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martedì 8 gennaio 2019

Trump ritratta la sua promessa di ritiro mentre Al Qaeda fa progressi in Siria

Militanti di al-Qaeda calpestano la bandiera  del "moderato Esercito Siriano Libero" dopo aver sconfitto i suoi combattenti nel nord della Siria.
di Elijah J. Magnier - ejmalrai
Il fronte di Al-Nusra - al-Qaeda ribattezzato come HTS (Hay'at Tahrir al-Sham) - sta espandendo la sua influenza e il controllo militare su intere città e villaggi siriani nella parte settentrionale e occidentale di Aleppo. Abu Mohammad al-Joulani, l'ex-ISIS (il gruppo terroristico dello Stato islamico) Emiro della Siria e l'auto proclamato emiro di al-Qaeda nel Levante, ordina alle sue forze di spostarsi verso Idlib e la sua area rurale, principalmente contro le città di Ariha, Jabal al-Zawiya e Maarrat al-No'man. Il suo obiettivo è quello di completare il controllo da parte dei suoi jihadisti dell'intera area definita nei colloqui di Astana - Russia e Turchia - dove è stato istituito un cessate il fuoco lo scorso anno per fermare l'avanzata dell'esercito siriano per recuperare il territorio settentrionale. Idlib e i suoi dintorni sono oggi il luogo in cui si riuniscono il maggior numero di jihadisti mai riuniti in un'unica area geografica del Medio Oriente. Sono armati con le armi statunitensi più avanzate, in particolare i missili TOW anticarro e i droni armati, insieme a centinaia di kamikaze pronti a combattere e morire.
Fino ad ora, Joulani è riuscito a sciogliere più di 14 gruppi armati siriani, descritti dall'Occidente come "moderati". Questi gruppi sono stati finanziati e equipaggiati dalla Turchia, le cui forze non hanno reagito finora e hanno permesso al gruppo di Joulani di consolidare il potere. La politica della Turchia potrebbe compromettere l'accordo di Astana, che mira a eliminare la presenza e la forza dei jihadisti nel nord della Siria.
Nel frattempo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump - che ha affermato che l'ISIS è già sconfitto e che in Siria "c'è solo la morte e la sabbia" - e il suo establishment stanno facendo dietrofront dal piano annunciato precedentemente di ritiro dalla Siria: il consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente John Bolton ha detto domenica che gli Stati Uniti prenderanno in considerazione la possibilità di ritirarsi quando l'ISIS sarà sconfitto e la Turchia garantirà la sicurezza dei combattenti curdi alleati degli Stati Uniti. Trump è consapevole che l'ISIS si trova in soli 3 o 4 villaggi oggi lungo l'est del fiume Eufrate, sul fronte di DeirEzzour-al Qaem. È chiaro che l'establishment statunitense sta esercitando pressioni sul presidente inesperto per rallentare il ritiro dalla Siria. Ma ci sono ulteriori argomenti non dichiarati per questo improvviso cambiamento di programma.


In primo luogo, dal punto di vista militare e geopolitico, gli Stati Uniti hanno molto da perdere nel tirarsi fuori dal Levante. La loro presenza sta effettivamente infastidendo l'Iran e i suoi alleati e sta disturbando Russia, Siria e Iraq che considerano le forze di Washington una continua fonte di guai. Gli Stati Uniti non sembrano disposti a vedere la fine dell'ISIS, un gruppo che Israele ha ripetutamente affermato che preferirebbe vedere al controllo della Siria. La presenza di forze di occupazione statunitensi nel nord-est della Siria è considerata una piattaforma per continuare a esercitare l'egemonia statunitense sul Medio Oriente; la presenza degli Stati Uniti è, dal punto di vista di Israele, una benvenuta fonte di frizioni tra due superpotenze che operano nello stesso territorio in Siria.
In secondo luogo, il parlamento iracheno sta agitando di fronte a Trump la grave possibilità di ordinare alle forze americane di ritirarsi dall'Iraq. Trump ha innescato la reazione irachena respingendo il protocollo e rifiutando di incontrare il Primo Ministro, il Portavoce e il Presidente iracheno sul suolo iracheno durante la sua recente visita alla base irachena-statunitense ad Ayn al-Assad ad Anbar, in Iraq.  Se l'Iraq spinge le forze americane fuori dalla Mesopotamia, queste saranno completamente fuori dal Levante anche - se Trump adempie alle sue promesse di ritirarsi tra i 30 giorni e i quattro mesi - a scapito degli interessi USA-Israele in Medio Oriente.
In terzo luogo, non si può escludere che le nuove conquiste di al-Qaeda in Siria possano offrire un ulteriore pretesto affinché l'establishment statunitense rallenti o addirittura respinga l'idea di un ritiro dalla Siria. L'accordo Astana tra Russia e Turchia e Iran aveva bloccato qualsiasi attacco alla città e all'area rurale di Idlib in un momento in cui l'establishment statunitense era pronto a bombardare l'esercito siriano con il falso pretesto che Damasco intendesse usare armi chimiche nella zona. L'accordo di Astana ha tolto ogni possibilità agli Stati Uniti di essere un giocatore attivo in Siria. Inoltre, l'incontro a Mosca il mese scorso tra Russia e Turchia ha portato ad un accordo per congelare qualsiasi avanzata turca verso l'area di Manbij, consentendo all'esercito siriano di prendere posizione nella zona e ai curdi YPG di ritirare le proprie forze, col dispiacere di Washington. Ciò ha anche disturbato i piani di Washington di vedere le forze di Ankara (non di Damasco) sostituire le forze di occupazione statunitensi dopo la loro partenza. La presenza degli Stati Uniti nel nord-est della Siria stava rapidamente diventando priva di significato.
Un nuovo sviluppo si è quindi imposto sulla geopolitica siriana. Il ribattezzato Al-Qaeda in the Levant (HTS), insieme ai suoi combattenti stranieri, ha preso il controllo della linea di demarcazione stabilita ad Astana tra Turchia e Russia. Ciò conferisce alle forze russe e siriane la legittimità di bombardare l'area controllata di al-Qaeda e di ignorare l'accordo di Astana. La Turchia, nel frattempo, non sta interferendo negli eventi della scorsa settimana e sembra non voler finire i jihadisti come in precedenza aveva acconsentito a fare nelle discussioni con la Russia.
Oggi al-Qaeda sta eliminando molti degli alleati della Turchia e quelli che sono stati finanziati, armati e addestrati dagli Stati Uniti. Tuttavia, se la Siria e la Russia manterranno il loro piano iniziale per attaccare Idlib, gli Stati Uniti troveranno una nuova opportunità per bombardare l'esercito siriano e per intervenire e interrompere il piano di Mosca che mira a porre fine alla guerra siriana.
Il bottino di guerra di Al-Qaeda: un equipaggiamento
dell'esercito turco sequestrato
durante la battaglia contro Zinki in Siria
Il controllo di Al-Qaeda sulla linea di demarcazione provocherà - senza dubbio - uno scontro con l'esercito siriano. 
Al-Qaeda probabilmente bombarderà Aleppo per affermare che sta facendo rivivere la rivoluzione siriana e respingendo ogni accordo con Damasco. 
Abu Mohammad al-Joulani, l'ex emiro dell'ISIS e leader di HTS, afferma che il presidente Erdogan della Turchia è "Kafer" (un miscredente), e che quindi nessuna forza potrebbe combattere sotto la bandiera turca anche se la presenza turca in Siria sta permettendo al potere di Joulani di crescere mentre la Turchia offre le necessarie linee logistiche e di approvvigionamento al suo gruppo.
Tra i comandanti Joulani, c'erano (e molti sono ancora attivi) - per nominarne alcuni - il libico Abu Usama (ufficiale Intel in Idlib), i giordani Sami al-Aridi (studioso e leader religioso), Abu Julayleb (emiro di Lattakia), Abu Hussein (emiro di Idlib), Abu al-Yaman (capo dell '"esercito"), Abu Hafas (ufficiale di intelligence), gli egiziani Abu al-Yaqzan (affari religiosi), Abu Abdallah (affari religiosi Lattakia), e i tunisini Abu Omar (Giustizia e affari religiosi), Abu Haidara (affari religiosi Idlib). Migliaia di combattenti stranieri combattono tra le sue fila e altri si sono spostati verso Hurras al-Deen (HAD) e Jabhat Ansar al-Deen (JAD), una versione più radicale di HTS. Oggi al-Joulani sta fornendo una perfetta giustificazione per le forze di occupazione statunitensi a rimanere in Siria, in attesa di ulteriori sviluppi, e possibilmente un rimescolamento del potere sul terreno.
L'ISIS non è più una minaccia per gli Stati Uniti. Di fatto, oggi detiene Al-Susah, Morashida, Safafina e al-Shajlah, tutti sotto la protezione delle forze statunitensi. Pertanto, il gruppo terroristico non rappresenta una ragione per Trump per continuare a occupare il territorio siriano. Inoltre, Bolton chiede alla Turchia di offrire garanzie per proteggere i curdi YPG, il ramo siriano del PKK, il nemico giurato della Turchia e un gruppo sulla lista dei terroristi del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
Bolton chiede fondamentalmente alla Turchia l'impossibile, mostrando la debolezza di un presidente la cui amministrazione lo costringe a ritrattare continuamente le sue promesse. Le intenzioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria non corrispondono alla risposta positiva evocata dalla promessa iniziale di Trump di ritirare le truppe statunitensi, anche se la Russia, l'Iran e la Siria non gli hanno mai creduto. Tuttavia, Damasco ritiene che sia tempo che i curdi scelgano la loro parte e abbandonino la loro protezione degli Stati Uniti per forzare la loro partenza anticipata.

lunedì 7 gennaio 2019

«Non dimenticheremo mai i crimini degli "Emirati" contro la Siria»


  Parole fiere, potenti, sofferte quelle che Khaled al-Abboud, segretario del Parlamento siriano, dedica ai governanti degli Emirati Arabi in occasione della riapertura della loro Ambasciata a Damasco.
  Parole di grande dignità, che bene illustrano la tragedia di un popolo ingiustamente aggredito, affamato, martoriato, oltraggiato, ma che neppure tanti anni di guerra atroce sono riusciti a spezzare.
  Parole severe e implacabili che fanno apparire evidente la pochezza morale di re, reucci e principi mediorientali indegni. Vili e servili.
  Parole che traducono la consapevolezza di come il duro cammino percorso dal popolo siriano e la sua lotta strenua contro la barbarie, per salvaguardare l'identità e l'indipendenza, possano essere esemplari e destabilizzanti per quei regni oscurantisti.
 Parole infine che denunciano l'ipocrita vuotaggine dei ridicoli cerimoniali diplomatici.
 La Siria, pur con difficoltà immani, con imperfezioni e manchevolezze resta un faro luminoso nello squallore di tanti Paesi arabi ''fratelli''.

  Maria Antonietta Carta


''L'Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti ha riaperto a Damasco dopo sette anni di sospensione delle relazioni diplomatiche con la Siria, apparentemente per "riattivare il ruolo arabo nella regione ed evitare il pericolo di interferenze regionali negli affari siriani ", secondo il ministero degli Esteri degli EAU.
Alcuni osservatori locali ritengono che non si sarebbe potuto raggiungere questo risultato senza il via libera dell'Arabia Saudita e degli Stati Uniti e che altri Paesi arabi seguiranno, rassegnati alla vittoria della Siria contro tutti gli agenti della coalizione del terrorismo internazionale. Altri evocano una corsa contro il tempo tra i due campi rivali, Turchia-Qatar e Arabia Saudita-Emirati, nel nord della Siria: entrambi notoriamente alleati degli Stati Uniti. Altri ancora si congratulano con la Siria per questa vittoria diplomatica e per la riunione di due Paesi fratelli, suscitando l'ira della larga maggioranza dei loro omologhi siriani che non capiscono come gli Emirati Arabi Uniti, coinvolti direttamente e indirettamente nella guerra terroristica che ha insanguinato la Siria, siano tornati sulla scena siriana con falsi pretesti e senza il minimo pentimento e la minima pubblica ammenda dei loro errori.
Senza soffermarsi sulle considerazioni degli uni e degli altri, Khaled al-Abboud, segretario del parlamento siriano, non meno preoccupato del tradimento dei cosiddetti Paesi fratelli, si esprime diversamente nella sua pagina ufficiale.'' 
Mouna Alno-Nakhal


Alla porta della "Ambasciata degli Emirati" a Damasco 

Prima di immergermi nel tran-tran delle pubbliche relazioni e nel protocollo di visite, dichiarazioni e sorrisi gelidi, prima di essere invitato a partecipare alla cerimonia organizzata dall'Ambasciata degli Emirati a Damasco, prima che le mie parole prendano in prestito lo zibaldone di un vocabolario insulso, prima di tutto ciò voglio garantire che non dimenticheremo.
Finché vivremo, non dimenticheremo ciò che gli "Emirati" hanno fatto contro la Siria e il suo popolo.
Non dimenticheremo il ruolo degli "Emirati" nella volontà di sopprimere la Siria. Non dimenticheremo che sono stati tra i principali attori dell'aggressione inaudita, che l'hanno finanziata e promossa. Né dimenticheremo come hanno sfigurato il nostro Paese, come hanno partecipato all'uccisione, all'esodo, alla pauperizzazione dei Siriani e come hanno contribuito all'immane devastazione che ci è stata inflitta.
Voi non avete riaperto la vostra Ambasciata a Damasco per favorire l'unità territoriale della Siria, ma per la difesa del vostro trono, scosso dalla sua resistenza, dalla resistenza della sua gente quando avete provato a cancellarla dalla faccia della Terra.
Voi non siete riusciti a prendervi gioco della realtà, perché siete molto più piccoli di quanto pensiate e più insignificanti di quanto pensa il mondo.
I Siriani non dimenticano di aver contribuito alla costruzione e alla protezione degli "Emirati" e di essere tra coloro che hanno sanguinato per farvi crescere. Voi non avete ricambiato rettamente ma, agendo in conformità con la vostra indole, avete operato per la sconfitta e la rovina della loro nazione.
I prossimi giorni ci imporranno qualche messinscena, senza pertanto evitare le conseguenze della nostra resilienza nei vostri confronti, per portarci a scambiare sorrisi e saluti e parole a cui non crediamo, come non crediamo in voi.
Parleremo a lungo di fraternità e di arabismo, consapevoli dei pugnali nascosti nelle vostre abbaye.
Parleremo del vostro sostegno alla Siria nella sua disgrazia, consapevoli che essa ha potuto compiersi mediante la vostra attitudine, il vostro contributo e il vostro odio sempre acceso.
A voi, insignificanti e servili, non diamo il benvenuto. 
Il sangue dei nostri martiri non tollera la vostra presenza, ma gli interessi della gente di Siria e della gente degli "Emirati" ci impongono di compiere la nostra vittoria su di voi, sulla vostra cupidigia e sul vostro odio attraverso la vostra Ambasciata, per i nostri popoli negli "Emirati" e a Damasco. 
Sì, un'Ambasciata per il popolo degli "Emirati" e non per i "regimi politici arabi" che sono stati una spada alzata contro Damasco quando l'universo si aggregava per bagnare di sangue e distruggere la Siria.
Khaled al-Abboud
Segretario del Parlamento siriano
27/12/2018

La fonte originale di questo articolo è il Parlamento siriano
Copyright © Khaled al-Abboud, Parlamento siriano, 2018

giovedì 3 gennaio 2019

La forza della civiltà. La rinascita di Damasco.

Storie siriane 2018 (5)
raccolte da Marinella Correggia 
L'Ordine.La Provincia , 16 dicembre 2018
«La nostra storia millenaria ci aiuterà». Fra mosaici da primato, beni archeologici da restaurare, energia fotovoltaica per la ricostruzione, e l’agricoltura che chiede pace
Trovare posto nel Guinness per aver realizzato il mosaico murale più grande al mondo con materiali di recupero merita vivi complimenti eco-artistici. Ma ecco il vero primato mondiale: gli artefici siriani di questa opera di 720 metri quadrati nel quartiere di al Mezzeh a Damasco hanno fatto tutto in piena guerra. Nelle strade damascene, dopo il 2013, fra tante esplosioni belliche sono nati sette lunghi mosaici, un caleidoscopio di colori, fantasia e speranza. Pezzi di piastrelle, tazzine rotte, bottiglie, tubi, ruote di bicicletta, pezzi metallici elettronici, chiavi e chiodi: scovati qui e là e portati in dono di cittadini. Arte partecipata.
«Nelle difficili condizioni in cui versava la città, abbiamo voluto offrire un sorriso e mostrare l'amore dei siriani per la vita, la creatività e l'arte. L'opera è iniziata nell'ottobre 2013 e a gennaio 2014 avevamo finito» spiega l'artista Moaffak Makhoul, coordinatore del lavoro. Maglietta e pantaloni neri, fa da guida nella biblioteca del museo di Damasco per l’educazione a sua volta ricca di pitture murali e arredata all’insegna del recupero. Anche bellico, in un certo senso: «In questi scaffali hanno trovato accoglienza libri profughi dalle scuole che sono state evacuate prima dell'arrivo di gruppi armati che le occuparono, a Muhadamya, Ghouta, Daraya».
Fuori dal silenzio bibliotecario, il traffico rumoroso e intenso provoca la una domanda: Come fanno i siriani a mantenersi l’automobile, dopo sette anni di guerra che hanno provocato inflazione e impoverimento? La giovane agronoma Dima Hassan – un po’ il nostro Viriglio, in Siria… - non ha l’auto e vive modestamente con il suo salario che con la svalutazione della lira siriana equivale a 30 euro, ma tenta questa risposta: «O hanno parenti all’estero, o fanno tre lavori, una situazione ormai comune qui, o stanno dando fondo ai risparmi di prima della guerra». Chi si esaspera per gli ingorghi pensa al progetto di metropolitana: «E’ vecchio di venti anni; è così difficile scavare? Si potrebbe affidare l’opera a Jaysh al Islam e agli altri mercenari che in pochi anni, trincerati nell’area di Ghouta orientale hanno scavato chilometri di tunnel per assicurarsi gli approvvigionamenti in armi e materiali!»
Davanti alla scuola d'arte Abdel Hader, vicina alla biblioteca, le due sorelle artiste Rajab e Safa Wabi siedono davanti a un alto muro decorato in rilievo. «Abbiamo iniziato, con diversi allievi, l'arte di strada nel 2011, contemporaneamente alla crisi poi sfociata nella guerra. E non abbiamo smesso nemmeno sulla testa del quartiere piovevano colpi di mortaio che provenivano provenienti dalle aree fuori Damasco in mano ai gruppi armati» spiega la sorella più giovane, mentre l'altra prosegue, allungando il braccio verso un vicino edificio: «Ecco, là cadde un missile. Lavorando per strada, non avevamo proprio nessun riparo! Ma il nostro lavoro attirava magneticamente tante persone, adulti e bambini, e questo ci era d’aiuto».
Si avvicinano zampettando due tortorelle, o forse sono, in piccolo e in marrone screziato di bordeaux, la versione damascena dei nostri piccioni. Le artiste indicano le colombe di sabbia e cemento posate sulla cima del muro: «Le abbiamo messe come simbolo di pace».
Una pace che non c'è ancora in Siria, dove tanti fronti si sono chiusi ma altri si sono riaperti. Di certo nelle aree maggiormente colpite dal conflitto, invece dei mosaici ci sono macerie. Per la ricostruzione post-bellica, un'opera titanica, si stima un costo di 470 miliardi di dollari. La macchina si è già messa in moto con la riabilitazione di edifici di pubblica utilità e di spazi privati, preceduta dalla rimozione delle macerie. La fondazione dell'Aga Khan sta già sostenendo il ripristino del patrimonio storico architettonico, a cominciare dall'enorme suq di Aleppo e di altri monumenti della Città vecchia.
Una buona notizia è che l'immensa quantità di macerie sarà in parte destinata al riciclo («sono già al lavoro, oltre alla macchina governativa siriana, i cinesi», assicura Mohamed Merie, traduttore siriano che viveva in Spagna e che decise di tornare nel suo paese nel 2014, nel pieno della crisi). 
L'immagine può contenere: 5 personeUn riutilizzo che fa il paio con un piccolo ma significativo progetto ad Aleppo. Il gruppo di volontari cristiani Maristi blu, fra i tanti progetti di riabilitazione ne ha uno chiamato Heart Made, che pratica l’up cycling senza chiamarlo così, come spiega uno dei responsabili del progetto, Leyla Antaki: «Ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. Poi con i ritagli, le maniche, i jeans facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle».
Sulla ricostruzione, la domanda è: chi pagherà per rimettere in piedi il paese? Chi ci guadagnerà? E’ drastico Juan, giovane artista di Damasco il cui padre è originario della zona di Afrin, colpita dai bombardamenti dei turchi: «Spero proprio che non diventi un business per i soliti che prima portano rovina e poi ci guadagnano... Io dico che i paesi occidentali, la Turchia, i monarchi del Golfo dovrebbero risarcire il popolo siriano! Hanno fomentato per dolo o per stupidità una guerra per procura, hanno sostenuto mercenari jihadisti… ». I danni peraltro sono molto superiori alla cifra stimata per ricostruire. Perché la perdita di vite umane e di parte del patrimonio storico architettonico e archeologico sono senza prezzo.
La guerra ha sconvolto il metodico e spesso oscuro lavoro di archeologi, restauratori e funzionari. Siti occupati, magazzini di reperti saccheggiati, musei danneggiati, personale che rischiava la vita. In una delle grandi stanze laboratorio del museo archeologico nazionale di Damasco, ingombro di casse di reperti, Rima Hawan, direttrice del dipartimento restauro, indica pezzi di statua provenienti da Palmira (Tadmor), sito patrimonio dell'umanità che per dieci mesi a cavallo fra il 2015 e il 2016 fu assediata dal sedicente Stato islamico (Isis, che nel mondo arabo musulmano non integralista è chiamato Daesh, in senso spregiativo): «La situazione era di assoluta emergenza». Si temeva la distruzione totale del sito, di fronte alle immagini orgogliosamente diffuse da Daesh, con le decapitazioni di statue e non solo: l’archeologo Khaled al Asaad, dopo una vita a Palmira a occuparsi del sito, pagò con la vita - sgozzato il 18 agosto 2015 a 83 anni - il rifiuto di rivelare i nascondigli dei reperti. 
 Il direttore del museo di Palmira Khalil al Hariri riuscì a fuggire all’ultimo momento, ma perse un fratello e un cugino oltre a vari amici. Si trova al museo di Damasco per seguire i progetti di restauro di alcune statue portate via in tempo e in modo fortunoso: «Ci colsero di sorpresa con la loro avanzata. Tutto sembrava essere più forte di noi, in quei giorni. Oltre al terrore, avevamo ben presente il saccheggio del patrimonio storico iracheno nel 2003...Ma siamo riusciti con fatica e pericoli a evacuare numerosi reperti, una specie di mission impossible» prima dell’arrivo dei moderni unni.
Alcune addette sono impegnate, su grandi registri e al computer, nella verifica minuziosa dei reperti. Najma è fra i restauratori che hanno lavorato a Palmira dopo la fuga di Daesh: «Ci sono opere totalmente distrutte, altre che stiamo cercando di recuperare, qui lavoriamo soprattutto sui volti.» Kawtar e Hiba spennellano una statua monca. Chi vi ha aiutati in questi anni di isolamento, e avete sempre a disposizione i materiali necessari? Rima sorride cautamente: «Gli archeologi sono una comunità mondiale. Gli esperti con i quali lavoravamo per studiare l'immenso patrimonio siriano, ci sono stati concretamente vicini Sempre».
L'immagine può contenere: una o più persone e spazio al chiuso
@ foto Malatius Jaghnoon
Fra le aree di crisi c’è stato per anni il Museo nazionale di Aleppo, quello che sembra custodito dalle enormi statue ittite di scuro basalto, gli occhi spiritati. Nel luglio 2016, quando fu colpito da numerosi missili e colpi di mortaio lanciati dai gruppi armati che controllavano parte della città, la maggior parte della collezione era già al sicuro. Nell'emergenza di questi anni con il paese suddiviso in aree di influenza fra gruppi armati, precisa Hariri, «il Direttorato per le antichità ha perso contatto con due realtà: Idlib, tuttora controllata da gruppi qaedisti; e Raqqa».
Raqqa: un toponimo che per anni ha evocato il terrore da quando, nel 2014, la città diventò la «capitale del califfato» del sedicente Stato islamico. Il museo cittadino era ricco di reperti di varie epoche, fino alla preistoria. Il Direttorato aveva immagazzinato la maggioranza delle collezioni in una serie di edifici vicino alla fortificazione del periodo Abbaside a Heraqla, a 7,5 chilometri al museo. Ma già nel marzo 2013 il califfato saccheggiò i magazzini e molti pezzi, mosaici, terrecotte, gessi, risultato di decenni di missioni di scavi, uscirono dal paese attraverso la complice Turchia, destinazione il mercato internazionale dei reperti. Del resto, pezzi provenienti da Palmira sono stati trovati in vendita a Londra, uno dei più importanti mercati di antichità… Gli addetti erano riusciti a evacuare o nascondere una parte dei materiali trasportabili, e in seguito a recuperare tre casse piene, ritrovate a Tabqa. Durante l'offensiva antiDaesh da parte degli Usa e delle Syrian Democratic Forces, l'Isis arrivò a piazzare cariche esplosive in prossimità del museo. Dalle foto scattate una volta sfrattato l’emiro, l'edificio non è distrutto ma crivellato di colpi; l'interno è pieno di detriti e molti reperti sono scomparsi.
Un destino comune a circa 300 siti di rilevanza storica. La guerra è davvero un elefante infuriato in un negozio di cristalli.
Torniamo al museo archeologico di Damasco. Nel cortile, fra reperti e alberi, un gruppetto di operai con giubbetto arancione e casco installa una lampada fotovoltaica. Interessante connubio fra passato e moderno. Normale oltre che auspicabile, per Mahmoud Alawadi, titolare della ditta Htm Power solution: «Il fotovoltaico e il patrimonio archeologico sono entrambi elementi chiave del nostro futuro. I millenni di storia ci aiuteranno a ricostruire. Penso che alla civiltà della forza che hanno messo in scena certi Stati sulla nostra pelle si debba opporre la forza della civiltà.» Del resto, la sua vicedirettrice della ditta è Slava Abdo, studi di archeologia ed entusiasmo futuribile: «La Siria è la signora del Sole, il nome stesso di quest’area del Mediterraneo, Sham, ha assonanza con il termine arabo che indica il sole, shams. Il sole c’è sempre, l’energia solare è il nostro futuro e deve avere la massima attenzione». E il solare termico e fotovoltaico in giro si vedono. Qui e là, sui tetti di Aleppo e perfino a Kafarbatna nella Ghouta orientale sui palazzi rimasti in piedi, e nelle strade urbane ed extraurbane per far funzionare semafori, lampioni, antenne; fino alle torce distribuite nei centri per gli sfollati. Con la guerra, l’approvvigionamento in energia elettrica e di conseguenza la stessa fornitura di acqua sono diventati un problema. Le energie rinnovabili rappresentano una soluzione, solo parzialmente sperimentata, eppure «Se si calcolano le spese per un generatore diesel che supplisce alla mancanza di energia elettrica da centrali termiche, e le confrontiamo con quelle di pannelli che poi lavorano per 24 anni…»
I costi d’impianto possono disincentivare, ma la ricostruzione può essere una buona occasione, prosegue Slava: « Il fotovoltaico serve dovunque, nelle case, nelle strade, nelle fattorie, nelle industrie…Non solo se ne possono dotare gli edifici ricostruiti, ma può essere una grande risorsa nella stessa opera di rifacimento.» E la produzione made in Syria dei pannelli, che era stata avviata prima della guerra? «Attualmente il rapporto costi-benefici ci fa preferire l’import dalla Cina, ma fra due anni contiamo di avere una fabbrica nostra, qui» conclude Slava mentre appoggia il piede su una pedana che si illumina. Alawadi mostra con orgoglio il funzionamento delle pompe d’acqua fotovoltaiche, utilissime in agricoltura.
Anche quest’ultima, nella terra della Mezzaluna fertile, ha alle spalle una storia di molti millenni. Ne sa qualcosa il genetista italiano Salvatore Ceccarelli, che con l’organizzazione internazionale Icarda - Istituto internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride - ha lavorato a lungo nel paese con gli agricoltori, migliorando in modo partecipativo i cereali tradizionali (quelli coltivati da secoli e secoli), tanto da ottenere miscugli di varietà in grado di rispondere alle crisi ambientali e idriche. Miscugli ora coltivati in vari paesi compresa l’Italia. E in Siria?
Nel paese mediorientale, dopo la siccità che ha colpito duramente dal 2008, sette anni di guerra hanno nuociuto gravemente alla produzione alimentare, per via degli spostamenti di popolazione e degli scontri che hanno coinvolto anche aree rurali e scombinato le filiere e i trasporti.
Per questo è un piccolo miracolo vedere il bel colore delle albicocche spuntare da una cassetta sulla bici di un contadino a Mleha, Est Ghouta, regione alle porte di Damasco che è stata nell’occhio del ciclone bellico. I frutti costano 300 lire siriane al chilogrammo: un tempo alla portata di tutti, ora per pochi visto l'abbassamento dei salari. Squisiti, un insieme di sapori delicati. L’albicocco, originario della Cina, sembra aver trovato la patria elettiva in Siria e Turchia. Kobol el arb, gli abitanti della capitale andavano in gita alla Ghouta al tempo della fioritura. E attendevano con ansia la breve stagione dell'albicocca, espressione che è anche un modo di dire per indicare qualcosa di fugace. Al tempo dei mamelucchi, a sentire il viaggiatore egiziano El Badri gli studiosi si mettevano in...ferie lasciando cattedre e libri per andare a rimpinzarsi del frutto. Che in Siria ha ispirato una vera arte della conservazione e della trasformazione. «Del resto da noi in Argentina le albicocche si chiamano Damasco e adesso capisco perché» dice l'attrice Susana Oviedo, in visita in Siria.
Quale posto avrà il settore primario nella ricostruzione del paese? E funzionerà davvero l’annunciato piano per le donne rurali? 
Ecco una potenziale destinataria. Una produttrice di Katana, cappello giallo, foulard blu vivace, abito bordò arriva ogni giorno con il pulmino da Katana nella capitale per vendere i suoi cibi. Il suo posto è sotto uno dei mosaici. Cultura e coltura.

sabato 29 dicembre 2018

Regalo di Natale: una lettera ai Maristi Blu da una famiglia sfollata


Ai Maristi di Aleppo.

In occasione delle Feste, vorrei augurare a voi e alle vostre famiglie un Natale felice e benedetto e un nuovo anno pieno di salute e di gioia.
Vorrei esprimervi la mia gratitudine e ringraziarvi per tutto quello che ci avete donato durante questi ultimi anni. Siete stati, e lo sarete per sempre, l'esempio dell' amicizia sincera e dell'amore per gli altri.
Voi ci avete mostrato, a noi e a tutti quanti, che siete veri fratelli e che non fate distinzioni circa la religione o la confessione.
Siamo orgogliosi della vostra amicizia e grati di vivere con voi sotto lo stesso cielo; sentimenti che abbiamo ereditato dai nostri padri e dai nostri antenati e che consegneremo ai nostri figli perché voi meritate il nostro rispetto e il nostro amore.

Sia benedetta la vostra affiliazione, voi 'i Maristi', a Maria; perché la Vergine Maria ha messo al mondo il Signore dell'Amore e della Pace, il nostro Signore Issa (NDT: Gesù si chiama Issa tra i musulmani) pace su di lui.
Come siamo orgogliosi di aver fatto parte di questa fraternità marista negli ultimi anni, noi vogliamo restare, se Dio vorrà, i vostri fratelli maristi musulmani. È così che abbiamo vissuto e continueremo a vivere fino alla nostra morte.

Miei cari fratelli Maristi, ogni tragedia ha due facce. Il lato oscuro della tragedia siriana era la guerra, le sofferenze e la tristezza. Ma la faccia luminosa, eravate voi, tutti voi senza eccezioni.
Il vostro comportamento, la vostra compassione e il vostro sorriso ci hanno restituito la speranza e hanno portato la gioia ai nostri figli. Grazie a voi, due dei miei figli sono ora all'università e gli altri tre seguono il percorso dei loro fratelli più grandi.
Con il vostro amore e la vostra umanità, siete stati al nostro fianco durante il più grande calvario che abbiamo vissuto: la grave malattia che ha portato via la mia sposa che, fino alla fine, vi è stata riconoscente, particolarmente al Dottor Nabil Antaki, così umano e così saggio.

Se, come al solito, con la vostra modestia, dite che tutto l'aiuto fornito e distribuito non viene da voi, vi risponderei comunque che l'amore siete voi, il sorriso siete voi, le buone maniere siete voi, il rispetto per gli altri siete voi. Avete distribuito l'aiuto, in parte fornito da altri, nel migliore dei modi. Ci avete insegnato una lezione meravigliosa: che il dono si fa con il sorriso e con il rispetto dell'altro.

Se voi, i Maristi, avete dovuto fermare il programma di distribuzione dei panieri alimentari, vi assicuro che resterete comunque nei nostri cuori fino alla fine dei nostri giorni e che racconteremo ai nostri figli e nipoti del vostro comportamento e della vostra solidarietà con noi affinché il vostro ricordo rimanga eternamente una fiamma che irradia.

Auguro a voi tutti un buon Natale e un felice anno nuovo. Trasmettete i miei auguri e i miei ringraziamenti anche a tutti i vostri collaboratori e donatori in Siria o all'estero.
Spero che questa lettera tocchi i vostri cuori perché essa esce dal mio. 

Vostro fratello Salah S.
Aleppo, il 21 dicembre 2018

mercoledì 26 dicembre 2018

Ritorno a Latakia


di Maria Antonietta Carta

Latakia non è stata devastata né dalle bombe né dai barbari che dal 2011 infestano la Siria. Le sono piovuti addosso soltanto pochi missili provenienti dalle belle montagne vicine, violate dai terroristi, e dal mare quando a scagliarli sono stati, in una notte di pochi mesi fa, aerei israeliani.

Latakia, prima della guerra, era una città mediterranea un po' indolente, anche se stravolta in alcuni decenni per il repentino aumento della popolazione e una indecente speculazione edilizia. Gli embarghi assassini che da oltre trent'anni periodicamente colpiscono la Siria per non essersi assoggettata ai diktat della politica imperiale e la paralisi del suo porto in seguito alla guerra Iran-Iraq, quando cessarono i traffici commerciali verso i paesi del Golfo, l'hanno impoverita negli anni ottanta del secolo scorso. Tuttavia era dolce anche d'inverno, tollerante, chiara, solare, abbracciata quasi interamente dalle acque del Mare Bianco, come gli Arabi chiamano il Mar Mediterraneo. E negli ultimi anni stava iniziando a conoscere uno sviluppo almeno in parte più armonioso.

Latakia non è stata ridotta in macerie dai bombardamenti, eppure essa racconta tutto l'orrore, la ferocia, l'insensatezza, la desolazione, l'impietosità della guerra.

Arrivando in un tardo mattino dello scorso ottobre, mi è apparsa affranta, schiacciata, annichilita. Chiusa in se stessa come i balconi che tende, ormai sudice e sbrindellate, hanno preso ad occultare da sette anni facendola sembrare un luogo di abbandono apocalittico.
In vaste aree della città, soprattutto il centro commerciale, più frequentato e popoloso, e le affollate periferie popolari, i marciapiedi sono divelti, le vie si riempiono di pozzanghere fangose anche dopo una pioggerellina, per l'incuria nella manutenzione della rete di canalizzazione delle acque piovane dovuta, come tanti altri disagi, a una severa economia di guerra. I muri degli edifici sono erosi ed ingrigiti per il terribile inquinamento causato da una moltitudine di generatori di corrente invecchiati, che rumoreggiano ovunque nei frequenti black-out, e dal traffico convulso, per il repentino all'aumento della popolazione con i rifugiati interni dalle zone di guerra.

La povertà e l'indigenza si leggono nei volti smunti e nelle membra gracili di tanti bimbi e adolescenti malnutriti a causa dei prezzi esorbitanti dei prodotti alimentari, dovuti ad una inflazione ormai incontrollata (immaginate che voi per comprare un chilo di carne doveste spendere un sesto di uno stipendio di 1200 euro), nella mendicità dilagante di vecchi e bambini, nella penuria o pessima qualità di farmaci salvavita. Le sanzioni criminali inflitte dall'Occidente, nonostante tutti gli sforzi del governo e della collettività, provocano danni irrimediabili per le cure delle malattie infantili, del cancro etc, e contribuiscono ad far lievitare costantemente i prezzi e ad aumentare la corruzione e i traffici illegali ai danni soprattutto dei cittadini poveri, cioè della stragrande maggioranza. La sofferenza e lo scoramento traspare dallo sguardo degli adulti o nella prostrazione che si indovina osservando i soldati che da anni affrontano l'insensata efferatezza sanguinaria di un conflitto non cercato.

La guerra ha artigliato tutti indiscriminatamente. Non esiste famiglia che non abbia avuto lutti, perdite di vite giovani, lacerazioni. Ciò che colpisce maggiormente è il senso di solitudine, di abbandono che le persone provano perché sentono che il mondo resta indifferente alla loro tragedia e l'urgenza di raccontare, di essere ascoltate, confortate, comprese, accompagnate.

Eppure, nonostante tutto, a Latakia la bellezza e la dolcezza non sono morte.
Le ho incontrate nella gioia insperata e accogliente delle persone ritrovate dopo una lunga assenza, nell'abbandono confidente con cui mi hanno raccontato le loro pene, nell'abbraccio caloroso di nuovi incontri, nell'arte che continua a vivere indomita, nella forza generosa di chi si prodiga per i più deboli e nella compostezza di chi ha perso tutto ma non la dignità.

Il ghigno gelido della guerra non è riuscito a paralizzare Latakia. Come non c'è riuscito ad Aleppo, a Damasco, Homs, Hama e in tanti altri luoghi della Siria.
Latakia, come il resto della Siria, resiste. Nonostante i potentissimi e implacabili nemici.


In un parco che si affaccia sul mare, Al Batarni Park, ogni sabato prende vita un mercato, Suq al Dayaa, di prodotti agricoli biologici coltivati soprattutto da donne in piccoli orti dei villaggi circostanti, e creazioni artigianali di locali ma anche di rifugiati interni che provengono da Raqqa, Deir al Zor, Abu Kamal. Il mercato esisteva già prima della guerra. A dargli inizio è stata tra altri Zeina, che amante della natura incontaminata, gentile, fervida, un po' bizzarra e sempre sorridente, fa pensare a un folletto dei boschi. Con l'esplodere del conflitto, Al Batarni e il suq sono diventati anche un luogo di riunione e di solidarietà tra abitanti autoctoni e chi è giunto in città fuggendo la distruzione della guerra. E Zeina, di professione farmacista, ha dato in affitto la sua farmacia per occuparsi a tempo pieno dei derelitti.

Ho conosciuto Samir, di padre siriano e madre cubana, prima della guerra. Aveva 18 anni ed era arrivato poco tempo prima a Latakia da Raqqa, dove aveva frequentato il liceo e suo padre faceva il medico. Avevano la casa a Tell Abiad, sua madre si prodigava per i malati e gli indigenti del luogo ed era molto amata. Sono stati i concittadini sunniti ad avvisare la sua famiglia, quando corse il rischio di essere perseguitata dai terroristi, essendo il padre alawita e la madre cristiana, e aiutarla a fuggire. La fuga da Tell Abiad ad Aleppo durò tre giorni. E infine Samir riuscì a riabbracciarli a Latakia. Mi ero molto affezionata a questo ragazzo gentile. Adesso di anni ne ha 26 ed ha trascorso il tempo della guerra soccorrendo poveri e ammalati. É garbato, pieno di calore umano e divertente come 10 anni fa, ma quando abbassa le difese traspare una grande sofferenza. '' La guerra in un modo o nell'altro è stata sempre presente nella mia esistenza come in quella di questa terra – mi dice in un momento di abbandono – Palestina, Iraq e adesso Siria''. Gli ho suggerito di scrivere le sue esperienze. ''Se dovessi raccontare tutte le cose orribili che ho visto e che vedo, potrei scrivere un libro al giorno'', mi ha detto.
Samir e Zeina dispensano cure e affetto a bambini e adolescenti disagiati, sperduti, che la guerra ha ferito. Portano anche gioia e coraggio dentro l'ospedale oncologico, facendo i clown e dispensando colori e amore.
In Al Batrani, i bambini si incontrano, giocano, disegnano, fanno musica. E vi si allestiscono dei tavoli con i doni dei locali, abbigliamento ed altro, a cui ognuno attinge secondo necessità. Il tutto avviene con grande rispetto e delicatezza: niente fotografie dei bisognosi mentre ricevono gli aiuti e discrezione sui donatori, come è costume da queste parti.
Zeina e Samir, sempre sorridenti e rispettosi, coadiuvati da volontari si occupano di tutto.
L'ambiente, tra bancarelle colorate del suq, spezie odorose e alberi frondosi risulta accogliente. Riposante. Alcuni rifugiati di Abu Kamal mi raccontano delle persecuzioni che gli sono state inflitte dai terroristi e dei loro attuali disagi, ma con grande misura e pudore. Senza sfoggio di autocommiserazione. Avevano una casa, un lavoro, una vita normale, e sono dovuti fuggire con soltanto gli abiti addosso. Saputo che sono italiana, una donna mi dice sorridendo: ''abitiamo in un luogo molto umile, ma se vieni a trovarci ti farò la pizza''. E quando racconto di essere stata diverse volte ad Abu Kamal prima della guerra, un uomo mi invita: ''Quando finisce la guerra sarai ospite a casa nostra.''

Nizar Ali Badr, è uno scultore fiero delle sue origini ''ugaritiche''. L'amore per il proprio Paese è sconfinato e non potrebbe mai abbandonarlo, dice. Oltre a scolpire, narra storie con sassolini e ciottoli raccolti alle pendici del Jebel Aqra. Il monte Saphon dei testi di Ugarit. Dove Baal, dio della tempesta, aveva edificato un sontuoso palazzo, e l'imperatore Aureliano era salito per sacrificare agli dei quando il monte si chiamava Casius.
L'immagine può contenere: una o più persone e follaCon le pietre raccolte tra la spiaggia mediterranea e il monte che per millenni fu considerato sacro, Nizar racconta il dolore, la fatica del vivere, la sopraffazione, l'abbandono, la violenza della guerra, le odissee dentro fragili barche, ma anche l'amore, la gioia, la danza e la fascinazione per la natura e i suoi doni. Con il semplice uso di quei sassolini, inventa racconti pervasi di compassione, di intensa tenerezza, e di comunione con un mondo naturale ''antico'' di cui sembra percepire ogni respiro. Come nelle epopee ugaritiche. Come in Omero che canta l'Aurora dalle rosee dita.
Fino a qualche tempo fa le sue creazioni erano quasi sempre effimere come i sogni che svaniscono all'alba. Talvolta, duravano il tempo necessario per una fotografia, perché la colla adatta a legare le pietre non si trova in Siria (leggi embargo) o è troppo costosa (leggi mercato nero). 

Sono andata a trovarlo. Abita in una periferia tanto desolata che arrivandoci si è presi dallo sconforto. Ma dopo una ripida e difficile serie di rampe di scale sbrecciate in un alto caseggiato, si raggiunge la terrazza ed ecco un mondo straordinario abitato da sculture e da ciottoli riuniti a formare racconti intensamente, poeticamente evocativi. Sorridendo, mi ha confidato di aver scoperto una colla di cui però non svelerà mai il segreto. ''Non ti chiederò la sua composizione, ma certo mi piacerebbe sapere come ci sei arrivato'' lo provoco ridendo. ''Mi ha insegnato il Monte'' risponde serio. Il monte Saphon, che svetta solenne all'orizzonte nel sole al tramonto, sembra dominare la terrazza affollata delle sue pietre e ciottoli. Ed io, che per lunghi anni ho cercato storie straordinarie nelle montagne di Latakia e conosco bene i legami profondi di chi le abita con quell'universo, non mi meraviglio.

L'immagine può contenere: 1 persona, persona seduta, spazio all'aperto e natura
Nizar ha i polsi ricoperti da molteplici braccialetti di ciottoli ''Pesano un chilo'' mi dice, accostando le due braccia, e mostrandomi le mani che non possono toccarsi aggiunge:
''Così non posso prendere soldi dai corruttori''.
Le inique e ingiuste sanzioni europee colpiscono anche gli artisti che hanno scelto di restare in Siria, ed essi vivono spesso in povertà o quasi, data la disastrosa situazione economica interna. A Nizar Ali Badr, noto ed apprezzato all'estero, è stato negato il visto per recarsi in Portogallo, dove si svolgeva una mostra personale e un film dedicato alla sua opera.

Con i ciottoli crea anche immagini terribili di torture e prevaricazioni, di ecatombi per i bombardamenti, di gente in fuga dalla guerra e di profughi sperduti in mezzo al mare. 
Nei disegni dei bimbi che si radunano nel Parco Batarni figurano carri armati, aerei e altre macchine che uccidono, tende di chi ha perso la casa, insiemi di linee che sembrano indicare storie di vita cancellate o che si ha timore di rievocare. 

Ho visitato anche la mostra di un affermato scultore e pittore, Fouad Dahadouh. Sono le sue ultime opere. Pitture nel tempo della guerra. Quadri popolati di figure femminili che vegliano morti o feriti, donne afflitte ma solidali e forti, che fanno pensare al risveglio. Alla vita che si rinnova e rigenera. E rovine che però non sono mai completamente scure, abbuiate, desolate. E mi viene in mente che nei disegni dei bambini, nella sublime semplicità di Nizar Ali Badr, nei quadri di Fouad Dahadouh. negli incontri con Zeina che sembra un folletto e con Samir che balla quando la sua ambascia è troppo acuta, come negli uomini e donne con cui mi sono commossa e ho sofferto ascoltando le loro vicende travagliate ma anche riso sorseggiando caffè, ho visto l'essenza del popolo siriano: la loro empatia con la vita in tutte le sue forme, la forza interiore, lo stoicismo nelle avversità. É come se capissero che la furia oscura della guerra non riesce a estinguere la chiarità. Ecco perché la Siria non può morire.

Potrei chiudere qui, con questo pensiero positivo, in queste giornate di feste natalizie e di attesa del nuovo anno che arriva, ma non posso. A Latakia ho visto anche bambini che non vanno al Suq al Dayaa, che non disegnano sotto i rami frondosi del Parco Al Batrani. Bambini che non vanno a scuola perché la scuola è lontana e inaccessibile, tanti bambini che ho visto faticare al mercato e nella pescheria vicino a casa, bambini che vendono fiori, accendini, gomme americane nelle strade, bambini che chiedono l'elemosina e saranno maltrattati da chi li sfrutta se non rimediano dei soldi. Bambini che sarebbero abusati sessualmente, come qualcuno mi confida titubante, e bambini che hanno assistito a troppa violenza, soprattutto quelli provenienti dalle città della Jazira, e sono diventati violenti. Bambini senza la fortuna di genitori che pur nella povertà e nella sofferenza sanno essere amorevoli. Bambini che non vanno neppure bene nei post su Facebook come immagine di una Siria che vuol rinascere dalle ceneri.

Tutti questi bambini che hanno imparato presto le asprezze dell'esistenza e potrebbero diventare forti se solo venissero accolti e difesi, sono invece troppo spesso ignorati e lasciati soli o in balia di chi li crocifigge. L'ultima sera prima della mia partenza, con Samir abbiamo immaginato dei luoghi in cui essi possano sempre recarsi sentendosi amati, compresi e protetti, per superare i terribili traumi della guerra e tornare ad essere davvero bambini. 
Questa è una grande sfida che bisogna affrontare a Latakia e in tutta la Siria, senza perdere tempo. Senza attendere la fine della guerra.