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mercoledì 2 ottobre 2019

Per quali motivi con le sanzioni si vuole strangolare la Siria?


di Mostafa El Ayoubi

Dopo il fallimento del progetto di conseguire un cambio di regime in Siria, della crisi che continua ad attanagliare gravemente questo paese se ne parla poco. E, quando ciò avviene è generalmente per analizzare i problemi politici che esistono tra attori esterni che hanno partecipato a questo progetto: Turchia e Usa in particolare, a causa della questione curda. E anche tra Turchia e Ue per quanto riguarda la crisi dei profughi siriani. Ma riguardo invece alla grave crisi umanitaria nella quale vive il popolo siriano a causa delle sanzioni economiche imposte unilateralmente dagli Usa e dai suoi alleati, i media mainstream mantengono un profilo molto basso.
Oggi una gran parte del territorio è tornata sotto il controllo dell’esercito regolare siriano. Ne rimangono tuttavia fuori alcune zone non di poco conto: il nord-est e il nord-ovest.
Nel nord-est una parte del territorio è sotto il controllo delle milizie separatiste curde dell’Unità di protezione popolare (YPG), che fa parte dell’alleanza delle cosiddette Forze Democratiche Siriane. Milizie assistite militarmente sul campo dagli americani (e dai loro alleati inglesi e francesi). Di fatto, oggi i curdi siriani hanno proclamato unilateralmente il Rojava (nord-est) regione autonoma curda. Occorre notare che in questa regione non vi è una omogeneità etnica. Oltre ai curdi ci sono gli arabi sunniti, i cristiani assiri, i turkmeni e altri gruppi etnici e religiosi.
I curdi sono una maggioranza relativa. Se a Kobane i curdi costituiscono il 55% degli abitanti, nel vasto territorio del Rojava (cosi la chiamano i curdi), la cui popolazione ammonta a circa 6 milioni, essi non superano il 40 %. La pretesa separatista dei curdi si scontra con la realtà - complessa dal punto di vista etno-demografico - del nord-est siriano. Ma tra i curdi c’è chi pensa di poter modificare questa realtà. A tal proposito, in un articolo di Repubblica del 16 febbraio scorso si afferma: ”In Siria centinaia di migliaia di arabi sono stati cacciati dalle zone cadute sotto il controllo delle milizie curde sostenute da Washington. Questo spostamento forzato di popolazioni sunnite è stato documentato da organizzazioni non governative e da alcuni organismi internazionali, le accuse contro i curdi vanno dai crimini di guerra alla pulizia etnica”. Nello stesso articolo, l’autore, Paolo Celi, riporta le parole preoccupanti dell’arcivescovo Benham Hindo, vescovo siro cattolico di Hasaka (nord-est) il quale “denuncia un progetto che punta ad eliminare la presenza cristiana e delle altre minoranze da quella parte della Siria”.
Ma nel nord-est siriano ci sono anche i turchi che nel gennaio 2018 hanno invaso Efrin e cacciato via i curdi. Il sostegno di Washington ai curdi siriani è un grosso problema per Ankara. Questa alleanza costituisce il principale motivo delle forti frizioni diplomatiche tra le due capitali negli ultimi 3 anni. La Turchia non vuole in nessun modo che nasca lungo i suoi confini una entità autonoma curda. Per gli Usa una simile entità – sotto la loro tutela - è strategica, perché permetterebbe loro di controllare molto da vicino la Siria ma anche la stessa Turchia.
Memore del fallito di colpo di stato nel luglio 2016 ai suoi danni, il presidente turco Rajab Taib Erdogan non si fida più dell’establishment americano perché lo considera l’ideatore di quell’attentato. Da quella data la Turchia si è avvicinata progressivamente alla Russia (altra protagonista di peso sulla scena siriana, schierata con Damasco). L’acquisto, di recente, di batterie del sistema di difesa antiaerei russo S 400 da parte dei turchi ha provocato l’ira del governo americano. Come ritorsione, il 17 luglio scorso gli americani hanno sospeso la partecipazione della Turchia al programma di produzione del caccia bombardiere F 35. Ma i turchi hanno già individuato nei Sukhoi Su-57 russi una più che valida alternativa per il loro sistema di difesa aerea e ne stanno valutando l’acquisto.
Oggi l’alleanza tra Usa e Turchia non è più strategica di lungo respiro come lo era prima, ma ha assunto una modalità di tipo tattico congiunturale. L’esito finale della guerra contro la Siria stabilirà la natura dei rapporti futuri tra le due nazioni. Gli americani sono consapevoli che sarebbe una sciagura per la Nato perdere i turchi (che costituiscono il secondo esercito, dopo quello americano, di questo organismo militare); sanno che i russi e i cinesi sono pronti ad accoglierli. Motivo per cui prima o poi Washington abbandonerà i suoi alleati curdi per non perdere Ankara!
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Di recente la Casa Bianca ha accettato il diktat di Erdogan per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il confine della Turchia con la Siria, ma esclusivamente nel territorio di quest’ultima. Lo scopo di questa zona cuscinetto – non ben definita - per la Turchia è quella di isolare i curdi e allontanarli dai suoi confini. Il progetto - è partito recentemente con un parziale ritiro, su ordine di Washington, delle milizie combattenti curde dal confine nord est. Questa mossa sta preoccupando, e non poco, i dirigenti curdi siriani che paventano il rischio di essere abbandonati dagli americani.
Un’altra zona importante è la provincia di Idlib nel nord-ovest, ancora in mano alle milizie islamiste - sotto varie sigle ma in gran parte riconducibili a Jabhat al Nusra (e quindi ad al Qaeda) – con la tutela militare della Turchia e il consenso diplomatico degli Usa. Washington e Ankara giustificano la presenza militare illegale in Siria per combattere i jihadisti. Quando in realtà si sa che li hanno utilizzati per destabilizzare e distruggere questo paese.
Riguardo al sostegno ai terroristi, in una inchiesta giornalistica a firma di Dilyana Gaytandzhieva pubblicata il primo settembre scorso sul sito web di Arms Watch si legge che “Silk Way Airlines [di proprietà dell’Azerbaigian] ha effettuato 350 voli diplomatici con armi per terroristi in Siria, Afghanistan, Yemen e Africa. I voli sono stati noleggiati dal Pentagono, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Le armi furono portate di nascosto a Baku (Azerbaigian), alla base aerea di Incirlik”. Questa base si trova in Turchia e appartiene all’esercito americano.  L’inchiesta parla di 3 milioni di unità di armi (proiettili di mortai e missili) provenienti della Serbia (e anche dalla Bulgaria) e destinati ai jihadisti nello Yemen e in Siria. Eppure all’opinione pubblica internazionale, i grandi media raccontano una narrazione diversa: le grandi potenze occidentali e i loro alleati arabi e curdi combattono il terrorismo (vedi Islamic State weapons in Yemen traced back to US Government: Serbia files (part 1), Dilyana Gaytandzhieva, 01/09/ 2019).
Oggi, sia Washington che Ankara temono che la riconquista di Idlib da parte dell’esercito siriano potrebbe sancire la fine della guerra in Siria e quindi la loro sconfitta geopolitica definitiva in Medio Oriente. Ciò comporterebbe per loro il fatto di non avere nessuna influenza sul futuro politico in questo paese, il quale si avvicinerebbe ancor più alla Russia e all’Iran.
Ma come è accaduto ad Aleppo nel 2016, la liberazione di Idlib è solo una questione di tempo perché i russi – a fianco dei siriani - sembrano determinati ad estirpare i terroristi dalla Siria. A tal riguardo, a fine agosto scorso i jihadisti sono stati cacciati da Khan Sheikhoun, città strategica nella provincia di Idlib. Anche la riconquista del nord-est è considerata dalla Siria e dai suoi alleati una questione di calendario.
Ma se di fatto il governo americano ha fallito nel suo progetto di addomesticare militarmente la Siria, esso continuerà a cercare di annientarla economicamente attraverso l’arma micidiale delle sanzioni economiche, le quali a lungo termine sono più letali delle bombe. E su questo aspetto della crisi i grandi media tergiversano sistematicamente.
Le sanzioni contro la Siria partono da lontano. Nel 1979 gli Usa le ha applicate contro Damasco perché la consideravano uno “sponsor del terrorismo”. Nel 2003 altre sanzioni contro di essa sono state messe in atto sotto la legge Patriot act voluta da George W. Bush, il quale dichiarò la Siria parte dell’asse del male, insieme all’Iraq, all’Iran, alla Libia, alla Corea del Nord e a Cuba.
Le misure economiche restrittive e punitive nei confronti della Siria sono state esponenzialmente ampliate a partire dall’inizio della guerra nel 2011. Occorre sottolineare che le sanzioni contro la Siria non sono state decretate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e quindi sono in flagrante violazione del diritto internazionale. Sono state decise dagli Americani e poi dall’Unione europea. E generalmente il governo americano costringe governi, multinazionali e banche ad aderire e a rispettare l’ordine di sanzionare qualsiasi paese considerato come una “minaccia contro la sicurezza degli Stati Uniti d’America”.
“Il governo svizzero è paralizzato dal timore di discostarsi dalla politica delle sanzioni degli Stati Uniti”, si legge in un articolo di Arret sur info dal titolo: Les sanctions contre la Syrie ont des «répercussions dévastatrices» sur la population civile,  pubblicato il 28 giugno 2018. Sulla scia degli Usa, l’Ue applica dal 2011 sanzioni contro la Siria, specie nel settore petrolifero e in quello bancario. Queste misure sono state prorogate nel maggio scorso.
Al riguardo, a margine della novantaduesima Assemblea plenaria dell'incontro delle associazioni cattoliche per l’aiuto ai cristiani d’Oriente  avvenuto lo scorso giugno a Roma, il vescovo Pascal Gollnisch ha definito le sanzioni economiche dell'Unione europea contro la Siria "inaccettabili" , "controproducenti”  e “danneggiano notevolmente una popolazione già ammaccata da otto anni di guerra". [N.d.R.: Di notevole importanza l'esortazione del Card. Parolin all'ONU il 24 settembre 2019 per l'abrogazione delle sanzioni, che segue gli appelli da Aleppo del Card Bagnasco, Monteduro di ACS e Mons. Delpini]
A causa delle sanzioni oggi la Siria è in ginocchio. Il commercio estero è ridotto al minimo. Il Paese è isolato dal sistema bancario internazionale basato sul dollaro. Su pressione del Tesoro americano, compagnie finanziarie come Visa, Master Card hanno sospeso nel 2011 loro servizi in Siria. Le rimesse degli espatriati siriani - voce importante per l’economia di un paese in via di sviluppo – sono ostacolate dall’embargo finanziario. Inoltre i fondi sovrani che sono soldi dello Stato siriano - importanti per pagare le fatture dei prodotti d’importazione - sono oggi congelati nelle banche occidentali.  
Il petrolio greggio costituiva il 53% delle esportazioni siriane prima dell’inizio del conflitto, nel 2015 è precipitato a 6%. Gli introiti derivati servivano per importare combustibili necessari per il fabbisogno interno. Oggi i siriani passano giorni interi in coda per pochi litri di benzina/gasolio e una bombola di gas. Molte fabbriche sono ferme per mancanza di materie prime e pezzi di ricambi soggetti all’embargo.
I forni pubblici per la produzione di pane non riescono ad andare avanti a causa dell’embargo. Prima della crisi, il pane veniva venduto alla metà del prezzo di produzione. E come conferma un rapporto del Consiglio dei diritti umani dell’Onu del gennaio 2011, il paese aveva una discreta autosufficienza alimentare (vedi Report of the Special Rapporteur on the right to food, Olivier De Schutter, Mission to the Syrian Arab Republic, Human Rights Council,  27 January 2011).
Oggi l’economia di questo Paese è crollata vertiginosamente. Secondo un rapporto dell’Onu, pubblicato nel maggio del 2018, il PIL è diminuito di due terzi; nel 2010 un dollaro valeva 45 lire siriane, diventate poi 501 nel 2017; la disoccupazione è passata dall’8,5% del 2010 al 48% nel 2015. Le cause di questa situazione, secondo il relatore del rapporto, sono in gran parte derivanti dalle sanzioni economiche imposte alla Siria.
In un incontro avvenuto a Beirut il 7 agosto dell’anno scorso, un membro della Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale dell’Onu ha affermato che per ricostruire la Siria, distrutta dalla guerra e dalle sanzioni, occorrono 388 miliardi di dollari. Gli Usa oggi minacciano e ricattano chiunque abbia l’intenzione di partecipare alla ricostruzione di questo paese.  
Anche i medicinali scarseggiano a causa delle sanzioni; gli ospedali, quelli scampati ai bombardamenti, faticano molto a servire i cittadini bisognosi di cura.  Secondo lo stesso rapporto dell’Onu poc’anzi citato, prima della guerra, il sistema sanitario siriano era uno dei più avanzati nel Medio Oriente. Lo Stato garantiva assistenza sanitaria gratuita per tutti i suoi cittadini. Prima del 2011 il Paese era auto sufficiente per quanto riguarda diversi medicinali vitali perché venivano prodotti in loco.
Oggi le misure restrittive, in particolare quelle relative al sistema bancario, hanno danneggiato la capacità della Siria di acquistare e pagare medicinali, attrezzature, pezzi di ricambio e software. Le aziende private straniere non sono disposte ad effettuare transazioni con la Siria  per il timore di essere accusate di violare le misure restrittive contro di essa (vedi  “End of mission statement of the Special Rapporteur on the negative impact of unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights to the Syrian Arab Republic, 13 to 17 May 2018”).  
Parafrasando l’intellettuale francese Frantz Faron, il potere imperialista di fronte ad un popolo sovrano non si arrende. Forte della sua potenza economica cerca di affamare tale popolo per mezzo delle sanzioni e degli embarghi. Ed è ciò che gli Usa stanno facendo oggi al popolo siriano.

http://www.nigrizia.it/notizia/le-sanzioni-strangolano-la-siria

lunedì 30 settembre 2019

Ancora si cerca di proteggere 'i ribelli' di Idlib, ma di chi stiamo parlando?

  Latamne, Idlib: una rete di grotte serviva da base per i ribelli

trad. Gb.P. OraproSiria

I tunnel si dispiegano per centinaia di metri nel buio, intervallati da grotte disseminate di materassi di paglia e immondizia: a Latamné, nel nord della Siria, le forze governative e il loro alleato russo ritengono di aver scoperto una vasta rete sotterranea usata dai gruppi jihadisti.
Il labirinto è scavato dentro una collina rocciosa, le auto e i blindati bruciati sono stati abbandonati lungo la strada sterrata che porta all'ingresso di questa rete sotterranea, che poteva dar rifugio fino a 5.000 persone, secondo l'esercito russo, organizzatore di una visita al luogo per un gruppo di media internazionali, tra cui l'AFP .
All'ingresso, un muro di mattoni con tracce di incendio introduce a una serie di tunnel, a volte abbastanza alti appena per starvi in piedi, e collega le zone scavate nella roccia: sala di preghiera, laboratorio di produzione di droni, servizi igienici e anche una prigione, situata su un altro lato.
"Riteniamo che il complesso sia stato scavato quattro anni fa con strumenti sofisticati, attrezzature che noi non abbiamo in Siria ", assicura il colonnello Rami dell'esercito siriano, durante la visita alla scena in mezzo agli artificieri dell'esercito russo.
"Coloro che erano qui hanno battuto in ritirata verso nord, prima a Khan Sheikhoun nella regione di Idleb, poi più lontano quando la città è stata catturata dall'esercito siriano alla fine di agosto", ha aggiunto.
Secondo le forze governative, il complesso la cui area totale non è stata ancora del tutto valutata, e che hanno trovato abbandonato, ospitava principalmente combattenti del gruppo Jaych al-Islam e jihadisti del fronte Fateh al-Sham, (ex ramo siriano di Al Qaeda).
L'immagine può contenere: 17 persone, persone che sorridono, persone in piedi
Una dozzina di grotte.
Sul pavimento, abbondano lattine di censerve e resti di bottiglie d'acqua di plastica che talvolta si mescolano con vestiti sporchi, piatti abbandonati o barili di benzina vuoti.
Alle pareti, pannelli di piastrellatura decorano alcune stanze, mentre i soldati siriani scrivono slogan pro-Assad su altri.
In una delle stanze, secondo l'esercito russo, sono stati installati cavi elettrici per l'illuminazione e per far funzionare un vecchio televisore con schermo a tubo catodico, portato qui dalla località di Latamné a poco più di un chilometro.
In quello che i soldati siriani pensano sia stata una prigione usata dai ribelli, a 400 metri dall'ingresso principale, il sangue macchia ancora il pavimento, mentre diverse celle anguste sono chiuse da vecchie porte arrugginite.

L'esercito russo afferma di aver trovato "una dozzina" di reti di grotte simili a queste nella regione, e altre in quella di Palmira, riconquistata nel marzo 2016 e di nuovo ripresa nel 2017 ai jihadisti del gruppo dello Stato Islamico.
 
  Brett McGurks (inviato speciale USA della coalizione globale contro l'ISIS) ha espresso un'opinione sulla presenza di al-Qaeda (... rinominato in al-Nusra e ora in HTS) in Idlib  "Nella provincia di Idlib, guarda , la provincia di Idlib è il più grande rifugio sicuro di Al Qaeda dall'11 settembre, legato direttamente ad Ayman Al Zawahiri. Questo è un grosso problema È stato un problema per qualche tempo... Abbiamo puntato i riflettori, i riflettori internazionali sull'ISIS ... ecc ... " 
L'esercito russo ritiene che il complesso vicino a Latamné servisse in particolare come laboratorio di produzione di droni per i ribelli.  Gli attacchi con droni artigianali sono attualmente una delle principali spine nei piedi delle forze russe in Siria, e la loro base a Hmeimim, nella regione vicina, viene periodicamente attaccata.
L'ultimo attacco è avvenuto all'inizio di settembre, secondo l'esercito russo.

venerdì 27 settembre 2019

Alle Nazioni Unite, il Card Parolin esorta a trovare una soluzione alla Siria... e chiede l'abrogazione delle sanzioni

Dopo otto anni di guerra in Siria, è "urgente", afferma il cardinale Parolin, "uscire dalla stagnazione politica e avere il coraggio di cercare nuove vie di dialogo e nuove soluzioni, in uno spirito di realismo e preoccupazione delle persone coinvolte ".
Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha parlato alla 74a Assemblea generale delle Nazioni Unite nella riunione ministeriale di alto livello sulla Siria a New York il 24 settembre 2019. Riferendosi alla sofferenza della popolazione civile,  ha chiesto l'abrogazione delle sanzioni, il sostegno al ritorno volontario e l'incoraggiamento alla presenza dei cristiani.
Il rappresentante della Santa Sede ha inoltre esortato "a rispettare rigorosamente i principi del diritto internazionale umanitario", "a superare gli interessi partigiani e a rispettare i diritti e le aspirazioni del popolo siriano".
Idleb

Ecco la traduzione di ZENIT  del discorso del cardinale Parolin, pronunciato in inglese.

Discorso del cardinale Pietro Parolin
Signora Alto Rappresentante,
Vorrei esprimere la mia gratitudine all'Unione Europea per l'organizzazione dell'evento di oggi e il mio sostegno per le sue varie iniziative, in particolare le conferenze di Bruxelles, che mirano a trovare una soluzione politica duratura al conflitto in Siria. La Santa Sede continua a seguire con grande preoccupazione questa tragedia che ha afflitto il popolo siriano per oltre otto anni, creando una drammatica situazione umanitaria. È in questo contesto che papa Francesco scrisse al presidente Bashar al-Assad alla fine di giugno.
La Santa Sede ha sempre insistito sulla necessità di rispettare rigorosamente i principi del diritto internazionale umanitario e di cercare una soluzione politica praticabile per porre fine al conflitto, superare gli interessi di parte e rispettare i diritti e le aspirazioni del popolo siriano. Ciò deve essere fatto con gli strumenti della diplomazia, del dialogo, dei negoziati e con la partecipazione della comunità internazionale.
Per quanto riguarda la sofferenza della popolazione civile, la Santa Sede desidera sottolineare tre aspetti:
  1. le sanzioni imposte creano anche pesanti oneri per la popolazione civile. In effetti, gli enti di beneficenza che lavorano sul campo hanno ripetutamente sottolineato gli effetti dannosi di queste sanzioni sui civili, chiedendo la loro abrogazione;
  2. la questione del ritorno dei profughi e della riconciliazione. La Santa Sede invita la comunità internazionale a sostenere e incoraggiare il loro ritorno sicuro e volontario, nonché quello degli sfollati;
  3. I cristiani e le minoranze religiose hanno sempre avuto un ruolo specifico nel tessuto sociale del Medio Oriente. La loro presenza deve essere sostenuta e incoraggiata come contributo alla coesione sociale e al necessario processo di riconciliazione. Come ha sottolineato papa Francesco nel suo ultimo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: "È estremamente importante che i cristiani abbiano un posto nel futuro della regione". La Santa Sede spera che "le autorità politiche non mancheranno di garantire la loro sicurezza e tutto ciò di cui hanno bisogno per continuare a vivere nei paesi di cui sono cittadini a pieno titolo e per contribuire alla loro crescita" (1).
La Santa Sede incoraggia fortemente la comunità internazionale "a non trascurare i molti bisogni delle vittime di questa crisi, e soprattutto a mettere da parte gli interessi di parte per essere al servizio della pace e porre fine alla guerra" (2) .
Dopo otto dolorosi anni di conflitto, è necessario, e persino urgente, uscire dalla stagnazione politica e avere il coraggio di cercare nuovi modi di dialogo e nuove soluzioni, in uno spirito di realismo e preoccupazione per quanti sono coinvolti.  Non è solo la stabilità del Medio Oriente a essere in gioco, ma anche il futuro stesso dei giovani, molti dei quali sono nati e cresciuti al di fuori del proprio paese, che sono spesso privati ​​delle opportunità di istruzione e non dispongono dei prodotti di prima necessità per vivere. Troppo spesso diventano facili prede del crimine e della radicalizzazione. È una questione di dignità e civiltà.
Desidero assicurarvi che la Santa Sede e la Chiesa cattolica in generale manterranno il loro impegno per incoraggiare la ricerca di soluzioni praticabili alla crisi e continueranno a prestare attenzione alla situazione umanitaria, fornendo assistenza alle popolazioni colpite dal conflitto in Siria e ai rifugiati così come alle comunità che li ospitano, senza alcuna distinzione basata sull'identità religiosa o etnica, per coloro che ne hanno bisogno.
Grazie, Signora Alto Rappresentante.
NOTE
  1. Papa Francesco, Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede , 7 gennaio 2019.
  2. Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all'incontro di lavoro sulla crisi in Siria e nei paesi vicini , 14 settembre 2018.

mercoledì 25 settembre 2019

Al-Moallem: il Comitato inizierà i lavori per la revisione della Costituzione a Ginevra il 30 ottobre

In un'intervista con la televisione di stato “Al-Suriya”, al-Moallem ha spiegato che il Comitato Costituzionale è il risultato della Conferenza sul dialogo nazionale siriano tenutasi a Sochi nel gennaio 2018 e rivedrà la Costituzione del 2012. Il vice primo ministro e ministro degli Esteri e degli emigranti Walid al-Moallem ha affermato che la Siria non accetterà dettami, pressioni o interferenze esterne nei lavori del Comitato costituzionale.
"I negoziati per formare questo Comitato sono durati 18 mesi a causa delle pressioni esterne esercitate sull'Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per ostacolare la formazione del comitato", ha detto. Il capo della diplomazia siriana ha affermato che i nomi dei membri del comitato allargato e del mini-comitato sono stati concordati con l'inviato delle Nazioni Unite, nonché le norme procedurali che regolano il lavoro del dialogo tra le parti siriane sulla revisione della Costituzione.
" Il Comitato allargato è stato accreditato formalmente a gennaio 2018, sotto la guida della Russia, e comprenderà 150 membri, 50 dei quali saranno scelti dal governo, 50 dall'opposizione e 50 dalle Nazioni Unite per includere rappresentanti della società civile. Poi verrà formato un mini-comitato composto da 45 membri, 15 di ciascuna parte".
Ha comunicato che il Comitato inizierà i suoi lavori a Ginevra il 30 del prossimo mese e che l'inviato delle Nazioni Unite, Gier Pedersen, tornerà a Damasco dopo le riunioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per concordare tutti i dettagli.
"Alla luce dei progressi compiuti dal Mini-comitato e man mano che questi lavori procedono, il Comitato allargato può essere invitato a votare i suoi risultati", ha affermato Al-Moallem. Il Comitato allargato voterà su ciò che è stato concordato dal Mini-comitato che potrebbe inserire nuovi articoli o modificarli. D'altra parte, il ministro degli Esteri al-Moallem ha assicurato che Damasco rifiuta qualsiasi interferenza esterna nei lavori del Comitato e non accetterà imposizioni esterne o un programma per il suo lavoro, che resterà attivo fino alla fine dei suoi lavori.
Ha inoltre sottilineato che tutti i membri del Comitato devono riconoscere che la Repubblica Araba Siriana è uno stato sovrano e indipendente e che liberare il suo territorio dal terrorismo e dalla presenza esterna è un dovere nazionale.
Al-Moallem ha spiegato che i membri del Comitato designati dal governo siriano rappresentano tutte le province e appartengono a tutto lo spettro della società.
"Il ruolo delle Nazioni Unite nei lavori del Comitato è di facilitare il lavoro delle parti in conformità con l'accordo della sua composizione e non interferirebbe con i contenuti del dibattito", ha affermato. Ha anche dichiarato che è inaccettabile "parlare di Costituzioni pronte e che il Comitato stesso è quello che dibatte, discute, decide e vota su ciascuno degli articoli concordati.
Il ministro degli Esteri siriano ha ribadito che la Siria è determinata a liberare ogni centimetro del territorio nazionale dal terrorismo e dalla presenza straniera illegale e ha osservato che questo è un diritto della Siria garantito dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite.
 "La Siria sta lavorando su tre percorsi (politico, militare e di riconciliazione) e si affida alle proprie capacità per ricostruire ciò che i terroristi hanno distrutto", ha concluso.
Fonte SANA  , trad. Gb.P.

domenica 22 settembre 2019

Contro le sanzioni alla Siria anche i Vescovi dell'Europa


Ho visto tanta distruzione ma anche tanta fede”: così l’arcivescovo di Genova, card. Angelo Bagnasco, racconta al Sir il suo viaggio in Siria. Partito lunedì 16 settembre, il porporato, che è anche presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), è rientrato oggi a Genova e al telefono prova a raccogliere le tante emozioni e immagini vissute in questi giorni trascorsi ad Aleppo, città simbolo di un conflitto entrato ormai nel suo nono anno.
Ho accolto senza esitazioni un invito da parte delle comunità cristiane di Aleppo e del parroco, padre Ibrahim Alsabagh – spiega il porporato –. Ho visto un Paese mezzo distrutto e una città martoriata, uno scempio in tutti i sensi compiuto dai gruppi armati in lotta. Ma nello stesso tempo, a fronte di questa situazione veramente difficile e grave,
ho potuto conoscere delle comunità cristiane decise a risorgere e ad aiutare il Paese a ricostruirsi. Questo attraverso una maggiore coesione interna tra le diverse comunità cattoliche, che sono di diversi riti, e cristiane, in particolare con le ortodosse. Insieme cercano di infondere speranza e fiducia e dare coraggio a resistere, oggi come ieri, nel tempo della distruzione e in quello della ricostruzione”.

Eminenza cosa altro l’ha colpita di questa visita in Siria?
Sono rimasto colpito da alcune famiglie che ho potuto incontrare nelle loro case ricostruite grazie agli aiuti, in particolare, della Cei provenienti dai fondi dell’8×1000. Accompagnato dal loro parroco padre Ibrahim ho benedetto i locali rinnovati e le famiglie che vi hanno fatto ritorno, con i loro piccoli. Ho notato la felicità nei loro volti. Ho visto anche una grande dignità davanti al lavoro che manca. La casa è fondamentale così come un’occupazione. Diversi papà mi hanno confidato di avere tanta difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena per le loro famiglie.
L'immagine può contenere: 7 persone, persone che sorridono, persone in piedi

Nei giorni trascorsi in Siria è riuscito a farsi un’idea del perché di questa guerra?
Molti siriani si domandano il perché di questa guerra. Tutti si interrogano, sono consapevoli di non avere la verità in mano. Certamente riconoscono alcuni elementi di questo conflitto ma ciò che sfugge è il disegno complessivo e reale di quanto sta accadendo. In mezzo a tanta nebulosità politica, dove diverse forze esterne e internazionali sono entrate in gioco, ho rilevato – e lo vorrei sottolineare con chiarezza – la durezza delle sanzioni.
Finché ci saranno le sanzioni temo che la ricostruzione economica e sociale del Paese sarà molto difficile.
Credo che le sanzioni siano una forma di guerra per affossare un Paese. Se così fosse sarebbe assolutamente ingiusto e inaccettabile.

Ora che è rientrato come pensa di tenere vivo il ricordo di questo viaggio?
Ho promesso ai fedeli, ai sacerdoti, religiosi e ai vescovi che ho incontrato in Siria, insieme al nunzio apostolico, card. Mario Zenari, di raccontare ciò che ho visto e udito questi giorni e di testimoniare il buon esempio di queste comunità siriane segnate da tanti morti e da tanti martiri. È necessario continuare a dare il nostro aiuto. Lo Stato, infatti, non riesce a fare fronte alla ricostruzione, e nemmeno la Chiesa locale. Quest’ultima cerca di darsi da fare con aiuti che giungono da altre conferenze episcopali, come la nostra, e da benefattori, innanzitutto per ricostruire case e appartamenti da riconsegnare alle famiglie proprietarie che le abitavano già prima della guerra.

Porterà la sua testimonianza al Consiglio episcopale permanente del 23 settembre?
Lunedì al Cep farò un piccolo accenno a questo viaggio anche perché mi hanno incaricato di ringraziare la Cei per la sua vicinanza e generosità. In Siria ho visto un grande entusiasmo e tanta riconoscenza da parte dei fedeli. Sono visite importanti perché non li fanno sentire abbandonati. La Siria è Terra Santa, grazie a san Paolo. Andare sulle orme dell’Apostolo come pellegrini non farà altro che aiutare questo martoriato Paese a risollevarsi.

https://www.agensir.it/mondo/2019/09/20/siria-card-bagnasco-ad-aleppo-ho-visto-tanta-distruzione-ma-anche-tanta-fede-sanzioni-durissime/


Vicario di Aleppo: Le sanzioni contro la Siria, un crimine che affossa la popolazione 
 Le sanzioni economiche contro la Siria “sono un crimine” che colpisce prima di tutto “la popolazione” e impedisce, di fatto, la ripresa di una nazione “ancora in difficoltà” dopo otto anni di guerra. È quanto sottolinea ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, secondo cui “da un conflitto militare” si è passati a una “guerra economica e commerciale” e a soffrire “è sempre la gente comune. Ecco perché - aggiunge - vanno tolte subito, prima che la situazione precipiti”. 
Uno dei segnali più evidenti della stretta delle potenze occidentali verso la Siria è il crollo della valuta locale. “prima della guerra - ricorda il prelato - un dollaro statunitense equivaleva a 48, massimo 50 lire siriane. La scorsa settimana è arrivato a sfiorare quota 700 lire e oggi il tasso di cambio è attorno alle 630 lire”. Questa inflazione, avverte mons. Abou Khazen, “blocca l’economia e tocca le persone comuni, prime vittime del caro-vita”. 

Oggigiorno - racconta il vicario di Aleppo - si fatica a trovare beni e risorse, anche quelle di prima necessità. Soprattutto la merce che viene da fuori, le persone non sanno come acquistarla perché mancano i soldi e le risorse a disposizione scarseggiano. Mancano tante cose che, prima della guerra, si potevano trovare con facilità”. Al contempo, avverte, “le persone devono sopravvivere con la stessa paga del periodo pre-bellico, ma è ovvio che oggi il potere di acquisto dei salari è di gran lunga inferiore. Oggi, di fatto, non si vive”. 
Analisti ed esperti concordano nel ritenere che il crollo della lira sia uno dei segnali più evidenti delle gravissime difficoltà attraversate da un Paese che cerca a fatica di uscire da un drammatico conflitto. Dopo più di otto anni la situazione a Damasco, Aleppo e altri grandi centri sembra essere “migliorata da un punto di vista della sicurezza” come conferma il vicario apostolico, ma molto resta da fare “sotto il profilo economico e alcune sacche di conflitto, come quella tuttora in atto a Idlib, preoccupano ed è grande il timore di una nuova escalation per la presenza nell’area di interessi contrastanti fra curdi, turchi, Stati Uniti e alleati regionali. 

Fra le cause del crollo della lira l’elevata richiesta di moneta statunitense nel vicino Libano, il cui sistema bancario viene utilizzato dagli importatori siriani per le transazioni. Il governo sta cercando di intervenire per bloccare l’inflazione e fermare il mercato nero, ma le risorse messe in campo sinora si sono rivelate insufficienti. La crisi valutaria ha messo in ginocchio soprattutto gli importatori, costretti a commerciare in dollari. “Vi sono un sacco di prodotti - racconta il 58enne Haytham Ghanmeh, commerciante in cosmetici nella città vecchia a Damasco - che non si trovano più nei mercati, perché abbiamo molti timori a comprare visti i prezzi attuali”. 
Il nodo centrale, torna a sottolineare il vicario di Aleppo, restano le sanzioni che, fra l’altro, hanno “quasi azzerato l’importazione di farmaci salvavita come i chemioterapici per la cura del cancro o i medicinali necessari per la dialisi nei malati di diabete. Alcuni farmaci fra i più ordinari vengono prodotti in Siria e non se ne avverte la mancanza. Ma se si parla di quelli per curare il cancro o altre patologie importanti, la situazione è ben diversa”. 
La gente è sempre più stanca e non sa cosa fare” ammette sconsolato mons. Abou Khazen. “Dopo la guerra militare - sottolinserea - ora dobbiamo affrontare quella economica per le sanzioni Usa ed europee. Ogni famiglia può disporre di soli 100 litri di benzina al mese, una bombola di gas che basta a malapena per cucinare e non parliamo del gasolio per riscaldare, in vista dell’inverno”. “Arrivati a questo punto - conclude il prelato - si fa sempre più fatica ad andare avanti e la gente sta perdendo la speranza”. 

mercoledì 18 settembre 2019

Da Damasco all’Italia per imparare l’arte del restauro


“Per noi essere qui è un privilegio, un’occasione unica che pochissimi nostri coetanei possono avere in questo momento, quindi grazie di cuore”. A parlare è Rand, 25 anni, in visita in Italia insieme a Vialet, di qualche anno più giovane. Sono siriane e vengono da quella che,  secondo una recente classifica dell’Economist, è la città più invivibile al mondo: Damasco. Qui infatti, nonostante da tempo non vi siano più combattimenti in corso, le cose non vanno per niente bene.
C’è fame a Damasco, e moltissima povertà; a causa dei lunghi anni di guerra certo, ma soprattutto a causa  delle sanzioni economiche imposte dall’estero. 

Vista la situazione precaria in cui ancora verte il Paese, è molto difficile entrare o uscire e partecipare a iniziative come quella a cui partecipano Rand e Vialet in questo mese in Italia.
L’iniziativa si colloca all’interno di un progetto sostenuto da Associazione pro Terra Sancta e portato avanti da alcuni membri dell’associazione Restauratori Senza Frontiere (RSF), che dal 2018 seguono alcuni restauri di opere artistiche all’interno del convento francescano di Bab Touma a Damasco. I restauratori hanno già compiuto due spedizioni in Siria con l’intento di effettuare i restauri con il coinvolgimento di alcuni universitari locali.
Tra questi c’erano appunto Rand e Vialet, che questa estate sono state invitate a partecipare ad alcune sessioni di restauro portate avanti da RSF a Roma e Rapallo. E tra una sessione e l’altra, hanno avuto l’occasione di visitare le principali città italiane e vedere le più importanti opere artistiche.

“Io oggi lavoro come grafica per una compagnia telefonica in Siria – racconta Rand –  ma sono laureata in Beni Culturali e per me è stato davvero emozionante vedere il Colosseo, la Torre di Pisa e molte altre testimonianze archeologiche e artistiche…tutte cose che avevo visto solo sui libri e potevo solo immaginare!”.
Anche per Vialet è stata un’esperienza indescrivibile. Lei studia ancora, è iscritta al secondo anno di Archeologia. “Per me – dice – questa è un’occasione preziosissima, che mi darà moltissime occasioni in futuro. Pochi studenti del mio corso hanno opportunità di uscire dal Paese e vedere quello che ho visto io in questo momento, e anche dal punto di vista professionale è un bel vantaggio”.
Vialet non vede l’ora di terminare gli studi e mettersi al lavoro. “In Siria – dice – abbiamo un enorme patrimonio archeologico che è stato in larga parte distrutto o danneggiato dal conflitto, ed è un peccato perché per me l’archeologia è lo studio del passato nel tentativo di risalire alla nostra origine. Distruggerlo significa perdere la via che ci ricorda la nostra origine. Dovremo recuperare questa memoria e non vedo l’ora di iniziare. I miei studi, l’esperienza con RSF e tutto il lavoro di formazione sulle opere danneggiate e questo viaggio in Italia, sono elementi che mi aiuteranno a svolgere al meglio questo lavoro. Per questo vi sono immensamente grata dell’opportunità”.

venerdì 13 settembre 2019

La Croce segna il destino dei cristiani di Aleppo


14 settembre, festa della Croce Gloriosa particolarmente venerata dai Cristiani siriani. 
La tradizione riferisce che dobbiamo all'imperatrice Elena la scoperta della Vera Croce. La madre di Costantino seguì suo figlio fino a Costantinopoli, dove soffrì gravemente per gli eccessi dell'Imperatore, per questo si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme. 
L'imperatore Adriano (76-138), dopo aver distrutto Gerusalemme e cacciato gli ebrei dal loro paese (136), aveva ribattezzato la città Aelia Capitolina e l'aveva fatta ricostruire e rimuovere da ogni memoria giudaico-cristiana; sul Golgota, luogo del Calvario, fece innalzare un tempio a Venere. 
Sant'Elena non trovò altro che rovine e rovine pagane nella Città Santa. 
La leggenda dice che per trovare la Croce, Elena accese un fuoco sulla cima del Golgota: ecco per quale ragione a Maaloula e in altre città cristiane nella notte del 13 settembre si accende il fuoco della Santa Croce. 
"In hoc signo vinces".

“Noi cristiani nel limbo, la sanzioni uccidono come la guerra"



di Gian Micalessin

Monsignor Joseph Tobji ci riconosce, ci sorride da lontano, alza il bastone pastorale, indica la facciata della cattedrale. “Guardate com’è cambiata”. Alziamo lo sguardo. Per anni la cattedrale maronita di Sant’Elia è stata un simbolo della guerra di Aleppo. Le granate l’avevano colpita, trafitta, martoriata. Nel 2012, quando ci venimmo per la prima volta,  i ribelli erano un centinaio di metri poco più indietro. Per avvicinarsi, bussare e riuscire ad entrare bisognava sfidare i loro colpi di mortaio.
Per sei lunghi anni nulla era cambiato. Ora invece la vecchia cattedrale annerita dal fumo degli incendi, morsicata dalle granate  è nascosta da un intrico di ponteggi e impalcature. Da qualche settimana si è trasformata in un enorme cantiere a cielo aperto. Lì tra cavi e tramezzi si arrampicano come formiche operose restauratori  e muratori.  Il vescovo maronita ride felice. Rievoca i brutti tempi andati. “Questa cattedrale un tempo era sulla linea del fuoco. Una volta i ribelli sono arrivati fino al portone d’ingresso, un’altra un obice ha sfondato la camera da letto di un nostro  vicino e l’ha fatto a pezzi nel suo letto… dopo sette anni  è ancora così non l’hanno neppure rimessa a posto” –  ricorda il vescovo indicando la voragine al secondo piano  del palazzo alla  destra della cattedrale.
Nel 2012 le prime granate avevano colpito la cupola lassù, poi un paio di missili erano caduti sul tetto. Un giorno mentre stavo lavorando  nel mio ufficio nella torre una gragnuola di colpi ha fatto tremare tutto l’edificio. Quel giorno ho detto basta… io chiudo. Ora la stiamo ricostruendo, fra un po’ la riapriremo ai fedeli. Un po’ di soldi li abbiamo raccolti qui, un po’ sono arrivati dall’estero e questo ci ha consentito di dare il via ai lavori. Ma fondamentale è anche il lavoro di un gruppo architetti italiani che ci aiutano a rimettere insieme i pezzi”.
Monsignor Tobji si blocca. Alza la mano. “Ma attenzione ricostruire la chiesa non basta. Qui ad Aleppo Ovest non c’è un metro quadrato che sia rimasto sano, se non s’incomincia a rimettere in piedi  anche il resto la gente non torna”. Dice gente, ma pensa soprattutto ai cristiani, alla tribù perduta di questa città. Aleppo un tempo era il terzo centro cristiano del Medioriente, ospitava tra le sue mura oltre 200mila fedeli. Oggi oltre la metà ha abbandonato le proprie case, vive all’estero e si guarda bene dal tornare. “Perché mai dovrebbero tornare? Come possiamo chiedergli di farlo se non possiamo  offrirgli un lavoro, se non siamo in grado di garantirgli  il sostentamento delle loro famiglie” – sospira rassegnato il monsignore. “Molti dicono che la guerra è finita, ma non è vero. Qui nel centro di Aleppo la situazione è tranquilla, ma ai confini sud occidentali della città le bombe e i missili dei ribelli jihadisti di Idlib continuano ad uccidere. Perché la comunità internazionale non dice niente? Perché l’Europa non fa nulla?”.

Ad ogni parola, ad ogni frase la preoccupazione per il presente sembra scacciare la felicità per l’imminente rinascita della cattedrale. “Voi in Europa forse ve lo siete dimenticati, ma dove non arrivano le bombe arrivano le sanzioni. Uccidono anche quelle, sapete? Pensate ai bambini, ai malati, agli anziani  che non trovano cibo e medicine. Oggi da questo punto di vista è anche peggio di prima. Quando si sparava t’accontentavi di sopravvivere, di tutto il resto non t’importava. Oggi invece i cristiani tornano qui,  cercano di  capire se è possibile tornare a casa, ma scoprono che non si trova la benzina, che spesso non c’è il gas per il riscaldamento e che nelle farmacie mancano delle medicine indispensabili. E allora dopo aver  dato un occhiata rimettono i lucchetti alle case e se ne tornano all’estero. Alcuni fedeli rassegnati se ne sono andati negli ultimi mesi dopo aver resistito per tutti gli anni dell’assedio. Insomma la guerra forse è finita, ma  la situazione per noi cristiani non è migliorata. Sotto le bombe avevamo paura ma conservavamo la speranza. Oggi molti di noi hanno perso anche quella”.

martedì 10 settembre 2019

Palmira: questa antica città ha subito un colpo fatale o risorgerà?


I barbari dello Stato Islamico hanno quasi distrutto questo sito dichiarato Patrimonio dell'Umanità. Le sue meraviglie possono essere salvate, quindi perché c'è così poca volontà internazionale di farlo?
traduzione di Gb.P. per OraproSiria
"Il tuo cuore si spezzerà quando vedrai Palmira", dice Tarek al-Asaad, guardando pensieroso fuori dalla finestra mentre attraversiamo l'ampia steppa siriana sulla strada verso l'antica città. Per Tarek, Palmira rappresenta un profondo serbatoio di dolore che include l'esecuzione pubblica di suo padre Khaled, un famoso archeologo e storico. Khaled è stato determinante nel riconoscimento di Palmira come Patrimonio Mondiale dell'Umanità da parte dell'UNESCO nel 1980. Il mondo è rimasto a guardare, inorridito, mentre i fanatici dello Stato Islamico, noto anche come IS, prendevano a mazzate e facevano saltare con esplosivi i suoi maestosi monumenti, 35 anni dopo.
Ci fermiamo in un negozio lungo la strada, dove un ragazzino con gli occhi già vecchi sta raccogliendo lattine di alluminio da vendere come rottame. All'interno, i soldati dell'esercito siriano bevono vodka e birra. È maggio ed è il mese di digiuno musulmano del Ramadan, quando Tarek non mangia e non beve nulla dall'alba al tramonto, ma i giovani coscritti sono in congedo e in vena di festeggiare. Tarek acquista vettovaglie per la sua prima notte a Palmira da quando è fuggito dalla città nel 2015 verso la relativa sicurezza di Damasco, la capitale della Siria.
Il Tempio di Baal di Palmira
nel marzo 2014,
e la stessa visione due anni dopo.

Il padre di Tarek, Khaled al-Asaad, aveva 83 anni quando fu decapitato dall'IS. Aveva dedicato più di 50 anni a scoprire, restaurare e pubblicizzare i resti di questo storico crocevia della Via della Seta che raggiunse l'apice nel terzo secolo. Tarek, uno dei suoi 11 figli, è cresciuto nella moderna città di Tadmur vicina al sito. "Ogni giorno mi precipitavo fuori da scuola per andare a cavallo nelle carriole e nei secchi che trasportavano la terra degli scavi", ricorda. Khaled si ritirò come capo delle antichità di Palmira nel 2003, ma rimase un esperto molto richiesto. Fluente nell'antico Palmirene, dialetto dell'Aramaico, traduceva iscrizioni, scriveva libri e assisteva le missioni archeologiche straniere. Nel frattempo, Tarek, che ora ha 38 anni, un uomo muscoloso e un faccione pronto al sorriso, gestiva un'attività turistica di successo.
Stiamo viaggiando verso Palmira dalla città occidentale di Homs, attraverso pascoli ondulati cosparsi di papaveri cremisi. Pastori beduini, austeri e vigili, pascolano greggi di capre dal pelo lungo e pecore dalla coda grassa. I soldati fanno controlli sui camion di passaggio attraverso installazioni di blocchi di cemento circondati da appezzamenti verdi di grano e orzo. I checkpoint militari lungo la strada montano stravaganti cartelloni patriottici: la bandiera nazionale a doppia stella è dipinta sulle barriere di cemento, sui barili di petrolio e sui muri delle caserme mentre gli striscioni raffigurano il presidente siriano Bashar al-Assad che appare risoluto dietro gli occhiali da sole da aviatore o saluta la folla. Le sentinelle che controllano i documenti di identità sono rilassate e contente di scherzare. "Spero che il tuo digiuno proceda bene" chiede l'autista. "Non stiamo digiunando, siamo kuffar [non credenti]", scherza una guardia, alludendo all'insulto jihadista lanciato agli avversari.
Più avanti, il pascolo lascia posto a un terreno pietroso tempestato di ciuffi verde pallido. I resti della guerra sono più evidenti qui; camion e carri armati bruciati, tralicci elettrici abbattuti e sbarramenti fortificati di terra battuta contornati da filo spinato. Vicino a una base aerea militare circondata da stazioni radar, il checkpoint è pesantemente sorvegliato e professionale. Un mezzo di trasporto di carri armati russo che si sta dirigendo verso di noi ci ricorda che l'IS combatte ancora nel deserto oltre Palmira, dove si dice che diverse truppe siriane siano state ammazzate in questo mese. Mentre IS ha perso la sua ultima roccaforte siriana di Baghouz a marzo, sue piccole bande continuano a sferrare attacchi di guerriglia.
Questa è la mia prima visita a Palmira dopo un viaggio come turista nel 2009, attratto dalla mistica della sua spettacolare architettura presso un'oasi nel deserto. Due anni dopo, la Siria fu distrutta dalla guerra. Mentre ci avviciniamo a Palmira attraverso un varco in una bassa catena montuosa, mi gira in testa una domanda: l'antico e ipnotizzante sito ha subìto un colpo fatale o potrà risorgere?
Il Gran Colonnato di Palmira emerge improvvisamente da una pianura sabbiosa. È la spina dorsale ancora magnifica della città, un viale lungo un chilometro di imponenti colonne di calcare che lentamente passano dall'oro pallido all'arancio bruciato nel sole al tramonto. Parcheggiamo vicino alle rovine e partiamo a piedi per dare un'occhiata più da vicino. All'estremità orientale del Gran Colonnato, il grande tempio del dio mesopotamico Baal giace in rovina (sebbene il suo portico sia in qualche modo sopravvissuto agli esplosivi di Daech) e l'arco trionfale riccamente scolpito è un mucchio di blocchi enormi. Gli invasori hanno fatto esplodere anche il tetrapylon che segnava il crocevia della città e il tempio Baalshamin, una combinazione riccamente decorata di stili di costruzione romani e locali. La facciata finemente cesellata del teatro è un cumulo di macerie insieme a diverse torri di sepoltura a più piani che si trovavano su una nuda collina.
All'incrocio del commercio internazionale, la cosmopolita Palmira aveva sviluppato una cultura non ortodossa e pluralista che si riflette nella sua arte e architettura sopravvissute. Ciò, insieme alla sua posizione tra la costa mediterranea e il fiume Eufrate, l'ha resa un allettante bersaglio simbolico e strategico per i fondamentalisti moderni. I musulmani vissero a Palmira per 13 secoli, stabilendo moschee in strutture che precedentemente funzionavano come chiese bizantine e templi pagani, ma i bigotti dell'IS furono scandalizzati da quasi tutto ciò che trovarono. Ogni atto di vandalismo è stato filmato per l'uso della propaganda IS: il suo valore scioccante mirava ad attrarre reclute estremiste e intimidire gli avversari.
An Islamic State-released photo showing the destruction of Palmyra’s 1900-year-old Baalshamin temple.
Una foto pubblicata dallo Stato Islamico
che mostra la distruzione del tempio
Baalshamin di Palmira antico di 1900 anni.
IS ha occupato Palmira due volte: tra maggio 2015 e marzo 2016, e tra dicembre 2016 e marzo 2017. Durante la prima occupazione, Tarek è fuggito, ma Khaled ha rifiutato di andarsene. “Ho telefonato a mio padre e l'ho supplicato "Per favore vattene; Palmira è stata presa da persone malvagie e tu non sei al sicuro", dice Tarek. "Lui mi ha risposto: 'Sono contento che tu sia andato via, ma questa è casa mia e io non me ne vado.'”. Dopo sei settimane di arresti domiciliari, Khaled fu imprigionato in un seminterrato dell'hotel e torturato perché rivelasse la posizione di tesori nascosti che Tarek dice non essere mai esistiti. Dopo un mese nel seminterrato, il vecchio fu decapitato con una spada di fronte a una folla riunita. "Si è rifiutato di inginocchiarsi per la decapitazione, quindi lo hanno brutalmente costretto a piegare le ginocchia", dice Tarek. Una fotografia online mostrava il suo cadavere legato a un palo del traffico e la testa con gli occhiali indossati, posizionata beffardamente ai suoi piedi. Un cartello legato al suo corpo lo identificava come un apostata che serviva come "direttore dell'idolatria" a Palmira e rappresentava il governo di Assad nelle conferenze "infedeli" all'estero.
Prima dello scoppio della guerra nel 2011, il turismo e l'agricoltura hanno dato lavoro a oltre 50.000 persone a Tadmur. Ne sono tornate solo poche centinaia, rintanandosi in edifici semi-distrutti lungo le strade sulle quali erbacce giganti proliferano dai crateri delle bombe. Tarek non è tra i rimpatriati; vive con sua madre Hayat a Damasco, dove gestisce un caffè. I genieri russi hanno bonificato Tadmur dalle mine e dalle trappole esplosive e l'energia elettrica e l'acqua sono tornate. Il commercio ha fatto una ripresa provvisoria, con una panetteria, una farmacia con un buco in un muro e un semplice ristorante. Il suo proprietario, Ibrahim Salim, 45 anni, griglia il pollo sul marciapiede sotto uno stendardo raffigurante il presidente Assad e il suo alleato russo Vladimir Putin. Salim dice di essere fuggito da Palmira dopo che l'IS ha ucciso sua moglie Taghreed, un'infermiera di 36 anni, per il crimine di aver curato un soldato del governo ferito. "La sicurezza è buona, così posso dormire sonni tranquilli a Tadmur ora", dice. "Speriamo che le scuole riaprano al più presto, quindi più famiglie potranno tornare".
L'UNESCO ha esaltato l'arte palmirena, in particolare la sua espressiva scultura funeraria, come una miscela unica di influenze indigene, greco-romane, persiane e persino indiane. Mentre l'IS combatteva con le truppe siriane per il controllo di Tadmur nel 2015, Tarek si è precipitato a salvare gli esempi più apprezzati nel museo a due piani di Palmira. Con lui c'erano i suoi fratelli archeologi, Mohammed e Walid, e il loro cognato, Khalil Hariri, che era succeduto a Khaled al-Asaad come direttore del museo. Imballarono sculture, ceramiche e gioielli in casse di legno e le caricarono su camion mentre i mortai esplodevano intorno a loro. Una scheggia colpì Tarek nella schiena e Khalil prese una pallottola nel braccio. Sono scappati con centinaia di pezzi, ma ne hanno lasciati molti altri. L'UNESCO ha elogiato l'evacuazione durante la guerra in Siria di oltre 300mila reperti, provenienti dai 34 musei del Paese come “un'impresa straordinaria”.
C'incamminiamo verso il museo di Palmira. L'ex posto di lavoro di Khaled è un guscio desolato, con le pareti segnate da proiettili, le finestre in frantumi e il tetto dell'atrio forato da un missile. Le gallerie che hanno messo in mostra le realizzazioni di millenni sono spoglie se non per alcune statue e bassorilievi. Mancano teste, volti e mani; profanati dai miliziani dell'IS infuriati da oggetti "idolatrici", dice Tarek, aggiungendo: "Hanno persino tirato fuori le mummie imbalsamate dai loro cofani e le hanno investite con un bulldozer."
Tarek al-Asaad con il ritratto del defunto padre, Khaled, dell'artista di Sydney Luke Cornish.
Tarek al-Asaad con il ritratto del padre Khaled,
dell'artista di Sydney Luke Cornish
Trovo solo un pannello intatto: un ritratto di Khaled dell'artista Luke Cornish di Sydney , un'opera che io e Cornish pensavamo fosse andata perduta. Dipinto su una porta d'acciaio, il ritratto è appoggiato a un muro e coperto da un foglio protettivo di plastica trasparente. Tarek non sa come sia sopravvissuto o chi lo abbia rimesso nel museo. "Qualcuno deve averlo nascosto da IS, perché lo avrebbero distrutto di sicuro", dice.
Non meno di 15 dipendenti della rete museale siriana hanno subito morti violente negli otto anni di guerra, ma solo l'omicidio di Khaled ha fatto notizia. La notizia ha spinto Cornish a rendergli un tributo straordinario. Cornish crea arte spruzzando vernice aerosol su strati di stencil. Due volte finalista del Premio Archibald, il suo lavoro pluripremiato raggiunge un realismo quasi fotografico e veicola forti temi umanitari. 
Nel giugno 2016, è andato in Siria per filmare un gruppo di pugili australiani in una "missione di crescita della speranza" guidata da un sacerdote anglicano di Sydney, "il padre combattente" Dave Smith, noto per il suo uso del pugilato per aiutare i giovani a rischio. Tra attacchi e allenamenti, Cornish ha tenuto improvvisate dimostrazioni di arte stencil per bambini in luoghi devastati dalla guerra come Aleppo, una volta la più grande città della Siria. "I bambini erano affascinati dall'immediatezza del mezzo", mi ha detto a Sydney. “La maggior parte erano molto poveri e non avevano mai conosciuto altro che la guerra, quindi è stato bello vederli divertirsi a mettere cose come Dora the Explorer (personaggio dei cartoni animati) su un muro del cortile della scuola o lungo una strada bombardata. Anche con i soldati in giro e tra le bombe, abbiamo sempre attirato una folla curiosa". Prima di partire per la Siria, Cornish ha preparato uno stencil nella speranza di dipingere il ritratto di Khaled da qualche parte nel paese. Ne ha avuto la possibilità quando i pugili sono andati a Palmira. Sono arrivati più di due mesi dopo che un'offensiva sostenuta dalla Russia ha cacciato l'IS dalla città per la prima volta, e una settimana dopo che la Mariinsky Theater Orchestra di San Pietroburgo ha tenuto lì un concerto per celebrare - prematuramente, come si è scoperto poi - la liberazione di Palmira. L'orchestra ha eseguito Prokofiev, Bach e Shchedrin in un teatro di epoca romana che IS aveva utilizzato come sfondo scenico per esecuzioni di massa. Cornish ha scelto la porta della sala elettricità del teatro per dipingere l'uomo che definisce "un eroe che ha sacrificato la sua vita per ciò che amava". Una clip su YouTube di Cornish che lavora al dipinto, ha portato Tarek a contattarlo. “La pittura di Luke è stata un bellissimo gesto e un dono molto gentile per la nostra famiglia. Pensiamo a lui come a un nostro amico e fratello ", afferma Tarek. Ma sei mesi dopo IS ha ripreso Palmira, minando con la dinamite il teatro e pubblicando un video gongolante della distruzione. Cornish aveva pensato che anche il suo dipinto fosse andato perduto. "Sono abituato a vedere distruggere il mio lavoro per strada, ma farlo esplodere da IS è qualcos'altro", dice.
Palmira, un passato che guarda al futuro
Interno del museo di Palmira
(foto Giorgio Bianchi.National Geographic)
La Siria vanta sei siti culturali del patrimonio mondiale dell'UNESCO e tutti sono nella lista di quelli in pericolo. Normalmente, fondi dell'UNESCO dovrebbero essere devoluti per proteggere i beni minacciati. Nel caso della Siria, il sostegno delle Nazioni Unite è stato limitato al restauro di una singola statua di Palmira e alla formazione del personale del museo. Un appello di emergenza dell'UNESCO, valutando necessari 150.000 USD ($ 222.000) per salvaguardare il portico del Tempio di Baal di Palmira non è riuscito ad attirare alcun sostegno di potenziali donatori. Al museo nazionale di Damasco, i restauratori vestiti di bianco hanno iniziato l'impegnativo lavoro di riparazione di centinaia di reperti danneggiati di Palmira. È uno sforzo quasi interamente siriano, fatto con un budget limitato. "Speriamo in un maggiore aiuto internazionale perché Palmira appartiene al mondo, non solo alla Siria", afferma Khalil Hariri, direttore del museo di Palmira. Dice che le pietre cadute dell'arco trionfale, del teatro e del tetrapylon sono per lo più intatte e possono essere rimesse insieme, ma il servizio museale non può permettersi di assumere lavoratori e acquistare macchinari.
Dice uno specialista di Palmira al museo di Damasco, l'archeologo Houmam Saad: "Tutto il mondo parla dei danni a Palmira, ad Aleppo e ai nostri altri siti Patrimonio dell'Umanità, ma quasi nessuno al di fuori della Siria fa qualcosa per aiutare."
Più di venti organizzazioni europee e statunitensi sono sorte per promuovere il patrimonio in pericolo della Siria. Raccolgono dati, tengono riunioni ed emettono dichiarazioni di preoccupazione. Uno di questi gruppi ha speso £ 2,5 milioni ($ 4,1 milioni) per erigere un modello in scala di due terzi dell'arco trionfale di Palmira a Trafalgar Square a Londra, quindi ha ripetuto l'esercizio a Washington DC.  "I soldi raccolti per le antichità siriane sarebbero invece stati spesi meglio dove si trovava il danno fatto", scrive Ross Burns, ex ambasciatore australiano in Siria e autore di quattro libri sulla sua archeologia e storia: "Mettere soldi in finti archi e modelli 3D che imitano vagamente le strutture storiche fa poco più che salvare le coscienze di stranieri le cui nazioni hanno incoraggiato - persino finanziato e armato, per poi allontanarsene - la conflagrazione che è cresciuta per distruggere la Siria".
La Siria è una nazione di molte confessioni ed etnie che è emersa nei suoi attuali contorni solo nel 1945. I suoi governanti hanno reso popolare una storia condivisa come strumento per promuovere l'identità nazionale e la coesione sociale. Nel 2018, il direttore generale dell'UNESCO Audrey Azoulay ha riconosciuto questo patrimonio come "una forza potente per la riconciliazione e il dialogo". Ha aggiunto un avvertimento: l'UNESCO aiuterà a ricostruire i siti storici della Siria "quando le condizioni lo consentiranno". Ciò potrebbe significare una lunga attesa.
Le Nazioni Unite hanno vietato alle loro agenzie di fornire aiuti per la ricostruzione fino al raggiungimento di una "transizione politica autentica e inclusiva negoziata dalle parti". Il divieto riflette la posizione degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e di altre nazioni che hanno imposto sanzioni economiche alla Siria. Il governo australiano ha fatto lo stesso nel 2011 in risposta a quello che ha definito "un uso della violenza da parte del regime siriano contro il suo popolo, profondamente inquietante e inaccettabile". Un anno dopo, il governo Gillard ha applicato ulteriori sanzioni e ha chiesto "un'intensificazione della pressione su Damasco per fermare la sua brutalità".
Luke Cornish si è imbattuto nelle sanzioni quando ha tentato di inviare $ 28.000 raccolti per gli orfani siriani a SOS Children's Villages International l'anno scorso. Le sanzioni hanno isolato la Siria dai sistemi bancari e di pagamento internazionali, quindi l'organizzazione benefica gli ha consigliato di trasferire il denaro sul suo conto bancario tedesco. Tuttavia, la sua banca australiana ha rifiutato il trasferimento, afferma Cornish, aggiungendo: "Ho fatto l'errore di usare la parola "Siria" nella causale del trasferimento".
Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle sanzioni, Idriss Jazairy, afferma che le restrizioni hanno "contribuito alla sofferenza del popolo siriano” bloccando le importazioni che vanno dai farmaci antitumorali, ai vaccini, alle sementi delle colture agricole e alle pompe per l'acqua. Sebbene non avallate dalle Nazioni Unite, le sanzioni hanno avuto un "effetto agghiacciante" sull'aiuto umanitario, perché ostacolano gli sforzi per ripristinare scuole, ospedali, acqua potabile, abitazioni e lavoro, ha segnalato Jazairy nel 2018.
Quali sono, quindi, le prospettive per il restauro delle antichità in pericolo della Siria, tra cui Palmira? Le risposte potrebbero risiedere in un ambizioso progetto finanziato dalla Russia per ricostruire la Grande Moschea di Aleppo. È un capolavoro dell'architettura islamica e simbolo della città, che si trova a nord-ovest di Palmira e ha perso un terzo del suo famoso Vecchio Quartiere in combattimenti che sono terminati nel 2016. Il minareto della moschea alto 45 metri è rimasto in piedi per oltre 900 anni fino a quando è crollato durante i combattimenti nel 2013. Oggi è un cumulo di blocchi di calcare da mille tonnellate sovrastato da una gru torreggiante. Rimettere in piedi il minareto è il lavoro di un team di architetti e ingegneri, scalpellini e falegnami tutti siriani. Devono anche ripristinare le colonne, i soffitti e le pareti gravemente danneggiati della sala di preghiera e dei portici che circondano il vasto cortile della moschea. Il direttore del progetto, l'architetto Sakher Oulabi, che mi ha accompagnato nella visita al sito, dice che i lavoratori sentono una pesante responsabilità: “Tutti noi capiamo che stiamo facendo qualcosa di molto importante per l'anima della nostra città e del nostro Paese.”
A guidare la ricostruzione è il Syria Trust for Development, presieduto da Asma al-Assad, - la moglie del Presidente - quindi il progetto ha un notevole peso. Tuttavia, le sue sfide tecniche sono formidabili quasi come quelle di Palmira. Le circa 2400 pietre cadute del minareto devono essere pesate e misurate, fortemente testate con ultrasuoni e fotografate da molte angolazioni in modo che la fotogrammetria - la scienza di effettuare misurazioni tridimensionali dalle immagini - possa aiutare a determinare dove si adatta ogni pietra. I materiali e le tecniche devono essere il più vicino possibile all'originale: "Un esperto potrà notare la differenza tra vecchio e nuovo, ma il pubblico non deve notarlo", dice l'ingegnere Tamim Kasmo. Tuttavia, il calcare che meglio corrisponde all'originale si trova in una cava al di fuori del territorio sotto controllo del governo, nella provincia di Idlib. Come l'alto funzionario del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti Michael Mulroy ha notato, idlib ospita “la più grande collezione di affiliati ad al-Qaeda nel mondo in questo momento”.
Palmira, un passato che guarda al futuro
Il Grande Colonnato, costruito nel secondo e terzo secolo; descritto dall'UNESCO come una testimonianza della penetrazione di Roma in Oriente.
(foto Giorgio Bianchi)
Le pietre giganti di Palmira sono bianche come vecchie ossa quando lasciamo il sito in una sera al crepuscolo. Tarek si unisce agli amici per l'iftar, il pasto che rompe il digiuno del Ramadan e inizia con datteri e acqua in linea con una tradizione presumibilmente iniziata dal profeta Maometto. Il nostro autista, Ahmad, ha messo da parte la pistola che portava nella cintura. Insiste sul fatto che non vi è alcuna prospettiva di un ritorno dell'IS, ma dice che porta l'arma perché le strade locali possono essere pericolose. Tutti gli hotel della città sono stati distrutti, perciò dormiamo in una casa privata e sentiamo il fuoco dell'artiglieria per tutta la notte.
All'alba, un vento freddo e costante soffia dalle montagne. Una strada corre dietro alle rovine di un hotel di lusso, dove una volta gli ospiti cenavano mentre si affacciavano sulle antiche rovine e sotto il quale Khaled al-Asaad fu incatenato per i suoi ultimi 28 giorni, lungo le alte mura perimetrali del complesso del Tempio di Baal. Da qui, dopo aver cercato le benedizioni delle divinità del tempio, antiche carovane di cammelli percorrevano il lungo deserto attraversandolo verso est fino all'Eufrate, con merci destinate ai lontani mercati della Cina.
Oggi all'ingresso del tempio un giovane soldato è rintanato in un posto di guardia fatto di scatole di munizioni e lamiere ondulate intonacate di fango. "Sono stato qui tutto l'inverno, ma almeno non ha nevicato", dice. Si scusa per aver dovuto ispezionare i nostri documenti e ci invita ad aspettare su sedie di plastica mentre registra la nostra visita con un superiore. Chiedo degli spari della notte. "Erano solo esercitazioni dell'esercito” dice, indicando una montagna vicina con una cittadella medievale sulla sua cima. Un decennio fa, mi ero arrampicato fin sui bastioni per scattare foto panoramiche di Palmira, ma ora è una zona militare off-limits.
Tarek e il soldato parlano di notizie gradite: la fonte che alimenta l'oasi di Palmira scorre per la prima volta da 27 anni. Fonte storica della ricchezza della città, ha irrigato gli insediamenti di questo luogo sin dal Neolitico. Il risveglio della sorgente è arrivato troppo tardi per il frutteto di famiglia di Tarek; i suoi ulivi e i pistacchi sono seccati e sono morti. Ma egli lo considera un segno di speranza che finalmente il leggendario sito di Palmira possa essere ripristinato, per la prosperità della sua gente e la meraviglia del mondo.