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sabato 27 aprile 2019

Monsignor Abu Khazen agli italiani: “pregate perché le sanzioni vengano tolte e ci venga restituito il diritto di vivere in pace”.

Monsignor George Abu Khazen è dal 2014 il vescovo latino di Aleppo. In quella città ha trascorso con i suoi fedeli i momenti più difficili della guerra. Eppure – come spiega in questa intervista esclusiva a Sputnik Italia - oggi la situazione è quasi peggiore di quando i ribelli jihadisti e l’Isis circondavano la città.

  Intervista di Gian Micalessin

“La guerra forse è finita, o sta per finire, ma qui ad Aleppo e in tutto il resto della Siria il peso delle sanzioni sta diventando insopportabile. Manca tutto. Noi cristiani, come tutti i siriani, viviamo in condizioni impossibili. Ogni cosa, anche la più essenziale, è razionata. La bombola del gas si può cambiare solo una volta ogni venti giorni. Le automobili private hanno diritto a venti litri di benzina ogni cinque giorni, i tassisti possono comprarne venti ogni secondo giorno. Le ripercussioni, credetemi sono assai pesanti. Molti mezzi pubblici non circolano più e i pullman delle scuole sono quasi tutti fermi così molti bimbi, soprattutto quelli dei quartieri più lontani e disagiati non riescono a raggiungere le aule. Se a tutto questo aggiungete un caro vita inarrestabile capite quanto la situazione sia difficile. Per la prima volta proviamo un peso quasi insopportabile”.

“La situazione è quasi peggiore perché allora c’erano la speranza e la voglia di reagire. Oggi invece c’è solo confusione. Quando ad Aleppo si combatteva la gente era motivata, aveva uno slancio interiore che la spingeva a sopportare le avversità. Oggi invece la gente è stanca e depressa….sta perdendo la speranza…non sa più come andrà a finire”.


– E’ solo colpa delle sanzioni?
– Sì, le sanzioni sono il principale ostacolo al ritorno alla normalità. La Siria grazie ai suoi giacimenti di petrolio e gas potrebbe essere autosufficiente, ma quei giacimenti sono nel nord est e lì ci sono i curdi e gli americani. Gli americani sono i primi sostenitori del blocco economico. Per questo ci impediscono non solo di utilizzare il nostro petrolio e il nostro gas, ma anche di ricevere combustibili da altri paesi. L’intervento di americani e turchi rende tutto molto confuso, non sappiamo proprio come andrà a finire.
– Ma almeno non si spara più…
– Neanche questo è vero… intorno ad Aleppo si è tornato a combattere. Non sono grandi battaglie, ma si spara. Ogni sera si sentono di nuovo le bombe, le raffiche di mitragliatrice, le esplosioni dei missili. I ribelli di Jabhat Al Nusra, la costola siriana di Al Qaida ormai controllano tutta la provincia di Idlib. Quindi sono praticamente alle porte di Aleppo. La Turchia dice di voler collaborare per mandarli via, ma in verità è il loro principale alleato. E poiché conosciamo i turchi e sappiamo che sono abituati a promettere una cosa e farne un'altra siamo molto inquieti.
– C’è stato un ritorno della comunità cristiana dopo la fine dell’assedio?
– Purtroppo no! I cristiani ritornati ad Aleppo sono pochissimi. Ma quel che più ci preoccupa è il malessere quelli rimasti. Per la prima volta li sento dire “abbiamo sbagliato a restare qui”. Durante la guerra nessuno diceva mai una cosa del genere. Ora, invece, lo dicono in tanti.. E non solo fra i cristiani. Questo è un pessimo segnale.
– C’è il rischio che la presenza cristiana non torni più quella di un tempo?
– Noi non abbiamo perso la speranza neanche nei momenti più bui della guerra. Sperare fa parte della nostra fede….. dunque non posso credere che la presenza cristiana vada perduta. Il nostro destino non è nelle mani degli uomini, ma nelle mani di Dio. Lui è il nostro unico salvatore e quindi la speranza non può e non deve andar mai perduta.
– Vi sentite appoggiati dal Vaticano?
– Noi siamo grati alle istituzioni della Chiesa che ci aiutano e a tutti i benefattori. Solo grazie a loro riusciamo a mantenere i cristiani e tanti altri fratelli siriani.
– E dell’Europa e dei suoi paesi cosa pensate? Avete l’impressione che si siano scordati di voi?
– Magari si scordassero di noi...purtroppo si ricordano di noi solo per colpirci e farci del male imponendoci le sanzioni. Tolte Ungheria e Polonia tutte le altre nazioni europee sembrano volerci fare del male.
– E l’Italia?
– L’Italia deve fare un esame di coscienza e riflettere sulle conseguenze del blocco economico imposto alla Siria. Gli italiani devono capire che le sanzioni non toccano gli alti funzionari dello Stato e non contribuiscono a fermare le importazione di armi. Le sanzioni toccano solo la povera gente. A noi cristiani delle armi non importa nulla. A noi interessano le condizioni della povera gente. Che colpa hanno milioni di famiglie con anziani, malati e bambini a carico. Perché bisogna farli soffrire? Voi italiani dovete rendervi conto che la guerra forse è finita, ma le sanzioni volute dagli americani rendono sempre più difficile la nostra vita. Il nostro messaggio agli italiani è uno solo “pregate perché le sanzioni vengano tolte e ci venga restituito il diritto di vivere in pace”.
– Ma ci sarà qualcuno che vi aiuta?
– La Russia è la sola che ci ha sempre aiutato. Solo grazie a Mosca i jihadisti non hanno preso il potere in tutta la Siria. Solo grazie alla Russia oggi si discute pace.

DALLE MONACHE TRAPPISTE DI AZEIR , UNA CONFERMA
"Volevo raccontarvi un po' anche delle sanzioni, ora che si ripresenta ancora una volta a giugno la votazione, e dirvi quanto incidono, perchè è la prima volta in tutti questi anni che vediamo la gente veramente scoraggiata perchè le sanzioni stanno ancora una volta incidendo pesantemente: non c'è gas, non c'è benzina, non c'è gasolio e , nella nostra regione che è soprattutto agricola, la gente coltiva  e poi non c'è possibilità di portare frutta e verdura a Damasco o sui mercati , quindi è tutto fermo. Anche tutte le piccole attività, per esempio da noi molte cose si conservano ancora col ghiaccio e chi fa il ghiaccio non riesce a produrre, non c'è elettricità per i freezer nè benzina per portare in giro i blocchi di ghiaccio, è tutto così... Il pane è la stessa cosa, il pane è razionato perchè i forni funzionano col gasolio... insomma questa realtà e davvero pesante e la gente è veramente scoraggiata. Non era mai successo fino ad oggi di sentire le persone dire "quanto mai non siamo partiti!". 
Davvero queste voci non sono ascoltate agli alti livelli, quello che non si è riusciti ad ottenere con la guerra lo si sta ottenendo facendo stancare le gente: penso che dobbiamo reagire, perchè tutto diventa difficile..., non c'è gas, noi possiamo cucinare perchè abbiamo i pannelli solari, abbiamo il fornellino elettrico e le donne del villaggio vengono a cucinare su da noi, sul nostro fornello elettrico, ma come si può pensare che il Paese riparta, con una vessazione così pesante? Ci sono dei militari di leva che stanno magari ad Homs, finiscono il loro turno e non possono tornare semplicemente a casa per le ore di congedo perchè non ci sono pulmini. La gente che deve andare a prendere qualcosa non trova le macchine oppure la benzina ha costi talmente alti che rinunciano a spostarsi, quindi anche il lavoro diventa più impegnativo e diventa più costoso. La merce triplica i prezzi. Davvero è una situazione insostenibile."
Da una comunicazione di Suor Marta delle Trappiste di Azeir

mercoledì 24 aprile 2019

Appello contro l'embargo, arma che uccide un popolo


Dalla Siria oggi giunge questo appello : “Per favore diffondi questo messaggio nelle tue reti social e con tutti i membri del tuo gruppo, in modo che il mondo conosca le conseguenze dell'embargo sul mio popolo”.


L'embargo imposto dagli Stati Uniti e dall'Europa sulla Siria per piegarne il governo, sta facendo precipitare il popolo siriano, che soffre da 8 anni, in un'agonia senza fine. Impedendo ogni ingresso di carburante in questo paese martoriato, l'Occidente sta danneggiando pericolosamente la vita dei siriani nel quotidiano. Autobus, taxi, auto private sono paralizzati da alcuni giorni in modo che nemmeno gli studenti possono più frequentare scuole e università.
I pazienti cronici, come i malati di cancro, ad esempio, che provengono da piccole città per ricevere il loro trattamento gratuito negli ospedali governativi a Damasco, perdono i loro appuntamenti perché non sono potuti venire a causa della paralisi dei mezzi di trasporto per mancanza di carburante, come la madre di Fadi che doveva ricevere le sue cure già 4 giorni fa.
I tassisti, che sono decine di migliaia in Siria, non possono più mantenere le loro famiglie; la mancanza di carburante ha persino raggiunto le ambulanze, come è successo ad Homs.
La politica della "terra bruciata" adottata dagli Stati Uniti e dai paesi dell'Unione Europea contro la Siria e il suo popolo sta solo aumentando la sofferenza di un popolo che soffre il martirio da 8 anni.
Alcuni giornali europei hanno chiaramente visto le conseguenze nefaste per il popolo siriano delle risoluzioni dell'Occidente di rafforzare l'embargo sulla Siria. Il quotidiano "Washington Post" ha riportato la decisione del Dipartimento del Tesoro statunitense di imporre sanzioni a qualsiasi nave che si rechi in Siria indipendentemente dal suo carico e proveniente da qualsiasi Paese. Quindi qui non entra più niente!
Anche se le medicine e gli ospedali non sono menzionati esplicitamente nell'embargo, questi non ci arrivano per il fatto che alle banche di ogni Paese è vietato collaborare con le banche siriane.
Gli ospedali funzionano in modo minimale, i medicinali scarseggiano, i malati cronici non trovano più le cure, le macchine negli ospedali sono ferme per la mancanza di parti di ricambio, ecc ...
Secondo l'Independent inglese, persino le associazioni di aiuto umanitario (ONLUS e ONG) non riescono più a fornire cibo o assistenza medica.
Ora potete immaginare la sofferenza dei siriani!
 La Commissione europea per gli affari esteri ritiene che la politica occidentale di "terra bruciata" colpisce i civili a caso e che l'embargo imposto alla Siria, per fare pressioni sul governo affinché cambi la sua politica e adotti quella imposta dall'Occidente, è una politica sbagliata perché colpisce in realtà i più deboli e i più poveri, ed è indubbiamente una politica distruttiva e disumana.
Fin dall'inizio, tutti i media occidentali, gli Stati Uniti e l'Unione europea, si sono vantati di avere a cuore il bene del popolo siriano e di voler proteggere i suoi diritti, di volergli dare una vita migliore: una grande e vergognosa bugia perché la realtà è ben diversa! Le loro politiche affamano la popolazione, i civili innocenti e pacifici, e li soffocano ogni giorno di più.
Conoscendo tutto questo, sarete d'accordo con quel funzionario dell'Unione europea che ha dichiarato inequivocabilmente che questo embargo calpesta i diritti umani!

sabato 20 aprile 2019

Dai cristiani siriani nelle catacombe: "non ci toglieranno mai la gioia della Pasqua. Non potranno mai strapparci la nostra fede in Dio."

 Ai nostri cari lettori auguriamo una serena Pasqua 2019
 con le parole di Padre Hanna Jallouf, francescano siriano della Custodia di Terra Santa, parroco latino di Knayeh, nel governatorato di Idlib, ultima roccaforte degli jihadisti.






“Tra Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh raduno circa 70 giovani. Vivremo la Settimana Santa con il resto della comunità, circa 800 famiglie. Ma fare i conti con questo conflitto non è facile – racconta il parroco che nel 2014 fu rapito dai qaedisti – soprattutto se si è giovani. La guerra ha posto nel cuore dei giovani siriani, non solo cristiani, una grande sofferenza. Tantissimi sono cresciuti conoscendo solo armi, violenza, bombe, non hanno potuto frequentare le scuole, non sanno leggere e scrivere. Sono stati sradicati dalle loro case, allontanati, costretti a emigrare e peggior cosa indotti a uccidere l’altro. Soprattutto i maschi. Molti di loro hanno disertato il servizio militare perché affatto convinti della necessità di imbracciare le armi in questa guerra. Di giovani ne sono rimasti pochi e la maggior parte sono ragazze. Ci colpisce molto la tristezza nei volti dei bambini più piccoli”. 
Nonostante ciò, aggiunge il frate, “vedo nei giovani della mia comunità una fede che è cresciuta, maturata, che li ha spinti a rifiutare la violenza e a dedicarsi in opere di servizio sociale caritativo. Rimasti attaccati alla Chiesa, alla preghiera e alle liturgie, combattono così la loro guerra contro la mancanza di futuro, di prospettive certe, lottando per alimentare la speranza”.

“La Pasqua – ribadisce – ci dice che la morte non ha l’ultima parola. Questo è ciò che testimonieremo  domenica, quando nella nostra chiesa alzeremo le palme per salutare Cristo e chiedergli speranza e salvezza per noi e la nostra amata Siria”.

Non ci saranno addobbi pasquali a rendere visibile la Pasqua nei villaggi cristiani di Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh. Così come non ci sono, oramai da anni, croci, statue e altri segni esteriori sulla chiesa del convento di san Giuseppe. 
“I jihadisti ci hanno vietato di indossare l’abito francescano” rimarca padre Hanna che poi rivela: “ci hanno proibito anche di distribuire dolci la Domenica delle Palme. Non vogliono che facciamo festa. Ma non ci toglieranno mai la gioia della Pasqua. Non potranno mai strapparci la nostra fede in Dio.
Ci dicono che siamo infedeli perché crediamo in un Dio uno e trino, in più Dei. Ma non importa, proviamo a spiegare loro, di far conoscere i fondamenti della nostra fede, è dura ma restiamo saldi”.


Sono lontani i tempi, prima della guerra, in cui “si poteva fare la processione all’esterno della chiesa e cantare ‘Osanna al Figlio di Davide’, agitare le palme. Oggi i nostri fedeli piangono a quel ricordo” ammette il parroco. Per lenire il dolore dei suoi parrocchiani padre Hanna sta pensando di mostrare loro le immagini via satellite delle celebrazioni del triduo pasquale presiedute da Papa Francesco, “non so se sarà possibile ma certamente
 per noi la vicinanza del Pontefice è un balsamo. Sapere che nella Chiesa si prega anche per noi ci aiuta a non sentirci soli, abbandonati a questo destino. Sappiamo di fare parte del grande popolo di Dio”
.

In questi anni di “persecuzione jihadista” la comunità cristiana di Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh ha ulteriormente stretto i propri vincoli e si è ancora più unita.  “Alla processione delle Palme – afferma il parroco – verranno tanti giovani con le famiglie. Molti di loro cammineranno per chilometri per arrivare qui. Per le persone più anziane, impossibilitate a muoversi, abbiamo organizzato un servizio di auto con dei volontari che andranno a prenderle a domicilio”. Domenica anche nella roccaforte jihadista di Idlib si leveranno le Palme e si farà festa in attesa della Pasqua: “Con Cristo la morte è sconfitta – ribadisce padre Hanna – non ci toglieranno mai la gioia più grande.
E i giovani domenica lo grideranno forte, ‘non siamo vinti’”.

giovedì 18 aprile 2019

"L'accordo del secolo" di Trump per il conflitto israelo-palestinese non passerà!


di Elijah J. Magnier
tradotto da: Alice Censi

Da più di un anno l’ “Accordo del Secolo” israeliano, relativo alla Palestina, è stato avallato dall’amministrazione degli Stati Uniti e oggi, la vasta eco destata da questo progetto, sta raggiungendo tutti gli angoli del mondo. Il duo formato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e da suo genero Jared Kushner, entrambi alle prime armi per quanto riguarda la politica estera nonchè manovrati da Israele, sta cercando di promuoverlo negli stati arabi, in particolare in Arabia Saudita, Giordania e Egitto, i tre paesi che probabilmente concederanno dei territori per agevolare i piani di Israele in Cisgiordania e Gaza. E’ assai improbabile che Stati Uniti e Israele riescano ad imporre questo piano che si è materializzato sotto lo sguardo vigile ma impotente dell’Europa e delle nazioni arabe.

Nonostante ci sia l’intesa tra Stati Uniti, Israele e paesi arabi su questo “accordo”, l’ultima parola spetta ai palestinesi. Nonostante i battibecchi e le forti divisioni esistenti nella leadership palestinese, tutti ( incluso il presidente ad interim Mahmoud Abbas) si sono trovati d’accordo sul rifiuto dell’ “accordo” israelo-americano. Così, si prevede che l’ “Accordo del Secolo” non andrà a buon fine perché i palestinesi non ripeteranno lo stesso errore (del 1948) e resisteranno in difesa dei loro territori. Non accetteranno di rinunciare alla Palestina in cambio di un pezzo di terra in Egitto e Giordania come sta scritto nel piano, un’informazione trapelata dalla stessa amministrazione americana.

Le autorità palestinesi hanno detto che l’ “Accordo del Secolo”è stato lanciato da Israele nel 1956 quando, per nove giorni, Israele ha massacrato i civili palestinesi e i rifugiati nella striscia di Gaza, in particolare a Khan Younis e Rafah, un’azione improntata al genocidio. L’obbiettivo, allora, era quello di spingere all’ esodo i rifugiati palestinesi per permettere a Israele di annettersi Gaza senza i profughi al suo interno. I palestinesi che avevano cercato rifugio a Gaza erano fuggiti nel 1948 da Akka, Haifa, Yafa, Safad, al-Led, al-Ramla, Nablus, al-Quds e Bir el-Sabe. Oggi il primo ministro Benyamin Netanyahu cerca di raggiungere quel traguardo che David Ben-Gurion, il fondatore dello “stato sionista “e suo primo ministro non era riuscito ad avvicinare”.
“ Oggi Netanyahu è euforico grazie alla vittoria dell’estrema destra nelle ultime elezioni e di questi tempi l’estremismo la fa da padrone nella Knesset. Il partito tradizionalmente di destra ha la sua parte di potere ma i centristi come il Labour sono scesi dai precedenti 42 seggi agli attuali 6. E’ chiaro che la maggioranza degli israeliani ha deciso di votare chi fa appello a quell’ estremismo che ormai è predominante nella cultura del paese insieme alle forze armate. E’ tempo che l’ Autorità Palestinese (AP) si renda conto che Israele non ha alcuna intenzione di dare ai palestinesi uno stato, e non accetterà mai il loro diritto al ritorno. Nessuno, oggi, tranne il presidente Abbas, si attiene agli accordi di Oslo ( firmati da Israele e dall’ Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 1993 a Washington). Quindi è ora di respingere tutti gli articoli di quel trattato e di rifiutare qualunque accordo con Israele. Il presidente Abbas (Abu Mazen) crede in una resistenza pacifica e nella “resistenza dialogante” alle Nazioni Unite e in Europa, entrambe impotenti di fronte ai piani di Israele e di Trump. Per questo motivo siamo convinti che la resistenza armata è l’unica via per riavere il nostro stato, dato che rifiutiamo qualunque accordo e qualsiasi scambio di territori” ha detto la fonte.

Anche molti stati arabi stanno aderendo all’ “Accordo del Secolo” proposto da Israele. I paesi ricchi grazie al petrolio come l’Arabia Saudita e gli Emirati, stanno cercando di convincere le leadership palestinese, egiziana e giordana a barattare dei territori e facilitare così l’accordo per soddisfare le esigenze di Israele.

Secondo quanto riferiscono fonti molto ben informate, l’ “Accordo del Secolo” offrirebbe all’Egitto una somma tra i 65 e i 100 miliardi di dollari in cambio di una parte del Sinai (Sheikh Zuweid, Rafah e al-Aresh) da dare ai profughi palestinesi di Gaza. La Giordania invece darebbe al-Baqoura e al-Ghamer ai palestinesi della Cisgiordania in cambio della Zona C ( zona della Cisgiordania sotto controllo israeliano dopo gli accordi di Oslo). Ad Amman verrebbe data una cifra tra i 50 e i 60 miliardi di dollari. Si prevede che l’Arabia Saudita offrirà alla Giordania una parte di Haql e di Magna in cambio delle isole egiziane di Tiran e Sanafir ( i sauditi hanno già pagato per avere queste isole ma un tribunale egiziano ha bloccato il trasferimento della proprietà ). E’ probabile che i palestinesi che rimarranno in Palestina ricevano, secondo l’accordo, decine di miliardi di dollari per “migliorare la loro vita”. Inoltre si pensa che Giordania, Siria e Libano riceveranno una gran quantità di miliardi di dollari affinché diano la cittadinanza ai rifugiati palestinesi a condizione che non tornino mai più in Palestina.

Quanto detto sopra, sui dettagli dell’ “Accordo” conferma che quest’ultimo non andrà a buon fine per molte ragioni: il Libano e la Siria non naturalizzeranno mai i profughi palestinesi. Quando ai ragazzi palestinesi che vivono in Libano o Siria viene chiesto da dove provengono, immediatamente rispondono : “ io sono di Haifa, di Yafa, di Nablous, di Quds, di Safad…..” Non dicono mai, anche se sono nati in Libano o in Siria che appartengono al paese in cui i loro genitori o nonni sono stati obbligati ad emigrare. Non hanno mai rinunciato al loro diritto a tornare e conservano la chiave delle loro case appesa al muro per non dimenticare, mai, da dove vengono.

I leaders giordani e egiziani non si azzarderebbero mai a concedere dei territori per venire incontro ai piani di Israele perché la popolazione si rivolterebbe e i loro regimi in conseguenza potrebbero cadere. Queste e molte altre ragioni conducono a una sola conclusione : l’ “Accordo del Secolo” è già morto prima ancora di nascere.

Al centro degli sforzi degli Stati Uniti per promuovere l’accordo, c’è il tentativo di strangolare economicamente alcuni paesi mediorientali cioè la Siria, il Libano, la Giordania, l’Egitto e Gaza che stanno attraversando una pesante crisi economica. Le truppe americane occupano il nord-est della Siria, una zona ricca di gas e petrolio e con una agricoltura fiorente. Sempre le truppe americane bloccano la frontiera tra Siria e Iraq al valico di al-Tanf per impedire il commercio tra i due paesi rendendo insicura la zona, con lo scopo di mettere in ginocchio il governo siriano.
L’amministrazione americana sta anche facendo pressione sugli stati arabi del golfo ed è riuscita a evitare che riprendessero le relazioni con la Siria, prevenendo così una loro possibile partecipazione alla ricostruzione del paese. Israele e gli Stati Uniti sono sicuri che questo sia il modo migliore per obbligare la Siria a sedersi al tavolo dei negoziati, ma non sarà così.

Il Libano attraversa una grossa crisi economica ma non accetterà mai di naturalizzare i palestinesi per varie ragioni. Numero uno, la causa palestinese non morirà finché Israele rifiuterà uno stato palestinese che vada incontro alle aspirazioni dei palestinesi. Come seconda cosa, la naturalizzazione sovvertirebbe l’equilibrio demografico a scapito dei cristiani che alla fine verrebbero emarginati all’interno del Libano.

Neppure la Giordania scambierebbe mai il territorio anche se ha bisogno dei miliardi di dollari che le verrebbero offerti. Accettando il denaro la monarchia perderebbe il paese.

L’Egitto ha rifiutato il tentativo, tipico di Trump, di usare il ricatto per far accettare l’ “Accordo del Secolo”. Gli Stati Uniti hanno minacciato l’Egitto a causa del suo accordo militare con la Russia; in realtà queste minacce avevano lo scopo di indurre Sisi ad accettare l’ “Accordo”.

Tutti questi paesi del Medio Oriente sanno bene che la geografia è quella che determina la loro storia e cambia i regimi. Questo “accordo” non è affatto una novità. E’ iniziato nel 1956 e nel corso degli anni Israele ha escogitato il modo di creare le condizioni per farlo accettare. E’ esattamente quello che il segretario di stato Condoleezza Rice sosteneva nel 2006 annunciando la creazione di un “Nuovo Medio Oriente”. Per far procedere questo progetto gli Stati Uniti invadevano l’Iraq nel 2003, Israele dichiarava guerra a Hezbollah nel 2006 e metà del mondo si univa, fallendo, per cambiare il regime in Siria attraverso i terroristi. La sua recente vittoria politica incoraggia Netanyahu ad approfittare di un presidente che dalla Casa Bianca obbedisce ai suoi voleri e a spingerlo ad appoggiare il suo “Accordo del Secolo”. Il momento è quello giusto, dal punto di vista israeliano per far accettare l’accordo. Questa insistenza israeliana, però, non fa altro che indirizzare i suoi vicini verso la conclusione opposta: è la prova, per l’ “Asse della Resistenza”, che in Medio Oriente non può esserci soluzione se non attraverso la resistenza.

https://ejmagnier.com/2019/04/16/l-accordo-del-secolo-non-passera-le-divisioni-interne-palestinesi-favoriscono-israele-1-3/

Qui il link alla seconda parte : https://ejmagnier.com/2019/04/17/l-accordo-del-secolo-2-gli-stati-uniti-vorrebbero-negoziare-con-liran-e-allontanarsi-dalla-palestina/

mercoledì 17 aprile 2019

Un documento segreto rivela piani per guerra civile in Libano, false-flag israeliane e invasione


di Tyler Durden
Durante la sua visita con il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, il presidente libanese Michael Aoun avrebbe ricevuto un documento israelo-americano che dettagliava i piani per la creazione di una guerra civile in Libano con operazioni segrete sotto falsa bandiera ed eventuale invasione israeliana. Sebbene la fonte del documento sia Israeliana e creata in collaborazione con Washington, nessuno sa chi l'ha presentata ad Aoun. La stazione televisiva libanese Al-Jadeed  ha inizialmente riportato il documento sulla TV libanese e un video sul suo sito web. Geopolitics Alert ha tradotto il report per questo articolo.
Israele e Stati Uniti fomentano una guerra civile in Libano
Il documento descrive i piani americani di frammentare le Forze di Sicurezza Interne libanesi, un'istituzione nazionale separata dall'Esercito libanese. I piani prevedono che Washington investa 200 milioni di dollari nelle Forze di Sicurezza Interne (ISF) con il pretesto di mantenere la pace, ma con l'obiettivo segreto di creare un conflitto settario contro Hezbollah con 2,5 milioni specificamente dedicati a questo scopo. Il documento afferma che l'obiettivo finale è destabilizzare il Paese creando una guerra civile in Libano che "aiuterà Israele sulla scena internazionale". Gli Stati Uniti e Israele hanno in programma di realizzare ciò sostenendo "le forze democratiche", con un linguaggio straordinariamente simile al stessa strategia utilizzata in Siria, Libia, Venezuela e altrove. Secondo il documento, anche se "il pieno carico della nostra potenza di fuoco si scatenerà", in qualche modo non prevede alcuna vittima.
Tuttavia, si aspettano che la guerra civile "scateni le richieste" di intervento da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) che Israele dovrà accettare solo dopo estrema riluttanza. Il documento dice che Israele svolgerà anche un ruolo importante creando "operazioni segrete false flag" mentre il conflitto progredisce. Forse queste operazioni potrebbero includere attacchi chimici simili agli attacchi chimici sui civili in Siria o persino attacchi diretti a civili libanesi o israeliani per incolpare Hezbollah e giustificare l'intervento internazionale.
Il documento ammette che gli Stati Uniti e Israele avranno bisogno di una quantità senza precedenti di credibilità per farcela e ammette anche che l'Esercito Libanese potrebbe essere un ostacolo, probabilmente a causa della diversa composizione dell'Esercito. Come partito politico legittimo con membri in tutti gli aspetti della società libanese, Hezbollah ha già membri e alleati in tutte le ISF e nell'Esercito.
Clicca sulle immagini per ingrandirle. Schermate di Al-Jadeed
Mike Pompeo si incontra con i funzionari libanesi
Durante l'incontro con il presidente libanese Michael Aoun, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha presentato un ultimatum: contenere Hezbollah o aspettarsi conseguenze senza precedenti.
Secondo Foreign Policy , Pompeo ha detto ad Aoun che se non riuscisse a completare l'impossibile compito di rimuovere Hezbollah dalle istituzioni governative ed a reprimere le sue attività militari, il Libano dovrebbe aspettarsi la fine degli aiuti statunitensi e persino potenziali sanzioni.
"Dovrete prendere coraggio perché la nazione del Libano si opponga alla criminalità, al terrore e alle minacce di Hezbollah", ha affermato Pompeo.
A cena, Pompeo ha riferito di aver avvertito i funzionari libanesi che loro stessi erano potenziali bersagli per sanzioni come membri del Movimento Patriottico Libero, il partito del presidente Aoun che ha la maggior parte del suo sostegno proveniente dai Cristiani Libanesi.
Potenziali sanzioni saranno probabilmente comminate al Ministero della Salute Libanese, attualmente gestito da un membro eletto del partito politico di Hezbollah. I civili di tutto il Libano si affidano a un Ministero della Salute funzionante per le medicine sovvenzionate e le cure mediche generali, quindi queste sanzioni creerebbero immense sofferenze a tutta la popolazione Libanese.
Il piano di guerra civile dettagliato nel documento non avrà probabilmente successo secondo i piani degli Stati Uniti. Le Forze di Sicurezza Libanesi non sono un gruppo omogeneo. I membri di Hezbollah e i loro alleati Cristiani detengono molte posizioni non solo nell'ISF ma in tutto l'Esercito Libanese e in diversi rami del governo. La costituzione libanese e il sistema politico richiedono che tutte le parti abbiano una rappresentanza adeguata nel governo. Come tale, una potenziale guerra civile prefabbricata si concentrerebbe probabilmente sulla riscrittura della costituzione libanese come massima priorità.
Non è chiaro se lo staff di Pompeo si sia presentato ad Aoun con questo documento come una minaccia prima del loro incontro. È chiaro, tuttavia, che gli Stati Uniti e Israele stanno tramando a porte chiuse per creare un conflitto settario nella società libanese e nel suo processo politico democratico, simile alle azioni in Siria, Libia, Yemen, Venezuela, Iran e così via.
    trad. GB.P.  OraproSiria
https://www.zerohedge.com/news/2019-04-07/secret-document-reveals-plans-civil-war-lebanon-israeli-false-flags-invasion?

domenica 14 aprile 2019

2019, un nuovo anno di calvario per i Siriani

Statua nei giardini del Museo di Damasco. Credito fotografico: IVERIS


Leggendo la breve intervista al dottor Shebib provo uno sconforto infinito, perché essa conferma tutti i timori che non mi hanno lasciata durante gli otto anni di conflitto appena trascorsi. Nei disegni foschi di chi vi partecipa la partita a scacchi contro la Siria dovrà terminare soltanto quando essa sarà completamente dilaniata e ognuno potrà finalmente acciuffare la sua parte del bottino.
Durante il mio viaggio a Latakia nell’autunno scorso, ho potuto constatare quanto i Siriani siano provati e straziati da questa persecuzione spietata che non concede tregue, eppure forti, intraprendenti, fidenti nelle loro forze. E per deprimere, spezzare la resistenza e annientare questo popolo fiero e valoroso, ecco che continua e si inasprisce la subdola, lurida e impietosa guerra delle sanzioni che non mi stancherò di denunciare. 
  Maria Antonietta Carta

Intervista ad Anas Alexis Shebib

Per capire l'attuale situazione della popolazione siriana, IVERIS ha incontrato il dottor Anas Alexis Shebib* di ritorno da Damasco e Suweida, dove ha partecipato a due simposi: il primo di bioetica organizzato dall’ UNESCO e il secondo organizzato dalla Syrian Society of Radiology.


Qual è la situazione a Damasco oggi?
La sicurezza è migliorata significativamente. Dalla ripresa della Ghouta nell'aprile 2018, nella capitale non si sente più il rumore costante delle detonazioni, però l'inasprimento dell'embargo rende la vita quotidiana estremamente difficile. Dopo un’ulteriore svalutazione della lira siriana, i generi di prima necessità sono diventati ancora più costosi e c’è carenza di acqua, medicine, petrolio, gasolio e gas. Oggi il gas è un lusso, le interruzioni di corrente sono incessanti, non c'è acqua calda ... insomma, la situazione è tale che chi è rimasto in Siria durante gli otto anni di guerra se può adesso va via. Il Paese risente delle sanzioni anche dal punto di vista scientifico e il livello dei medici si è abbassato molto, mentre nel 2010 la Siria era il Paese più sviluppato del Medio Oriente e Giordani e Libanesi venivano a curarsi qui.
Due carenze sono difficili da capire: quella dei medicinali, dato che l'anno scorso si era ripreso a produrre i farmaci generici, e quella del petrolio, dato che la Siria è un paese produttore.
Per quanto riguarda i medicinali, l'inasprimento dell'embargo non consente più l'importazione di materie prime e senza elettricità le fabbriche non possono funzionare. Queste sono le ragioni per le quali le aziende nella zona industriale di Aleppo, dopo una timida ripresa, hanno di nuovo cessato la loro attività.
Per quanto riguarda il gas e il petrolio, i campi principali non si trovano nelle zone controllate dal governo siriano, ma sono sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF - Curdi) e della Coalizione occidentale. Il petrolio sta ancora lasciando la Siria illegalmente attraverso la Turchia o l'Iraq. I Russi occupano per difenderlo il campo di gas di al-Chaer, vicino a Homs, attaccato più volte da Daesh, e finché questo campo è occupato non potrà riprendere l’attività.

Un altro fenomeno sorprendente e che molti Siriani rimasti volontariamente nel Paese durante gli otto anni di guerra ora che la situazione della sicurezza è migliorata decidono di andarsene. Come può essere spiegato questo fatto?
I Siriani sono demoralizzati. L'anno scorso, le vittorie dell'esercito avevano dato loro speranze, in particolare quella di conquistare Idlib, ma in risposta ai progressi militari ci sono state controffensive della Turchia e dell'Occidente. A ogni avanzata, le cose si complicano e le carte si rimescolano perché tutte le parti coinvolte in questo conflitto hanno i propri interessi.
I Russi sono alleati dei Siriani ma sono anche amici dei Turchi e degli Israeliani, che occupano entrambi parti del territorio. I Russi stanno cercando di mantenere buoni rapporti con queste due parti in conflitto, specialmente con la Turchia di Erdogan per non farla cadere tra le braccia degli Stati Uniti.
I Turchi sono diffidenti nei confronti dei Curdi e vogliono un accordo con la Siria per impedire ai Curdi di creare il loro Stato.
Gli Iraniani sono partner importanti dei Russi e fedeli alleati dei Siriani: grazie a loro lo Stato è rimasto in piedi e gran parte della Siria è stata liberata, ma gli Israeliani non vogliono la presenza degli Iraniani.
Gli Occidentali, con Israele e l'Alleanza atlantica, hanno interessi strategici ed economici nella Siria orientale e il modo migliore per farli prevalere è la mappa curda.
L'equazione è davvero difficile...
C'è stato un altro momento di speranza quando alcuni Paesi arabi hanno deciso di riaprire le loro ambasciate, ma gli Stati Uniti hanno fatto pressioni affinché queste relazioni diplomatiche non si ristabilissero. Naturalmente, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sul Golan non aiutano. E poiché essi in realtà non hanno abbandonato il progetto di balcanizzazione della Siria, le pressioni economiche, politiche e militari stanno prolungando la guerra.
Dopo otto anni, la situazione è diventata insostenibile per i Siriani, che oltre agli orrori e alle carenze vivono in una condizione di stress incessante.

Questa è la storia della Siria: 10.000 anni di conflitti subiti a causa della sua posizione strategica.
Il movimento della storia è molto lento. È la nostra aspettativa di vita che è breve, ma la Siria si riprenderà come ha sempre fatto.

Trad. Maria Antonietta Carta

09 aprile 2019
*Anas Alexis Chebib è un medico esperto di bioetica e presidente del Collettivo per la Siria

https://www.iveris.eu/list/entretiens/422 2019_nouvelle_annee_depreuve_pour_les_syriens

giovedì 11 aprile 2019

Dal vangelo secondo Damasco. La lunga via della ripresa e i nuovi nemici della Siria

  di Fr. Bahjat Elia Karakach

Che cosa raccontarvi della realtà che vive ora la popolazione di Damasco? Con la liberazione della Città circa un anno fa, giusto nei giorni che antecedevano la Pasqua, la gioia, il sollievo dal costante pericolo bellico sul quale tutti noi vivevamo, la fiducia in un nuovo momento erano molto vivi nei volti, nonostante le situazioni difficili di ogni famiglia o persona. 
Un anno quasi è passato e la speranza che c’era sta tramontando sempre di più nella delusione e scoraggiamento. Si dice che 'il dopo guerra è peggio della guerra’… non saprei dirvi se la possiamo mettere cosi, ma posso dirvi che la situazione che la gente vive è veramente dura: non c’è gas – si  devono fare lunghe file alle volte di oltre 6 ore per comperare  una bombola di gas (non completamente riempita), quando una volta alla settimana passa il camion che non ha abbastanza bombole per distribuire a tutti – non c’è gasolio, tanto necessario soprattutto per il freddo inverno che abbiamo vissuto fino a qualche giorno fa, l’elettricità  arriva solo alcune ore al giorno. Solo la mancanza di queste 3 cose cosi necessarie basterebbe perché la vita  della gente sia veramente pesante. Queste mancanze creano un terreno favorevole allo sviluppo di una ‘mafia’ che punta sempre di più al mercato nero. Le restrizioni esterne e adesso anche interne fanno vedere un futuro ‘’senza futuro’’ soprattutto per i giovani, spingendo tanti a desiderare ardentemente di partire del paese.
L'immagine può contenere: 8 persone, persone che sorridono, persone in piedi
Ma c’è solo questa dura situazione? Nel volto dei nostri bambini, e sono tanti che più volte alla settimana riempiono di vita il cortile della chiesa,  si vede la gioia di vivere insieme nella pace e nella speranza. I giovani si sentono sostenuti nelle loro paure ed incertezze e tanti  vogliono dare il meglio di loro. 
Vi racconto una dell’esperienza che stiamo facendo. Ci sono 500 famiglie nel bisogno che cerchiamo di aiutare mensilmente con un piccolo contributo economico e con la nostra amicizia. Queste famiglie sono visitate da un’equipe di giovani che due a due vanno a fare queste visite. Due di loro ci hanno raccontato la forte esperienza che hanno fatto visitando una famiglia di 5 persone che vive in una stanza, il papa è allettato a causa de una malattia, la mamma soffre del disco, abita con loro la mamma del papà e hanno due figli uno dei quali una bambina con grande handicap. Entrando in quella stanza sono rimasti senza parola al saluto caloroso della mamma che l’altro ha detto: ‘’Vedete che grande dono è per noi la nostra figlia?’’. Quando sono usciti, erano molto commossi nel veder come questa famiglia, cosi in difficoltà, accoglieva con fede e amore tutto dalle mani di Dio. ‘’E noi alle volte ci perdiamo con una piccola cosa…’’ – dicevano questi giovani, grati di potere fare questa esperienza che li aiuta a vedere la vita con altri occhi. 
C’è molta più generosità e fede di quanto possiamo immaginare. Sono le radici nascoste di questa Chiesa di Gesù.


il racconto di Andrea Avveduto
ATS pro Terra Sancta
aprile 2019

“Macché finita. La guerra è appena iniziata”. Forse i nemici non si chiamano più Daesh o Al Qaeda, ma fame e povertà, e sono nomi che fanno ugualmente paura. Sono i nemici che la politica internazionale può armare in modo più silenzioso e subdolo, senza mortai e lontano dai riflettori, con le sanzioni economiche che in questi mesi stanno mettendo letteralmente in ginocchio la Siria. Per questo la frase pronunciata da fra Antonio all’inizio assume quell’accento cupo e triste di chi non si crea facili illusioni su un futuro incerto.

Damasco è in ginocchio, l’elettricità che arriva a singhiozzo mostra il volto di un paese dimenticato dai media, ma vittima di un’emergenza umanitaria peggiore degli anni scorsi, quando la capitale siriana andava in onda su tutti i telegiornali. Siamo a Bab Touma, l’antica porta di San Tommaso, quartier generale dei progetti di ATS pro Terra Sancta nella terra di San Paolo.
 Pensavamo di trovarci sulla via della ripresa, e invece ci troviamo in piena emergenza. Famiglie di quattro persone che vivono a stento in una stanza di pochi metri quadrati, ammalati che non possono permettersi di comprare medicine salvavita, sfollati che sono fuggiti in fretta da Homs, Maaloula, Knayeh: sono giorni intensi quelli passati in Siria a incontrare, a parlare con le persone accolte dai frati. Con Fadia e Ayham, i nostri validi collaboratori di Damasco, passiamo le giornate con loro cercando di capire i bisogni, e anche le loro speranze.

“Vivevamo a Homs fino a qualche anno fa, ma con la guerra siamo scappati”. Rita, che a stento trattiene le lacrime, ci parla dal letto, dove è incatenata da diversi mesi per una malattia alla schiena che non le lascia tregua. “Mio marito faceva il pittore, non eravamo ricchi ma avevamo di che vivere”. Poi la guerra, e il triste copione che ci siamo abituati a conoscere. “Siamo venuti a Damasco, a bussare a tante porte per chiedere aiuto. L’unica che si è spalancata è la vostra”. Rita parla del centro emergenza aperto dall’Associazione pro Terra Sancta nel convento dei francescani a Bab Touma, dove da diversi anni ci prendiamo cura di casi difficili come questo. “Mio figlio ha 16 anni e ha subito tanti traumi con la guerra. Non parla più, non ha amici, sono disperata”.
 Sua figlia, invece, di soli quattro anni, ha un grave ritardo mentale. Muove continuamente la testa, su e giù. Rita chiede a suo marito di andare a giocare con lei per qualche minuto fuori dalla stanza. Vivono assieme, tutti e quattro, in una piccola stanza di 14 metri quadrati, e condividono il piccolo cucinino con altre famiglie in un quartiere povero della capitale. “Senza gli aiuti ricevuti non so dove saremmo ora”.

Rita è ancora a letto, il marito cerca un lavoro per mantenere quella famiglia piagata dalla guerra: non possono emigrare, ma solo sperare di potersi curare e mantenersi in vita, in attesa l’economia si riprenda. La speranza di tornare a vivere oggi ha un volto, e un luogo. Lo stesso luogo che ha accolto anche Hana, venuta a Damasco per farsi curare dal cancro. Nel suo paese, Hassakeh, non si trovavano cure adeguate. “Non potevo andare avanti e indietro ogni volta che dovevo ricevere le cure per il tumore, e così ho cercato un luogo dove poter fermarmi. La Provvidenza ha voluto che incontrassi i frati di Damasco. Senza di loro penso che oggi non sarei qui a raccontarvelo”.

La fila delle persone aiutate dai nostri progetti avviati con la collaborazione della parrocchia è lunga, e piena di storie come queste. Drammatiche, difficili, eppure con un fondo di speranza. La Siria di oggi. Damasceni, aleppini, abitanti di ogni dove nella scacchiera siriana dove le potenze internazionali si danno battaglia. Le sanzioni economiche li hanno messi in ginocchio. Ma per fortuna c’è chi fa di tutto per tenerli in piedi.

In questi otto anni di conflitto, noi di Associazione pro Terra Sancta abbiamo sempre sostenuto i francescani della Custodia di Terra Santa e il popolo siriano con molte attività. Lo abbiamo fatto grazie alla generosità di moltissimi di voi e vogliamo continuare a farlo con maggiore impegno. Per questo vi chiediamo di continuare ad assisterci ora che la crisi si fa più nera.
Vi chiediamo di assisterci mentre operiamo a Idlib, al fianco di padre Hanna, fra Louai e delle comunità di Knayeh e Yacoubieh. Vi chiediamo di assisterci dove non si combatte più: a Damasco nella distribuzione di medicinali, in ospedale, nelle attività con i bambini e ragazzi; ad Aleppo con padre Ibrahim Alsabagh, nella distribuzione di pacchi alimentari, medicine, beni di prima necessità, nella ricostruzione di case e nel sostegno al Franciscan Care Centre dove circa 250 bambini ricevono il sostegno psicologico necessario e svolgono attività di gioco e studio che risvegliano in loro la voglia di vivere e li fanno riacquistare fiducia in se stessi.

martedì 9 aprile 2019

UN RACCONTO SUL GENOCIDIO ARMENO: Hagob e l'uomo del deserto

Questa storia è stata scritta nel 1995 in arabo, tradotta in armeno e pubblicata in diversi giornali e riviste in Siria, Libano e Stati Uniti. Venti anni dopo, l'autore, un medico di Aleppo che vive oggi in Canada, ha deciso di tradurla in francese per il 100° anniversario del genocidio armeno.

(traduzione di Gb.P.  OraproSiria)

di SAMIR ANTAKI
Hagob è un vecchio amico, anche se ha qualche anno più di me, forse ha l'età di mio padre o anche più vecchio, ma non importa perché dopo i quarant'anni noi abbiamo tutti la stessa età, soprattutto se abbiamo le stesse idee e principi.
Hagob viene a trovarmi in ambulatorio una volta all'anno per l'esame annuale di controllo agli occhi, in più egli accompagna i propri figli e nipoti e chiunque dei suoi amici più stretti che dicano "il mio occhio" non ci mette molto a portarmeli, poichè è molto orgoglioso del suo medico e della sua amicizia. Fortunatamente, molte delle sue visite hanno avuto buon esito.
Eravamo così vicini l'uno all'altro che lui veniva sempre in mio aiuto quando avevo problemi con i miei strumenti in ambulatorio o in ospedale, e lui era sempre lì quando la mia macchina si guastava o quando avevo problemi di elettricità, o qualsiasi altro problema. Ci siamo aiutati a vicenda, ciascuno nel proprio campo.
Hagob non aveva una grande istruzione perché non aveva avuto la possibilità di andare a scuola, ma sebbene fosse incolto aveva un'intelligenza e una sapienza senza pari; inoltre aveva tanto buon senso e una logica tali da rendere geloso un laureato ...
Hagob era arrivato ad Aleppo nel 1915 con i sopravvissuti ai massacri barbari e disumani perpetrati contro il suo popolo, gli Armeni, e contro i Siro-Caldei, i Greci e altre minoranze cristiane da parte degli Ottomani. Lui di appena tre anni, sua madre e sua sorella maggiore di due anni, facevano parte del gruppo di sopravvissuti che riuscirono a raggiungere Aleppo dopo una lunga e dolorosa marcia forzata attraverso il deserto e le steppe della Siria, che durò settimane; mentre per strada morirono suo padre, suo fratello maggiore e i suoi tre zii.
Al loro arrivo ad Aleppo furono alloggiati, come la maggior parte dei rifugiati, in accampamenti di fortuna, con baracche di legno e tetto in tela cerata, senza servizi igienici. Sua madre, che in casa era regina, per sovvenire ai loro bisogni fu costretta a lavorare come baby sitter e cuoca in casa di una ricca famiglia Aleppina.
Ella riuscì grazie al suo coraggio e determinazione a prendersi cura dei suoi due figli e migliorare la qualità della loro vita. All'età di dieci anni, sua madre gli trovò un lavoro in un laboratorio meccanico dove egli lavorava giorno e notte in condizioni difficili per un misero salario. Finì per acquisire una grande esperienza e una destrezza senza pari, tanto che il suo padrone lo promosse capo del laboratorio.
Un bel giorno quando aveva appena diciassette anni, sua madre gli disse: figlio mio, è tempo che tu abbia il tuo negozio; hai sofferto abbastanza, meriti di diventare il capo di te stesso. Affittarono, con i pochi soldi messi da parte, una piccola baracca nel quartiere di Meidan. Hagob riuscì a trovare utensili usati ma in buone condizioni e ad un ottimo prezzo e iniziò da solo. Dopo anni di fatica e privazioni e grazie alla sua perizia, al suo coraggio, alla sua onestà, perseveranza e diligenza, Hagob divenne il proprietario di diverse officine meccaniche. Si sposò, acquistò una bella casa, e la cosa più importante di tutte è che divenne padre di quattro figli che hanno avuto successo, tra cui un medico, un ingegnere, un musicista, senza dimenticare il maggiore che ha lavorato con lui e che ha modernizzato i laboratori introducendo nuove tecniche e strumenti. E il mio amico Hagob è molto orgoglioso di tutto questo.
Un bel giorno di primavera Hagob venne a trovarmi in ambulatorio e, per delicatezza, si sistemò con gli altri pazienti nella sala d'aspetto. Quando arrivò il suo turno, vidi entrare nel mio ufficio Hagob con un beduino un po' più giovane di lui, vestito in modo tradizionale con la sua djellaba, la sua abaya e la testa coperta da quella grande sciarpa tipica nera e bianca. Inoltre aveva tatuati il mento e il dorso della mano. Dopo il "Salam Alyakom" di rigore e i convenevoli, Hagob mi presentò il signore che lo accompagnava, dicendo: ti presento mio fratello Hajj Mohammad Al Rmeylan. Strinsi calorosamente la mano del signore, poi, rivolgendomi a Hagob, dissi: è quel Hajj Mohammad che gestisce i terreni agricoli che hai in Jezireh e che tu consideri come un fratello? Mi ha risposto: ma no, giuro che è mio fratello, figlio di mio ​​padre e di mia madre. Gli dissi, mentre invitavo il signore a sedersi sulla poltrona per l'esame: vediamo dunque, basta scherzi Hagob. Ma proprio quando fu faccia a faccia con me mi accorsi che aveva gli stessi occhi di Hagob e il naso così tipico di molti Armeni. Lì per lì non capivo più niente, allora ho chiesto a Hagob di sedersi e raccontarmi tutto.
Bene, dal momento che insisti, dottore, ecco la mia storia: "Quando avevo quarant'anni, mia madre, che era invecchiata ed era molto malata, mi ha chiamato al suo capezzale per confidarmi un grande segreto. Mi disse: trentasette anni fa, quando fummo espulsi dalla Turchia e durante la marcia della vergogna attraverso il deserto siriano, sotto un sole infuocato durante il giorno e il freddo del deserto di notte, avevamo per nutrirci solo delle erbe e radici di piante così rare in quell' angolo di mondo e appena qualche goccia d'acqua sporca per saziare la nostra sete. Uno di quei giorni, ci strapparono tuo padre e uno dei soldati lo decapitò ridendone con i suoi amici, un altro spinse tuo fratello maggiore Hovsep e tuo zio Dikran in un burrone, come fecero con molti altri. Ai soldati piaceva inventare ogni giorno un nuovo metodo di tortura, al punto che sventravano le donne in gravidanza con baionette per gettare poi il feto in aria divertendosi a sparargli, questo è quello che è successo alla povera Syranouche nostra vicina. Mentre per lo stupro, non parliamone, era cosa normale. Che scene di orrore, figlio mio! Tu, che all'epoca avevi tre anni, hai urlato notte e giorno come un animale braccato ogni volta che uno di questi criminali mi si avvicinava per picchiarmi con un calcio o un bastone, per farmi alzare e continuare a camminare con Wannès tuo fratellino, di appena tre mesi, tra le braccia.
Un giorno le forze mi lasciarono, il latte nel mio seno divenne pochissimo, Wannès non aveva la forza di reagire, bruciava di febbre, gli occhi sbarrati: sentivo che stava per morire. Mi sedetti per terra pregando e implorando Dio e il cielo, piangendo con le poche lacrime che mi erano rimaste. All'improvviso tre beduini fecero la loro apparizione, uno di loro mi diede una borraccia e disse: bevi, sembri inaridita, poi ha dato un sorso a te e tua sorella Azniv. Poi tirò fuori dalla sua borsa un pezzo di pane che mi offrì, dicendo: che disgrazia! Come osano fare ciò che è contro i libri di Dio. Poi mi chiese: dov'è il tuo uomo? Risposi: l'hanno decapitato. Rimasero in silenzio. Alzandosi, mi disse: vieni con noi con i tuoi figli, sarai al sicuro nella mia casa, mia moglie Fatme si prenderà cura di voi mentre recuperate un po' di forza. Non aveva finito la frase, che uno dei soldati che aveva osservato la scena si avvicinò e impose ai tre beduini di andarsene rapidamente, puntando il fucile contro di loro. Non appena si voltò, lasciai Wannès per terra e dissi: almeno portate il mio neonato con voi, se ha la possibilità di vivere è meglio, se no offritegli una decente sepoltura. Il beduino mi disse: lascialo a terra e alzati per seguire gli altri; i soldati non se ne accorgeranno, e appena te ne sarai andata lo prenderemo e ti promettiamo di fare del nostro meglio. Poi urlò ad alta voce mentre ci eravamo già allontanati: 'siamo della tribù dei Rmeilan, ricordati di questo nome, povera donna.'
Hagop continuò il suo racconto singhiozzando, sia lui che Hajj Muhammad: quel giorno mia madre mi ha detto: "Perché io abbia il cuore e la coscienza tranquilla prima di lasciare questa terra, sebbene io sia certa che il mio neonato Wannes è morto, ti prego di andare nel deserto per trovare la tribù di Rmeilan nella regione in cui furono uccisi tuo padre e tuo fratello, che è distante due giorni di cammino da Tall Abyad; se mai la trovassi, chiedi dei tre Beduini che ho incontrato e cerca le tracce di tuo fratello Wannès. Perché se è vivo, deve essere tra di loro. Per riconoscerlo lui ha una lunga cicatrice sul suo dorso che va dalla spalla destra al fianco sinistro, perché è stato ferito dalla punta della spada, quando avendolo tra le mie braccia ho cercato di interpormi tra il soldato e tuo padre.". Così lasciai Aleppo lo stesso giorno per andare nel nord-est della Siria alla ricerca di mio fratello. Dopo due settimane di intense ricerche, sono riuscito a trovare Wannès vivo. Non posso descriverti, dottore, le scene di giubilo che hanno accompagnato questo ritrovarci, e quello che mi ha sorpreso di più è stata la grande somiglianza tra noi due. Bisognava vedere le facce delle sue due mogli e dei suoi dieci figli, non potevano credere ai loro occhi. Hanno sgozzato diverse pecore in onore di questa riunione e hanno invitato quasi tutto il loro popolo a una festa più che regale. 
A quel punto Hajj Mohammad parlò, dicendo: quando avevo vent'anni, chiesi a mio padre, Sheikh Machaal, della cicatrice sulla mia schiena. Forse ero un ragazzo turbolento e mi sono fatto male quando sono caduto su una roccia affilata mentre giocavo? Mio padre mi ha detto "beh no, tu sei nato così, tu l'avevi già il giorno in cui ti strappato dalla morte". Poi mi ha raccontato tutta la storia e tutti gli abusi perpetrati contro i miei genitori e la mia comunità da quei selvaggi e tutte le sofferenze patite da mia madre, e mi diceva che non sapeva nemmeno se fosse arrivata ad Aleppo o fosse morta sulla strada. Lo Sceikh Mashaal si riprese e poi mi disse: dal momento che non abbiamo più avuto notizie dei tuoi genitori, ora sei nostro figlio, e sai che ti amiamo altrettanto se non più degli altri. Devi sposarti secondo le leggi di Dio e del suo Profeta. Così mi sono sposato, sono andato con mio padre in pellegrinaggio alla Mecca, e ogni volta che facevo le mie cinque preghiere quotidiane imploravo Allah e il suo Profeta di salvare mia madre e i miei fratelli se fossero ancora vivi, o di concedere loro la pace eterna e il paradiso, se non fossero più di questo mondo.
Armeni nel deserto siriano nel 1917
Hagob intervenne allora, dicendo: Sai, dottore, ci sono molti bambini Armeni che sono nella stessa situazione di mio fratello e che sono stati salvati da morte certa dalle tribù nel deserto siriano. Quale coraggio, quale nobiltà. Continuò: fortunatamente noi Armeni e gli altri sopravvissuti a questi massacri, siamo stati ben accolti in Siria, il che ci ha permesso di risorgere dalle nostre ceneri e dimostrare ciò di cui siamo capaci! Allora sono intervenuto per dire: in effetti, gli Armeni sono un vanto per la Siria, con una quantità di pittori, scultori, musicisti, medici, avvocati, ingegneri, scrittori, tecnici, gioielleri, meccanici, commercianti, industriali e uomini d'affari che hanno contribuito all'elevazione della Siria, e la Siria è fiera di considerarli come cittadini a pieno titolo.
I due fratelli replicarono in coro: e noi siamo orgogliosi di essere Siriani.  E così, ci siamo ritrovati dopo tutti questi anni di lontananza. Ma sfortunatamente, proseguì Hagob, quando sono tornato con mio fratello Mohammad ad Aleppo per presentarlo con orgoglio a mia madre, lei era già morta e sepolta. Ci siamo precipitati nel cimitero armeno, dove lei riposa in pace su questa terra dell'accogliente Siria, per raccoglierci sulla sua tomba. Abbiamo pregato insieme, io in armeno, lui in Arabo e a squarciagola, nella speranza che le nostre preghiere potessero raggiungere il grande deserto della Siria dove sono caduti padri, fratelli e zii. Mentre pregavamo, singhiozzavamo come bambini, mentre le nostre preghiere salivano come una sinfonia armeno-araba, islamo-cristiana verso il cielo, verso il solo e unico Dio.
In seguito, continuò Hajj Mohammad, ci facemmo visita vicendevolmente, le nostre mogli e i nostri figli approfondirono la loro conoscenza, ed era meraviglioso ritrovare la mia famiglia e le mie radici. Ma ciò che mi ha maggiormente addolorato è stato che le circostanze non mi hanno permesso di baciare le mani di quella santa donna che mi ha portato in braccio per notti e giorni mentre camminava sulle rotte dell'esodo prima che la morte strappasse via mio padre ...
Appena finita la frase, la mia segretaria aprì la porta dello studio medico per informarsi sul motivo di questa lunga consulta: "Dottore, non ha ancora completato l'esame di Mohammad? in dieci anni da quando lavoro con lei questa è la prima volta che impiega tanto tempo con un paziente. È da più di un'ora che è nel suo studio e i pazienti nella sala d'attesa stanno diventando impazienti, e sono più di una quindicina!"
Io le ho risposto: non ho ancora iniziato la visita; sono solo all'anamnesi, i suoi sintomi, i suoi antecedenti, la sua storia familiare, le sue abitudini, le sue allergie ... e la ragione principale della sua visita. Lei ha ribadito: Ma quali sono questi sintomi così importanti, che c'è voluto così tanto tempo per elencarli? Le ho risposto: egli si lamenta delle atrocità che alcuni popoli si permettono di commettere su altri popoli perché la loro religione, il loro colore o le loro idee non li soddisfano. Si lamenta della scomparsa dell'amore da certi cuori, che permette loro di torturare, uccidere e deportare intere popolazioni. Si lamenta della secchezza dei suoi occhi per aver versato tante lacrime su una santa donna che camminava e camminava a piedi scalzi per giorni e giorni in fuga dalla barbarie della gente. Si lamenta della spada che ha tagliato la gola di suo padre per la sola ragione che egli era Armeno e per la cicatrice che questa spada ha lasciato sulla propria schiena, che resterà per sempre a riprova di questo GENOCIDIO.
Mi rivolsi di nuovo a Hajj Mohammad mentre versava le lacrime che gli erano rimaste e dissi: È di questo che ti lamenti? Ho tolto il fazzoletto dalla tasca e mi sono asciugato anch'io la faccia e gli occhi e ho detto alla segretaria: dammi ancora qualche minuto per terminare la visita, ti prometto che non ci vorrà molto, e scusami con i malati nella sala d'attesa per questo ritardo, dicendo loro che c'è un intero popolo che attende ancora delle scuse, ormai da ottant'anni!
Sono già passati più di venti anni dalla pubblicazione di questa storia. Abbiamo commemorato il centenario di questo GENOCIDIO, il primo del ventesimo secolo, che ha causato la morte di oltre due milioni di Armeni, di Assiro-Caldei, di Siriaci, di Greci e altre minoranze cristiane; e c'è ancora un paese che nega che i suoi antenati lo abbiano perpetrato.
Dr. S.A.

domenica 7 aprile 2019

L'annuale colletta per la Terra Santa, per sostenere i fratelli che lì vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto

Pubblichiamo il testo della lettera inviata lo scorso 6 marzo, mercoledì delle Ceneri, ai vescovi di tutti il mondo dal cardinale Leonardo Sandri e dall’arcivescovo Cyril Vasil’, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per le Chiese orientali, in occasione dell’annuale colletta per la Terra Santa.
Il cammino quaresimale invita ciascuno di noi a riandare ai luoghi e agli avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia dell’umanità e l’esistenza personale di ognuno di noi: sono i luoghi e gli avvenimenti che ci trasmettono la memoria viva di tutto ciò che il Figlio di Dio incarnato ha detto, compiuto e sofferto per la nostra redenzione.
Centro di tutto l’anno liturgico è la Settimana Santa che inizia a Betfage, con l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Lo seguiamo a Betania e assistiamo all’unzione col profumo di nardo, profezia della Sua passione, morte e resurrezione. Nel Cenacolo Egli offre se stesso per noi, nel pane e nel vino, e ci lava i piedi, insegnandoci l’umile servizio come comandamento nuovo dell’amore. Viviamo nel Getsemani il suo arresto e lo seguiamo da lontano con tutta la nostra fragilità, come Pietro che lo rinnega. Sotto la croce, con Maria e il discepolo amato siamo presenti alla sua morte, contemplando il suo costato trafitto. Deposto infine in quel sepolcro, presso il quale il mattino di Pasqua si reca Maria Maddalena, risorge e con la sua luce accarezza i nostri occhi e i nostri cuori, invitandoci a guardare dentro la storia del mondo e quella personale di ciascuno di noi.
Rivivendo i misteri della nostra salvezza, pensiamo con maggiore intensità ai fratelli e sorelle che vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto in Terra Santa, esprimendo loro anche la solidarietà nella carità. Nella sua prima Udienza generale il 27 marzo 2013, Papa Francesco ha ricordato ai pellegrini: «Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi [...] per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle».
Quest’anno, in occasione della Colletta pro Terra Sancta, assieme all’invito di Papa Francesco vogliamo riascoltare anche san Paolo VI, che volle recarsi in Terra Santa agli inizi di gennaio del 1964, primo Successore dell’Apostolo Pietro a compiere questo pellegrinaggio. Nell’Esortazione Apostolica Nobis in animo, con la quale nel 1974 istituì la Colletta, afferma: «La Chiesa di Gerusalemme [...] occupa un posto di predilezione nella sollecitudine della Santa Sede e nelle preoccupazioni di tutto il mondo cristiano, mentre l’interesse per i Luoghi Santi, ed in particolare per la città di Gerusalemme, emerge anche nei più alti consessi delle Nazioni e nelle maggiori Organizzazioni internazionali [...]. Tale attenzione è oggi maggiormente richiesta dai gravi problemi di ordine religioso, politico e sociale ivi esistenti [...]».
Ancora oggi il Medio oriente assiste ad un processo che ha lacerato i rapporti tra i popoli della regione, creando una situazione di ingiustizia tale che sperare la pace diventa quasi temerario. A Bari, lo scorso 7 luglio, all’inizio della preghiera del Santo Padre con i Capi delle Chiese orientali del Medio oriente, sono risuonate queste parole: «Su questa splendida regione si è addensata, specialmente negli ultimi anni, una fitta coltre di tenebre: guerra, violenza e distruzione, occupazioni e forme di fondamentalismo, migrazioni forzate e abbandono, il tutto nel silenzio di tanti e con la complicità di molti. Il Medio oriente è divenuto terra di gente che lascia la propria terra. E c’è il rischio che la presenza di nostri fratelli e sorelle nella fede sia cancellata, deturpando il volto stesso della regione, perché un Medio oriente senza cristiani non sarebbe Medio oriente».
La Chiesa, come ricorda san Paolo VInella Nobis in animo, da tempo non è rimasta a guardare: «Dalla seconda metà del secolo scorso vi fu un importante aumento di opere pastorali, sociali, caritative, culturali, a beneficio della popolazione locale senza distinzioni e delle comunità ecclesiali in Terra Santa [...]. Affinché la presenza cristiana bimillenaria nella sua origine e nella sua permanenza in Palestina, possa sopravvivere ed anzi consolidare la propria presenza in maniera attiva ed operare al servizio delle altre comunità con cui deve convivere, è necessario che i cristiani di tutto il mondo si mostrino generosi, facendo affluire alla Chiesa di Gerusalemme la carità delle loro preghiere, il calore della loro comprensione ed il segno tangibile della loro solidarietà».
Nell’ultimo periodo, assistiamo con speranza ad una certa ripresa dei pellegrinaggi, toccando con mano la gioia della fede di tanti fedeli che giungono in Terra Santa sempre più numerosi dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, dalle Filippine e dallo Sri-Lanka: come non pensare al compimento della profezia evangelica «verranno da Oriente e da Occidente, dal Settentrione e dal Mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio»? Tale vitalità apostolica è un segno grande per le comunità locali, e interpella quelle dell’Occidente talora tentate di scoraggiamento e rassegnazione nel vivere e testimoniare la fede nel quotidiano.
A lei, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli, che si adoperano per la buona riuscita della Colletta, in fedeltà ad un’opera che la Chiesa richiede di compiere a tutti i suoi figli secondo le modalità note, ho la gioia di trasmettere la viva riconoscenza del Santo Padre Francesco. E mentre invoco copiose benedizioni divine su questa Diocesi, porgo il più fraterno saluto nel Signore Gesù.

mercoledì 3 aprile 2019

Pellegrinaggio di OraproSiria in Libano

Nei prossimi giorni, ci recheremo per un breve pellegrinaggio in Libano per implorare a Nostra Signora di Harissa, di cui è in corso l'Anno Giubilare, e a San Charbel, il santo monaco maronita guaritore, le grazie di guarigione, di consolazione e di sostegno che in tanti ci hanno raccomandato, oltre alla grande grazia che non ci stanchiamo di domandare della pace in Siria.
Per prepararci, riportiamo una bella riflessione di fra Ielpo che illumina il significato del Pellegrinaggio, certi che sarà un aiuto a noi e a tutti coloro che si recano a pregare presso un Luogo Santo.
A tutti i nostri amici assicuriamo la nostra preghiera sotto il manto di Maria e di san Charbel.

«Fu visto e vide»

di fra Francesco Ielpo ofm |  marzo-aprile 2019

La conversione non nasce dalla paura di un castigo o da uno sforzo morale. Avviene quando ci scopriamo amati gratuitamente dallo sguardo misericordioso di Gesù su di noi.


L'incontro di Zaccheo con Gesù a Gerico in un'icona moderna.
Il pellegrinaggio in genere – e quello in Terra Santa in particolare – ha sempre avuto una forte connotazione penitenziale.
Ci si metteva in cammino per espiare le proprie colpe e in alcuni casi poteva essere persino sostitutivo della pena carceraria per chi aveva commesso dei reati. L’idea di penitenza, intesa come sofferenza, privazioni e disagi, era implicita nelle motivazioni di molti pellegrini medievali. Le difficoltà del viaggio, le tribolazioni sopportate, nonché i pericoli, costituivano un mezzo per espiare i propri peccati.

Ricordo che quando fui nominato Commissario di Terra Santa mi recai a Roma per un corso di formazione specifico. Un giorno, prendendo l’ascensore del grande collegio internazionale francescano dell’Antonianum, mi trovai in cabina con un frate a me sconosciuto che guardandomi dall’alto della sua statura mi domandò: «E tu chi sei?». Dopo aver risposto con il mio nome, il motivo per cui mi trovavo a Roma e l’incarico che mi era appena stato affidato, il frate con aria molto seria aggiunse: «Questa è l’ultima occasione che Dio ti dà per convertirti». Sinceramente spero che non sia l’ultima occasione, ma rimane pur vero che la Terra Santa costituisce una grande opportunità di conversione.

Oggi, forse, questo aspetto del pellegrinaggio rischia di passare in secondo piano. Si parte per la Terra Santa con il desiderio di vedere i luoghi e di ripercorrere la geografia sacra senza affrontare, in tutta onestà, grandi sacrifici o penitenze. Ma è possibile, tra le tante comodità che le moderne forme di viaggio consentono, recuperare la dimensione fondamentale del pellegrinaggio come «cammino di conversione»? A partire dalla mia personale esperienza intravedo una positiva risposta nella figura di Zaccheo.

Nel venire a sapere che Gesù passava da Gerico, quest’uomo basso di statura e peccatore pubblico, desiderando vedere Gesù si ingegna per superare le difficoltà oggettive e sale su una pianta di sicomoro.

Voleva vedere Gesù, ma, come ricorda sant’Agostino, «fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto».

Nell’esperienza giudaica tre volte all’anno tutti gli ebrei maschi dovevano compiere la «salita a Gerusalemme» (’aliyah) «non solo per vedere Dio, ma anche per essere visti dal Signore» (F. Manns, Terra Santa sacramento della fede, Edizioni Terra Santa 2015). In Terra Santa, ancora oggi, si può fare l’esperienza «graziosa» di uno sguardo amorevole che si posa sulla nostra vita.

Qualche anno fa, a causa dell’annullamento di un precedente viaggio in un Paese esotico, un uomo si era iscritto all’ultimo momento a un pellegrinaggio organizzato dal Commissariato, perché desideroso di visitare luoghi mediorientali. Erano quarant’anni che non metteva piede in una chiesa, dal giorno delle nozze, e aveva vissuto, pur comportandosi bene e in maniera onesta, come se Dio non esistesse.

Dopo qualche giorno di cammino si avvicinò chiedendomi un colloquio personale. Non sapeva perché, ma luogo dopo luogo, santuario dopo santuario, cresceva in lui un desiderio grande di comunicarsi e mi confidava che non poteva farlo perché convinto di non potersi confessare né ricevere l’assoluzione.

Nello scoprire che poteva ricevere il perdono di Dio non riuscì a trattenere la commozione e le lacrime. Lo stesso avvenne il giorno seguente durante la santa Messa al memoriale di san Pietro a Cafarnao, dove ricevette la comunione. Nel luogo dove Gesù aveva promesso il pane vero, quello disceso dal Cielo che dà la vita eterna, quell’uomo si è sentito dire, al pari di Zaccheo, «oggi devo fermarmi a casa tua» (Luca 19, 5) e lo ha accolto pieno di gioia nell’Eucaristia. La conversione non nasce dalla paura di un castigo né da uno sforzo morale. Il cambiamento del nostro cuore avviene sempre quando ci scopriamo amati gratuitamente, quando lo sguardo misericordioso di Gesù si posa sulla nostra vita... Allora, e solo allora, la conversione, cioè il cambiamento di vita («Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»), ne scaturisce come conseguenza.

Ancora oggi possiamo recuperare nel pellegrinaggio il «cammino di conversione» di cui tutti abbiamo bisogno, senza necessariamente indossare l’abito del penitente e affrontare particolari disagi. Partiamo, dunque, con il desiderio di vedere, ma anche di essere visti dal Signore. Docili allo Spirito scopriremo che Gesù ci guarda, ci parla e ci ama attraverso i Luoghi Santi, nella Parola, nella preghiera, negli incontri con le «pietre vive» e attraverso il volto di coloro che camminano con noi.

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