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domenica 14 aprile 2019

2019, un nuovo anno di calvario per i Siriani

Statua nei giardini del Museo di Damasco. Credito fotografico: IVERIS


Leggendo la breve intervista al dottor Shebib provo uno sconforto infinito, perché essa conferma tutti i timori che non mi hanno lasciata durante gli otto anni di conflitto appena trascorsi. Nei disegni foschi di chi vi partecipa la partita a scacchi contro la Siria dovrà terminare soltanto quando essa sarà completamente dilaniata e ognuno potrà finalmente acciuffare la sua parte del bottino.
Durante il mio viaggio a Latakia nell’autunno scorso, ho potuto constatare quanto i Siriani siano provati e straziati da questa persecuzione spietata che non concede tregue, eppure forti, intraprendenti, fidenti nelle loro forze. E per deprimere, spezzare la resistenza e annientare questo popolo fiero e valoroso, ecco che continua e si inasprisce la subdola, lurida e impietosa guerra delle sanzioni che non mi stancherò di denunciare. 
  Maria Antonietta Carta

Intervista ad Anas Alexis Shebib

Per capire l'attuale situazione della popolazione siriana, IVERIS ha incontrato il dottor Anas Alexis Shebib* di ritorno da Damasco e Suweida, dove ha partecipato a due simposi: il primo di bioetica organizzato dall’ UNESCO e il secondo organizzato dalla Syrian Society of Radiology.


Qual è la situazione a Damasco oggi?
La sicurezza è migliorata significativamente. Dalla ripresa della Ghouta nell'aprile 2018, nella capitale non si sente più il rumore costante delle detonazioni, però l'inasprimento dell'embargo rende la vita quotidiana estremamente difficile. Dopo un’ulteriore svalutazione della lira siriana, i generi di prima necessità sono diventati ancora più costosi e c’è carenza di acqua, medicine, petrolio, gasolio e gas. Oggi il gas è un lusso, le interruzioni di corrente sono incessanti, non c'è acqua calda ... insomma, la situazione è tale che chi è rimasto in Siria durante gli otto anni di guerra se può adesso va via. Il Paese risente delle sanzioni anche dal punto di vista scientifico e il livello dei medici si è abbassato molto, mentre nel 2010 la Siria era il Paese più sviluppato del Medio Oriente e Giordani e Libanesi venivano a curarsi qui.
Due carenze sono difficili da capire: quella dei medicinali, dato che l'anno scorso si era ripreso a produrre i farmaci generici, e quella del petrolio, dato che la Siria è un paese produttore.
Per quanto riguarda i medicinali, l'inasprimento dell'embargo non consente più l'importazione di materie prime e senza elettricità le fabbriche non possono funzionare. Queste sono le ragioni per le quali le aziende nella zona industriale di Aleppo, dopo una timida ripresa, hanno di nuovo cessato la loro attività.
Per quanto riguarda il gas e il petrolio, i campi principali non si trovano nelle zone controllate dal governo siriano, ma sono sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF - Curdi) e della Coalizione occidentale. Il petrolio sta ancora lasciando la Siria illegalmente attraverso la Turchia o l'Iraq. I Russi occupano per difenderlo il campo di gas di al-Chaer, vicino a Homs, attaccato più volte da Daesh, e finché questo campo è occupato non potrà riprendere l’attività.

Un altro fenomeno sorprendente e che molti Siriani rimasti volontariamente nel Paese durante gli otto anni di guerra ora che la situazione della sicurezza è migliorata decidono di andarsene. Come può essere spiegato questo fatto?
I Siriani sono demoralizzati. L'anno scorso, le vittorie dell'esercito avevano dato loro speranze, in particolare quella di conquistare Idlib, ma in risposta ai progressi militari ci sono state controffensive della Turchia e dell'Occidente. A ogni avanzata, le cose si complicano e le carte si rimescolano perché tutte le parti coinvolte in questo conflitto hanno i propri interessi.
I Russi sono alleati dei Siriani ma sono anche amici dei Turchi e degli Israeliani, che occupano entrambi parti del territorio. I Russi stanno cercando di mantenere buoni rapporti con queste due parti in conflitto, specialmente con la Turchia di Erdogan per non farla cadere tra le braccia degli Stati Uniti.
I Turchi sono diffidenti nei confronti dei Curdi e vogliono un accordo con la Siria per impedire ai Curdi di creare il loro Stato.
Gli Iraniani sono partner importanti dei Russi e fedeli alleati dei Siriani: grazie a loro lo Stato è rimasto in piedi e gran parte della Siria è stata liberata, ma gli Israeliani non vogliono la presenza degli Iraniani.
Gli Occidentali, con Israele e l'Alleanza atlantica, hanno interessi strategici ed economici nella Siria orientale e il modo migliore per farli prevalere è la mappa curda.
L'equazione è davvero difficile...
C'è stato un altro momento di speranza quando alcuni Paesi arabi hanno deciso di riaprire le loro ambasciate, ma gli Stati Uniti hanno fatto pressioni affinché queste relazioni diplomatiche non si ristabilissero. Naturalmente, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sul Golan non aiutano. E poiché essi in realtà non hanno abbandonato il progetto di balcanizzazione della Siria, le pressioni economiche, politiche e militari stanno prolungando la guerra.
Dopo otto anni, la situazione è diventata insostenibile per i Siriani, che oltre agli orrori e alle carenze vivono in una condizione di stress incessante.

Questa è la storia della Siria: 10.000 anni di conflitti subiti a causa della sua posizione strategica.
Il movimento della storia è molto lento. È la nostra aspettativa di vita che è breve, ma la Siria si riprenderà come ha sempre fatto.

Trad. Maria Antonietta Carta

09 aprile 2019
*Anas Alexis Chebib è un medico esperto di bioetica e presidente del Collettivo per la Siria

https://www.iveris.eu/list/entretiens/422 2019_nouvelle_annee_depreuve_pour_les_syriens

giovedì 11 aprile 2019

Dal vangelo secondo Damasco. La lunga via della ripresa e i nuovi nemici della Siria

  di Fr. Bahjat Elia Karakach

Che cosa raccontarvi della realtà che vive ora la popolazione di Damasco? Con la liberazione della Città circa un anno fa, giusto nei giorni che antecedevano la Pasqua, la gioia, il sollievo dal costante pericolo bellico sul quale tutti noi vivevamo, la fiducia in un nuovo momento erano molto vivi nei volti, nonostante le situazioni difficili di ogni famiglia o persona. 
Un anno quasi è passato e la speranza che c’era sta tramontando sempre di più nella delusione e scoraggiamento. Si dice che 'il dopo guerra è peggio della guerra’… non saprei dirvi se la possiamo mettere cosi, ma posso dirvi che la situazione che la gente vive è veramente dura: non c’è gas – si  devono fare lunghe file alle volte di oltre 6 ore per comperare  una bombola di gas (non completamente riempita), quando una volta alla settimana passa il camion che non ha abbastanza bombole per distribuire a tutti – non c’è gasolio, tanto necessario soprattutto per il freddo inverno che abbiamo vissuto fino a qualche giorno fa, l’elettricità  arriva solo alcune ore al giorno. Solo la mancanza di queste 3 cose cosi necessarie basterebbe perché la vita  della gente sia veramente pesante. Queste mancanze creano un terreno favorevole allo sviluppo di una ‘mafia’ che punta sempre di più al mercato nero. Le restrizioni esterne e adesso anche interne fanno vedere un futuro ‘’senza futuro’’ soprattutto per i giovani, spingendo tanti a desiderare ardentemente di partire del paese.
L'immagine può contenere: 8 persone, persone che sorridono, persone in piedi
Ma c’è solo questa dura situazione? Nel volto dei nostri bambini, e sono tanti che più volte alla settimana riempiono di vita il cortile della chiesa,  si vede la gioia di vivere insieme nella pace e nella speranza. I giovani si sentono sostenuti nelle loro paure ed incertezze e tanti  vogliono dare il meglio di loro. 
Vi racconto una dell’esperienza che stiamo facendo. Ci sono 500 famiglie nel bisogno che cerchiamo di aiutare mensilmente con un piccolo contributo economico e con la nostra amicizia. Queste famiglie sono visitate da un’equipe di giovani che due a due vanno a fare queste visite. Due di loro ci hanno raccontato la forte esperienza che hanno fatto visitando una famiglia di 5 persone che vive in una stanza, il papa è allettato a causa de una malattia, la mamma soffre del disco, abita con loro la mamma del papà e hanno due figli uno dei quali una bambina con grande handicap. Entrando in quella stanza sono rimasti senza parola al saluto caloroso della mamma che l’altro ha detto: ‘’Vedete che grande dono è per noi la nostra figlia?’’. Quando sono usciti, erano molto commossi nel veder come questa famiglia, cosi in difficoltà, accoglieva con fede e amore tutto dalle mani di Dio. ‘’E noi alle volte ci perdiamo con una piccola cosa…’’ – dicevano questi giovani, grati di potere fare questa esperienza che li aiuta a vedere la vita con altri occhi. 
C’è molta più generosità e fede di quanto possiamo immaginare. Sono le radici nascoste di questa Chiesa di Gesù.


il racconto di Andrea Avveduto
ATS pro Terra Sancta
aprile 2019

“Macché finita. La guerra è appena iniziata”. Forse i nemici non si chiamano più Daesh o Al Qaeda, ma fame e povertà, e sono nomi che fanno ugualmente paura. Sono i nemici che la politica internazionale può armare in modo più silenzioso e subdolo, senza mortai e lontano dai riflettori, con le sanzioni economiche che in questi mesi stanno mettendo letteralmente in ginocchio la Siria. Per questo la frase pronunciata da fra Antonio all’inizio assume quell’accento cupo e triste di chi non si crea facili illusioni su un futuro incerto.

Damasco è in ginocchio, l’elettricità che arriva a singhiozzo mostra il volto di un paese dimenticato dai media, ma vittima di un’emergenza umanitaria peggiore degli anni scorsi, quando la capitale siriana andava in onda su tutti i telegiornali. Siamo a Bab Touma, l’antica porta di San Tommaso, quartier generale dei progetti di ATS pro Terra Sancta nella terra di San Paolo.
 Pensavamo di trovarci sulla via della ripresa, e invece ci troviamo in piena emergenza. Famiglie di quattro persone che vivono a stento in una stanza di pochi metri quadrati, ammalati che non possono permettersi di comprare medicine salvavita, sfollati che sono fuggiti in fretta da Homs, Maaloula, Knayeh: sono giorni intensi quelli passati in Siria a incontrare, a parlare con le persone accolte dai frati. Con Fadia e Ayham, i nostri validi collaboratori di Damasco, passiamo le giornate con loro cercando di capire i bisogni, e anche le loro speranze.

“Vivevamo a Homs fino a qualche anno fa, ma con la guerra siamo scappati”. Rita, che a stento trattiene le lacrime, ci parla dal letto, dove è incatenata da diversi mesi per una malattia alla schiena che non le lascia tregua. “Mio marito faceva il pittore, non eravamo ricchi ma avevamo di che vivere”. Poi la guerra, e il triste copione che ci siamo abituati a conoscere. “Siamo venuti a Damasco, a bussare a tante porte per chiedere aiuto. L’unica che si è spalancata è la vostra”. Rita parla del centro emergenza aperto dall’Associazione pro Terra Sancta nel convento dei francescani a Bab Touma, dove da diversi anni ci prendiamo cura di casi difficili come questo. “Mio figlio ha 16 anni e ha subito tanti traumi con la guerra. Non parla più, non ha amici, sono disperata”.
 Sua figlia, invece, di soli quattro anni, ha un grave ritardo mentale. Muove continuamente la testa, su e giù. Rita chiede a suo marito di andare a giocare con lei per qualche minuto fuori dalla stanza. Vivono assieme, tutti e quattro, in una piccola stanza di 14 metri quadrati, e condividono il piccolo cucinino con altre famiglie in un quartiere povero della capitale. “Senza gli aiuti ricevuti non so dove saremmo ora”.

Rita è ancora a letto, il marito cerca un lavoro per mantenere quella famiglia piagata dalla guerra: non possono emigrare, ma solo sperare di potersi curare e mantenersi in vita, in attesa l’economia si riprenda. La speranza di tornare a vivere oggi ha un volto, e un luogo. Lo stesso luogo che ha accolto anche Hana, venuta a Damasco per farsi curare dal cancro. Nel suo paese, Hassakeh, non si trovavano cure adeguate. “Non potevo andare avanti e indietro ogni volta che dovevo ricevere le cure per il tumore, e così ho cercato un luogo dove poter fermarmi. La Provvidenza ha voluto che incontrassi i frati di Damasco. Senza di loro penso che oggi non sarei qui a raccontarvelo”.

La fila delle persone aiutate dai nostri progetti avviati con la collaborazione della parrocchia è lunga, e piena di storie come queste. Drammatiche, difficili, eppure con un fondo di speranza. La Siria di oggi. Damasceni, aleppini, abitanti di ogni dove nella scacchiera siriana dove le potenze internazionali si danno battaglia. Le sanzioni economiche li hanno messi in ginocchio. Ma per fortuna c’è chi fa di tutto per tenerli in piedi.

In questi otto anni di conflitto, noi di Associazione pro Terra Sancta abbiamo sempre sostenuto i francescani della Custodia di Terra Santa e il popolo siriano con molte attività. Lo abbiamo fatto grazie alla generosità di moltissimi di voi e vogliamo continuare a farlo con maggiore impegno. Per questo vi chiediamo di continuare ad assisterci ora che la crisi si fa più nera.
Vi chiediamo di assisterci mentre operiamo a Idlib, al fianco di padre Hanna, fra Louai e delle comunità di Knayeh e Yacoubieh. Vi chiediamo di assisterci dove non si combatte più: a Damasco nella distribuzione di medicinali, in ospedale, nelle attività con i bambini e ragazzi; ad Aleppo con padre Ibrahim Alsabagh, nella distribuzione di pacchi alimentari, medicine, beni di prima necessità, nella ricostruzione di case e nel sostegno al Franciscan Care Centre dove circa 250 bambini ricevono il sostegno psicologico necessario e svolgono attività di gioco e studio che risvegliano in loro la voglia di vivere e li fanno riacquistare fiducia in se stessi.

martedì 9 aprile 2019

UN RACCONTO SUL GENOCIDIO ARMENO: Hagob e l'uomo del deserto

Questa storia è stata scritta nel 1995 in arabo, tradotta in armeno e pubblicata in diversi giornali e riviste in Siria, Libano e Stati Uniti. Venti anni dopo, l'autore, un medico di Aleppo che vive oggi in Canada, ha deciso di tradurla in francese per il 100° anniversario del genocidio armeno.

(traduzione di Gb.P.  OraproSiria)

di SAMIR ANTAKI
Hagob è un vecchio amico, anche se ha qualche anno più di me, forse ha l'età di mio padre o anche più vecchio, ma non importa perché dopo i quarant'anni noi abbiamo tutti la stessa età, soprattutto se abbiamo le stesse idee e principi.
Hagob viene a trovarmi in ambulatorio una volta all'anno per l'esame annuale di controllo agli occhi, in più egli accompagna i propri figli e nipoti e chiunque dei suoi amici più stretti che dicano "il mio occhio" non ci mette molto a portarmeli, poichè è molto orgoglioso del suo medico e della sua amicizia. Fortunatamente, molte delle sue visite hanno avuto buon esito.
Eravamo così vicini l'uno all'altro che lui veniva sempre in mio aiuto quando avevo problemi con i miei strumenti in ambulatorio o in ospedale, e lui era sempre lì quando la mia macchina si guastava o quando avevo problemi di elettricità, o qualsiasi altro problema. Ci siamo aiutati a vicenda, ciascuno nel proprio campo.
Hagob non aveva una grande istruzione perché non aveva avuto la possibilità di andare a scuola, ma sebbene fosse incolto aveva un'intelligenza e una sapienza senza pari; inoltre aveva tanto buon senso e una logica tali da rendere geloso un laureato ...
Hagob era arrivato ad Aleppo nel 1915 con i sopravvissuti ai massacri barbari e disumani perpetrati contro il suo popolo, gli Armeni, e contro i Siro-Caldei, i Greci e altre minoranze cristiane da parte degli Ottomani. Lui di appena tre anni, sua madre e sua sorella maggiore di due anni, facevano parte del gruppo di sopravvissuti che riuscirono a raggiungere Aleppo dopo una lunga e dolorosa marcia forzata attraverso il deserto e le steppe della Siria, che durò settimane; mentre per strada morirono suo padre, suo fratello maggiore e i suoi tre zii.
Al loro arrivo ad Aleppo furono alloggiati, come la maggior parte dei rifugiati, in accampamenti di fortuna, con baracche di legno e tetto in tela cerata, senza servizi igienici. Sua madre, che in casa era regina, per sovvenire ai loro bisogni fu costretta a lavorare come baby sitter e cuoca in casa di una ricca famiglia Aleppina.
Ella riuscì grazie al suo coraggio e determinazione a prendersi cura dei suoi due figli e migliorare la qualità della loro vita. All'età di dieci anni, sua madre gli trovò un lavoro in un laboratorio meccanico dove egli lavorava giorno e notte in condizioni difficili per un misero salario. Finì per acquisire una grande esperienza e una destrezza senza pari, tanto che il suo padrone lo promosse capo del laboratorio.
Un bel giorno quando aveva appena diciassette anni, sua madre gli disse: figlio mio, è tempo che tu abbia il tuo negozio; hai sofferto abbastanza, meriti di diventare il capo di te stesso. Affittarono, con i pochi soldi messi da parte, una piccola baracca nel quartiere di Meidan. Hagob riuscì a trovare utensili usati ma in buone condizioni e ad un ottimo prezzo e iniziò da solo. Dopo anni di fatica e privazioni e grazie alla sua perizia, al suo coraggio, alla sua onestà, perseveranza e diligenza, Hagob divenne il proprietario di diverse officine meccaniche. Si sposò, acquistò una bella casa, e la cosa più importante di tutte è che divenne padre di quattro figli che hanno avuto successo, tra cui un medico, un ingegnere, un musicista, senza dimenticare il maggiore che ha lavorato con lui e che ha modernizzato i laboratori introducendo nuove tecniche e strumenti. E il mio amico Hagob è molto orgoglioso di tutto questo.
Un bel giorno di primavera Hagob venne a trovarmi in ambulatorio e, per delicatezza, si sistemò con gli altri pazienti nella sala d'aspetto. Quando arrivò il suo turno, vidi entrare nel mio ufficio Hagob con un beduino un po' più giovane di lui, vestito in modo tradizionale con la sua djellaba, la sua abaya e la testa coperta da quella grande sciarpa tipica nera e bianca. Inoltre aveva tatuati il mento e il dorso della mano. Dopo il "Salam Alyakom" di rigore e i convenevoli, Hagob mi presentò il signore che lo accompagnava, dicendo: ti presento mio fratello Hajj Mohammad Al Rmeylan. Strinsi calorosamente la mano del signore, poi, rivolgendomi a Hagob, dissi: è quel Hajj Mohammad che gestisce i terreni agricoli che hai in Jezireh e che tu consideri come un fratello? Mi ha risposto: ma no, giuro che è mio fratello, figlio di mio ​​padre e di mia madre. Gli dissi, mentre invitavo il signore a sedersi sulla poltrona per l'esame: vediamo dunque, basta scherzi Hagob. Ma proprio quando fu faccia a faccia con me mi accorsi che aveva gli stessi occhi di Hagob e il naso così tipico di molti Armeni. Lì per lì non capivo più niente, allora ho chiesto a Hagob di sedersi e raccontarmi tutto.
Bene, dal momento che insisti, dottore, ecco la mia storia: "Quando avevo quarant'anni, mia madre, che era invecchiata ed era molto malata, mi ha chiamato al suo capezzale per confidarmi un grande segreto. Mi disse: trentasette anni fa, quando fummo espulsi dalla Turchia e durante la marcia della vergogna attraverso il deserto siriano, sotto un sole infuocato durante il giorno e il freddo del deserto di notte, avevamo per nutrirci solo delle erbe e radici di piante così rare in quell' angolo di mondo e appena qualche goccia d'acqua sporca per saziare la nostra sete. Uno di quei giorni, ci strapparono tuo padre e uno dei soldati lo decapitò ridendone con i suoi amici, un altro spinse tuo fratello maggiore Hovsep e tuo zio Dikran in un burrone, come fecero con molti altri. Ai soldati piaceva inventare ogni giorno un nuovo metodo di tortura, al punto che sventravano le donne in gravidanza con baionette per gettare poi il feto in aria divertendosi a sparargli, questo è quello che è successo alla povera Syranouche nostra vicina. Mentre per lo stupro, non parliamone, era cosa normale. Che scene di orrore, figlio mio! Tu, che all'epoca avevi tre anni, hai urlato notte e giorno come un animale braccato ogni volta che uno di questi criminali mi si avvicinava per picchiarmi con un calcio o un bastone, per farmi alzare e continuare a camminare con Wannès tuo fratellino, di appena tre mesi, tra le braccia.
Un giorno le forze mi lasciarono, il latte nel mio seno divenne pochissimo, Wannès non aveva la forza di reagire, bruciava di febbre, gli occhi sbarrati: sentivo che stava per morire. Mi sedetti per terra pregando e implorando Dio e il cielo, piangendo con le poche lacrime che mi erano rimaste. All'improvviso tre beduini fecero la loro apparizione, uno di loro mi diede una borraccia e disse: bevi, sembri inaridita, poi ha dato un sorso a te e tua sorella Azniv. Poi tirò fuori dalla sua borsa un pezzo di pane che mi offrì, dicendo: che disgrazia! Come osano fare ciò che è contro i libri di Dio. Poi mi chiese: dov'è il tuo uomo? Risposi: l'hanno decapitato. Rimasero in silenzio. Alzandosi, mi disse: vieni con noi con i tuoi figli, sarai al sicuro nella mia casa, mia moglie Fatme si prenderà cura di voi mentre recuperate un po' di forza. Non aveva finito la frase, che uno dei soldati che aveva osservato la scena si avvicinò e impose ai tre beduini di andarsene rapidamente, puntando il fucile contro di loro. Non appena si voltò, lasciai Wannès per terra e dissi: almeno portate il mio neonato con voi, se ha la possibilità di vivere è meglio, se no offritegli una decente sepoltura. Il beduino mi disse: lascialo a terra e alzati per seguire gli altri; i soldati non se ne accorgeranno, e appena te ne sarai andata lo prenderemo e ti promettiamo di fare del nostro meglio. Poi urlò ad alta voce mentre ci eravamo già allontanati: 'siamo della tribù dei Rmeilan, ricordati di questo nome, povera donna.'
Hagop continuò il suo racconto singhiozzando, sia lui che Hajj Muhammad: quel giorno mia madre mi ha detto: "Perché io abbia il cuore e la coscienza tranquilla prima di lasciare questa terra, sebbene io sia certa che il mio neonato Wannes è morto, ti prego di andare nel deserto per trovare la tribù di Rmeilan nella regione in cui furono uccisi tuo padre e tuo fratello, che è distante due giorni di cammino da Tall Abyad; se mai la trovassi, chiedi dei tre Beduini che ho incontrato e cerca le tracce di tuo fratello Wannès. Perché se è vivo, deve essere tra di loro. Per riconoscerlo lui ha una lunga cicatrice sul suo dorso che va dalla spalla destra al fianco sinistro, perché è stato ferito dalla punta della spada, quando avendolo tra le mie braccia ho cercato di interpormi tra il soldato e tuo padre.". Così lasciai Aleppo lo stesso giorno per andare nel nord-est della Siria alla ricerca di mio fratello. Dopo due settimane di intense ricerche, sono riuscito a trovare Wannès vivo. Non posso descriverti, dottore, le scene di giubilo che hanno accompagnato questo ritrovarci, e quello che mi ha sorpreso di più è stata la grande somiglianza tra noi due. Bisognava vedere le facce delle sue due mogli e dei suoi dieci figli, non potevano credere ai loro occhi. Hanno sgozzato diverse pecore in onore di questa riunione e hanno invitato quasi tutto il loro popolo a una festa più che regale. 
A quel punto Hajj Mohammad parlò, dicendo: quando avevo vent'anni, chiesi a mio padre, Sheikh Machaal, della cicatrice sulla mia schiena. Forse ero un ragazzo turbolento e mi sono fatto male quando sono caduto su una roccia affilata mentre giocavo? Mio padre mi ha detto "beh no, tu sei nato così, tu l'avevi già il giorno in cui ti strappato dalla morte". Poi mi ha raccontato tutta la storia e tutti gli abusi perpetrati contro i miei genitori e la mia comunità da quei selvaggi e tutte le sofferenze patite da mia madre, e mi diceva che non sapeva nemmeno se fosse arrivata ad Aleppo o fosse morta sulla strada. Lo Sceikh Mashaal si riprese e poi mi disse: dal momento che non abbiamo più avuto notizie dei tuoi genitori, ora sei nostro figlio, e sai che ti amiamo altrettanto se non più degli altri. Devi sposarti secondo le leggi di Dio e del suo Profeta. Così mi sono sposato, sono andato con mio padre in pellegrinaggio alla Mecca, e ogni volta che facevo le mie cinque preghiere quotidiane imploravo Allah e il suo Profeta di salvare mia madre e i miei fratelli se fossero ancora vivi, o di concedere loro la pace eterna e il paradiso, se non fossero più di questo mondo.
Armeni nel deserto siriano nel 1917
Hagob intervenne allora, dicendo: Sai, dottore, ci sono molti bambini Armeni che sono nella stessa situazione di mio fratello e che sono stati salvati da morte certa dalle tribù nel deserto siriano. Quale coraggio, quale nobiltà. Continuò: fortunatamente noi Armeni e gli altri sopravvissuti a questi massacri, siamo stati ben accolti in Siria, il che ci ha permesso di risorgere dalle nostre ceneri e dimostrare ciò di cui siamo capaci! Allora sono intervenuto per dire: in effetti, gli Armeni sono un vanto per la Siria, con una quantità di pittori, scultori, musicisti, medici, avvocati, ingegneri, scrittori, tecnici, gioielleri, meccanici, commercianti, industriali e uomini d'affari che hanno contribuito all'elevazione della Siria, e la Siria è fiera di considerarli come cittadini a pieno titolo.
I due fratelli replicarono in coro: e noi siamo orgogliosi di essere Siriani.  E così, ci siamo ritrovati dopo tutti questi anni di lontananza. Ma sfortunatamente, proseguì Hagob, quando sono tornato con mio fratello Mohammad ad Aleppo per presentarlo con orgoglio a mia madre, lei era già morta e sepolta. Ci siamo precipitati nel cimitero armeno, dove lei riposa in pace su questa terra dell'accogliente Siria, per raccoglierci sulla sua tomba. Abbiamo pregato insieme, io in armeno, lui in Arabo e a squarciagola, nella speranza che le nostre preghiere potessero raggiungere il grande deserto della Siria dove sono caduti padri, fratelli e zii. Mentre pregavamo, singhiozzavamo come bambini, mentre le nostre preghiere salivano come una sinfonia armeno-araba, islamo-cristiana verso il cielo, verso il solo e unico Dio.
In seguito, continuò Hajj Mohammad, ci facemmo visita vicendevolmente, le nostre mogli e i nostri figli approfondirono la loro conoscenza, ed era meraviglioso ritrovare la mia famiglia e le mie radici. Ma ciò che mi ha maggiormente addolorato è stato che le circostanze non mi hanno permesso di baciare le mani di quella santa donna che mi ha portato in braccio per notti e giorni mentre camminava sulle rotte dell'esodo prima che la morte strappasse via mio padre ...
Appena finita la frase, la mia segretaria aprì la porta dello studio medico per informarsi sul motivo di questa lunga consulta: "Dottore, non ha ancora completato l'esame di Mohammad? in dieci anni da quando lavoro con lei questa è la prima volta che impiega tanto tempo con un paziente. È da più di un'ora che è nel suo studio e i pazienti nella sala d'attesa stanno diventando impazienti, e sono più di una quindicina!"
Io le ho risposto: non ho ancora iniziato la visita; sono solo all'anamnesi, i suoi sintomi, i suoi antecedenti, la sua storia familiare, le sue abitudini, le sue allergie ... e la ragione principale della sua visita. Lei ha ribadito: Ma quali sono questi sintomi così importanti, che c'è voluto così tanto tempo per elencarli? Le ho risposto: egli si lamenta delle atrocità che alcuni popoli si permettono di commettere su altri popoli perché la loro religione, il loro colore o le loro idee non li soddisfano. Si lamenta della scomparsa dell'amore da certi cuori, che permette loro di torturare, uccidere e deportare intere popolazioni. Si lamenta della secchezza dei suoi occhi per aver versato tante lacrime su una santa donna che camminava e camminava a piedi scalzi per giorni e giorni in fuga dalla barbarie della gente. Si lamenta della spada che ha tagliato la gola di suo padre per la sola ragione che egli era Armeno e per la cicatrice che questa spada ha lasciato sulla propria schiena, che resterà per sempre a riprova di questo GENOCIDIO.
Mi rivolsi di nuovo a Hajj Mohammad mentre versava le lacrime che gli erano rimaste e dissi: È di questo che ti lamenti? Ho tolto il fazzoletto dalla tasca e mi sono asciugato anch'io la faccia e gli occhi e ho detto alla segretaria: dammi ancora qualche minuto per terminare la visita, ti prometto che non ci vorrà molto, e scusami con i malati nella sala d'attesa per questo ritardo, dicendo loro che c'è un intero popolo che attende ancora delle scuse, ormai da ottant'anni!
Sono già passati più di venti anni dalla pubblicazione di questa storia. Abbiamo commemorato il centenario di questo GENOCIDIO, il primo del ventesimo secolo, che ha causato la morte di oltre due milioni di Armeni, di Assiro-Caldei, di Siriaci, di Greci e altre minoranze cristiane; e c'è ancora un paese che nega che i suoi antenati lo abbiano perpetrato.
Dr. S.A.

domenica 7 aprile 2019

L'annuale colletta per la Terra Santa, per sostenere i fratelli che lì vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto

Pubblichiamo il testo della lettera inviata lo scorso 6 marzo, mercoledì delle Ceneri, ai vescovi di tutti il mondo dal cardinale Leonardo Sandri e dall’arcivescovo Cyril Vasil’, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per le Chiese orientali, in occasione dell’annuale colletta per la Terra Santa.
Il cammino quaresimale invita ciascuno di noi a riandare ai luoghi e agli avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia dell’umanità e l’esistenza personale di ognuno di noi: sono i luoghi e gli avvenimenti che ci trasmettono la memoria viva di tutto ciò che il Figlio di Dio incarnato ha detto, compiuto e sofferto per la nostra redenzione.
Centro di tutto l’anno liturgico è la Settimana Santa che inizia a Betfage, con l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Lo seguiamo a Betania e assistiamo all’unzione col profumo di nardo, profezia della Sua passione, morte e resurrezione. Nel Cenacolo Egli offre se stesso per noi, nel pane e nel vino, e ci lava i piedi, insegnandoci l’umile servizio come comandamento nuovo dell’amore. Viviamo nel Getsemani il suo arresto e lo seguiamo da lontano con tutta la nostra fragilità, come Pietro che lo rinnega. Sotto la croce, con Maria e il discepolo amato siamo presenti alla sua morte, contemplando il suo costato trafitto. Deposto infine in quel sepolcro, presso il quale il mattino di Pasqua si reca Maria Maddalena, risorge e con la sua luce accarezza i nostri occhi e i nostri cuori, invitandoci a guardare dentro la storia del mondo e quella personale di ciascuno di noi.
Rivivendo i misteri della nostra salvezza, pensiamo con maggiore intensità ai fratelli e sorelle che vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto in Terra Santa, esprimendo loro anche la solidarietà nella carità. Nella sua prima Udienza generale il 27 marzo 2013, Papa Francesco ha ricordato ai pellegrini: «Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi [...] per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle».
Quest’anno, in occasione della Colletta pro Terra Sancta, assieme all’invito di Papa Francesco vogliamo riascoltare anche san Paolo VI, che volle recarsi in Terra Santa agli inizi di gennaio del 1964, primo Successore dell’Apostolo Pietro a compiere questo pellegrinaggio. Nell’Esortazione Apostolica Nobis in animo, con la quale nel 1974 istituì la Colletta, afferma: «La Chiesa di Gerusalemme [...] occupa un posto di predilezione nella sollecitudine della Santa Sede e nelle preoccupazioni di tutto il mondo cristiano, mentre l’interesse per i Luoghi Santi, ed in particolare per la città di Gerusalemme, emerge anche nei più alti consessi delle Nazioni e nelle maggiori Organizzazioni internazionali [...]. Tale attenzione è oggi maggiormente richiesta dai gravi problemi di ordine religioso, politico e sociale ivi esistenti [...]».
Ancora oggi il Medio oriente assiste ad un processo che ha lacerato i rapporti tra i popoli della regione, creando una situazione di ingiustizia tale che sperare la pace diventa quasi temerario. A Bari, lo scorso 7 luglio, all’inizio della preghiera del Santo Padre con i Capi delle Chiese orientali del Medio oriente, sono risuonate queste parole: «Su questa splendida regione si è addensata, specialmente negli ultimi anni, una fitta coltre di tenebre: guerra, violenza e distruzione, occupazioni e forme di fondamentalismo, migrazioni forzate e abbandono, il tutto nel silenzio di tanti e con la complicità di molti. Il Medio oriente è divenuto terra di gente che lascia la propria terra. E c’è il rischio che la presenza di nostri fratelli e sorelle nella fede sia cancellata, deturpando il volto stesso della regione, perché un Medio oriente senza cristiani non sarebbe Medio oriente».
La Chiesa, come ricorda san Paolo VInella Nobis in animo, da tempo non è rimasta a guardare: «Dalla seconda metà del secolo scorso vi fu un importante aumento di opere pastorali, sociali, caritative, culturali, a beneficio della popolazione locale senza distinzioni e delle comunità ecclesiali in Terra Santa [...]. Affinché la presenza cristiana bimillenaria nella sua origine e nella sua permanenza in Palestina, possa sopravvivere ed anzi consolidare la propria presenza in maniera attiva ed operare al servizio delle altre comunità con cui deve convivere, è necessario che i cristiani di tutto il mondo si mostrino generosi, facendo affluire alla Chiesa di Gerusalemme la carità delle loro preghiere, il calore della loro comprensione ed il segno tangibile della loro solidarietà».
Nell’ultimo periodo, assistiamo con speranza ad una certa ripresa dei pellegrinaggi, toccando con mano la gioia della fede di tanti fedeli che giungono in Terra Santa sempre più numerosi dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, dalle Filippine e dallo Sri-Lanka: come non pensare al compimento della profezia evangelica «verranno da Oriente e da Occidente, dal Settentrione e dal Mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio»? Tale vitalità apostolica è un segno grande per le comunità locali, e interpella quelle dell’Occidente talora tentate di scoraggiamento e rassegnazione nel vivere e testimoniare la fede nel quotidiano.
A lei, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli, che si adoperano per la buona riuscita della Colletta, in fedeltà ad un’opera che la Chiesa richiede di compiere a tutti i suoi figli secondo le modalità note, ho la gioia di trasmettere la viva riconoscenza del Santo Padre Francesco. E mentre invoco copiose benedizioni divine su questa Diocesi, porgo il più fraterno saluto nel Signore Gesù.

mercoledì 3 aprile 2019

Pellegrinaggio di OraproSiria in Libano

Nei prossimi giorni, ci recheremo per un breve pellegrinaggio in Libano per implorare a Nostra Signora di Harissa, di cui è in corso l'Anno Giubilare, e a San Charbel, il santo monaco maronita guaritore, le grazie di guarigione, di consolazione e di sostegno che in tanti ci hanno raccomandato, oltre alla grande grazia che non ci stanchiamo di domandare della pace in Siria.
Per prepararci, riportiamo una bella riflessione di fra Ielpo che illumina il significato del Pellegrinaggio, certi che sarà un aiuto a noi e a tutti coloro che si recano a pregare presso un Luogo Santo.
A tutti i nostri amici assicuriamo la nostra preghiera sotto il manto di Maria e di san Charbel.

«Fu visto e vide»

di fra Francesco Ielpo ofm |  marzo-aprile 2019

La conversione non nasce dalla paura di un castigo o da uno sforzo morale. Avviene quando ci scopriamo amati gratuitamente dallo sguardo misericordioso di Gesù su di noi.


L'incontro di Zaccheo con Gesù a Gerico in un'icona moderna.
Il pellegrinaggio in genere – e quello in Terra Santa in particolare – ha sempre avuto una forte connotazione penitenziale.
Ci si metteva in cammino per espiare le proprie colpe e in alcuni casi poteva essere persino sostitutivo della pena carceraria per chi aveva commesso dei reati. L’idea di penitenza, intesa come sofferenza, privazioni e disagi, era implicita nelle motivazioni di molti pellegrini medievali. Le difficoltà del viaggio, le tribolazioni sopportate, nonché i pericoli, costituivano un mezzo per espiare i propri peccati.

Ricordo che quando fui nominato Commissario di Terra Santa mi recai a Roma per un corso di formazione specifico. Un giorno, prendendo l’ascensore del grande collegio internazionale francescano dell’Antonianum, mi trovai in cabina con un frate a me sconosciuto che guardandomi dall’alto della sua statura mi domandò: «E tu chi sei?». Dopo aver risposto con il mio nome, il motivo per cui mi trovavo a Roma e l’incarico che mi era appena stato affidato, il frate con aria molto seria aggiunse: «Questa è l’ultima occasione che Dio ti dà per convertirti». Sinceramente spero che non sia l’ultima occasione, ma rimane pur vero che la Terra Santa costituisce una grande opportunità di conversione.

Oggi, forse, questo aspetto del pellegrinaggio rischia di passare in secondo piano. Si parte per la Terra Santa con il desiderio di vedere i luoghi e di ripercorrere la geografia sacra senza affrontare, in tutta onestà, grandi sacrifici o penitenze. Ma è possibile, tra le tante comodità che le moderne forme di viaggio consentono, recuperare la dimensione fondamentale del pellegrinaggio come «cammino di conversione»? A partire dalla mia personale esperienza intravedo una positiva risposta nella figura di Zaccheo.

Nel venire a sapere che Gesù passava da Gerico, quest’uomo basso di statura e peccatore pubblico, desiderando vedere Gesù si ingegna per superare le difficoltà oggettive e sale su una pianta di sicomoro.

Voleva vedere Gesù, ma, come ricorda sant’Agostino, «fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto».

Nell’esperienza giudaica tre volte all’anno tutti gli ebrei maschi dovevano compiere la «salita a Gerusalemme» (’aliyah) «non solo per vedere Dio, ma anche per essere visti dal Signore» (F. Manns, Terra Santa sacramento della fede, Edizioni Terra Santa 2015). In Terra Santa, ancora oggi, si può fare l’esperienza «graziosa» di uno sguardo amorevole che si posa sulla nostra vita.

Qualche anno fa, a causa dell’annullamento di un precedente viaggio in un Paese esotico, un uomo si era iscritto all’ultimo momento a un pellegrinaggio organizzato dal Commissariato, perché desideroso di visitare luoghi mediorientali. Erano quarant’anni che non metteva piede in una chiesa, dal giorno delle nozze, e aveva vissuto, pur comportandosi bene e in maniera onesta, come se Dio non esistesse.

Dopo qualche giorno di cammino si avvicinò chiedendomi un colloquio personale. Non sapeva perché, ma luogo dopo luogo, santuario dopo santuario, cresceva in lui un desiderio grande di comunicarsi e mi confidava che non poteva farlo perché convinto di non potersi confessare né ricevere l’assoluzione.

Nello scoprire che poteva ricevere il perdono di Dio non riuscì a trattenere la commozione e le lacrime. Lo stesso avvenne il giorno seguente durante la santa Messa al memoriale di san Pietro a Cafarnao, dove ricevette la comunione. Nel luogo dove Gesù aveva promesso il pane vero, quello disceso dal Cielo che dà la vita eterna, quell’uomo si è sentito dire, al pari di Zaccheo, «oggi devo fermarmi a casa tua» (Luca 19, 5) e lo ha accolto pieno di gioia nell’Eucaristia. La conversione non nasce dalla paura di un castigo né da uno sforzo morale. Il cambiamento del nostro cuore avviene sempre quando ci scopriamo amati gratuitamente, quando lo sguardo misericordioso di Gesù si posa sulla nostra vita... Allora, e solo allora, la conversione, cioè il cambiamento di vita («Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»), ne scaturisce come conseguenza.

Ancora oggi possiamo recuperare nel pellegrinaggio il «cammino di conversione» di cui tutti abbiamo bisogno, senza necessariamente indossare l’abito del penitente e affrontare particolari disagi. Partiamo, dunque, con il desiderio di vedere, ma anche di essere visti dal Signore. Docili allo Spirito scopriremo che Gesù ci guarda, ci parla e ci ama attraverso i Luoghi Santi, nella Parola, nella preghiera, negli incontri con le «pietre vive» e attraverso il volto di coloro che camminano con noi.

http://www.terrasanta.net/tsx/lang/it/p11479/Fu-visto-e-vide

martedì 2 aprile 2019

Quando gli americani definirono Daesh un "vantaggio strategico": la Guerra delle Ombre in Siria


di Ian Hamel

  trad. Gb.P. OraproSiria

Gli Stati Uniti e l'Europa non hanno sempre considerato Daesh un nemico. Al contrario, l'hanno ampiamente finanziato e armato, dice il giornalista indipendente Maxime Chaix ne "La guerra dell'ombra in Siria" , frutto di cinque anni di ricerche.
Maxime Chaix, traduttore di diversi libri del canadese Peter Dale Scott, autore di «The American War Machine»), non è affatto un complottista. A partire da fonti aperte, egli racconta che gli americani e i sauditi, nella loro ossessione di voler abbattere rapidamente Bashar al-Assad, hanno ampiamente aiutato i jihadisti in Siria già dal 2011. Per ingannare l'opinione pubblica, hanno battezzato «ribelli moderati» il Fronte al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaeda. Daesh nacque nel 2013 da una scissione del Fronte al-Nusra. Fu solo molto più tardi, consci di aver favorito un mostro, che gli Occidentali dichiararono guerra allo Stato islamico, proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi.
L'11 febbraio 2015, l'ex comandante della NATO, il generale Wesley Clark, spiega tranquillamente alla CNN, e quindi a milioni di telespettatori, che «Daesh [è stato] creato attraverso il finanziamento dei nostri amici e alleati [in Medio Oriente], perché ti diranno che se vuoi uomini che combattano Hezbollah [sciita] fino alla morte, non pubblicherai un manifesto di reclutamento del genere ... "Unisciti ai nostri ranghi, costruiremo un mondo migliore", preferirai piuttosto sostenere [in segreto] questi fanatici religiosi, questi fondamentalisti [sunniti]».
Un miliardo di dollari all'anno
Nell'ottobre 2011, Barack Obama autorizza David Petraeus, il direttore della CIA, a lanciare una guerra segreta in Siria, chiamata Timber Sycamore , coinvolgendo altri quindici servizi speciali, tra cui servizi europei, in particolare inglesi e francesi. «Nel corso degli anni, questa campagna è cresciuta a tal punto che il Washington Post l'ha descritta nel giugno 2015 come "una delle più grandi operazioni clandestine" nella storia della CIA, con un finanziamento quasi pari a un miliardo di dollari l'anno» scrive Maxime Chaix, le cui informazioni sono tutte corroborate da una moltitudine di note a piè di pagina.
Un'enorme rete di rifornimenti di armi destinate ai ribelli viene così creata da David Petraeus e poi dal suo successore a capo della CIA, John Brennan, "in coordinamento con i loro alleati turchi, petromonarchie, europei e israeliani". Il che fa affermare a Christopher Davidson, che ha condotto ricerche su Timber Sycamore , nel suo libro "Shadow Wars", che «Daesh non era considerato un nemico dall'ufficio di Obama e dai suoi principali partner, ma come un turbolento "vantaggio strategico"».
Al Qaeda ha fatto «un buon lavoro»
«La guerra dell'ombra in Siria» non risparmia neanche le grandi potenze europee. Il libro riporta che i servizi britannici dalla loro base militare a Cipro controllano i movimenti delle truppe siriane e ne informano i ribelli. Quanto a Laurent Fabius, allora Ministro degli Affari Esteri, non esita a dichiarare che il Fronte Al-Nusra fa «un buon lavoro». E si tratta del ramo di al-Qaeda nel Levante! La scissione tra Al-Nusra e Daesh ha avuto luogo nella primavera del 2013. Il fronte di Al-Nusra è stato ribattezzato Jabbat Fateh al-Sham nel luglio 2016, e Hayat Tahrir al-Sham nel gennaio 2017.
Nel dicembre 2015, il deputato di LR Alain Marsaud, ex giudice antiterrorismo, intervistato in questo libro, ricorda di aver avuto «l'opportunità di mostrare all'Assemblea Nazionale le foto di combattenti di Al-Nusra in possesso di fucili d'assalto francesi». Quanto al deputato socialista Gerard Bapt, riconosce che gli aiuti francesi ai ribelli in questo paese «e più in generale il sostegno occidentale a loro favore, sono continuati anche dopo gli attentati contro Charlie Hebdo e l'Hyper Kosher, benchè rivendicati da al-Qaeda».
«La guerra delle ombre in Siria» è tanto più intrigante perché il suo autore non risparmia il regime siriano. Ricorda che Bashar al-Assad ha anch'egli un'innegabile responsabilità nella crescita dell'islamismo in Medio Oriente «specialmente dopo l'invasione dell'Iraq condotta dagli Stati Uniti nel 2003». Maxime Chaix ricorda anche che in un'altra epoca la CIA ha subappaltato ai suoi partner siriani la detenzione extragiudiziale e la tortura dei sospetti jihadisti dopo averli rapiti illegalmente.

(*) Maxime Chaix, «La guerre de l’ombre en Syrie. Cia, pétrodollars et djihad» , Eric Bonnier Editions, febbraio 2019.

domenica 31 marzo 2019

Padre Frans, ucciso cinque anni fa in Siria, potrebbe essere beatificato

Gesuita e siriano, padre Ziad Hilal pubblica un libro sulla sua vita durante questi otto anni di guerra: Homs, l'ostinata speranza (1).
In questo libro, che concorre al premio di L' Œuvre d’Orient , rende omaggio alle numerose vittime siriane, così come a padre Frans Van der Lugt, assassinato a Homs il 7 aprile 2014.




di Anne-Bénédicte Hoffner 
La Croix ,  27/03/2019 
trad: OraproSiria

La Croix: Perché intitolare il suo libro dedicato alla vita di tutti i giorni durante la guerra in Siria, sulla speranza?
Padre Ziad Hilal: Se noi stessi non abbiamo potuto vederne il frutto, speriamo che il lavoro che abbiamo già avviato sull'educazione alla pace e alla riconciliazione, alla purificazione della memoria, permetta alle nuove generazioni di vivere cose belle. Era già la preghiera del salmista: "Mostra la tua opera ai tuoi servi, il tuo splendore sia sui loro figli!  Conferma l'opera delle nostre mani "(Sal 89). È fondamentale mettere questa speranza per la Siria al centro di ciò che stiamo facendo.

Come scrivere di questo orribile conflitto che sconvolge il suo paese da otto lunghi anni?
ZH: Ognuno dei trenta capitoli racconta una storia che ho vissuto con altri. Tutto il mio lavoro per questo libro è cercare di rintracciare ciò che la stampa non può mostrare, per descrivere ciò che noi - gesuiti, cristiani, musulmani siriani di Homs - abbiamo vissuto durante l'assedio della città e durante la guerra .
Descrivo la realtà: le nostre sofferenze, le nostre gioie, il nostro isolamento, come mangiavamo, il modo in cui cercavamo l'acqua, l'energia elettrica, e anche come noi cerchiamo fin dall'inizio della guerra di rispondere sia all'emergenza umanitaria che all'immenso bisogno di educazione. Mostro il ruolo e la forza della Chiesa, le Chiese cristiane, per aiutare il popolo siriano. Non vogliamo che la nuova generazione sia una generazione di guerra ma una generazione di pace: per questo, ora dobbiamo combattere il fondamentalismo religioso e l'incitamento all'odio.

Il 7 aprile, saranno passati cinque anni da quando il vostro confratello, il gesuita Frans Van der Lugt, fu assassinato nel giardino della comunità di Homs. Che ruolo ha giocato durante questa crisi?
ZH: Padre Frans era profondamente un uomo di pace e riconciliazione. È grazie a lui che la nostra casa ha ospitato famiglie cristiane e musulmane, illustrando l'unità del paese. Riuscì a trasformarlo in una sorta di oasi fiorita in un mondo di violenza e distruzione.
Come sacerdote e psicoanalista, ha ascoltato le persone come persone, con la preoccupazione di aiutarle a superare i traumi della guerra. Quando fu assassinato, ci furono reazioni da parte di tutta la società civile siriana. È molto raro che musulmani, cattolici e cristiani ortodossi si trovino attorno alla stessa figura: questo è stato il suo caso. È un martire non solo cristiano ma siriano!

In che modo la Compagnia di Gesù celebrerà la sua eredità?
ZH: All'inizio di aprile, una piccola delegazione tra cui il Padre Generale, padre Arturo Sosa, il suo assistente generale che era il nostro provinciale in Siria quando il padre Frans fu assassinato, e il postulatore della sua causa di beatificazione, Don Pascual Cebollada se recherà a Homs. Secondo le regole della Chiesa, è necessario attendere cinque anni dopo la morte di una persona prima di presentare la sua causa: è ora di iniziare.
Da parte mia, io sarò in Germania con i rifugiati siriani di tutte le religioni che desiderano anch'essi rendere omaggio al padre Frans. Vogliono organizzare un'escursione di due giorni nella natura, come quelle che il padre Frans aveva l'abitudine di organizzare con loro per scoprire il paese e favorire l'unità fra le comunità. Celebreremo anche la Messa, in comunione con i nostri fratelli di Homs.

Come ha accolto la notizia della caduta dello Stato islamico a Baghouz, nel nord della Siria? È questa la fine del conflitto?
ZH: Siamo un po' più tranquilli dopo la sconfitta di Daech: il gruppo di fanatici che voleva imporre il suo modo di vivere, di vestirsi, di mangiare a tutta la popolazione siriana ha provocato il caos. Dividere il mondo in credenti e infedeli, questo è il metodo di Daech, ed è anche il nostro incubo in Siria.
Ma sappiamo anche che la sconfitta militare non fa sparire questa idea nelle menti delle persone. Le persone che ne facevano parte, così come quelle che sono vicine ad Al Qaeda, continuano a pensare che quelli che non la pensano come loro non meritano di vivere. Il lavoro rimane immenso!
Per quanto riguarda padre Paolo Dall'Oglio e gli altri ostaggi, non ho notizie e questo mi preoccupa. Ora la faccenda è nelle mani di curdi e americani.

(1Homs, l’espérance obstinée. Avec François-Xavier Maigre, préface de Mgr Pascal Gollnisch. Bayard, 301 p., 17,90 €


https://www.la-croix.com/Religion/Catholicisme/Monde/Le-pere-Frans-assassine-cinq-ans-Syrie-pourrait-etre-beatifie-2019-03-27-1201011628

giovedì 28 marzo 2019

Sui terroristi che ancora infestano la Siria e sui Curdi che continuano a tradire il popolo siriano.


L’autunno scorso, durante il mio soggiorno a Latakia ho incontrato tante persone e tutte avevano in comune un’urgenza incredibile di raccontare e di essere ascoltate da me che tornavo da lontano. Storie dure di sofferenze, di spaventi, di sgomento, di perdite strazianti, di vuoti incolmabili. Aprivo la porta al mio o alla mia ospite e, dopo un abbraccio silenzioso e talvolta ancora prima di andare a sederci, iniziava la narrazione incontenibile degli anni trascorsi dentro questa guerra spietata. Altre volte, occorreva una tazza di caffè e un ‘’ci sei mancata’’ o ‘’ sei tornata per restare, vero?’’ o qualche altra frase di preambolo o un cenno di pianto subito placato o una risata complice per una qualunque sciocchezza o un attimo di raccoglimento come per riunire le forze e dare il via alle storie che avevano bisogno di essere confidate. Storie personali o familiari difficili, dolorose, malinconiche, tragiche e in qualche caso con risvolti un po’ tragicomici. Come la vita. Vorrei scrivere di tutti questi incontri, ma ancora non ci riesco. È difficile staccarmi dalla moltitudine di gesti, sensazioni, emozioni, fremiti e silenzi, talvolta più intensi delle parole, in cui mi sento immersa. Ma posso dire che tutte le storie individuali, uniche, che ho ascoltato hanno tratti comuni come l’ammissione, talvolta espressa con energia e talvolta sussurrata con difficoltà, del terrore provato quando i terroristi si trovavano a pochi chilometri da Latakia, il sollievo palpabile per il pericolo scongiurato e l’ira, invece quasi urlata da tutte e da tutti per essere stati traditi dai Curdi favoreggiatori di Israele e dell’America. Tratti comuni che ho ritrovato nel breve scritto che segue - di Lilly Martin Sahiounie, una signora statunitense che vive a in Siria da quasi trent’anni - così come la solitudine che opprime tutti. Tremo, mentre scrivo queste parole, perché mi riportano verso la sensazione tristissima che provavo costantemente nel constatare quanto si sentissero traditi, inascoltati e soli. Ignorati dal mondo. Lo capivo non per il biasimo, raramente e sommessamente espresso, ma per la gioia grata verso chi per il solo fatto di tornare da quel mondo lontano attestava la loro esistenza, il loro travaglio, ma sopra ogni cosa la loro dignità. Dedico queste righe a tutte le persone che ho incontrato a Latakia e a quelle che non ho potuto incontrare. E dico alla cara Lilly che dopo il nostro lungo abbraccio mi ha ingiunto: ‘’Prima parlo io, poi mi racconterai di te’’: alla prossima volta, per ascoltarti parlare più a lungo, ma intanto continua a offrirci le tue preziose testimonianze.
   Maria Antonietta Carta



Aggiornamento dalla Siria, 27 marzo 2019.  Di Lilly Martin Sahiounie

I media di tutto il mondo sono pieni di articoli che gridano: “L’ISIS È SCONFITTO". Devo ammettere che per quanto mi concerne, l’Isis non è mai stata la preoccupazione principale, poiché nella regione in cui vivo non è mai arrivata e quindi non ho mai sofferto direttamente per causa loro. I video con teste mozzate erano sempre un evento "lontano" e non vi ho prestato un’attenzione eccessiva. 
La mia casa è stata distrutta nel 2014 e i miei vicini sono stati massacrati, rapiti e violentati. Tre chiese bruciate, fabbriche, aziende e case saccheggiate e poi distrutte. Niente di tutto ciò è stato fatto dall’ISIS nella mia zona. Qui, da 2011 fino al 2019, tutte le distruzioni e i crimini sono stati rigorosamente perpetrati dall'Esercito Siriano Libero e dai loro affiliati di Al Qaeda: Jabhat al Nusra e il resto delle milizie appoggiate dagli Stati Uniti. 
È vero che alcuni di quei terroristi alla fine si sono uniti all'ISIS, ma mentre stavano uccidendo qui non erano ISIS. Cosa rappresenta un nome? Talvolta non tanto. I LAKERS o i CELTICS sono nomi diversi, eppure sono tutti giocatori di basket indipendentemente dall'uniforme che indossano. Lo stesso può dirsi dei terroristi: sono tutti tagliati nella stessa stoffa. Ho sofferto e i miei vicini, amici e parenti hanno sofferto durante otto anni di guerra, eppure non siamo stati colpiti dall’ISIS. I media a livello globale stanno sbandierando il fatto che ISIS è finito. OK, buono a sapersi, ma quando ci sbarazzeremo dei terroristi che ancora detengono il controllo di terre siriane? Dove sono i media e le proteste dei governi per Idlib controllata da terroristi assetati di sangue, che detengono due milioni di civili come ostaggi? Nessuno ne parla. Dov'è la protesta globale per i terroristi sponsorizzati dagli Stati Uniti e l'SDF, che detengono una gran parte del territorio nord-orientale della Siria? Quelli dell'SDF hanno stuprato, mutilato, ucciso e scacciato dalle loro case migliaia di persone, mentre marciavano incoraggiati dal sostegno dell'esercito degli Stati Uniti e mentre facevano pulizia etnica contro tutti i Siriani che non sono nati Curdi.  Immaginate i bianchi degli Stati Uniti che, marciando attraverso l'Alabama, costringano tutti gli abitanti neri a lasciare le loro case. Questa è la situazione in Siria. Ma non importa a nessuno perché sono gli USA a sostenere i criminali terroristi della SDF. 
In conclusione: è una buona cosa che ISIS non conservi più territori siriani, ma non possiamo dimenticare le due zone controllate da altri terroristi: Idlib e la regione nord-orientale. E voglio dire che non esiste nessun Kurdistan. I Curdi siriani sono cittadini siriani e hanno gli stessi diritti dei vicini di casa che loro hanno stuprato, mutilato e ucciso. La Siria non sarà divisa. Dato che alla SDF non piace vivere in pace e nel rispetto di tutti i diritti per tutti, anche nel rispetto del diritto di proprietà per chi non è Curdo, forse è giunto il momento che lo "Zio Donald Trump" li trasferisca negli Stati Uniti dove potranno ritagliarsi una Patria tutta per sé.
  Trad. Maria Antonietta Carta

martedì 26 marzo 2019

Daesh. I figli e le spose del nemico

di Marina Corradi

Ha un viso giovane, ma già provato da tutta la morte passata sotto ai suoi occhi neri. Nesrin Abdullah è la portavoce delle unità combattenti curde femminili. È un ufficiale e come tante compagne ha aspramente combattuto, eppure quando incontra, nelle terre appena riconquistate al Daesh-Isis, un inviato del 'Corsera', per prima cosa non parla della vittoria, ma del destino di duemila bambini. I lettori di 'Avvenire' già sanno che anche questa storia minore e straziante (ne abbiamo cominciato a dare conto nella primavera di un anno fa con il reportage di Federica Zoja: «Spose del Daesh, le nuove perseguitate»), si sta scrivendo sotto i troppo rari titoli concessi in Occidente a una guerra poco vista e ancor meno raccontata.
E ora Nasrin dice di duemila figli delle donne del Daesh, giovani madri che li hanno educati nel mito della guerra santa per il Califfato, e che continueranno a farlo, anche se con Baghuz l’ultima roccaforte degli jihadisti è caduta. Bambini di magari cinque anni, già addestrati a sacrificarsi in attentati suicidi. Bambini, però. E Nesrin Abdullah si domanda che cosa l’esercito curdo potrà fare ora di loro, e come sarà possibile separare da madri che educano nell’odio i figli piccolissimi. Duemila figli di ceceni, turchi, tunisini, francesi, e anche italiani, raccolti con le mamme tra le rovine di Baghuz. Che ne faremo, si chiede la donna soldato Abdullah, aggiungendo con angoscia: «Per noi, è come vedere un serpente crescere nel ventre di una madre ». Immagine tremenda, ma comprensibile nella ferocia della guerra siriana. La bandiera del Daesh è stata ammainata, però cellule scampate, come in una metastasi, potrebbero riorganizzarsi.
E quei duemila bambini cresceranno rapidamente. Non si capisce, dalle parole della militare curda, se prevalga verso i figli del nemico il timore, o un’apprensione anche materna: che sarà di loro, adesso? Di loro, e delle giovanissime madri, spesso adolescenti, indottrinate alla guerra santa dai loro uomini. Che forse ora sono morti o, comunque, si sono dileguati. Ma la guerra continua: i figli sono educati al sacrificio della vita. (Chissà, nel plagio, quanta violenza devono usare su se stesse queste madri, per insinuare l’idea della morte in un figlio che hanno messo al mondo e allattato, in un figlio che amano). In un regime dittatoriale, la risposta alla domanda di Nesrin Abdullah sarebbe semplice. In un regime dittatoriale i figli del nemico, sottratti alle madri, verrebbero rinchiusi in qualche istituto di rieducazione intensiva, dove accumulerebbero odio su odio.
Ma la giovane curda sembra porsi in un’altra prospettiva, se si chiede come separare i figli dalle madri, e che fare di queste donne giovanissime. Che l’Europa ci aiuti, dice al giornalista italiano. Come immaginando che l’Occidente offra asilo e rieducazione a bambini e madri, che accolga in sé il nido del nemico e riporti queste giovani vite nell’orbita della pace.
Che grande prova, pensi, sarebbe per un’Europa stanca, e avvilita in orizzonti ristretti. Ma, temi, ci vorrebbe un altro respiro, un altro coraggio, un’altra certezza di ciò che siamo e vogliamo essere. Che fine faranno dunque i bambini del Daesh e le loro madri ragazzine? Nelle rovine ancora fumanti del Califfato nero dubitiamo che siano considerati la prima emergenza dalle potenze interessate al destino della Siria. Forse solo perché sotto la tuta mimetica di quell’ufficiale c’è una donna, questo dramma almeno per un momento torna a emergere chiaro.
Perché gli uomini, nella storia, si sono sempre preoccupati di vincere le guerre, di annientare i nemici, di issare nuove bandiere sulle terre conquistate. Ma ci sono, dietro a una guerra intestina e feroce come quella siriana, altre guerre, che non si vincono con le armi, e sono le più ardue. Sono la ricomposizione delle lacerazioni nella popolazione, e dell’ansia di vendetta; la cura degli orfani, l’educazione della nuova generazione, l’unità da ritrovare. Una vittoria militare si raggiunge bombardando, piegando, annientando. Molto maggiore è la umana fatica per ricominciare, per tessere la pace. Uccidere è un attimo, tornare a far vivere richiede anni di pazienza e fiducia nel prossimo.
Per questo i duemila piccoli figli del Daesh sono una domanda grave non solo per i curdi e la regione siriana, ma anche per l’Occidente, del Califfato nero il grande nemico. Come recuperarli dall’odio in cui sono stati allattati? E che vittoria sarebbe, già impegnarsi in una tale impresa; vittoria senza schianti di bombe, né carri armati che sfilano trionfanti. Un’altra, sommessa vittoria. Non è cosa per eserciti. Per padri, invece, e madri, per uomini e donne miti e tenaci, che non issano bandiere su campi di battaglia annichiliti nel fuoco e nella polvere.

sabato 23 marzo 2019

Riflessioni quaresimali dai cristiani nelle catacombe siriane


Riflessioni di padre Hanna Jallouf, consegnate al S.I.R., che accompagneranno il cammino quaresimale verso la Pasqua.  Padre Hanna Jallouf è il parroco latino di Knayeh, villaggio siriano non distante proprio da Idlib. Francescano siriano della Custodia di Terra Santa, padre Hanna, 66 anni, è rimasto con il suo confratello Louai Bsharat a prendersi cura della sparuta comunità cristiana locale. Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono fuggiti dopo che molte chiese e luoghi di culto sono stati distrutti o bruciati. Lo stesso parroco fu rapito, nell’ottobre 2014, con altri suoi parrocchiani da un gruppo islamista e poi rilasciato. “Come agnelli in mezzo ai lupi”, dice ricordando le parole del Vangelo.

1  Mercoledì delle Ceneri
 La Quaresima è un tempo di grazia durante il quale prepararsi alla Pasqua. Un tempo privilegiato per guardarsi dentro e rifare i conti con noi stessi davanti al Signore. Così come un bravo contadino che fa i suoi conti alla fine dell’anno per vedere come è andato il raccolto.
 Questo tempo è basato su quattro colonne: digiuno, preghiera, carità e pentimento.
 Ma spesso siamo soliti ricordare solo la carità e dimenticare il digiuno, la preghiera e il pentimento. Il nostro essere ha bisogno di uscire dal quotidiano di tanto in tanto, per rinnovarsi e per riscoprire il suo valore. Ma non si può fare questo passo se non seguiamo le quattro colonne della Quaresima.
La Chiesa ha semplificato il digiuno affinché ogni cristiano scelga il modo di passare questo periodo, per arrivare alla Pasqua del Signore. Cerchiamo di scoprire questa strada grazie alla parola del Signore che ci viene offerta ogni Domenica nell’Eucarestia.
 Da noi, qui in Siria, tanti cristiani ancora osservano la vecchia forma del digiuno, cioè prendere un pasto al giorno. Senza carne, senza pesce, senza grassi, senza latte e formaggi. Solo erbe e cereali conditi con olio. Essi praticano tante forme di pietà religiosa per arrivare alla festa di Pasqua rinnovati umanamente e spiritualmente.
 Cerchiamo, dunque, di vivere questo tempo per riscoprire la nostra fede e la nostra dignità cristiana”.

2  Guardiamo al deserto di Gesù
 Il deserto è il luogo della prova secondo la Bibbia, in cui il popolo di Dio ha imparato a fidarsi del Signore. Il deserto è anche il luogo dei grandi prodigi di Dio, dove Egli ha unito a sé il suo popolo.
 Gesù fa l’esperienza del deserto, spinto dallo Spirito Santo, perché possa il deserto porre le basi della sua missione di salvezza e mostrare che il maligno va sconfitto attraverso la piena fedeltà al Padre e la totale donazione ai fratelli. In tale modo Cristo inaugura il cammino, che ogni uomo deve compiere, per tornare al Padre.
 Quaranta anni, quaranta giorni, sono un tempo di purificazione e di rinnovo per riscoprire la nostra dignità umana. Un tempo per rigettare tutta la polvere che è stata accumulata durante il nostro cammino verso il Signore.
 Gesù esce vittorioso da questa prova, è perciò è modello e speranza anche per le molte tentazioni che la vita di ogni uomo incontra.
 In questo tempo particolare orientiamo il nostro cuore alla sobrietà, all’essenziale, al primato di Dio e alla sua parola, alla ricerca di ciò che realmente è necessario, guardando al nostro modello Gesù che nel deserto ha orientato il suo cuore.

3  All'improvviso una schiarita e si intravede la destinazione
 La Quaresima che abbiamo iniziato è un cammino diretto verso un avvenire di luce. Quando camminiamo per una strada, nel fondo di una valle, sotto il cielo piovoso, ci capita di non vedere più la mèta della nostra direzione. All’improvviso una cima, una schiarita: di nuovo riusciamo ad intravedere la destinazione. Abbiamo ritrovato l’orientamento. Ritorna il coraggio ed è possibile riprendere il cammino.
 Impegnati nel quotidiano della vita, abbiamo riconosciuto mediante la fede, che la vita può condurci a Dio, ma a volte le difficoltà ci sovrastano, ci sentiamo disperati.
 Allora ecco la trasfigurazione illumina la nostra via e la nostra vita. La trasfigurazione non è uno spettacolo a cui si è invitati ad assistere, ma una esperienza mistica che non si coglie con gli occhi della carne, dei sensi, ma con lo sguardo della fede. Mosè ed Elia sono lì a rassegnare le loro dimissioni e per di più ad accettare lo sfocio conclusivo del disegno di Dio, che si apre nel paese di Canaan, ma si chiude nel mondo della Resurrezione. Gesù si trasfigura, per dirci che in Lui sono compiute tutte le profezie e le leggi, e la sua resurrezione illumina la nostra strada nel mondo.
 Lo scandalo della croce diventa, trono e mèta di salvezza.
 Nella mia parrocchia, durante la Quaresima, prima di iniziare la Via Crucis, con la benedizione si recitano i salmi penitenziali. Si conclude la messa della reliquia della Santa Croce, in cui si dice: “La grazia del Signore sia sempre con voi. Il ricordo della Sua passione rimanga nei vostri cuori e il segno della Sua Croce vi protegga da ogni male, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”.

4  Quaresima: liberare il mondo dal potere del terrorismo
 Le letture di questa domenica ci parlano della necessità di convertirsi per non perire e portare frutti di bene nel mondo. Questi frutti hanno all’origine la chiamata divina, che ci chiede di cambiare il nostro cuore e di aprirlo al suo messaggio di salvezza per essere, nel luogo in cui Egli ci manda, suoi messaggeri. L’esempio ci viene da Mosè, il quale conduceva una vita tranquilla, quando Dio entra nella sua esistenza e gli affida una missione “impossibile”: Liberare Israele.
 Mosè, davanti al roveto che non si consuma, è il simbolo dell’uomo davanti alla trascendenza di Dio, e il simbolo dell’accettazione umile della chiamata divina a compiere una missione.
Davanti a questa visione, Mosè deve restare scalzo; il terreno su cui cammina è sacro, è in presenza del Santo del santi. E tale presenza richiede purezza, incontaminazione.
 Nulla di ciò che può condurre alla morte può esserci in chi è chiamato da Dio, altrimenti la sua missione rischia di fallire, di diventare vana. Tale purezza è essenziale per fare trasparire Dio; perché in ogni opera condotta nel nome di Dio, è lui che deve essere riconosciuto e non l’uomo.
 Anche noi oggi come cristiani, siamo chiamati ad una grande missione “impossibile”, liberare il mondo dal potere del male, dal potere del terrorismo, che aumenta giorno dopo giorno.
 La strada inizia da noi stessi, cioè ritornare all’origine della nostra credenza in Cristo Gesù unico Salvatore, combattere il male con il bene e non con le armi, combattere il male con il buon esempio.
Un giorno, un integralista musulmano, parlando con lui, mi disse: “Voi cristiani, vero che non avete portato armi contro di noi, ma ci avete ucciso con il vostro amore e con la vostra carità”.

Padre Hanna,  parroco latino di Knayeh-Siria