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martedì 10 settembre 2019

Palmira: questa antica città ha subito un colpo fatale o risorgerà?


I barbari dello Stato Islamico hanno quasi distrutto questo sito dichiarato Patrimonio dell'Umanità. Le sue meraviglie possono essere salvate, quindi perché c'è così poca volontà internazionale di farlo?
traduzione di Gb.P. per OraproSiria
"Il tuo cuore si spezzerà quando vedrai Palmira", dice Tarek al-Asaad, guardando pensieroso fuori dalla finestra mentre attraversiamo l'ampia steppa siriana sulla strada verso l'antica città. Per Tarek, Palmira rappresenta un profondo serbatoio di dolore che include l'esecuzione pubblica di suo padre Khaled, un famoso archeologo e storico. Khaled è stato determinante nel riconoscimento di Palmira come Patrimonio Mondiale dell'Umanità da parte dell'UNESCO nel 1980. Il mondo è rimasto a guardare, inorridito, mentre i fanatici dello Stato Islamico, noto anche come IS, prendevano a mazzate e facevano saltare con esplosivi i suoi maestosi monumenti, 35 anni dopo.
Ci fermiamo in un negozio lungo la strada, dove un ragazzino con gli occhi già vecchi sta raccogliendo lattine di alluminio da vendere come rottame. All'interno, i soldati dell'esercito siriano bevono vodka e birra. È maggio ed è il mese di digiuno musulmano del Ramadan, quando Tarek non mangia e non beve nulla dall'alba al tramonto, ma i giovani coscritti sono in congedo e in vena di festeggiare. Tarek acquista vettovaglie per la sua prima notte a Palmira da quando è fuggito dalla città nel 2015 verso la relativa sicurezza di Damasco, la capitale della Siria.
Il Tempio di Baal di Palmira
nel marzo 2014,
e la stessa visione due anni dopo.

Il padre di Tarek, Khaled al-Asaad, aveva 83 anni quando fu decapitato dall'IS. Aveva dedicato più di 50 anni a scoprire, restaurare e pubblicizzare i resti di questo storico crocevia della Via della Seta che raggiunse l'apice nel terzo secolo. Tarek, uno dei suoi 11 figli, è cresciuto nella moderna città di Tadmur vicina al sito. "Ogni giorno mi precipitavo fuori da scuola per andare a cavallo nelle carriole e nei secchi che trasportavano la terra degli scavi", ricorda. Khaled si ritirò come capo delle antichità di Palmira nel 2003, ma rimase un esperto molto richiesto. Fluente nell'antico Palmirene, dialetto dell'Aramaico, traduceva iscrizioni, scriveva libri e assisteva le missioni archeologiche straniere. Nel frattempo, Tarek, che ora ha 38 anni, un uomo muscoloso e un faccione pronto al sorriso, gestiva un'attività turistica di successo.
Stiamo viaggiando verso Palmira dalla città occidentale di Homs, attraverso pascoli ondulati cosparsi di papaveri cremisi. Pastori beduini, austeri e vigili, pascolano greggi di capre dal pelo lungo e pecore dalla coda grassa. I soldati fanno controlli sui camion di passaggio attraverso installazioni di blocchi di cemento circondati da appezzamenti verdi di grano e orzo. I checkpoint militari lungo la strada montano stravaganti cartelloni patriottici: la bandiera nazionale a doppia stella è dipinta sulle barriere di cemento, sui barili di petrolio e sui muri delle caserme mentre gli striscioni raffigurano il presidente siriano Bashar al-Assad che appare risoluto dietro gli occhiali da sole da aviatore o saluta la folla. Le sentinelle che controllano i documenti di identità sono rilassate e contente di scherzare. "Spero che il tuo digiuno proceda bene" chiede l'autista. "Non stiamo digiunando, siamo kuffar [non credenti]", scherza una guardia, alludendo all'insulto jihadista lanciato agli avversari.
Più avanti, il pascolo lascia posto a un terreno pietroso tempestato di ciuffi verde pallido. I resti della guerra sono più evidenti qui; camion e carri armati bruciati, tralicci elettrici abbattuti e sbarramenti fortificati di terra battuta contornati da filo spinato. Vicino a una base aerea militare circondata da stazioni radar, il checkpoint è pesantemente sorvegliato e professionale. Un mezzo di trasporto di carri armati russo che si sta dirigendo verso di noi ci ricorda che l'IS combatte ancora nel deserto oltre Palmira, dove si dice che diverse truppe siriane siano state ammazzate in questo mese. Mentre IS ha perso la sua ultima roccaforte siriana di Baghouz a marzo, sue piccole bande continuano a sferrare attacchi di guerriglia.
Questa è la mia prima visita a Palmira dopo un viaggio come turista nel 2009, attratto dalla mistica della sua spettacolare architettura presso un'oasi nel deserto. Due anni dopo, la Siria fu distrutta dalla guerra. Mentre ci avviciniamo a Palmira attraverso un varco in una bassa catena montuosa, mi gira in testa una domanda: l'antico e ipnotizzante sito ha subìto un colpo fatale o potrà risorgere?
Il Gran Colonnato di Palmira emerge improvvisamente da una pianura sabbiosa. È la spina dorsale ancora magnifica della città, un viale lungo un chilometro di imponenti colonne di calcare che lentamente passano dall'oro pallido all'arancio bruciato nel sole al tramonto. Parcheggiamo vicino alle rovine e partiamo a piedi per dare un'occhiata più da vicino. All'estremità orientale del Gran Colonnato, il grande tempio del dio mesopotamico Baal giace in rovina (sebbene il suo portico sia in qualche modo sopravvissuto agli esplosivi di Daech) e l'arco trionfale riccamente scolpito è un mucchio di blocchi enormi. Gli invasori hanno fatto esplodere anche il tetrapylon che segnava il crocevia della città e il tempio Baalshamin, una combinazione riccamente decorata di stili di costruzione romani e locali. La facciata finemente cesellata del teatro è un cumulo di macerie insieme a diverse torri di sepoltura a più piani che si trovavano su una nuda collina.
All'incrocio del commercio internazionale, la cosmopolita Palmira aveva sviluppato una cultura non ortodossa e pluralista che si riflette nella sua arte e architettura sopravvissute. Ciò, insieme alla sua posizione tra la costa mediterranea e il fiume Eufrate, l'ha resa un allettante bersaglio simbolico e strategico per i fondamentalisti moderni. I musulmani vissero a Palmira per 13 secoli, stabilendo moschee in strutture che precedentemente funzionavano come chiese bizantine e templi pagani, ma i bigotti dell'IS furono scandalizzati da quasi tutto ciò che trovarono. Ogni atto di vandalismo è stato filmato per l'uso della propaganda IS: il suo valore scioccante mirava ad attrarre reclute estremiste e intimidire gli avversari.
An Islamic State-released photo showing the destruction of Palmyra’s 1900-year-old Baalshamin temple.
Una foto pubblicata dallo Stato Islamico
che mostra la distruzione del tempio
Baalshamin di Palmira antico di 1900 anni.
IS ha occupato Palmira due volte: tra maggio 2015 e marzo 2016, e tra dicembre 2016 e marzo 2017. Durante la prima occupazione, Tarek è fuggito, ma Khaled ha rifiutato di andarsene. “Ho telefonato a mio padre e l'ho supplicato "Per favore vattene; Palmira è stata presa da persone malvagie e tu non sei al sicuro", dice Tarek. "Lui mi ha risposto: 'Sono contento che tu sia andato via, ma questa è casa mia e io non me ne vado.'”. Dopo sei settimane di arresti domiciliari, Khaled fu imprigionato in un seminterrato dell'hotel e torturato perché rivelasse la posizione di tesori nascosti che Tarek dice non essere mai esistiti. Dopo un mese nel seminterrato, il vecchio fu decapitato con una spada di fronte a una folla riunita. "Si è rifiutato di inginocchiarsi per la decapitazione, quindi lo hanno brutalmente costretto a piegare le ginocchia", dice Tarek. Una fotografia online mostrava il suo cadavere legato a un palo del traffico e la testa con gli occhiali indossati, posizionata beffardamente ai suoi piedi. Un cartello legato al suo corpo lo identificava come un apostata che serviva come "direttore dell'idolatria" a Palmira e rappresentava il governo di Assad nelle conferenze "infedeli" all'estero.
Prima dello scoppio della guerra nel 2011, il turismo e l'agricoltura hanno dato lavoro a oltre 50.000 persone a Tadmur. Ne sono tornate solo poche centinaia, rintanandosi in edifici semi-distrutti lungo le strade sulle quali erbacce giganti proliferano dai crateri delle bombe. Tarek non è tra i rimpatriati; vive con sua madre Hayat a Damasco, dove gestisce un caffè. I genieri russi hanno bonificato Tadmur dalle mine e dalle trappole esplosive e l'energia elettrica e l'acqua sono tornate. Il commercio ha fatto una ripresa provvisoria, con una panetteria, una farmacia con un buco in un muro e un semplice ristorante. Il suo proprietario, Ibrahim Salim, 45 anni, griglia il pollo sul marciapiede sotto uno stendardo raffigurante il presidente Assad e il suo alleato russo Vladimir Putin. Salim dice di essere fuggito da Palmira dopo che l'IS ha ucciso sua moglie Taghreed, un'infermiera di 36 anni, per il crimine di aver curato un soldato del governo ferito. "La sicurezza è buona, così posso dormire sonni tranquilli a Tadmur ora", dice. "Speriamo che le scuole riaprano al più presto, quindi più famiglie potranno tornare".
L'UNESCO ha esaltato l'arte palmirena, in particolare la sua espressiva scultura funeraria, come una miscela unica di influenze indigene, greco-romane, persiane e persino indiane. Mentre l'IS combatteva con le truppe siriane per il controllo di Tadmur nel 2015, Tarek si è precipitato a salvare gli esempi più apprezzati nel museo a due piani di Palmira. Con lui c'erano i suoi fratelli archeologi, Mohammed e Walid, e il loro cognato, Khalil Hariri, che era succeduto a Khaled al-Asaad come direttore del museo. Imballarono sculture, ceramiche e gioielli in casse di legno e le caricarono su camion mentre i mortai esplodevano intorno a loro. Una scheggia colpì Tarek nella schiena e Khalil prese una pallottola nel braccio. Sono scappati con centinaia di pezzi, ma ne hanno lasciati molti altri. L'UNESCO ha elogiato l'evacuazione durante la guerra in Siria di oltre 300mila reperti, provenienti dai 34 musei del Paese come “un'impresa straordinaria”.
C'incamminiamo verso il museo di Palmira. L'ex posto di lavoro di Khaled è un guscio desolato, con le pareti segnate da proiettili, le finestre in frantumi e il tetto dell'atrio forato da un missile. Le gallerie che hanno messo in mostra le realizzazioni di millenni sono spoglie se non per alcune statue e bassorilievi. Mancano teste, volti e mani; profanati dai miliziani dell'IS infuriati da oggetti "idolatrici", dice Tarek, aggiungendo: "Hanno persino tirato fuori le mummie imbalsamate dai loro cofani e le hanno investite con un bulldozer."
Tarek al-Asaad con il ritratto del defunto padre, Khaled, dell'artista di Sydney Luke Cornish.
Tarek al-Asaad con il ritratto del padre Khaled,
dell'artista di Sydney Luke Cornish
Trovo solo un pannello intatto: un ritratto di Khaled dell'artista Luke Cornish di Sydney , un'opera che io e Cornish pensavamo fosse andata perduta. Dipinto su una porta d'acciaio, il ritratto è appoggiato a un muro e coperto da un foglio protettivo di plastica trasparente. Tarek non sa come sia sopravvissuto o chi lo abbia rimesso nel museo. "Qualcuno deve averlo nascosto da IS, perché lo avrebbero distrutto di sicuro", dice.
Non meno di 15 dipendenti della rete museale siriana hanno subito morti violente negli otto anni di guerra, ma solo l'omicidio di Khaled ha fatto notizia. La notizia ha spinto Cornish a rendergli un tributo straordinario. Cornish crea arte spruzzando vernice aerosol su strati di stencil. Due volte finalista del Premio Archibald, il suo lavoro pluripremiato raggiunge un realismo quasi fotografico e veicola forti temi umanitari. 
Nel giugno 2016, è andato in Siria per filmare un gruppo di pugili australiani in una "missione di crescita della speranza" guidata da un sacerdote anglicano di Sydney, "il padre combattente" Dave Smith, noto per il suo uso del pugilato per aiutare i giovani a rischio. Tra attacchi e allenamenti, Cornish ha tenuto improvvisate dimostrazioni di arte stencil per bambini in luoghi devastati dalla guerra come Aleppo, una volta la più grande città della Siria. "I bambini erano affascinati dall'immediatezza del mezzo", mi ha detto a Sydney. “La maggior parte erano molto poveri e non avevano mai conosciuto altro che la guerra, quindi è stato bello vederli divertirsi a mettere cose come Dora the Explorer (personaggio dei cartoni animati) su un muro del cortile della scuola o lungo una strada bombardata. Anche con i soldati in giro e tra le bombe, abbiamo sempre attirato una folla curiosa". Prima di partire per la Siria, Cornish ha preparato uno stencil nella speranza di dipingere il ritratto di Khaled da qualche parte nel paese. Ne ha avuto la possibilità quando i pugili sono andati a Palmira. Sono arrivati più di due mesi dopo che un'offensiva sostenuta dalla Russia ha cacciato l'IS dalla città per la prima volta, e una settimana dopo che la Mariinsky Theater Orchestra di San Pietroburgo ha tenuto lì un concerto per celebrare - prematuramente, come si è scoperto poi - la liberazione di Palmira. L'orchestra ha eseguito Prokofiev, Bach e Shchedrin in un teatro di epoca romana che IS aveva utilizzato come sfondo scenico per esecuzioni di massa. Cornish ha scelto la porta della sala elettricità del teatro per dipingere l'uomo che definisce "un eroe che ha sacrificato la sua vita per ciò che amava". Una clip su YouTube di Cornish che lavora al dipinto, ha portato Tarek a contattarlo. “La pittura di Luke è stata un bellissimo gesto e un dono molto gentile per la nostra famiglia. Pensiamo a lui come a un nostro amico e fratello ", afferma Tarek. Ma sei mesi dopo IS ha ripreso Palmira, minando con la dinamite il teatro e pubblicando un video gongolante della distruzione. Cornish aveva pensato che anche il suo dipinto fosse andato perduto. "Sono abituato a vedere distruggere il mio lavoro per strada, ma farlo esplodere da IS è qualcos'altro", dice.
Palmira, un passato che guarda al futuro
Interno del museo di Palmira
(foto Giorgio Bianchi.National Geographic)
La Siria vanta sei siti culturali del patrimonio mondiale dell'UNESCO e tutti sono nella lista di quelli in pericolo. Normalmente, fondi dell'UNESCO dovrebbero essere devoluti per proteggere i beni minacciati. Nel caso della Siria, il sostegno delle Nazioni Unite è stato limitato al restauro di una singola statua di Palmira e alla formazione del personale del museo. Un appello di emergenza dell'UNESCO, valutando necessari 150.000 USD ($ 222.000) per salvaguardare il portico del Tempio di Baal di Palmira non è riuscito ad attirare alcun sostegno di potenziali donatori. Al museo nazionale di Damasco, i restauratori vestiti di bianco hanno iniziato l'impegnativo lavoro di riparazione di centinaia di reperti danneggiati di Palmira. È uno sforzo quasi interamente siriano, fatto con un budget limitato. "Speriamo in un maggiore aiuto internazionale perché Palmira appartiene al mondo, non solo alla Siria", afferma Khalil Hariri, direttore del museo di Palmira. Dice che le pietre cadute dell'arco trionfale, del teatro e del tetrapylon sono per lo più intatte e possono essere rimesse insieme, ma il servizio museale non può permettersi di assumere lavoratori e acquistare macchinari.
Dice uno specialista di Palmira al museo di Damasco, l'archeologo Houmam Saad: "Tutto il mondo parla dei danni a Palmira, ad Aleppo e ai nostri altri siti Patrimonio dell'Umanità, ma quasi nessuno al di fuori della Siria fa qualcosa per aiutare."
Più di venti organizzazioni europee e statunitensi sono sorte per promuovere il patrimonio in pericolo della Siria. Raccolgono dati, tengono riunioni ed emettono dichiarazioni di preoccupazione. Uno di questi gruppi ha speso £ 2,5 milioni ($ 4,1 milioni) per erigere un modello in scala di due terzi dell'arco trionfale di Palmira a Trafalgar Square a Londra, quindi ha ripetuto l'esercizio a Washington DC.  "I soldi raccolti per le antichità siriane sarebbero invece stati spesi meglio dove si trovava il danno fatto", scrive Ross Burns, ex ambasciatore australiano in Siria e autore di quattro libri sulla sua archeologia e storia: "Mettere soldi in finti archi e modelli 3D che imitano vagamente le strutture storiche fa poco più che salvare le coscienze di stranieri le cui nazioni hanno incoraggiato - persino finanziato e armato, per poi allontanarsene - la conflagrazione che è cresciuta per distruggere la Siria".
La Siria è una nazione di molte confessioni ed etnie che è emersa nei suoi attuali contorni solo nel 1945. I suoi governanti hanno reso popolare una storia condivisa come strumento per promuovere l'identità nazionale e la coesione sociale. Nel 2018, il direttore generale dell'UNESCO Audrey Azoulay ha riconosciuto questo patrimonio come "una forza potente per la riconciliazione e il dialogo". Ha aggiunto un avvertimento: l'UNESCO aiuterà a ricostruire i siti storici della Siria "quando le condizioni lo consentiranno". Ciò potrebbe significare una lunga attesa.
Le Nazioni Unite hanno vietato alle loro agenzie di fornire aiuti per la ricostruzione fino al raggiungimento di una "transizione politica autentica e inclusiva negoziata dalle parti". Il divieto riflette la posizione degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e di altre nazioni che hanno imposto sanzioni economiche alla Siria. Il governo australiano ha fatto lo stesso nel 2011 in risposta a quello che ha definito "un uso della violenza da parte del regime siriano contro il suo popolo, profondamente inquietante e inaccettabile". Un anno dopo, il governo Gillard ha applicato ulteriori sanzioni e ha chiesto "un'intensificazione della pressione su Damasco per fermare la sua brutalità".
Luke Cornish si è imbattuto nelle sanzioni quando ha tentato di inviare $ 28.000 raccolti per gli orfani siriani a SOS Children's Villages International l'anno scorso. Le sanzioni hanno isolato la Siria dai sistemi bancari e di pagamento internazionali, quindi l'organizzazione benefica gli ha consigliato di trasferire il denaro sul suo conto bancario tedesco. Tuttavia, la sua banca australiana ha rifiutato il trasferimento, afferma Cornish, aggiungendo: "Ho fatto l'errore di usare la parola "Siria" nella causale del trasferimento".
Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle sanzioni, Idriss Jazairy, afferma che le restrizioni hanno "contribuito alla sofferenza del popolo siriano” bloccando le importazioni che vanno dai farmaci antitumorali, ai vaccini, alle sementi delle colture agricole e alle pompe per l'acqua. Sebbene non avallate dalle Nazioni Unite, le sanzioni hanno avuto un "effetto agghiacciante" sull'aiuto umanitario, perché ostacolano gli sforzi per ripristinare scuole, ospedali, acqua potabile, abitazioni e lavoro, ha segnalato Jazairy nel 2018.
Quali sono, quindi, le prospettive per il restauro delle antichità in pericolo della Siria, tra cui Palmira? Le risposte potrebbero risiedere in un ambizioso progetto finanziato dalla Russia per ricostruire la Grande Moschea di Aleppo. È un capolavoro dell'architettura islamica e simbolo della città, che si trova a nord-ovest di Palmira e ha perso un terzo del suo famoso Vecchio Quartiere in combattimenti che sono terminati nel 2016. Il minareto della moschea alto 45 metri è rimasto in piedi per oltre 900 anni fino a quando è crollato durante i combattimenti nel 2013. Oggi è un cumulo di blocchi di calcare da mille tonnellate sovrastato da una gru torreggiante. Rimettere in piedi il minareto è il lavoro di un team di architetti e ingegneri, scalpellini e falegnami tutti siriani. Devono anche ripristinare le colonne, i soffitti e le pareti gravemente danneggiati della sala di preghiera e dei portici che circondano il vasto cortile della moschea. Il direttore del progetto, l'architetto Sakher Oulabi, che mi ha accompagnato nella visita al sito, dice che i lavoratori sentono una pesante responsabilità: “Tutti noi capiamo che stiamo facendo qualcosa di molto importante per l'anima della nostra città e del nostro Paese.”
A guidare la ricostruzione è il Syria Trust for Development, presieduto da Asma al-Assad, - la moglie del Presidente - quindi il progetto ha un notevole peso. Tuttavia, le sue sfide tecniche sono formidabili quasi come quelle di Palmira. Le circa 2400 pietre cadute del minareto devono essere pesate e misurate, fortemente testate con ultrasuoni e fotografate da molte angolazioni in modo che la fotogrammetria - la scienza di effettuare misurazioni tridimensionali dalle immagini - possa aiutare a determinare dove si adatta ogni pietra. I materiali e le tecniche devono essere il più vicino possibile all'originale: "Un esperto potrà notare la differenza tra vecchio e nuovo, ma il pubblico non deve notarlo", dice l'ingegnere Tamim Kasmo. Tuttavia, il calcare che meglio corrisponde all'originale si trova in una cava al di fuori del territorio sotto controllo del governo, nella provincia di Idlib. Come l'alto funzionario del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti Michael Mulroy ha notato, idlib ospita “la più grande collezione di affiliati ad al-Qaeda nel mondo in questo momento”.
Palmira, un passato che guarda al futuro
Il Grande Colonnato, costruito nel secondo e terzo secolo; descritto dall'UNESCO come una testimonianza della penetrazione di Roma in Oriente.
(foto Giorgio Bianchi)
Le pietre giganti di Palmira sono bianche come vecchie ossa quando lasciamo il sito in una sera al crepuscolo. Tarek si unisce agli amici per l'iftar, il pasto che rompe il digiuno del Ramadan e inizia con datteri e acqua in linea con una tradizione presumibilmente iniziata dal profeta Maometto. Il nostro autista, Ahmad, ha messo da parte la pistola che portava nella cintura. Insiste sul fatto che non vi è alcuna prospettiva di un ritorno dell'IS, ma dice che porta l'arma perché le strade locali possono essere pericolose. Tutti gli hotel della città sono stati distrutti, perciò dormiamo in una casa privata e sentiamo il fuoco dell'artiglieria per tutta la notte.
All'alba, un vento freddo e costante soffia dalle montagne. Una strada corre dietro alle rovine di un hotel di lusso, dove una volta gli ospiti cenavano mentre si affacciavano sulle antiche rovine e sotto il quale Khaled al-Asaad fu incatenato per i suoi ultimi 28 giorni, lungo le alte mura perimetrali del complesso del Tempio di Baal. Da qui, dopo aver cercato le benedizioni delle divinità del tempio, antiche carovane di cammelli percorrevano il lungo deserto attraversandolo verso est fino all'Eufrate, con merci destinate ai lontani mercati della Cina.
Oggi all'ingresso del tempio un giovane soldato è rintanato in un posto di guardia fatto di scatole di munizioni e lamiere ondulate intonacate di fango. "Sono stato qui tutto l'inverno, ma almeno non ha nevicato", dice. Si scusa per aver dovuto ispezionare i nostri documenti e ci invita ad aspettare su sedie di plastica mentre registra la nostra visita con un superiore. Chiedo degli spari della notte. "Erano solo esercitazioni dell'esercito” dice, indicando una montagna vicina con una cittadella medievale sulla sua cima. Un decennio fa, mi ero arrampicato fin sui bastioni per scattare foto panoramiche di Palmira, ma ora è una zona militare off-limits.
Tarek e il soldato parlano di notizie gradite: la fonte che alimenta l'oasi di Palmira scorre per la prima volta da 27 anni. Fonte storica della ricchezza della città, ha irrigato gli insediamenti di questo luogo sin dal Neolitico. Il risveglio della sorgente è arrivato troppo tardi per il frutteto di famiglia di Tarek; i suoi ulivi e i pistacchi sono seccati e sono morti. Ma egli lo considera un segno di speranza che finalmente il leggendario sito di Palmira possa essere ripristinato, per la prosperità della sua gente e la meraviglia del mondo.

venerdì 6 settembre 2019

Damasco pullula di vita ma l'economia è in ginocchio dopo anni di guerra civile


da Corriere del Ticino

Per raggiungere il centro storico di Damasco si deve percorrere la Via Maris, l'ampia strada romana che  parte dalle coste libanesi per raggiungere Bab Sharki, l'antica porta d'ingresso orientale della capitale siriana che, si narra, fu solcata da San Paolo mentre vagava cieco prima della conversione. Superata Bab Sharki la Via Maris si divide in migliaia di vicoli stretti e tortuosi che formano la città vecchia: i caffè con i tavoli esterni sono pieni, le bancarelle e i negozi si sovrappongono, la musica rimbomba nei locali, le strade sono piene di giovani, di anziani, di bambini, di soldati in congedo.
Al primo impatto la guerra sembra cosa lontana. Le forze ribelli ed i gruppi terroristici che dal 2011 al 2018 hanno controllato i rioni adiacenti, da dove bombardavano regolarmente la città vecchia, sono stati fatti fuggire dai massicci bombardamenti dell'esercito siriano e dell'aviazione russa. Molti di loro sono scappati verso Nord per rifugiarsi nell'enclave di Idlib, al confine con la Turchia, da dove stanno continuando a dare battaglia. Oggi Damasco e la sua provincia sono sicure, le persone passeggiano per le strade e il traffico scorre agevole.
Eppure di paura molti damasceni raccontano di averne ancora. Non più dei bombardamenti e dei ribelli, non del governo, non più delle bombe, bensì del futuro. “Durante la guerra avevamo la speranza che la pace avrebbe portato una vita migliore. Oggi non ne siamo così sicuri” dicono un gruppo di ragazzi seduti in un caffè. Un pensiero molto diffuso, soprattutto tra le nuove generazioni. 
Il recente rinnovo delle sanzioni economiche contro la Siria ha condotto ad una forte svalutazione della moneta locale che ha a sua volta generato una forte contrazione dei salari. Chi è laureato guadagna mediamente dai 50 ai 100 dollari mensili. Al contempo la riconquista delle roccaforti ribelli intorno alla capitale e la loro demolizione architettonica ha generato un massiccio esodo verso il centro di parte della popolazione che per 7 anni era rimasta intrappolata al loro interno. Cosa che sta a sua volta avendo forti conseguenze economiche e sociali.
Dal punto di vista economico l'iperpopolamento del centro ha fatto innalzare i prezzi delle case, tanto che l'affitto mensile di un appartamento si aggira intorno ai 300 dollari, tre volte lo stipendio di un laureato. Questa situazione sta generando fenomeni sociali fino a qualche mese fa sconosciuti: quello dei senzatetto che la notte si accasciano per dormire negli angoli delle strade; l'aumento del numero dei bambini che per le strade chiedono l'elemosina; la presenza di bande di ladri che la notte borseggiano i passanti o spaccano i vetri delle auto per svuotarle. Chiunque, inoltre, si lamenta del forte aumento della corruzione.
Costeggiando Bab Sharki sulla destra si raggiunge la chiesa della conversione di San Paolo. Entrando si nota subito un largo buco nel soffitto causato da un colpo di mortaio ribelle. “Durante la guerra tutte le chiese di questa zona sono state volontariamente colpite” spiega il frate francescano padre Bahjat mentre passeggia attraverso i chiostri.
Le sue parole sono coperte dalle grida assordanti e giocose di centinaia di bambini che passano qui le loro giornate. “Cerchiamo di essere un punto di riferimento per tutto il quartiere in questo momento di grandi cambiamenti sociali e demografici” spiega. L'alto costo della vita nel centro, racconta, sta spingendo parte della locale popolazione, soprattutto cristiana, a trasferirsi aree più economiche e degradate della provincia, per esempio nella periferia di Jaramana, dove i servizi sociali e comunali non sono all'altezza del bisogno crescente. In queste zone, spiega, si sta assistendo alla diffusione della prostituzione e dello spaccio di droga, oltre che alla parziale mutazione degli equilibri demografici.
Cosa potrebbe fare l'Occidente per aiutare il popolo siriano? Secondo padre Bahjat bisogna “innanzitutto rimuovere queste sanzioni, le cui vittime non sono le istituzioni ma la gente comune siriana che non può importare medicinali, macchinari per le proprie aziende e materie prime. Il governo sta facendo quello che può e ci dà carta bianca nelle nostre iniziative ma come possono crescere occupazione e salari se le sanzioni impediscono il rilancio dell'economia?”

martedì 3 settembre 2019

"Sono il mercato di Aleppo. Ho resistito alla morte. La luce nasce dalle profondità delle tenebre."

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Testo di Leyla Antaki
(Traduzione dal francese di Gb.P. per OraproSiria)
Sono il Souk di Aleppo. Sono il vecchio souk. Racconto la storia di un Paese.
Sono il mercato di Aleppo, sono il vecchio mercato. Racconto la storia di un Paese, di una città, dei suoi abitanti, la storia di un tempo e un'era. Le mie mura custodiscono i sussurri dei commercianti e si odono nei miei vicoli gli andirivieni delle famiglie e dei visitatori. Sono di Aleppo e ad Aleppo sono rimasto. All'interno delle mie mura, la gente viveva, lavorava sodo e le serate si prolungavano. I miei hammam avevano un buon odore, si provava felicità e piacere. Le mie moschee e le mie chiese lodavano il loro Creatore. Intorno all'albero di cedro nei cortili delle mie case si ritrovavano quelli che si amavano.
Un giorno, qui è piombato lo spettro della guerra. La sua faccia nera, la sua violenza e ferocia.
I miei sono fuggiti, lasciando le loro bancarelle, lasciando i loro cuori e tesori. Le mie strade si sono svuotate, le mie case si sono chiuse. Io il Souk, sono rimasto solo e spaventato. Ho visto la morte in faccia. Hanno distrutto le mie pietre, hanno rubato i miei caravanserragli. Un silenzio mortale ha invaso questo luogo. Non permetterò loro di annientarmi. Non diventerò un pezzo da museo. Non voglio che voi parliate di me al passato. La vita resta più forte. Un giorno, l'odore di sapone e spezie profumerà i miei muri. Non pensate che l'odio possa prevalere. La luce scaturirà dalle profondità dell'oscurità. La vita rinasce, la vita riprende i suoi diritti. Ad ogni alba, scriveremo una nuova pagina della mia storia anche su pezzi di tessuto salvati da sotto le macerie.
Voglio vivere. Voglio amare. Voglio cantare. Voglio che voi torniate da me.
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I Souk di Aleppo (continua)
Dove sono?
Oggi non è un giorno come gli altri
Oggi ho sentito qualcosa di strano
Appena ho sentito delle voci tra le mie pareti, ho pensato:
Sono tornati, i miei genitori, i miei amici, quelli che amo
Poi, ho sentito delle mani accarezzare le mie pareti, come una madre accarezza il suo bambino
Ho sentito tornare la vita e tutto rifioriva ai miei occhi
Ho visto la piscina di "Khan al Goumrok" e la sua piccola fontana che schizzava ...
Ho visto "Souk al Zerb" pieno di voci della gente di campagna che veniva a far compere
Ho visto un gruppo di donne uscire da "Hamam Al Nahassin" accompagnando una giovane ragazza che si sposerà domani
Ho visto "Souk al Atterine", "Souk al Abi", "Souk Al Nisswan" e "Souk al Dahab"
Da lontano, ho ascoltato la musica della troupe di "Darawichs" che veniva da "Bimarestan Al Arghouni"
Ho sentito l'odore del sapone, di olio, pistacchi e carne
Ho annusato l'odore di "Ejjé" e ho assaggiato la "Halawe Tahiniyé"
Ho visto questo mondo vivere ...
I turisti parlano inglese, tedesco, francese, giapponese... e i commercianti, con umorismo, che rispondono: oui, yes, bienvenido e altre parole ancora ...
Le regine, i presidenti e i grandi di questo mondo erano abbagliati dalla mia architettura, dalle mie porte e dalla decorazione delle mie pareti
Dei rumori, la vita ... I vecchi tempi sono tornati a cantare e ballare
Mio Dio, che spettacolo: la vista del commerciante che si aggrappa a una piccola fune per rientrare nel suo bazar pieno di merce
E la voce di questo cieco, in piedi all'angolo della strada, che grida: "Abou Fass per mal di testa e mal di denti"
E le macchine fotografiche che fotografano ogni angolo della mia strada
E quando il Muezzin ha chiamato alla preghiera, ho rivisto i commercianti chiudere i loro negozi con un velo leggero
Hanno ragione: tra le mie mura, la sicurezza e l'amore sono i maestri.
Ma tutto ciò era ai bei vecchi tempi prima che accadesse ciò che è accaduto
La voce che ho sentito è la tua voce, tu, l'eletta del mio cuore, tu figlia di Aleppo che hai osato venire, hai rischiato, hai camminato, sei caduta, sei salita nelle soffitte dei negozi, hai cercato tra le macerie e tirato fuori i tesori sepolti, ti sei sporcata, i tuoi vestiti hanno preso l'odore del tempo ...
La tua voce, figlia mia, il tuo tocco magico, il tuo sguardo di tenerezza, i tuoi delicati passi mi hanno risvegliato il cuore, aperto gli occhi e liberato la mia voce
E quando hai raccolto i pezzi di tessuto, l'hai trasformato in un'opera d'arte, un capolavoro
L'immagine può contenere: albero, pianta, tabella e spazio all'aperto
Oh oh
Dov'è la gente? dove sono gli altri? perché non tornano? Cosa stanno aspettando?
Tu lo sai, sono 6 anni che aspetto; la cosa più dura della vita è attendere
E mi dicevo:
Domani torneranno sicuramente
Domani, la mia vita tornerà
Domani la mia anima vivrà di nuovo
Figlia mia, tu che hai l'età delle mie pietre, con te, vorrei chiamarli
Metterei i miei migliori vestiti fatti con i resti di tessuti sepolti sotto le macerie, voglio urlare, voglio dire loro:
Tornate! Tornate indietro! Ritornate!
Ridatemi la mia anima
Leyla Antaki


Aleppo: alcune donne si mobilitano attorno a un laboratorio di cucito, Heartmade, per far rivivere l'anima del souk

  Ad Aleppo è giunta l'ora della ricostruzione, quella della città ma soprattutto quella dei suoi abitanti traumatizzati da 8 anni di guerra e distruzioni che hanno generato migliaia di vittime e sfollati. Consentire alle donne di riprendersi, di vivere degnamente dal proprio lavoro e di occupare un ruolo centrale nella città, è un elemento fondamentale per il futuro della società siriana.
Heartmade è un gruppo di undici donne guidate dalla fondatrice Leyla Antaki, membro dei Maristi Blu , partner dei Baroudeurs de l'Espoir e da Jessica Samman, stilista e designer. Lavorano in un laboratorio ad Aleppo e trasformano abiti o tessuti riciclati in pezzi unici.
I loro obiettivi sono nobili:
- Sviluppare la creatività delle donne che hanno subito il massimo della guerra e far emergere la loro visione della bellezza
- Offrire opportunità di lavoro
- Aumentare la consapevolezza del rispetto per l'ambiente combattendo contro i rifiuti tessili
- Produrre pezzi unici fatti a mano
- Risuscitare l'anima dei souk di Aleppo, distrutti da anni di combattimenti.
Questo progetto è iniziato a settembre 2017. Riunisce donne che realizzano abiti con scorte di tessuto riciclato ma anche pezzi trovati nelle rovine del souk, anima della città, ora completamente distrutto. Attualmente, 11 donne lavorano 5 giorni alla settimana, in un ambiente accogliente e per un salario dignitoso. Abiti, borse, pantaloni ... tutto è reinventato, in linea con la moda locale e internazionale, e impreziosito da ricami interamente fatti a mano. La produzione viene venduta a prezzi moderati in modo che la popolazione locale possa accedervi. Questo progetto dunque consente sia di sviluppare le capacità delle donne che lottano per trovare lavoro, sia di creare pezzi unici, interamente fatti a mano ed eco-responsabili. Ogni pezzo è creato con il cuore, la creatività e la volontà di dare libero sfogo all'espressione della bellezza.
L'immagine può contenere: strisce"Ogni pezzo di tessuto che trovo nel souk mi parla, ognuno di loro ha un proprietario che lo amava e io volevo attraverso questo lavoro rendere omaggio sia al souk che a quelli che vivevano lì": Leyla Antaki, fondatrice del progetto Heartmade.
Vengono anche realizzati anche pezzi più singolari e simbolici, come un patchwork di tessuti del souk che fa vedere una poesia scritta dalla fondatrice del progetto Leyla Antaki.
"Volevamo impegnarci nel rafforzare il legame sociale e valorizzare il lavoro delle donne che sono stati i pilastri durante questa guerra, dimostrando un coraggio esemplare per sostenere le loro famiglie." Diane Antakli, Presidente della ONG Baroudeurs de l'Espoir.
Leyla Antaki, fondatrice di Heartmade,
circondata da Diane Antakli e
Maria de la Bastida,
fondatrici dei Baroudeurs de l'Espoir
Questo laboratorio, istituito dai Maristi, è supportato oggi dai Baroudeurs de l'Espoir. Per quasi 5 anni la ONG ha assistito i Maristi nei programmi di emergenza medica, nella rieducazione dei bambini e nella distribuzione di cesti alimentari e sanitari. Solo nel 2018, grazie a questa collaborazione, 170 bambini sono tornati a scuola ad Aleppo, è stata messa in circolazione una biblioteca mobile e 675 sfollati hanno ricevuto e ancora ricevono due volte a settimana, cesti alimentari e per la salute.
Sostieni il progetto
A causa della guerra, molte fabbriche di abbigliamento sono state distrutte. Oggi, il progetto Heartmade ha bisogno di fondi per il proseguimento delle sue attività e la sostenibilità del laboratorio. Senza il sostegno finanziario, sarà impossibile pagare le sarte e continuare la produzione. È stato lanciato un appello a donazioni e sono state sollecitate alcune fondazioni, affinchè le ultime 4 frasi del testo di Leyla che fa parlare il souk di Aleppo possano ricevere una risposta: Io voglio vivere. Voglio amare. Voglio cantare. Voglio che torniate da me.
Informazioni sul Souk di Aleppo.
Il souk di Aleppo, o souk al-Madina, è un souk coperto situato nella Città Vecchia di Aleppo, classificato patrimonio mondiale dell'UNESCO dal 1986. È il più grande mercato coperto del mondo, con una lunghezza totale di circa 13 chilometri. La maggior parte del souk risale al 14° secolo. Durante la guerra civile siriana e la battaglia di Aleppo, gran parte del souk viene distrutto. Ora è vuoto e abbandonato. Quasi settecento botteghe non sono altro che ceneri, specialmente nel souk delle donne, nel souk dell'oro e delle spezie.

mercoledì 28 agosto 2019

Fine del calvario per la città combattente di Mhardeh

Siria, non lontano da Idleb: dopo sette lunghi anni di assedio, i jihadisti si sono ritirati dalla periferia della città cristiana di Mhardeh. Le bombe non cadono più sui civili. 

Ma la gente di Mhardeh come è sopravvissuta? 


Intervista con Alexandre Goodarzy, capomissione in Siria della ONG 'SOS Chrétiens d'Orient'
SPUTNIK , traduzione italiana di Gb.P. per OraproSiria
Alexander Goodarzy, voi siete presenti con 'SOS Cristiani d'Oriente' da tre anni nella città di Mhardeh. L'assedio dei jihadisti è stato recentemente spezzato. Sollevato?
Alexandre Goodarzy: "È qualcosa che aspettavamo da quasi otto anni. Sono quattro anni che conosco Mhardeh e Squelbie, una città vicina. La sacca di Idleb è nella Siria nordoccidentale, queste due città sono a sud-ovest di questa sacca. La prima linea era a 500 metri di distanza, ora è arretrata di 20 km fino a Khan Cheikhoun. Le persone possono ora vivere in pace. Erano minacciate dall'organizzazione jihadista Hayat Tahrir al-Cham*, altro nome di al-Nusra*, che avevano promesso fedeltà ad al-Qaeda, prima di fondersi con altri gruppi. Il nome è cambiato e non dice nulla agli Occidentali, ma hanno gli stessi metodi: decapitazioni, propaganda e intimidazione dei civili. Quando parliamo di "opposizione" o di "ribelli moderati", parliamo di questi tipi ... Per qualche tempo, Mhardeh ha avuto sei mesi di tregua, poi i bombardamenti sono ripresi. È stato duro. La riconquista della zona a sud di Idleb respinge adesso i terroristi a 20 km di distanza. Sono stato vicino a loro per quasi quattro anni. È una grande vittoria, una grande gioia per gli abitanti, ma ci sono stati troppi morti ".
160 civili hanno perso la vita a Mhardeh. In che modo la città è diventata un simbolo di resistenza?
A.G.: "Questa piccola città di 23.000 abitanti (oggi 16.000) si trovata in prima linea. Tra la sua gente, il signor Simon Al Wakil ha deciso di difendere la sua casa, poi il suo quartiere, poi la sua città, e nei fatti, resistere ai terroristi che stavano conducendo razzie e rapine. Ha messo tutti suoi beni al servizio della sua comunità: "il terrorismo si arresterà qui, non ci lasceremo intimidire, resisteremo", ha detto. Sono passati esattamente otto anni dall'inizio di questa resistenza ai tentativi dei terroristi che provengono da Idlib, senza avere esperienza militare. Il signor Simon era un imprenditore, i suoi soldati sono operai, fornai, studenti - che vanno a scuola a Hama la mattina e indossano l'armatura nel pomeriggio ".
Lei dice che gli abitanti del villaggio si sono mobilitati ... da soli?
A.G.: "Si sono sollevati spontaneamente, hanno formato una milizia: l'esercito siriano non poteva essere ovunque. Si sono difesi da soli. Simon Al-Wakil ha messo a disposizione la sua fortuna per la difesa della sua città. L'esercito ha fornito alcune armi. So anche che gli iraniani prendono alcuni uomini e li addestrano in Iran a maneggiare armi, fabbricare missili e così via. È anche un peccato vedere che è la Repubblica Islamica dell'Iran, sciita, a difendere le minoranze cristiane nel Levante. Dovrebbe essere il lavoro della Francia, che preferisce finanziare i "moderati".
Che cosa ha fatto la vostra ONG, SOS Chrétiens d'Orient, a Mhardeh?
A.G.: "In effetti, gli uomini possono partecipare di meno alla vita economica. Abbiamo deciso di aiutarli: portiamo loro del cibo, specialmente alle famiglie i cui mariti vanno a combattere. Abbiamo aiutato l'ospedale cittadino, ridipingendo le sue pareti, portando forniture mediche. Abbiamo sostenuto finanziariamente le associazioni di disabili in modo che potessero arrivare in centro. Abbiamo iniziato ad aiutare la ricostruzione, abbiamo appena finanziato la prima casa. Abbiamo raccolto 50.000 euro [per Mhardeh, ndr], abbiamo speso circa 10.000 euro per ora: è lungo e difficile, la città era ancora sotto tiro fino a ieri ".
Come descriverebbe la situazione umanitaria nell'area?
A.G.: "Siamo stati i primi a portare aiuto a Mhardeh e Squelbie. So che nella zona l'esercito russo compie azioni umanitarie, protegge gli abitanti della regione, come degli iraniani e alcune milizie sciite afghane sotto l'autorità dell'esercito iraniano. Dunque, su Idleb, si sono dette molte bugie, secondo me. Oggi queste menzogne su Idleb sono raccontate di nuovo. Non sono qui per dire che Bashar al-Assad è un angelo, ma alla liberazione di Aleppo-Est, sono andato negli ospedali [a dicembre 2016, ndr]: lì ho incontrato quelli che avevano vissuto sotto l'occupazione terroristica. Ogni volta, mi hanno detto che i Caschi Bianchi o la Siria Charity erano solo terroristi travestiti da umanitari ".
* Organizzazioni terroristiche vietate in Russia


  
Testimonianza di Charles de Meyer, presidente di 
SOS Chrétiens d'Orient: 
"Mhardeh, luce di speranza per i cristiani d'Oriente"
FIGAROVOX/ TRIBUNE  traduzione italiana di Gb.P. per OraproSiria

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Un albero. Molto logoro. I ritratti appesi ispirano sentimenti confusi. Prima emozione, poiché 160 persone hanno dato la vita per mantenere la presenza cristiana a Mhardeh, una piccola città ai margini del fronte con la sacca di Idlib, l'ultima provincia ribelle della Siria nord-occidentale. Anche confusione davanti a questi volti, infantili di alcuni, marziali di altri. Mhardeh è una piccola Vandea nell'inesauribile conflitto siriano, ma una Vandea sopravvissuta alle colonne infernali.
Non era il silenzio delle processioni funebri ad agghiacciare gli abitanti, ma quello dell'indifferenza internazionale. Il lettore francese potrebbe avere difficoltà a immaginare il diluvio di fuoco che è costantemente caduto sui suoi 20.000 abitanti per sette anni. Ogni settimana o giù di lì, il frastuono delle sirene e il tonfo delle esplosioni hanno ricordato alle famiglie il prezzo del sacrificio che hanno accettato rimanendo sulla terra dei loro padri: il sacrificio della loro sicurezza e, a volte, della loro vita. Non è stato il silenzio dei funerali a schiacciarle, comunque. Era l'indifferenza internazionale. A chi importava davvero dei cristiani di Mhardeh? Erano gli "uomini di troppo" di un conflitto che molti volevano riassumere in uno scontro tra Bashar Al-Assad e i gentili costruttori di una nuova esperienza democratica. Ad ogni buon conto, gli abitanti di Mhardeh conoscevano i loro vicini infettati da tutte le sfumature dell'islamismo. Alcuni si attenevano alle versioni levantine di Al-Qaeda, altri aderivano al califfo dell'organizzazione dello Stato islamico. E il mondo ha chiuso gli occhi, troppo preoccupato a ripetere una lettura mediatica semplicistica sul conflitto siriano.
Questa domenica l'intera città ha reso grazie. Si è tenuta una messa e una grande processione per cantare la riconoscenza di una città liberata dal giogo jihadista. Noi abbiamo provato una vera familiarità. Il vescovo Baalbaki, vescovo greco-ortodosso di Hama, ha notato la presenza di SOS Chrétiens d’Orient. Anche in Francia, il Te Deum ha seguito la liberazione. C'erano alcuni figli della "figlia maggiore della Chiesa" (la Francia NDT) a partecipare a questo momento storico. Ma abbiamo anche sentito un sentimento di vergogna di fronte ai fedeli che non hanno potuto permettere che la gioia li travolgesse perché erano ancora prigionieri del lutto. Nessuno restituirà loro quei figli macellati nella notte mentre stavano di guardia, o quelle ragazze sventrate dai mortai che cadevano a caso. La guerra reca con sé sempre molto orrore, a cui la nostra lunga esperienza di conflitti orientali non ci abituerà mai.
Noi come SOS Chrétiens d’Orient abbiamo rifiutato questa politica di intenzionale ignoranza.
L'immagine può contenere: 3 persone, persone in piedi
A Sqelbiye, anch'essa liberata dal giogo jihadista, abbiamo versato molte lacrime quando alcuni bambini sono andati a salutare la fotografia dei loro amici scomparsi nei bombardamenti islamisti. Lo sanno che le armi continuano ad arrivare attraverso il corridoio turco alle fazioni islamiste ammassate in Idlib? Lo sanno che stiamo iniziando a leggere qua e là che Hayat Tharir Al-cham «ammorbidisce» le sue posizioni, mentre questo gruppo terrorista, che ha assorbito la maggior parte dei jihadisti del Fronte al-Nosra e di altri gruppi jihadisti, ha ucciso molti dei loro piccoli compagni?! Forse non ancora... Oggi venerano Simon Al Wakil e Nabel Abdallah che hanno guidato la resistenza agli islamisti.
SOS Chrétiens d’Orient ha rifiutato questa politica dell' ignoranza intenzionale. Determinati, i nostri volontari e i nostri capi missione hanno moltiplicato le azioni di supporto morale e materiale ai cristiani assediati. Abbigliamento e attrezzature per i siti di ricostruzione, attrezzature di pronto soccorso e prodotti alimentari, i volontari della nostra associazione hanno sfidato il silenzio internazionale per mostrare a questa città martoriata che alcune persone in Europa non la stavano abbandonando. E' stato tanto, è stato troppo poco. E il nostro investimento continuerà. Perché di fronte alle forze soverchianti, i figli di Mhardeh hanno preso le armi per salvare il loro destino. Perché di fronte alla morte le madri di Mhardeh hanno sostenuto i loro mariti che rifiutavano l'esilio. Perché questa piccola città della Siria che ha resistito contro una distruzione fatale da parte degli islamisti è un faro per tutti i cristiani d’Oriente: la loro scomparsa silenziosa non è una fatalità.

sabato 24 agosto 2019

La riconquista dell'Esercito Siriano di Khan Sheikhoun segna l’inizio della liberazione di Idlib

 Dalla fine della nostra novena di preghiera  per la pace in Siria, l'esercito siriano ha ottenuto una grande vittoria a Idlib attraverso la conquista di Khan Shaykhun. Un grazie a tutti coloro che si sono uniti alla nostra preghiera! 
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Finalmente le città cristiane martoriate per anni dai colpi dei jihadisti, celebrano la liberazione.



Damasco (AsiaNews)
Con la presa di Khan Sheikhoun due giorni fa, è passata in mano all’esercito siriano il controllo della strada che collega Idlib a Hama. Nella provincia di Hama, ormai totalmente in mano a Damasco, non resta alcuna presenza dei combattenti di Al Nusra. Secondo molte fonti locali, la riconquista di Khan Sheikhoun segna l’inizio di un attacco che porterà alla liberazione di Idlib, divenuta insieme all’Afghanistan uno dei luoghi con maggior concentrazione di terroristi al mondo. Ciò porterà anche alla liberazione di tutte le terre occupate al nord e al sud del Paese. La zona di Khan Sheikhoun è quella dove negli ultimi anni gli “elmetti bianchi” avevano diffuso le notizie sui famigerati attacchi al gas sarin contro i civili, e che secondo altre  fonti erano notizie fabbricate.

La ripresa di Khan Sheikhun segna una svolta storica nei rapporti fra Damasco, Mosca, Ankara e Teheran. Fonti parlamentari siriane spiegano che fino ad ora, Mosca aveva invitato alla calma la Siria, e ciò ha permesso ad Ankara di tergiversare per un anno, evitando di attuare quanto concordato ad Astana. Ora sembra che la pazienza di Damasco sia esaurita. L’esercito siriano ha superato le linee rosse poste da Mosca per non turbare equilibri regionali ed internazionali. Queste linee non hanno più valore per il governo siriano. Sulle colonne del quotidiano Teshreen si legge: “Mosca è un alleato e deve sostenerci e non più obiettare su ciò che va contro agli interessi siriani”.

Per spingere l’esercito siriano a retrocedere e non compiere alcun attacco, 15 giorni fa la Turchia ha inviato truppe di rinforzo. L’esercito siriano non si è fermato e ieri è riuscito perfino ad accerchiare la base avanzata turca di osservazione militare a Mork, a sud di Idlib. Tutto appare più come una guerra fra Siria e Turchia, e non fra Damasco e i mercenari di Idlib, sostenuti da Ankara e Doha.
Ieri, la Radio siriana ha commentato: “La questione non è se Mork sarà evacuata, ma in quale modo avverrà”. La stessa fonte afferma che sono in corso fitte discussioni segrete fra russi e turchi per garantire una ritirata meno umiliante per Ankara. Altre fonti parlano di fuga di gran parte degli occupanti stranieri e turchi da Mork. In realtà, secondo video apparsi ieri sui social, a Mork vi sono ancora persone e combattenti.
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Come accadde con i furti alla liberazione di Aleppo: i miliziani fuggono
verso la Turchia smantellando gli impianti per la fornitura elettrica del governo siriano
Secondo diversi analisti, la scelta di accerchiare Mork appare come una diretta risposta della Siria alla decisione turco-americana di creare una zona di sicurezza nel nord della Siria. La risposta di Damasco sembra essere: “E’ terra siriana e verrà liberata anch’essa”, invitando Washington e i curdi a non confidare troppo sulla resistenza turca in Siria.

Intanto l’aviazione russa bombarda ogni giorno postazioni e depositi di armi sofisticate giunte di recente ad Idlib. La Siria ha aperto un corridoio umanitario per permettere agli abitanti civili di fuggire dalle zone di combattimento garantendo loro protezione, aiuti logistici e sanitari ed immunità per i non responsabili di crimini d guerra.
Molti civili sono già passati in Siria. Ma una gran parte di essi - soprattutto coloro che sono responsabili di azioni bellicose contro il governo ed i loro familiari - hanno optato di ritirarsi al centro di Idlib, la cui difesa appare ormai sempre più fragile.

martedì 20 agosto 2019

Al Meeting di Rimini la voce di chi si prende cura dei bimbi di Isis che nessuno vuole


ALEPPO: UN NOME E UN FUTURO
22 agosto , ore 15

S. Ecc. Mons. George Abou Khazen, Vicario Apostolico di Aleppo;
Binan Kayyali, Direttrice Franciscan Care Center di Aleppo; 
Firas Lutfi, Responsabile Terra Sancta College e Franciscan Care Center di Aleppo; 
Mahmoud Akkam, Gran Muftì di Aleppo (intervento in video-collegamento). 
Introduce Andrea Avveduto, Giornalista, Associazione pro Terra Sancta.

da: S.I.R.

Donne anziane in strada che vendono pezzi di pane per sopravvivere, bambini e ragazzi che giocano tra cumuli di macerie non ancora rimosse. Auto e motorini che si muovono a suon di clacson fra la gente ferma davanti a improvvisate bancarelle e piccoli negozi dove si vende di tutto. La periferia orientale di Aleppo si presenta così dopo cinque anni di guerra (2012- 2017). In questa area si erano arroccati i jihadisti filo Al Qaeda di Al Nusra per contendere la città, capitale economica della Siria, all’esercito regolare del presidente Assad e ai suoi alleati russi e iraniani. Oggi la linea di fronte si è spostata di circa 20 chilometri, in piena campagna, dove si muovono ancora alcune milizie armate ribelli. “Fino a meno di sei mesi fa qui in queste strade non c’era vita. Le conseguenze ancora si vedono, manca acqua e anche l’energia elettrica. Si va avanti con i generatori” dice un negoziante. Ma ora qualcosa sembra muoversi, le famiglie provano a tornare. La gente pare più tranquilla, salvo ripiombare nel terrore, soprattutto di notte, quando razzi e bombe tornano a far sentire il loro frastuono.
L’incontro con Binan e Elia è qui, in mezzo a queste strade polverose che portano ancora i segni della guerra.
Binan Kayyali, psicologa e psicoterapeuta, Elia Kajmini, regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, sono i due coordinatori del progetto “Un nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam. L’obiettivo? “Aiutare innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante l’assedio di Aleppo”.
L’Unicef stima che in tutta la Siria ci siano circa 29 mila bambini figli di foreign fighters, molti sotto i 12 anni. “Si tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri. Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine, istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un futuro”. Già, un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
Avere un nome significa esistere se non lo hai non esisti, sei invisibile, esposto a violenze e abusi quotidiani. Se non esisti non hai un futuro” spiega Binan mentre indica una vecchia palazzina cadente crivellata di colpi. Su un balconcino campeggia un piccolo striscione con la scritta “Care center” sormontata da un logo con la sigla “Fcc” (Fcc, Franciscan care center). Due rampe di scale, invase da liquami, umidità ovunque, una porta che apre su un piccolo appartamento completamente rinnovato, imbiancato, luci al neon che amplificano gli spazi angusti. Un bianco che stride con l’esterno. E tanti sorrisi, quello degli operatori che qui prestano la loro opera, dei bambini che vengono assistiti e delle loro madri che li attendono fuori le aule. In una stanza un nutrito gruppo di donne, giovani e meno giovani, segue corsi di prima alfabetizzazione e di lingua inglese. Moltissime donne di Aleppo Est sono analfabete – spiega Elia – con questo progetto insegniamo loro a leggere e scrivere. Alla fine del corso riceveranno un attestato di frequenza”.


Sono due i Care center dei francescani che fanno capo al progetto “Un nome e un futuro”. I numeri sono di tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti di Aleppo. I cosiddetti figli dell’Isis – dicono Binan e Elia – non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione siriano.  Stare in una classe vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un futuro. Ad oggi almeno venti di questi bambini sono stati iscritti nelle scuole pubbliche”.
L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e scarpe
Nei due centri giungono anche numerosi ragazzi che non hanno potuto frequentare la scuola durante gli anni della guerra. “Cerchiamo di far recuperare le lezioni perse con un doposcuola in vista del loro reinserimento scolastico” dice Binan. Oggi è giorno di logoterapia e fisioterapia. Su un materassino Mahmoud, poco più di tre anni, fa fisioterapia. “È nato con difficoltà motorie sotto l’occupazione di Al Nusra e nel frastuono dei bombardamenti dell’esercito – dice Binan – del padre nessuna notizia. La madre non poteva uscire se non con il permesso di uno degli uomini della famiglia. La disabilità qui è uno stigma sociale. Suo figlio, costretto in casa, non ha potuto ricevere le cure adeguate”. In una saletta vicina le logoterapiste sono impegnate con due bambini. “Non parlano, sono traumatizzati dalla guerra – aggiunge la psicologa – uno dei due non riesce nemmeno a guardare la sua insegnante. La ascolta con il viso rivolto al muro. Sono bambini con un basso grado di concentrazione. Ogni minimo rumore li impaurisce. Sono gli esiti dei traumi vissuti sotto le bombe”. Ma ci sono due cose che, in prospettiva, spaventano la psicologa: la propensione al suicidio di giovani e bambini rimasti amputati durante i bombardamenti e la tendenza dei ragazzi a giocare in strada usando armi vere che vengono facilmente reperite nei quartieri della città. Hanno una familiarità con le armi al punto da riconoscerle dallo sparo che producono. La guerra sta provocando casi clinici e patologie che non si trovano sui libri scientifici. Non c’è bambino ad Aleppo che non abbia bisogno di aiuto e sostegno psicologico”.
Il lavoro di Binan e di Elia non si esaurisce  nei due centri ma prosegue nel Terra Santa College di Aleppo, guidato da padre Firas. Qui è attivo il centro “Arte e Psicologia” (Art and Psychology) dove tantissimi bambini e ragazzi vengono per frequentare corsi di teatro, di musica, di disegno, e praticare attività manuali e sportive. Lo sforzo di Elia e Binan, insieme a padre Firas, è arrivare anche alle famiglie di questi ragazzi. Il College è dotato di tante strutture, campi di calcio, di basket, piscina, palestre, laboratori, frutto della generosità della Chiesa italiana, di organismi come Misereor e di Ats, l’ong della Custodia di Terra Santa, in prima fila nel reperire fondi per alimentare la missione dei francescani.
L'immagine può contenere: 7 persone, persone che sorridono, folla e spazio al chiuso
Uno dei prossimi obiettivi, afferma Elia, “sarà aprire 10 centri in diverse zone povere della città. Assistere i bambini e le loro famiglie è il modo migliore per recuperare aree e zone della città altrimenti destinate a morire”. 
Aleppo oggi è un grande terreno reso arido dalla guerra – dice Binan – ma va irrigato e reso fertile piantando dei semi molto resistenti. Sono i semi della solidarietà, della vicinanza, della riscoperta dei rapporti interpersonali, del rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona.  Sono semi che crediamo possano ricostruire la società siriana e per questo portare alla pace e alla riconciliazione”.
Riedificare case si può e si deve, ma vanno prima ricostruite le vite dei loro abitanti”.
https://www.agensir.it/mondo/2019/06/29/siria-con-binan-ed-elia-tra-i-bambini-invisibili-e-i-figli-dellisis/

venerdì 16 agosto 2019

Al Meeting di Rimini proiezione del film 'Mother Fortress' sul coraggio dei religiosi di Qara



Presentazione e proiezione del film documentario di Maria Luisa Forenza. Partecipa l'Autrice. 

Data: 24 Agosto 2019, ore 14:00 
Arena Percorsi, padiglione A2








...   Le immagini di Mother Fortress — accompagnate da un variegato tessuto sonoro che intreccia francese, inglese, arabo, canti liturgici nella cappella del monastero, echi di mortaio in lontananza, melodie pop alla radio, il colpo secco di un camion carico di viveri che si chiude quando viene preso d’assalto dalla folla affamata — non vogliono raccontare solo gli orrori della guerra, ma anche il mistero del tempo e la tenacia della vita che germoglia instancabile anche nel deserto del male più estremo. Quella dimensione verticale della vita umana, che nessuna angoscia, nessuna morte riesce a spegnere. «È un viaggio materiale e spirituale — si legge nelle note di regia — nella ricerca personale sul tempo come idea-guida delle riprese. Tempo mitico, tempo cronologico, tempo liturgico o kairòs, colto nell’oscillazione fra realtà quantitativa e dilatazione del presente».



La telecamera non cerca mai l’effetto facile; gli orrori di Daesh, i rapimenti, le minacce, le torture, le decapitazioni, vengono raccontati alle suore dalle profughe ospitate in monastero in cucina, mentre tagliano le verdure per preparare il pranzo o scaricano i sacchi di riso. «Il ceceno ha sposato la moglie. Poi l’ha uccisa davanti a suo marito. Poi ha ucciso anche il marito».
 Accanto ai fornelli c’è anche una giovane mamma musulmana, che non rinuncia a un filo di kajal, da ritoccare subito quando viene lavato via dalle lacrime. «Mio marito è morto in guerra due anni fa. Ho due bambini, sono sola, se non mi avessero accolto qui non avrei saputo dove andare». Gli scheletri dei palazzi di Deir ez Zor, completamente distrutti da un assedio durato tre anni, vengono inquadrati mentre le camionette dell’Isis sono ancora a duecento metri di distanza, dietro le colline. Gli abitanti del quartiere si fanno largo in mezzo alle macerie con orgoglio, per mostrare alla troupe che la ricostruzione è già iniziata.
Alla suora sudamericana, arrivata a Qara pochi mesi prima che scoppiasse il conflitto, sfugge un sorriso; sta parlando della pace profonda che sente nel cuore da quando è in convento, e si è appena sentita l’eco di un colpo di mortaio.     «Sono a est, e sono anche a ovest. Noi siamo in mezzo» continua un frate — capelli rossi e accento yankee, viene dal Colorado — spiegando quanto sia strategica la vallata in cui sorge il convento. Soli a presidiare la fortezza, parafrasando il titolo di uno splendido libro della scrittrice americana Flannery O’ Connor, durante una guerra che, quando la troupe ha iniziato a girare rischiando, letteralmente, la vita ogni giorno durante le riprese, ha raggiunto vertici di ferocia difficili da immaginare.
Il titolo del documentario, Mother Fortress, spiega Maria Luisa Forenza, è un diretto richiamo alla fortezza romana di Qara, trasformata in monastero dalle prime comunità cristiane, splendente sotto il sole con le sue pietre bianche murate di fresco. Il convento venne completamente distrutto dagli ottomani nel 1720; durante l’attacco furono uccisi gli oltre cento monaci che vivevano nell’edificio. Nel 1993 il vescovo di Homs ha dato mandato a madre Agnes di ridare vita a queste rovine, è così è stato. Insieme alle consorelle, ha avviato la rinascita materiale e spirituale di questo luogo, in collaborazione attiva con i villaggi limitrofi, che ha visto il fiorire di cooperative agricole e forme di mutua assistenza sociale. Prima della guerra, ovviamente; solo otto anni fa, ma sembrano passati secoli. Adesso la priorità è assistere orfani, profughi e vedove, cristiane o sunnite, nel modo più concreto possibile, scaricando casse di attrezzi chirurgici, organizzando ospedali da campo, sistemando rotoli di bende sugli scaffali, spostando sacchi di cibo in magazzino.
«La parola fortezza — spiega la regista — è anche un richiamo alla forza dei monaci che hanno resistito alla guerra. E un riferimento alle quattro virtù cardinali, perché siano monito per tutti».
  Durante i viaggi in macchina, in mezzo alla desolazione della guerra in corso, nel mirino di armi sofisticate che possono uccidere anche a quattro, cinque chilometri di distanza, le suore pregavano incessantemente Maria recitando il rosario per chiedere aiuto e protezione. «Il mio amico tassista adesso ha una luce negli occhi che umanamente è inspiegabile — racconta un giovanissimo frate siriano — perché è stato plasmato dalla sofferenza. A causa del suo lavoro è passato ogni giorno, per settimane, accanto a corpi che non potevano essere sepolti se non a rischio della vita». Anche madre Agnes ha visto centinaia di cadaveri abbandonati ai lati della strada, come racconta mentre riempie di pigmento bianco l’aureola di un’icona.
«Ho trovato una grande forza — spiega la regista — una grande vitalità e un amore per la vita che non immaginavo possibile in tempi di guerra». Un amore che giunge a vertici incomprensibili nel terribile, struggente racconto finale. Che sarebbe riduttivo descrivere qui: meglio ascoltarlo dalla voce di madre Agnes, quando il documentario sarà proiettato (a ingresso libero)....