con Cristo stesso. Quello che viviamo e il come lo viviamo in questo periodo deve rispondere a qualcosa che è radicato nel più profondo del nostro cuore; altrimenti le pratiche che osserveremo potrebbero diventare vane. Ricordate l’ammonimento che troviamo in uno dei tropari del mercoledì della settimana dei latticini: “Digiunando dai cibi, anima mia senza purificarti dalle passioni, invano ti rallegri per l’astinenza, perché se essa non diviene per te occasione di correzione, sei in odio a Dio come menzognera e ti rendi simile ai perfidi demoni che non si cibano mai”.

         Giovanni Crisostomo ci propone come terza via “una preghiera fervorosa, ben fatta, che viene dal profondo del cuore”. E se un seme nasce dalla terra, dal cuore della terra, è perché qualcuno, il vento, il contadino, l’ha gettata lì; la preghiera deve nascere dal profondo del nostro cuore, e questo perché qualcuno la introduce lì e noi tutti l’accogliamo. E questo qualcuno è il Signore stesso per mezzo della preghiera della Chiesa. Una preghiera che non sarà mai qualcosa di soggettivo, bensì molto oggettivo, datoci dalla Chiesa stessa.

         In questo momento che inizieremo il nostro cammino quaresimale, vi chiedo di essere uomini e donne di preghiera, una preghiera personale, che rafforza il vostro rapporto personale e filiale con Dio. E una preghiera comunitaria, ecclesiale, frequentando la liturgia della nostra Chiesa, nella nostra cattedrale della Santissima Trinità, a Giannitsà, a Kifissià, a Nea Makri. Sentendoci tutti pietre vive dell’Esarcato. Una frequentazione della liturgia che è necessaria perché è anche una pedagogia per tutti noi nel quotidiano imparare il cammino della preghiera. Quindi vi esorto a una preghiera personale, a una preghiera comunitaria / ecclesiale. E anche in questi momenti della storia che ci tocca di vivere, una preghiera per tutta la Chiesa: per i vescovi, per i sacerdoti, per tutti i fedeli, affinché il cammino quaresimale di quest’anno ci porti a vivere nella plenitudine la Santa Pasqua.

         Concludo lasciandovi un testo degli Apoftegmi dei Padri che riprende lo spirito dell’omelia del Crisostomo che vi ho proposto all’inizio.

Si racconta di due amici che camminavano insieme per il deserto. A un certo punto litigarono e uno schiaffeggiò l’altro. Colui che fu schiaffeggiato si sentì ferito nel suo orgoglio, ma non disse niente e scrisse sulla sabbia: “Oggi il mio migliore amico mi ha schiaffeggiato”. Continuarono a camminare finché trovarono una oasi e lì decisero di fare un bagno. Colui che era stato schiaffeggiato si trovò ad essere inghiottito dall’acqua e dal fango fino a quasi annegare. L’amico però gli salvò la vita. Allora colui che era sfuggito alla morte scrisse su una pietra: “Oggi il mio migliore amico mi ha salvato la vita”. L’altro gli chiese: “Ma perché quando ti ho schiaffeggiato hai scritto sulla sabbia ed adesso che ti ho salvato la vita scrivi sulla roccia?” L’altro rispose: “Quando qualcuno ti fa del male o ti ferisce, dobbiamo scriverlo sulla sabbia affinché lì il vento del perdono possa cancellare e portare via quello che abbiamo scritto. Ma quando qualcuno ci fa del bene, lo dobbiamo incidere sulla roccia affinché mai possa essere cancellato.

http://manuelninguell.blogspot.com/2019/02/

domenica 21 febbraio 2021

"Non di solo pane vive l'uomo": nella Damasco martoriata da 10 anni di guerra la scommessa dei Francescani

 

I francescani  hanno creato e aperto al pubblico una biblioteca intitolata a san Francesco nel quartiere di Bab Touma di Damasco: il  racconto di padre Bahjat Elias Karakach

sabato 20 febbraio 2021

Con Biden, per la Siria nulla cambierà

 

Di Elijah J. Magnier 

Tradotto da A.C. 

Molto difficilmente il presidente Biden metterà la Siria nella lista delle sue priorità per la semplice ragione che nessuna delle soluzioni che si prospettano finora si sposa con gli interessi degli Stati Uniti. Quindi si prevede (perlomeno nel primo anno di questa nuova amministrazione) che le truppe americane che attualmente occupano il nordest del paese e il valico di frontiera di Al-Tanf (che separa la Siria dall’Iraq), restino dove sono e che rimangano tali e quali tutte le misure prese nei confronti di Damasco. E così l’amministrazione Biden presumibilmente potrà ottenere dei vantaggi dalle sanzioni imposte da Donald Trump senza che ci siano modifiche di rilievo. Ed è pure molto probabile che gli Stati Uniti continuino ad interpretare in modo sbagliato le dinamiche locali, a incoraggiare i conflitti e le divisioni tra le popolazioni che abitano nello stesso paese senza mai smettere di credere, erroneamente, di poter cambiare i regimi attraverso l’imposizione di pesanti sanzioni.  

Gli Stati Uniti dovranno sicuramente prendere in esame una serie di fattori importanti prima di fare dei passi che cambino la loro posizione e la loro politica nei confronti della Siria. Washington innanzitutto privilegia gli interessi e la sicurezza nazionale di Israele nel Levante. E Tel Aviv ritiene che tenere le truppe d’occupazione americane nel nordest della Siria e al valico di al-Tanf sia importantissimo al fine di rallentare o cercare di impedire il flusso della logistica e dei commerci tra Beirut, Damasco, Baghdad e Teheran.  Però le forze ausiliarie, quelle siriane e gli alleati dell’Iran hanno preso il controllo del valico di frontiera di Albu Kamal, più a nord. Fu una mossa orchestrata dal generale iraniano Qassem Soleimani (assassinato dagli Stati Uniti all’aeroporto di Baghdad nel gennaio 2020) che sorprese e amareggiò moltissimo le forze americane oltre a guastare la festa agli israeliani intenti a celebrare il controllo degli Stati Uniti sul più importante posto di frontiera tra l’Iraq e la Siria, quello di al-Tanf. 

La presenza delle truppe degli Stati Uniti in Siria fornisce un appoggio morale e militare a Israele e gli garantisce le informazioni raccolte dalla loro intelligence.  Tel Aviv dichiara di aver lanciato più di mille attacchi contro vari obbiettivi in Siria a partire dal 2011, l’anno dell’inizio della guerra. Israele può infatti contare sul fatto che ci siano le forze americane nei paraggi (nonostante ci siano le loro basi in Israele) per riuscire a intimidire la Siria e far sì che i suoi leader non mettano in atto una strategia della dissuasione che gli impedirebbe di violare la sovranità del paese a suo piacimento.   La presenza degli Stati Uniti infatti può essere utile a convincere il presidente siriano Bashar al-Assad a pensarci bene prima di attuare una ritorsione magari lanciando contro Israele una decina di quei missili di precisione che ha ricevuto dall’Iran. Finora le violazioni di Israele del territorio e quindi della sicurezza siriana  hanno avuto un costo irrilevante. E l’assenza di una risposta adeguata da parte di Assad non può che generare altri attacchi israeliani. Il presidente siriano ha deciso di non seguire l’esempio di Hezbollah che con le sue minacce ha causato il ritiro dell’esercito israeliano dal confine con il Libano per sei mesi ( e ancora oggi resta invisibile): la paura che si avverasse la promessa del segretario generale Sayyed Hassan Nasrallah di uccidere per vendetta un soldato israeliano era consistente. 

Pertanto Israele farà di tutto per riuscire ad influenzare l’amministrazione Biden e convincerla a non ritirare le truppe dalla Siria. Questo farà sì che non ci siano dei cambiamenti nel corso di quest’anno anche perché ovviamente non è facile per gli Stati Uniti decidere di abbandonare il valico di frontiera che separa la Siria dall’Iraq. 

Il secondo motivo è che Joe Biden vede nella Russia un avversario.  Infatti il presidente Putin ha ordinato l’ampliamento dell’aeroporto siriano di Hmeimin (che opera sotto il comando e l’amministrazione russa nel governatorato occidentale di Latakia)  per ospitare i bombardieri strategici che trasportano bombe nucleari. E questo significa che la Russia sta costruendo una base che sfida quella americana e turca di Incirlik  in cui ci sono cinquemila soldati americani e cinquanta bombe nucleari che sono parte delle riserve della NATO, una base da cui partirebbe la risposta ad un attacco russo nel caso di guerra nucleare. Per la Russia la Siria è diventata il suo fronte avanzato contro la NATO, la sua finestra sul Mediterraneo e la sua indispensabile base navale in Medio Oriente.

L’ex presidente Donald Trump aveva ordinato il ritiro di gran  parte delle sue truppe da molte zone del nordest siriano, nei governatorati di Hasaka, Deir ez-Zor e Raqqa. Il ritiro permetteva  alla polizia militare russa e all’esercito siriano di schierarvi le loro forze in gran numero e di controllare una serie di posizioni lungo il confine tra Siria e Turchia. Biden a questo punto non è più in grado di riavere quel pieno controllo delle province che gli Stati Uniti avevano prima dell’avanzata russo-siriana e deve lasciare il nordest alla Russia e all’esercito di Damasco. Quindi l’opzione migliore per la nuova amministrazione americana potrebbe essere quella di lasciare le cose come stanno. Se invece Biden ordinasse alle sue truppe di andarsene da tutte quelle zone che  occupano ancora in Siria verrebbe accusato di lasciare il paese nelle mani della Russia, un avversario dell’America, nonché di rompere l’equilibrio esistente tra le due superpotenze e di nuocere agli interessi degli Stati Uniti nel Levante. 

Per quanto riguarda i Curdi Biden non può, per la pressione esercitata sugli Stati Uniti da Israele e dalla lobby curda, ma anche per via del sostegno di cui gode la causa di questo popolo in Occidente, lasciarli come se niente fosse alla mercè della Turchia che li perseguiterebbe considerandoli terroristi. Le YPG siriane (Unità di Protezione popolare) finanziate  e armate dagli Stati Uniti e da qualche stato europeo, sono il ramo siriano del PKK , il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che è considerato un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea (e anche dalla Turchia). 

Fino ad ora gli Stati Uniti hanno impedito ai Curdi di trattare con il governo di Damasco il rientro di queste province nello stato. Su richiesta americana i Curdi preferirebbero abbandonare la città di Afrin alla Turchia piuttosto che consegnarla al governo siriano. Gli Stati Uniti come compensazione per la Turchia vorrebbero che continuasse ad avere l’accesso diretto da Afrin e Idlib per mantenere divisa la Siria. I Turchi a questo punto si tranquillizzerebbero visto che non apprezzano affatto l’atteggiamento protettivo degli Stati Uniti nei confronti dei Curdi. Washington vorrebbe anche continuare a tenere la Russia sotto pressione in un paese tutt’altro che unito e non controllato per intero dal governo di Damasco. L’aver permesso alla Turchia di occupare Idlib e Afrin e ai Curdi di avere il controllo delle risorse più importanti, petrolio e agricoltura, ha inferto un duro colpo al processo di ricostruzione della Siria e ostacola non poco il suo ritorno alla prosperità dopo dieci anni di guerra. 

Se il presidente Biden decidesse di normalizzare i rapporti con il presidente Assad la sua amministrazione sarebbe sottoposta ad una fortissima pressione. Non ci sarebbero più motivi per tenere le truppe in Siria. E Biden verrebbe attaccato aspramente da molti guerrafondai occidentali (che nel corso degli anni hanno fatto di tutto per rovesciare Assad e cambiare il regime senza però riuscirci) dovesse mai dare il via ad un processo di distensione. A questo punto è chiaro che Biden non può fare la scelta di abbandonare i Curdi. 

Per quanto riguarda invece l’Iran, è risaputo che gli Stati Uniti e Israele vorrebbero che non restasse in Siria ma non hanno gli strumenti per poter obbligare gli alleati di Teheran e i suoi consiglieri militari ad andarsene. La Russia non è riuscita a convincere Assad a farlo perché il presidente della Siria tiene in  grande considerazione i suoi rapporti con l’Iran, il paese di cui si fida di più in assoluto. Teheran non ha mai imposto nulla al presidente siriano e Assad sa perfettamente che i due paesi hanno un destino comune. Quindi l’opzione resta aperta. Non si prevede che Biden cambi posizione e neppure che possa immaginare uno scenario in cui l’Iran sia destinato a fare le valige a meno che non ci sia contemporaneamente un ritiro americano. Ma se anche tutto ciò avvenisse l’influenza dell’Iran in Siria non diminuirebbe, indipendentemente dalla partenza o meno dei consiglieri iraniani.

Riguardo alla Turchia, non c’è molto da stare allegri. Biden vorrebbe che Ankara rinunciasse ai sistemi di difesa missilistica russi S-400. Ma non ha la possibilità di imporre dei cambiamenti ai rapporti tra la Turchia e la Russia perché i due paesi sono ormai arrivati ad un livello notevole di cooperazione. In seguito alla costruzione del Turkstream, il gasdotto che parte da Anapa, sulla costa russa per raggiungere la Turchia, la Bulgaria e la Serbia, gli scambi a livello turistico e commerciale sono aumentati in modo significativo. Il presidente Recep Erdogan che guida il secondo paese più potente della NATO chiede la fine dell’appoggio statunitense ai Curdi siriani. Vorrebbe che il presidente Biden portasse i suoi soldati fuori dalla Siria e gli consegnasse il nordest del paese così potrebbe eliminare I Curdi e annettersi parti della Siria come ha fatto con Idlib e Afrin. Ma Biden adesso non lo può fare.

La nuova amministrazione guidata dal presidente Joe Biden non  dispone di grandi opzioni. Probabilmente manterrà le sanzioni che colpiscono duramente la popolazione della Siria e trarrà  benefici proprio da quelle cosiddette “trumpiste” (imposte da Donald Trump) contenute nel “Caesar Civilian Protection (punishment) Act” ovvero la “legge di Cesare”. Il presidente americano vivrà nella speranza che, in un modo o nell’altro, cambi qualcosa e che quindi la posizione degli Stati Uniti in Siria migliori.   In Siria si stanno avvicinando le elezioni presidenziali e naturalmente nei prossimi mesi e anche anni Assad non cadrà. Nonostante questa guerra devastante che dura da ormai dieci anni e che ha visto la  partecipazione di tanti paesi occidentali e arabi lui è rimasto al potere. La vera  svolta potrebbe esserci se le forze americane in Iraq e Siria fossero obbligate ad andarsene, una possibilità che potrebbe avverarsi in futuro proprio durante il mandato di Biden.  

https://ejmagnier.com/2021/02/15/la-siria-non-e-nella-lista-delle-priorita-di-biden/