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venerdì 5 luglio 2019

Card. Robert Sarah: Siamo costruttori di cattedrali

LETTURE PER L'ESTATE (1)
 cattedrale di Santa Maria a Tartus-Syria, 12° secolo

Riprendiamo dal sito Nuova Citeaux questa bella e fondamentale conferenza del Cardinale Sarah, certi che la lettura di questo testo sarà di conforto per i sacerdoti e per ciascuno di noi nel quotidiano cammino di fede e di testimonianza cristiana. 
Ringraziamo il sito La Nef che ha pubblicato l’originale reperibile a questo link: https://lanef.net/2019/06/20/soyons-des-batisseurs-de-cathedrale/  e Sr Maria Francesca Righi che lo ha tradotto dal francese.


Conferenza del Cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, 
Parigi Chiesa di Saint-François-Xavier, 25 maggio 2019.
   Cari amici,
Permettetemi innanzitutto di ringraziare l’Arcivescovo Michel Aupetit, Arcivescovo di Parigi, e il parroco di Saint François-Xavier, Padre Lefèvre-Pontalis per il loro cordiale benvenuto.
 Devo presentarvi il mio ultimo libro: La sera si avvicina e già il giorno declina. In esso analizzo la profonda crisi in Occidente, crisi di fede, crisi della Chiesa, crisi sacerdotale, crisi di identità, crisi del significato dell’uomo e della vita umana, il crollo spirituale e le sue conseguenze.
Vorrei questa sera, ripetere le profonde convinzioni che vivono in me mettendole in prospettiva con la commovente visita che ho fatto ieri.
 Qualche ora fa ero alla cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Entrando in questa chiesa sventrata, contemplando le sue volte crollate, non potei fare a meno di vederla come un simbolo della situazione della civiltà occidentale e della Chiesa in Europa. Sì, oggi da tutte le parti la Chiesa sembra bruciare. Sembra devastata da un incendio molto più distruttivo di quello della cattedrale di Notre-Dame. Cos’è questo fuoco? Bisogna avere il coraggio di dargli il suo nome. Perché, «dare male il nome alle cose, significa aumentare la sfortuna del mondo».
Questo fuoco, questo incendio che devasta la Chiesa soprattutto in Europa, è la confusione intellettuale, dottrinale e morale; è la vigliaccheria che non fa annunciare la verità su Dio e sull’uomo; che non fa difendere e trasmettere valori morali ed etici della tradizione cristiana; è la perdita della fede, dello spirito di fede, la perdita del senso dell’oggettività della fede e quindi la perdita del senso di Dio.
Come scriveva Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae: «Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», …occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane… e questo produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio».
Cari amici, la cattedrale di Notre-Dame aveva una freccia che era come un dito teso verso il cielo. Questa freccia sembrava orientarsi a Dio. Nel cuore di Parigi, sembrava dire a tutti il ​​significato ultimo di tutta la vita.
  Questa freccia simboleggiava l’unica ragion d’essere della Chiesa: guidarci verso Dio, orientarci verso di Lui. Una Chiesa che non è orientata verso Dio è una Chiesa che muore e crolla. La guglia, la freccia della cattedrale di Parigi è crollata: non è un caso! Nostra Signora di Parigi simboleggia tutto l’Occidente. A forza di allontanarsi da Dio, l’Occidente sta collassando.
 Simbolizza la grande tentazione dei cristiani in Occidente: a forza di non essere più rivolti a Dio, a forza di rivolgersi a se stessi, muoiono.
 Sono convinto che questa civiltà stia vivendo una crisi mortale. Come ai tempi della caduta di Roma, le élite di oggi si preoccupano solo di aumentare il lusso della loro vita quotidiana e i popoli sono anestetizzati da divertimenti sempre più volgari.
  Come vescovo, ho il dovere di avvertire l’Occidente! Il fuoco della barbarie vi minaccia! E chi sono i barbari? I barbari sono coloro che odiano la natura umana, i barbari sono coloro che disprezzano il significato del sacro, i barbari sono coloro che disprezzano e manipolano la vita e vogliono «aumentare l’uomo»! Quando un paese è pronto a lasciare morire un uomo di fame e sete in uno stato di grande debolezza e dipendenza, cammina sulla via della barbarie! Il mondo intero guardava la Francia esitare a dare da mangiare a Vincent Lambert, uno dei suoi figli più deboli. Miei cari amici, come potrebbe il vostro paese dopo questo dare lezioni di civiltà al mondo? 

  Quando un paese arroga a sé il diritto alla vita e alla morte sui più piccoli e più deboli, quando un paese uccide i bambini non nati nel seno delle loro madri, marcia verso la barbarie! L’Occidente è accecato dalla sua sete di ricchezza! Il fascino del denaro che il liberalismo diffonde nei cuori addormenta i popoli! Nel frattempo, continua la silenziosa tragedia dell’aborto e dell’eutanasia. Nel frattempo, la pornografia e l’ideologia del gender mutilano e distruggono bambini e adolescenti. Siamo abituati alla barbarie, non ci sorprende neanche più!

  La civiltà occidentale è in profonda decadenza e in rovina, nonostante i suoi fantastici successi scientifici e tecnologici e l’apparenza di prosperità! Come la cattedrale di Notre-Dame: vacilla. Ha perso la sua ragione d’essere: mostrare Dio e condurre a Dio. Senza la freccia che incorona l’edificio, le volte crollano.
  Voglio sollevare un grido di allarme che è anche un grido di amore e compassione per l’Europa e l’Occidente: un Occidente che nega la sua fede, la sua storia, le sue radici cristiane è condannato al disprezzo e alla morte! Non è più come una bella cattedrale basata sulla fede, ma piuttosto come una rovina che non ha più senso! Perdendo il senso di Dio, abbiamo minato le fondamenta di tutta la civiltà umana. Una cattedrale proclama per la sua architettura verticale che siamo fatti per Dio. Al contrario, l’uomo separato da Dio è ridotto alla sua sola dimensione orizzontale.
  Se Dio perde il suo carattere centrale e il suo primato, l’uomo perde il suo giusto posto, non trova più il suo posto nella creazione, nelle relazioni con gli altri. Il moderno rifiuto di Dio ci fa entrare in un nuovo totalitarismo: quello del relativismo che non ammette nessuna legge se non quella del profitto. Dobbiamo spezzare le catene che questa nuova ideologia totalitaria vuole imporci!
  Se l’uomo si rifiuta e si taglia fuori da Dio, sembra un fiume immenso e maestoso, ma tagliato fuori dalla sua fonte, prima o poi si seccherà e scomparirà. Se l’uomo nega Dio e lo rifiuta, sembra un albero gigantesco che non ha radici: morirà senza indugio. Nicolas Berdiaeff ha ragione nel dire: «Se Dio non c’è, nemmeno l’uomo c’è, questo è ciò che la nostra era sta scoprendo sperimentalmente. La natura del socialismo è messa a nudo e smascherata, i suoi ultimi limiti sono evidenti; allo stesso modo è messo a nudo ed evidente il fatto che l’irreligione e la neutralità religiosa non esistono, che la religione del Dio vivente è solo opposta alla religione del diavolo, che alla religione di Cristo è solo opposta la religione dell’Anticristo; il regno dell’umanesimo neutro che voleva stabilirsi nella sfera di mezzo, tra il paradiso e l’inferno, si decompone, e allora si scopre l’abisso superiore e inferiore. Al Dio-Uomo si oppone, non l’uomo del Regno neutro e medio, ma l’uomo-dio, l’uomo che si è messo al posto di Dio. I poli opposti dell’essere e del nulla vengono scoperti».

  Rifiutare a Dio l’opportunità di entrare in tutti gli aspetti della vita umana significa condannare l’uomo alla solitudine. Egli non è più che un individuo isolato, senza origine o destino. Si ritrova condannato a vagare per il mondo come un barbaro nomade, non sapendo di essere il figlio ed erede di un Padre che lo ha creato per amore e lo chiama a condividere la sua felicità eterna. Solo, vagando in un campo di rovine, questo è ciò che l’uomo moderno è diventato, questo è quello che ho vissuto ieri mentre visitavo la cattedrale in rovina.
  La crisi spirituale che descrivo riguarda il mondo intero. Ma ha la sua fonte in Europa. Il rifiuto di Dio nasce nelle coscienze occidentali. Il collasso spirituale ha quindi caratteristiche propriamente occidentali. Vorrei menzionare in particolare il rifiuto della paternità. Abbiamo convinto i nostri contemporanei che per essere liberi, non si deve dipendere da nessuno. C’è in questo un tragico errore.
  Gli occidentali sono persuasi che ricevere sia contrario alla dignità della persona umana. Ora l’uomo civile è fondamentalmente un erede, riceve una storia, una cultura, un nome, una famiglia, una lingua, una religione, una fede, una tradizione, una patria. Questo è ciò che lo distingue dal barbaro. Rifiutarsi di unirsi a una rete di dipendenza, eredità e filiazione ci condanna ad entrare nella giungla della competizione da un’economia abbandonata a se stessa. I costruttori di Notre Dame avevano profondamente inscritto in loro quel senso di dipendenza e trasmissione. Hanno lavorato per decenni e secoli, per i loro discendenti, spesso senza mai vedere se stessi completare il loro lavoro. Sapevano di essere eredi e volevano trasmettere l’eredità. Poiché l’uomo moderno si rifiuta di accettarsi come erede, si condanna all’inferno della globalizzazione liberale in cui gli interessi individuali si scontrano senza altra legge diversa da quella del profitto a qualsiasi prezzo.
  Ma nel mio libro ho voluto ricordare agli occidentali che la vera ragione di questo rifiuto di ereditare, questo rifiuto della paternità è fondamentalmente il rifiuto di Dio. Distinguo profondamente nei cuori occidentali un profondo rifiuto della paternità creatrice di Dio.
  Eppure riceviamo da Dio la nostra natura di uomo e donna. Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio, lo ha creato, uomo e donna, li ha creati (Gn 1,27). Ora, questo diventa insopportabile per le menti moderne. L’ideologia del genere è quindi il rifiuto di ricevere da Dio una natura sessuata. Alcuni in Occidente arrivano al punto di ribellarsi, ribellarsi e combattere contro Dio. Si contrappongono frontalmente al loro Creatore e Padre. Quindi si mutilano orribilmente e inutilmente per cambiare sesso. Ma fondamentalmente non cambiano nulla nella loro struttura di uomo e donna.   Di fatto, materializzano e rendono più radicali la loro opposizione e la loro rivolta contro Dio. La legge naturale è violentemente respinta e combattuta dalla filosofia e dallo spirito moderni. Ora, San Giovanni definisce il peccato come: Ogni uomo che commette il peccato combatte contro Dio; perché il peccato è la lotta contro Dio (1 Gv 3, 4). Questa negazione è il culmine del rifiuto di Dio, la proclamazione della libertà illimitata come valore assoluto e la giustificazione del peccato. Troviamo un perfetto esempio di questo nell’ideologia del genere. L’Occidente si rifiuta di ricevere, accetta solo ciò che costruisce da solo. Il transumanesimo è l’ultimo avatar di questo movimento. Anche la natura umana, perché è un dono di Dio, diventa insopportabile per l’uomo dell’Occidente.
(la lettura del documento continua dalla pagina 4, sul sito a questo link
https://www.vitanostra-nuovaciteaux.it/wp-content/uploads/Sarah_Siamo_costruttori_di_cattedrali_IT.pdf  )

martedì 2 luglio 2019

Ghouta: dopo gli anni di guerra, la lunga ricostruzione dei frutteti di Damasco


Afp Le Point
traduzione dal francese di Marinella Correggia

Sul suo terreno a Ghouta Est, vicino a Damasco, Radwan Hazaa si appresta a seminare centinaia di semi di melograno nella speranza di compensare la perdita di oltre 3.000 alberi, vittime dei colpi d’artiglieria e della mancanza di acqua, negli anni di guerra.

Nel villaggio di Dier al-Asafir, Hazaa si avvale al tempo stesso del ritorno di una situazione di calma e di un inverno molto piovoso che ha gonfiato con generosità fiumi e falde freatiche.
Prima dello scoppio del conflitto siriano nel 2011, Ghouta Est era il frutteto della capitale Damasco. Ma quest’area agricola, famosa per i suoi campi, i suoi frutteti e le sue aziende agricole ha subito le ricadute di anni di combattimenti e di assedio.

I piedi nell’acqua, Radwan sta lavorando alla costruzione di un nuovo canale di irrigazione vicino al pozzo che ha fatto scavare alcune settimane fa e da dove l’acqua ora sgorga.

Quando ho visto la mia terra bruciata, mi sono inginocchiato piangendo, e ho capito che avrei dovuto rifare tutto da zero”, ricorda questo agricoltore fuggito da Ghouta nel 2012 per farvi ritorno l’anno scorso.
Risultati immagini per la Ghouta orientale, ancien grenier alimentaire de la capitale Damas,
La regione, ex roccaforte della ribellione contro il presidente Bashar al-Assad, è stata riconquistata dai governativi nell’aprile 2018, con l’aiuto di Mosca, al termine di una vasta offensiva. In seguito ad accordi di resa negoziati dai russi, decine di migliaia di combattenti e civili sono stati evacuati verso altre aree.

Dopo la fine dei combattimenti, “ho preso in prestito una piccola somma di denaro e mi sono rimesso a piantare, oltre ad allevare due vacche e alcune galline”, prosegue l’uomo, kefia rossa e bianca sulla spalla.
Come numerosi altri agricoltori della regione, egli ha perso gran parte del suo patrimonio di melograni, albicocchi e noci. Oggi punta sull’abbondanza di acqua per ridare vita alle sue terre. “Non ho mai visto piogge così abbondanti”, si rallegra. In passato, “dovevamo scavare fino a 150 metri per estrarre acqua. Quest’anno già a 40 metri ne abbiamo trovata in abbondanza”.

Perdite irrimediabili

Le piogge, proseguite fino in maggio, hanno alimentato il fiume Barada, che bagna Ghouta Est. Una benedizione anche per gli allevatori, fra i quali Bassam al-Laz, che ha colto l’occasione per rivitalizzare il suo allevamento. “E’ il primo anno che le vacche si nutrono direttamente dell’erba dei prati al posto del fieno che compravo”, dice l’allevatore cinquantenne.

Ghouta Est era nota “per l’abbondanza della produzione agricola e animale”, racconta, spingendo due vacche verso un grande recipiente metallico pieno di acqua. Uova, ortaggi, frutta, lebneh (una preparazione tradizionale a base di yogurt), bastavano per nutrire tutta la capitale, dice l’uomo con fierezza. Il suo volto, segnato dagli anni di guerra, si rasserena mentre guarda l’acqua tirata su dal pozzo, i germogli verdi che spuntano e gli alberelli disseminati sul suo terreno. Confessa di provare una “gioia sconfinata” ma non può che piangere le “perdite irrimediabili” dovute al conflitto. “Abbiamo perso ulivi vecchi di oltre 500 anni”.

Il “polmone di Damasco”

E, malgrado le promesse di questa primavera, sembra ancora lunga la strada per tornare agli anni dell’abbondanza.
Il sindaco Ahmad al-Hassan, nella sede del comune di Deir al-Asafir, ascolta le necessità degli agricoltori. Promette loro che “le terre torneranno a essere quelle di prima”, e prende nota delle necessità in materia di input e attrezzature.
Le persone erano depresse e tristi malgrado la fine del conflitto, ma le piogge abbondanti hanno indotto tanti a riprendere i loro affari”, commenta il sindaco, che descrive Ghouta come “il polmone di Damasco”.

La regione, che occupa una superficie di 10.400 ettari, per metà terre coltivate, ha perso l’80% degli alberi durante la guerra, secondo il direttore del dipartimento agricolo, Mohamad Medieddine.

Bruciati, inariditi, gli alberi sono anche serviti come combustibile per le case degli abitanti assediati e infreddoliti negli anni del blocco. “In certe località, per esempio Mliha, non c’è più nemmeno un albero in piedi”, si rammarica Medieddine.

Sotto un cielo di piombo, sulla strada che collega Deir al-Asafir alla periferia di Jaramana, il responsabile dice di rimpiangere l’epoca in cui l’abbondante fogliame degli alberi attenuava i raggi cocenti. Per chilometri, “gli alberi ombreggiavano questa strada (…). Ormai sembra un deserto”.
Secondo il funzionario, la regione avrà bisogno di “dieci anni” per tornare verde. E di “almeno cinque anni perché gli alberi tornino a dare frutti”.

sabato 29 giugno 2019

Aleppo: con Binan ed Elia tra i bambini invisibili e i figli dell’Isis


di Daniele Rocchi
S.I.R.  29 giugno 2019

Donne anziane in strada che vendono pezzi di pane per sopravvivere, bambini e ragazzi che giocano tra cumuli di macerie non ancora rimosse. Auto e motorini che si muovono a suon di clacson fra la gente ferma davanti a improvvisate bancarelle e piccoli negozi dove si vende di tutto. La periferia orientale di Aleppo si presenta così dopo cinque anni di guerra (2012- 2017). In questa area si erano arroccati i jihadisti filo Al Qaeda di Al Nusra per contendere la città, capitale economica della Siria, all’esercito regolare del presidente Assad e ai suoi alleati russi e iraniani. Oggi la linea di fronte si è spostata di circa 20 chilometri, in piena campagna, dove si muovono ancora alcune milizie armate ribelli. “Fino a meno di sei mesi fa qui in queste strade non c’era vita. Le conseguenze ancora si vedono, manca acqua e anche l’energia elettrica. Si va avanti con i generatori” dice un negoziante. Ma ora qualcosa sembra muoversi, le famiglie provano a tornare. La gente pare più tranquilla, salvo ripiombare nel terrore, soprattutto di notte, quando razzi e bombe tornano a far sentire il loro frastuono.
L’incontro con Binan e Elia è qui, in mezzo a queste strade polverose che portano ancora i segni della guerra.
Binan Kayyali, psicologa e psicoterapeuta, Elia Kajmini, regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, sono i due coordinatori del progetto “Un nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam. L’obiettivo? “Aiutare innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante l’assedio di Aleppo”.
L’Unicef stima che in tutta la Siria ci siano circa 29 mila bambini figli di foreign fighters, molti sotto i 12 anni. “Si tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri. Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine, istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un futuro”. Già, un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
Avere un nome significa esistere se non lo hai non esisti, sei invisibile, esposto a violenze e abusi quotidiani. Se non esisti non hai un futuro” spiega Binan mentre indica una vecchia palazzina cadente crivellata di colpi. Su un balconcino campeggia un piccolo striscione con la scritta “Care center” sormontata da un logo con la sigla “Fcc” (Fcc, Franciscan care center). Due rampe di scale, invase da liquami, umidità ovunque, una porta che apre su un piccolo appartamento completamente rinnovato, imbiancato, luci al neon che amplificano gli spazi angusti. Un bianco che stride con l’esterno. E tanti sorrisi, quello degli operatori che qui prestano la loro opera, dei bambini che vengono assistiti e delle loro madri che li attendono fuori le aule. In una stanza un nutrito gruppo di donne, giovani e meno giovani, segue corsi di prima alfabetizzazione e di lingua inglese. Moltissime donne di Aleppo Est sono analfabete – spiega Elia – con questo progetto insegniamo loro a leggere e scrivere. Alla fine del corso riceveranno un attestato di frequenza”.


Sono due i Care center dei francescani che fanno capo al progetto “Un nome e un futuro”. I numeri sono di tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti di Aleppo. I cosiddetti figli dell’Isis – dicono Binan e Elia – non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione siriano.
Stare in una classe vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un futuro. Ad oggi almeno venti di questi bambini sono stati iscritti nelle scuole pubbliche”.
L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e scarpe
Nei due centri giungono anche numerosi ragazzi che non hanno potuto frequentare la scuola durante gli anni della guerra. “Cerchiamo di far recuperare le lezioni perse con un doposcuola in vista del loro reinserimento scolastico” dice Binan. Oggi è giorno di logoterapia e fisioterapia. Su un materassino Mahmoud, poco più di tre anni, fa fisioterapia. “È nato con difficoltà motorie sotto l’occupazione di Al Nusra e nel frastuono dei bombardamenti dell’esercito – dice Binan – del padre nessuna notizia. La madre non poteva uscire se non con il permesso di uno degli uomini della famiglia. La disabilità qui è uno stigma sociale. Suo figlio, costretto in casa, non ha potuto ricevere le cure adeguate”. In una saletta vicina le logoterapiste sono impegnate con due bambini. “Non parlano, sono traumatizzati dalla guerra – aggiunge la psicologa – uno dei due non riesce nemmeno a guardare la sua insegnante. La ascolta con il viso rivolto al muro. Sono bambini con un basso grado di concentrazione. Ogni minimo rumore li impaurisce. Sono gli esiti dei traumi vissuti sotto le bombe”. Ma ci sono due cose che, in prospettiva, spaventano la psicologa: la propensione al suicidio di giovani e bambini rimasti amputati durante i bombardamenti e la tendenza dei ragazzi a giocare in strada usando armi vere che vengono facilmente reperite nei quartieri della città. Hanno una familiarità con le armi al punto da riconoscerle dallo sparo che producono. La guerra sta provocando casi clinici e patologie che non si trovano sui libri scientifici. Non c’è bambino ad Aleppo che non abbia bisogno di aiuto e sostegno psicologico”.
Il lavoro di Binan e di Elia non si esaurisce  nei due centri ma prosegue nel Terra Santa College di Aleppo, guidato da padre Firas. Qui è attivo il centro “Arte e Psicologia” (Art and Psychology) dove tantissimi bambini e ragazzi vengono per frequentare corsi di teatro, di musica, di disegno, e praticare attività manuali e sportive. Lo sforzo di Elia e Binan, insieme a padre Firas, è arrivare anche alle famiglie di questi ragazzi. Il College è dotato di tante strutture, campi di calcio, di basket, piscina, palestre, laboratori, frutto della generosità della Chiesa italiana, di organismi come Misereor e di Ats, l’ong della Custodia di Terra Santa, in prima fila nel reperire fondi per alimentare la missione dei francescani.
L'immagine può contenere: 7 persone, persone che sorridono, folla e spazio al chiuso
Uno dei prossimi obiettivi, afferma Elia, “sarà aprire 10 centri in diverse zone povere della città. Assistere i bambini e le loro famiglie è il modo migliore per recuperare aree e zone della città altrimenti destinate a morire”. 
Aleppo oggi è un grande terreno reso arido dalla guerra – dice Binan – ma va irrigato e reso fertile piantando dei semi molto resistenti. Sono i semi della solidarietà, della vicinanza, della riscoperta dei rapporti interpersonali, del rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona.
Sono semi che crediamo possano ricostruire la società siriana e per questo portare alla pace e alla riconciliazione”.
Riedificare case si può e si deve, ma vanno prima ricostruite le vite dei loro abitanti”.
Resta solo il tempo di un breve saluto interrotto dal piccolo Mahmoud che ha terminato la sua fisioterapia. Si lamenta perché non vuole salire in braccio alla madre. Binan sorride. La prima volta che aveva visto Mahmoud entrare al centro era in braccio alla mamma. Ora vuole camminare da solo. La madre lo mette a terra e lo prende per mano. Sono i primi semi che germogliano.
https://www.agensir.it/mondo/2019/06/29/siria-con-binan-ed-elia-tra-i-bambini-invisibili-e-i-figli-dellisis/

giovedì 27 giugno 2019

Si parla di 400 miliardi per ricostruire la Siria, ma quanto per ricostruire le vite?

Un paese dissanguato: più di 400.000 morti, 13 milioni di sfollati e rifugiati, 2,1 milioni di bambini rimasti fuori dalla scuola e una scuola su tre distrutta. La vita "ordinaria" in Siria? Ecco a cosa assomiglia.
di Diane Antakli , Presidente dell'ONG 'Baroudeurs de l'Espoir'
20 giugno 2019
trad. Gb.P. per OraproSiria
8 anni di guerra, 8 anni di un quotidiano senza prospettiva del futuro, 8 anni di tristezza, disperazione. 8 anni di un'infanzia, di un'adolescenza, di una giovinezza che essi non hanno vissuto; un trauma che pesa sulla vita quotidiana di tutti. La cifra di 400 miliardi di dollari è stata ipotizzata per sperare di ricostruire un giorno la Siria. Ma quanto, per ricostruire le vite?

Ecco la mia cronaca di una settimana "ordinaria" vissuta di recente ad Aleppo con le squadre sul campo, con la nostra ONG 'Baroudeurs de l'Espoir' (Avventurieri della speranza).
Lunedì mattina manca un bambino all'appello. Aya, 5 anni, non è venuta a scuola. Il giorno prima, un ordigno è caduto sul suo edificio, uccidendo e ferendo gravemente i membri di una famiglia nell'appartamento sopra il suo. La paura si diffonde, i suoi genitori chiamano le insegnanti per dire loro che Aya non riesce a uscire dalla sua casa, paralizzata dalla paura. Una macchina viene immediatamente inviata a prenderla e cercare di farle vivere una normale giornata di scuola.
Martedì sera. Una cena è organizzata nel parco giochi. La musica è in pieno svolgimento. Al termine di una canzone, rimbomba tutt'altra musica, quella di bombe, mortai e colpi di fuoco missilistico, e l'aviazione che risponde. Poi la musica riprende, i telefoni squillano. Le famiglie sono preoccupate, il viaggio non è sicuro. Riusciranno a tornare tutti a casa?
Mercoledì. Lo scuolabus ha deciso di cambiare il tragitto, per motivi di sicurezza.
Giovedi. Si esita a cancellare una competizione sportiva che riunisce centinaia di adolescenti: un missile è caduto la settimana prima sulla casa di uno dei responsabili dell'evento, molto vicino al luogo della manifestazione. È lui però che vuole mantenere la competizione. Egli si rifiuta di cedere alla paura.
On parle de 400 milliards pour reconstruire la Syrie, mais combien pour reconstruire les
Venerdì sera. Sono nel piccolo giardino del cortile della scuola, un'esplosione mi fa sobbalzare. Qualche minuto dopo, il suono delle ambulanze molto vicino. Ma ci si abitua, davvero?
Sabato. Una bomba di mortaio cade a poche decine di metri dalla competizione sportiva per gli adolescenti. Quel giorno, il proiettile cade in una sabbiera, limitando gli impatti.
Domenica. Non scordiamolo. Le armi non si prendono un giorno libero.
Ad Aleppo come in tutte le città della Siria, come in tutte le città del mondo, i giovani desiderano vivere, uscire, amare, ascoltare la musica e godersi il silenzio, respirare, sognare. I loro sogni sono immensi, la loro sete di vita infinita. Non dimenticateli. Non dimenticateli perché loro stanno in piedi, non arresi.

lunedì 24 giugno 2019

Homs, germogli di speranza tra le macerie...


di Daniele Rocchi
S.I.R.  24 giugno 2019

Tra i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il suo impegno per i più poveri e vulnerabili.  
Un uomo di riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il 7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare sulla sua tomba.

Recuperare speranza. 
Padre Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di padre Frans. “L’assedio è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega – raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la voglia di rinascere. Cerchiamo di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può non piacere a qualcuno. Il nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani, indistintamente”. Durante gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante. “Molta gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda padre Michel – veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo per noi è motivo di grande speranza”.
Continuare a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di beatificazione”.
Oggi come allora.  La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte, la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere versi e leggere poesie.
Nonostante la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è la domanda di padre Michel – costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”. Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono tornate. Siamo ben consapevoli – ammette il gesuita – che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci circondano”.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto
Le spalle degli anziani. 
Homs resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
È un quadro desolante” racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dalla locale chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour. “Quello degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs – spiega la religiosa – la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di macerie”.
Nella struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90 anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla” dice la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter ripartire da loro”.
  Ma intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai jihadisti. “Sono stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda suor Valentina. “Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti. Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
Tutti sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei più anziani.

sabato 22 giugno 2019

La guerra per l'oro giallo nella Jazira

 SOS Chrétiens d’Orient 


In questo paese del Levante, la guerra sconvolge i cuori. Le bombe piovono, le vite si spengono. Crea orfani sradicati, vedove in lutto, nonni in lutto. L'idra è sempre imbattuta.
Oggi nuove piaghe economiche stanno cadendo sui siriani. In un mese, il prezzo di un litro di benzina è aumentato del 50%. Il tasso di cambio oscilla a scapito della valuta nazionale; un tasso che naturalmente influisce sui costi di importazione. 
[N.D.T. oggi il dollaro si cambia a 610 lire siriane, due mesi fa a 520].

Ma l'impatto ferisce principalmente nel campo agricolo, garanzia di pace sociale. "E' l'intero paese si fa morire di fame", dice Alexandre Goodarzy, capo della missione in Siria. 
Per tutti i prodotti compresi i cereali, l'inflazione è al galoppo. 
In causa, gli incendi dolosi * delle terre nel nord-est della Siria. Muri di fiamme e campi di grano che se ne vanno in fumo lasciano solo una terra annerita dietro di loro. 
350.000 ettari ** di terreni agricoli a est dell'Eufrate, in passato la principale zona di produzione di cereali ***, sono già andati in fumo, specialmente nella Jazira, la regione dei tre ori, gialla per il grano, bianca per cotone e nero per l'olio. Già, la penuria di fertilizzante aggiunta a quella di carburante e di elettricità, essenziali per far funzionare le pompe dell'acqua, aveva ridotto i rendimenti.
Le ultime mandrie di bovini che pascolano su queste terre diventate inadatte alla pastura, sono avvelenate. "Uccidere la terra è uccidere il bestiame. Ma per andare più in fretta, uccidono direttamente il bestiame abbattendo gli animali. Dopo anni di siccità e guerra civile, il raccolto di quest'anno sarebbe stato eccezionale grazie alle precipitazioni record. Il granaio ora è quasi deserto. "
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Isaac Aysho anziano cristiano assiro
di Hasakah ha visto il raccolto di grano
nella terra del vicino arabo musulmano
bruciare, così è corso in mezzo al fuoco
 nonostante la vecchiaia e il fuoco forte
 gli ha bruciato il volto e le mani..
Grazie per aver dato una lezione
su come i fratelli erano in Siria e
 come abbiamo vissuto e come vivremo.
Questa è la Siria e tale rimarrà.
(Tweet di Fares Shehabi)

 La situazione già drammatica potrebbe peggiorare. 
L'oro delle spighe di grano è adiacente ai pozzi d'oro nero. Le fiamme si stanno avvicinando pericolosamente.
"Gli ultimi cristiani della Jazira, che sono rimasti in Siria nonostante tutti questi anni di pressioni, non tarderanno a partire se la situazione non cambierà. "
L' oro giallo è la chiave per garantire il fabbisogno alimentare di milioni di siriani. 
La Siria corre incontro a una grave carenza di cibo?

Nei prossimi giorni, Alexandre Goodarzy andrà nella Jazira per fare donazioni di pacchi alimentari. Un'azione di emergenza che "in questi momenti ha pieno significato." 
Per questo,  SOS Chrétiens d’Orient  ha bisogno del tuo sostegno finanziario. Supporta questa azione di emergenza, dona.

* Non abbiamo alcuna certezza sugli autori di questi fatti.
** Secondo il capo dell'autorità curda per l'agricoltura, Salmane Baroudo.
*** Ha fornito il 50% della produzione di cereali e l'80% della produzione di cotone.

mercoledì 19 giugno 2019

La sfida dei cristiani di Maaloula, che provano a rinascere dopo la devastazione

di Daniele Rocchi
S.I.R.  18 giugno 2019

Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno. 
È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.


Ferite ancora aperte. Oggi Maaloula è un villaggio che porta ancora addosso, chiari, i segni della guerra, ferite profonde inferte contro la comunità locale, sfregiata come le sue chiese, le sue icone, i suoi quadri, le sue statue. Qui si è combattuto per circa nove mesi, da settembre del 2013 a maggio del 2014. A ricordare quei lunghi giorni è padre Toufic Eid, parroco melkita della chiesa di san Giorgio. E lo fa dall’alto della grande roccia che sovrasta il villaggio, a ridosso del monastero dei santi Sergio e Bacco, dove non manca di pregare il Padre Nostro in aramaico:
“Maaloula era lo specchio della convivenza siriana – ricorda il sacerdote indicando il villaggio e le sue macerie -. Lo hanno voluto mandare in frantumi per dare un segnale forte. Militarmente e strategicamente Maaloula non aveva particolare importanza. Ma hanno attaccato un simbolo della cristianità, il luogo dove gli abitanti parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”.
La notizia della caduta di Maaloula in mano ai jihadisti fece il giro del mondo. Il villaggio fu conquistato e preso come base militare dai miliziani dell’allora Jabhat al Nusra (oggi Hay’at Tahrir al-Sham, ndr.), vicini ad Al Qaeda. Con loro, all’inizio, anche membri dell’opposizione armata del Free Syrian Army, che si erano accreditati come difensori dei cristiani locali. “Controllavano il villaggio dall’alto – spiega il sacerdote –. I terroristi, infatti, avevano occupato l’hotel al-Safir, divenuto il loro quartier generale arrivando a distruggere anche una statua della Vergine Maria, Signora della Pace, messa dai cristiani locali a protezione del villaggio”. L’hotel non esiste più, delle stanze nessuna traccia, solo una giostra piegata dalle bombe, piena di ruggine. Fu l’inizio della devastazione.  “Da quel momento in poi – aggiunge il parroco – furono solo distruzioni di case e di chiese, profanazioni, incendi, saccheggi, esecuzioni sommarie. Le suore di santa Tecla furono prese in ostaggio per circa 4 mesi. Lo stesso destino toccò a 6 giovani cristiani, cinque dei quali ritrovati poi morti. Del sesto, invece, non abbiamo più notizie. Non sono stati gli unici martiri di Maaloula”. 
Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare “l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre: Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle. Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui”, afferma con orgoglio padre Toufic.  Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride: “sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”. È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra.  Cinque anni dopo essere stata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente. La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa.  Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo.  La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere.  Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”.  Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”. Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.

Una speranza condivisa con l’archimandrita Matta Reza, priore della comunità delle suore ortodosse di Santa Tecla. I mesi passati nelle mani dei jihadisti che le avevano prese in ostaggio non hanno tolto il sorriso alle religiose che continuano la loro missione nel monastero “ripulito dal sangue dei combattenti, rimesso in piedi e reso di nuovo agibile”. “Si sono lasciate il passato alle spalle per avere pace nel cuore e per aiutare la gente a superare il momento. Guardano avanti nonostante tutto” afferma il priore che non esita a citare il passo evangelico di Luca, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. Non c’è tempo a Maaloula per guardare indietro. “Nonostante tutta la distruzione la luce del Sepolcro ci ha illuminato. Le porte degli inferi non si sono aperte. Per questo incoraggiamo le famiglie, le pietre vive di questa terra, a restare saldi nella fede”  ribadisce l’archimandrita Reza. Un attimo di pausa prima di riprendere il discorso per dire quello che non ti aspetti: "anche tra i jihadisti vi era gente buona, il bene è dappertutto":  “I nostri cristiani in fuga da Maaloula sono stati salvati dai musulmani dei villaggi confinanti. Ricostruire è possibile, lo stiamo già facendo. Siamo figli della vita e chi crede nella vita può farlo. Ogni parola buona, ogni gesto di pace contiene un germe di Dio”.  È quasi sera quando, uscendo da Maaloula in direzione Homs, sale il desiderio di lanciare un ultimo sguardo alla cima più alta, a quella roccia dove è tornata la statua di Maria, Signora della pace. A riportarla lassù sono stati cristiani e musulmani, insieme. 
Maaloula è tornata in buone mani.