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venerdì 23 novembre 2018

Dietro alla crisi del Golfo si cela anche una spaccatura religiosa tutta interna al mondo sunnita


di Michele Brignone

Oltre ad aver ridisegnato gli equilibri geo-politici mediorientali, la crisi che da un anno oppone il Qatar e la coalizione composta da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein ha ratificato la frattura politico-religiosa, tutta interna al mondo sunnita, tra un campo islamista sponsorizzato da Doha e un campo anti-islamista sostenuto dagli Stati del quartetto.

Una relazione complicata
   Il conflitto attuale è l’ultimo capitolo nella storia della complicata relazione triangolare tra lo Stato egiziano, i Fratelli musulmani e i Paesi del Golfo. Tutto cominciò negli anni ’50, quando molti membri della Fratellanza lasciarono l’Egitto per sfuggire alla repressione nasserista, trovando rifugio nel Golfo e in particolare in Arabia Saudita. Fino all’inizio degli anni ’90, l’incontro tra gli islamisti e l’Arabia Saudita avvenne sotto il segno della cooperazione: i Fratelli musulmani furono considerati un alleato naturale contro i movimenti arabi rivoluzionari e contribuirono ad accrescere la legittimità pan-islamica di Riyadh. Fu in questo periodo che dall’ibridazione culturale e religiosa tra le idee della Fratellanza e il wahhabismo saudita nacque il movimento della Sahwa islāmiyya (il Risveglio islamico). Il sodalizio si ruppe con la guerra del Golfo del 1990-1991, quando per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq di Saddam Hussein la monarchia saudita permise alle truppe statunitensi di stazionare sul proprio territorio, scatenando l’indignazione islamista.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno poi allargato ulteriormente il fossato: mentre i Fratelli musulmani e altri movimenti islamisti, sostenuti dal Qatar e dalla Turchia, erano impegnati a creare un nuovo ordine politico mediorientale, l’Arabia Saudita e gli Emirati intervenivano per ripristinare lo status quo, in particolare appoggiando l’Egitto del generale al-Sisi.

Critiche e accuse incrociate
   Dopo la rottura del 2017, si sono moltiplicate accuse, analisi critiche, e prese di distanza incrociate da parte di politici, intellettuali e chierici dei due campi. Il fronte pro-islamista e filo-Qatar accusa lo schieramento opposto di aver tradito l’Islam, cedendo al secolarismo occidentale. Per esempio il marocchino Ahmad al-Raysūnī, principale ideologo del movimento Unicità e Riforma (MUR) e vice-presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, nell’ottobre del 2017 ha rimproverato all’Islam sauditadi essere passato «dalla fioritura alla decadenza». Sempre nell’autunno del 2017, dalle colonne del quotidiano qatarino al-Watan, il giornalista di al-Jazeera Ahmad Mansūr ha imputato a Emirati e Arabia Saudita di voler deliberatamente secolarizzare le società islamiche. In una serie di articoli pubblicati sul quotidiano digitale filo-qatarino Arabi21, Soumaya Ghannouchi, figlia del fondatore e leader del partito islamista tunisino Ennahda, ha descritto invece il conflitto attuale come una battaglia tra un Islam democratico e liberale e un autoritarismo che in passato si è servito della religione ma che oggi è diventato laicista.
 Il fronte anti-islamista ascrive invece la violenza e il caos che perturbano le società musulmane all’influenza nefasta dei Fratelli musulmani. Ad esempio il principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, che ha promesso di “riportare” l’Arabia Saudita alla “moderazione” degli anni precedenti al 1979, attribuisce l’estremismo religioso presente nel Regno alle infiltrazioni della Fratellanza, in particolare nel sistema educativo saudita.

L’Islam emiratino: tra tradizione e pensiero critico
   Al di là della discutibile narrazione storica proposta da MBS, il suo progetto di riforma dell’Islam rimane molto vago. La sua preoccupazione non è tanto una riforma religiosa, quanto un Islam che non intralci il processo di modernizzazione del Paese, non si trasformi in una forma di opposizione politica e non comprometta la reputazione internazionale dell’Arabia Saudita. È per questo che la vera alternativa all’interpretazione islamista non è l’Islam che, chissà quando chissà se, nascerà in Arabia Saudita, ma quello che già oggi viene promosso dagli Emirati. Questi ultimi, a differenza dell’Arabia Saudita e del Qatar, non aderiscono alla dottrina wahhabita, ma alla scuola malikita. Allo stesso tempo però, gli Emirati non dispongono di istituzioni islamiche tradizionali attraverso le quali veicolare il proprio messaggio religioso. La loro politica islamica si è così tradotta nel patrocinio di nuove istituzioni, nominalmente indipendenti, guidate da eminenti personalità del mondo sunnita.  Fra queste spiccano il Consiglio dei Saggi Musulmani e il Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane, nate entrambe ad Abu Dhabi nel 2014. Il Consiglio, che riunisce ulema di tutto il mondo, è presieduto dal Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyib, e rappresenta una risposta all’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, una rete di esperti religiosi e intellettuali di orientamento islamista, molto vicina al Qatar, creata e presieduta dal “global mufti” Yūsif al-Qaradāwī. Il Forum per la Promozione della Pace è invece guidato dallo shaykh di origine mauritana ‘Abdallāh Bin Bayyah, che fino al 2013 faceva parte dell’Unione mondiale degli Ulema. Queste due istituzioni sono espressione di un Islam legato alle scuole giuridiche e teologiche tradizionali e alla spiritualità sufi, impegnato nel dialogo interreligioso e interculturale e decisamente avverso alle interpretazioni politiche e violente. 
 Tuttavia, l’azione degli Emirati non punta soltanto nella direzione di una religiosità neo-tradizionale: da qualche tempo, ospite fisso del canale Abu Dhabi TV è Muhammad Shahrūr, intellettuale siriano impegnato in un’esegesi rinnovata del Corano, che, quando in Tunisia si è iniziato a dibattere del superamento della disparità successoria tra uomo e donna, si è trovato sul fronte opposto a quello dello shaykh al-Tayyib. Secondo un’inchiesta pubblicata nel luglio del 2017 sul sito di al-Jazeera, gli Emirati sarebbero anche i principali ideatori e finanziatori di Mu’minūn bilā Hudūd (“Credenti senza frontiere”), una Fondazione la cui sede principale è a Rabat e a cui partecipano intellettuali di tutto il mondo arabo. Attraverso un’impressionante mole di pubblicazioni ed eventi, Mu’minūn bilā Hudūd promuove un pensiero critico sulla tradizione islamica e sul rapporto tra Islam e spazio pubblico, dando voce a quei “nuovi pensatori” che da alcuni decenni portano avanti una rilettura della rivelazione attraverso gli strumenti offerti dalla critica testuale moderna. Cura per esempio la pubblicazione dell’opera omnia dello studioso egiziano Nasr Hāmid Abū Zayd, noto per la sua ermeneutica storica del testo sacro islamico.

The Koran (photo: dpa)Due modelli per l’Islam sunnita
   Il Qatar dell’emiro Tamīm e gli Emirati dell’attivissimo erede al trono di Abu Dhabi Muhammad bin Zāyid sono così l’emblema delle due grandi interpretazioni che si contendono oggi la scena sunnita. Da una parte una lettura politica dell’Islam, fondata sulla critica all’ordine esistente e ai regimi autoritari, attenta alla giustizia sociale e fautrice di un progetto di reislamizzazione delle società e di istituzione di regimi “islamo-democratici”, sulla falsariga dell’esperienza, perlopiù fallimentare, tentata dopo le rivolte del 2011 in Tunisia ed Egitto. Dall’altra un Islam incentrato sulla spiritualità personale, ostile alle interpretazioni violente, presente sulla scena pubblica ma poco interessato a interferire con le scelte politiche ed economiche dei governanti, anche a costo di chiudere un occhio sugli abusi e sulle ingiustizie commessi da questi ultimi.
   È interessante notare che, sebbene questa alternativa percorra oggi molte società musulmane, essa non sia necessariamente destinata a produrre conflitti laceranti. Paesi come la Tunisia e il Marocco, in cui il processo di costruzione democratica continua ad avanzare, sono anche quelli che hanno impedito all’islamismo di egemonizzare la sfera religiosa, ma senza escluderlo dallo spazio politico e dalla società.

martedì 20 novembre 2018

Insieme per ridare un nome e un futuro alla Siria. Intervista a Mons. Abou Khazen


“Siamo un po’ preoccupati per il futuro, ma stiamo bene”. Il tono di voce è ottimista, lo sguardo è vivace. Fa un certo effetto sentire il vicario apostolico di Aleppo, mons. Abou Khazen, parlare della guerra in Siria e avere la percezione che sia quasi un problema lontano. “Ad Aleppo la situazione è più calma. I servizi funzionano, l’elettricità arriva per 16 ore al giorno. E’ una città viva, con il traffico che ha ripreso a intasare le strade”.

Eccellenza, da quello che dice Aleppo sembra davvero rinata…

Ci stiamo riprendendo. So che 2400 fabbriche hanno aperto negli ultimi mesi. E altre si stanno preparando a riaprire. E’ un segnale importante, anche se molti sfollati non stanno tornando: non basta il lavoro, bisogna anche ricostruire le case.

Dopo otto anni di guerra, a che punto siamo secondo lei?

Rimangono due grandi problemi: la presenza dei combattenti stranieri (a decine di migliaia) e il ruolo delle potenze straniere implicate in questa guerra. Ma dopo anni siamo tutti abbastanza ottimisti  e confidiamo che si arrivi presto a una soluzione politica.

Quanto manca alla fine?

Ci sono ancora troppi interessi politici ed economici in campo. E le continue tensioni internazionalinon aiutano. Ad esempio, il fatto che Trump abbia ripristinato le sanzioni contro l’Iran inciderà negativamente sul conflitto e sullo scontro confessionale ancora vivo nella regione.

Eppure lei parla di una pace possibile…

Sempre, vissuta nella nostra vita e testimonianza di ogni giorno. Noi cristiani cerchiamo di essere ponte tra i vari gruppi, non abbiamo problemi con nessuno. Ai nostri fedeli cerchiamo di infondere la speranza, perché vogliamo aiutare tutti nel cammino della riconciliazione.

Ci sono dei segni particolari di quanto sta testimoniando?

In particolare un progetto nato dall’amicizia personale con il Muftì. Finita la battaglia di Aleppo ci siamo accorti delle migliaia di bambini abbandonati e nemmeno iscritti all’anagrafe, di cui non si conosce né la madre né il padre. Spesso nati da stupri e violenze, sono i figli dei jihadisti, i segni più terribili che ci sta lasciando questa guerra. Bambini senza nome, e perciò senza futuro. La ONG ATS pro Terra Sancta ci ha fornito i finanziamenti necessari per iniziare e ci sta ancora aiutando a creare gli spazi necessari per accogliere più di 2000 bambini. Lavoriamo insieme perché questi piccoli possano avere – un giorno – le stesse possibilità di chiunque altro.  E il progetto si chiama – appunto – “Un nome e un futuro”.

Come vi occupate di loro?

Per prima cosa li aiutiamo a iscriversi all’anagrafe, così che possano frequentare la scuola. Il parlamento sta ancora studiando una legge ad hoc per registrarli, ma non è facile. Mi consola però che ci sia un’ipotesi di legge,  perché altrimenti questi ragazzi – quando cresceranno – quali possibilità avranno, se non esistono per nessuno? Noi li aiutiamo poi in tutti gli aspetti, prevediamo un accoglienza e un percorso psicologico perché possano, un giorno, superare i traumi ben visibili sui loro volti.

Tra i bambini che avete accolto, c’è qualcuno che le è rimasto nel cuore?

Qualche mese fa, quando mi sono avvicinato a uno di questi bambini, si è spaventato. Aveva paura di ogni uomo, non voleva parlare con nessuno ed era chiuso al mondo. Quando ho potuto stargli accanto per qualche minuto mi sono accorto che non riusciva a sorridere. Ha cominciato a frequentare il centro, e dopo qualche settimana ha ricominciato a giocare con gli altri, a parlare, a studiare. Qualche tempo dopo sono tornato a trovarlo. Oggi è un’altra persona. Finalmente sorride,  e un bambino che sorride è il futuro della Siria.
Per sostenere il Progetto UN NOME UN FUTURO per i bambini abbandonati di Aleppo :   https://www.proterrasancta.org/it/aiuta-la-terra-santa/aiutaci/?pr=lappello-del-custode-di-terra-santa-emergenza-siria

sabato 17 novembre 2018

Monachesimo nel cuore dell'Islam

 

Dal 2005 una piccola comunità di trappiste provenienti da Valserena, il monastero nell’entroterra di Cecina che ha appena festeggiato i 50 anni, si è insediata in Siria, prima ad Aleppo e poi ad Azeir, presso il confine con il Libano. Una scelta operata con l’intento di raccogliere l’eredità lasciata dai monaci di Thibirine, rapiti poi uccisi nel 1996 da terroristi islamici: la possibilità di una vita fra genti di fedi diverse, tutte però coscienti di una comune dipendenza da Dio. La guerra scoppiata poco dopo l’insediamento nel luogo prescelto per la fondazione del monastero di Nostra Signora fonte della Pace non ha fatto recedere le monache da questo proposito e la loro presenza continua a essere un faro di spiritualità per i siriani cristiani ma anche per la maggioranza islamica. 
Ce ne parla in questa intervista la superiora suor Marta.
Intervista di Toscana Oggi.

giovedì 15 novembre 2018

SOS Chrétiens d’Orient: "Questa generazione può cambiare il mondo e restituire la sua anima all'Europa"

Vorrei iniziare questo breve report sulle mie 5 settimane di volontariato in Siria con questo scambio con padre Tony (se ben ricordo il nome), un sacerdote cattolico greco-melchita in visita a Maaloula per la festa di San Sergio, che si è celebrata il 7 ottobre.
"Che cosa fai con dei francesi?"  
- "Cosa sto facendo qui? ... Mi pongo la stessa domanda! Ma un italiano può adattarsi a tutte le situazioni! "
"Ne sono sicuro. "
Mi chiamo Nicola. Ho 32 anni, archeologo italiano di Bari, e ho scelto di andare in Siria con Fondazione SOS Cristiani d'Oriente .
È difficile per me condividere questa esperienza e spiegare i motivi che mi hanno portato a fare le valigie e prendere il mio zaino. Di ritorno a casa, tutto sembra diverso. Ho dovuto fermarmi, sedermi e riordinare i miei ricordi prima di tornare alla routine quotidiana italiana. Ogni volta che ho provato a scrivere qualcosa, ho finito per cancellare tutto per ricominciare da capo.
Solo una volontà molto forte ti porta a lasciare il tuo paese e superare i tuoi limiti personali. Negli ultimi anni molti europei si sono uniti ai terroristi islamisti per combattere e distruggere, per servire una causa che considerano giusta. Andare all'inverso di questo pensiero non è automatico ; partire per un paese in guerra per ricostruirlo non si impone allo spirito naturalmente.
Mi sono confrontato con la realtà siriana: un paese colpito dal flagello della guerra. I Siriani sono straordinari e, sebbene siano al centro di un conflitto mondiale da 8 anni, sono ancora profondamente gioiosi. Ti guardano con il cuore. Ogni persona che incontri ha nei suoi occhi qualcosa di unico e autentico, difficile da decodificare e appena percettibile.
A Damasco, Maaloula e Homs, ho preso parte ai cantieri di ricostruzione e alle attività con bambini e anziani vivendo pienamente l'istante presente, in mezzo a queste persone sconosciute ma molto rapidamente accattivanti. I confini culturali e psicologici sono facilmente superabili lavorando insieme.
Tutti questi incontri li ho vissuti e molto poco fotografati. Fotografare mi ha fatto sentire un turista della morte. D'altra parte, penso che fosse necessario rendere la mia famiglia e gli amici consapevoli della realtà della situazione in Siria. Il rischio è di abituarsi all'orrore, diventare dipendente dal caos.
Il Krak dei Cavalieri, magnifica fortezza e insieme teatro di orribili orrori, appare oggi ferito dall'occupazione dei terroristi jihadisti e trasformato dalla sua riconquista. Sembra che questo castello abbia dato ai siriani il coraggio di resistere. In Occidente, abbiamo dimenticato le nostre radici e la nostra identità. Se l'Europa avesse vissuto un decimo di quello che ha sofferto il Medio Oriente, non sarebbe rimasto nulla. Il popolo siriano è forte ben oltre la morte; non hanno paura di ricostruire dalle macerie, non hanno paura di sposarsi, di avere figli, senza particolare aiuto da parte del governo, non si vergognano della loro fede e credono in un mondo migliore.
A un certo momento, la Siria ha bisogno della vera Europa e l'Europa ha bisogno della Siria. Ovunque andassi, mi è stato detto: gli italiani sono gli arabi d'Europa. Forse è vero, abbiamo un enorme potenziale che la globalizzazione ci ha fatto dimenticare.
Sono andato in Siria e ho visto un popolo che non si arrende. Sono partito perché sono cristiano. Non ho paura di dirlo! La fede non è solo un sentimento intimo da conservare per se stessi. Deve riflettersi nella vita, nelle relazioni personali, nella cultura, nel lavoro, nell'educazione e nella politica. Come mi è stato detto molte volte, la fede di un cristiano deve essere il meridiano che attraversa tutti i paralleli della sua vita.
Ringrazio SOS Chrétiens d’Orient per avermi dato l'opportunità di vivere questa esperienza e tutte le persone che ho incontrato. Accanto alla Siria dei siriani, c'è per me la Siria dei francesi! Ho trovato qui dei volontari che non fuggono dal loro paese ma cercano veramente la verità. Nonostante le nostre differenze culturali e le incomprensioni che ne derivano, abbiamo davvero creato forti legami. Come diceva T. Eliot, "Nel mondo dei fuggiaschi, chiunque si muove nella direzione opposta sembrerà un disertore. "
Questa generazione che si coinvolge, che non ha paura di lavorare, in un caldo torrido o un freddo gelido, può cambiare il mondo e restituire all'Europa la sua anima.
 ( traduzione OraproSiria)
Per raggiungere i volontari di SOS Cristiani d'Oriente richiedete il formulario scrivendo a roma@soschreriensdorient.fr

sabato 10 novembre 2018

Al capezzale del dolore e del coraggio (5)

Concludiamo i racconti del viaggio in Siria con la testimonianza della nostra Maria da Conceiçao, infermiera che ha scelto di offrire due mesi come volontaria al servizio dei sofferenti. 


Quasi un mese fa sono arrivata in queste regioni orientali, per Qara e Damasco in Siria, con un senso di missione e un sentimento vero che ciò rispondeva a quello a cui il Signore mi invita, specialmente durante le mie preghiere.

Sono arrivata tranquilla, fiduciosa, forse piena di informazioni o piuttosto molto carente di informazioni. Erano immagini e resoconti di distruzione e persone in fuga, disperate.
Un Paese bombardato, minato, con morti atroci e una guerra che potremmo non comprendere (le guerre possono avere qualche giustificazione?), ma che è percepita non come una guerra civile ma come un ignobile palcoscenico di interessi internazionali. 
È vero, ho trovato distruzione, intorno a Qara nei villaggi più piccoli, nei borghi cristiani e nella periferia della capitale, che hanno sofferto l'occupazione che ha portato alla fuga forzata di centinaia di migliaia e a morti brutali.

Tutti mostrano il bisogno di parlare, di sentirsi ascoltati, ma non piace che registri o faccia foto. Io stessa non sento questo desiderio e provo rispetto per la sofferenza che appare sui volti e vi è impressa in modo dolente e molto presente.

Ho trovato, tuttavia, come non avrei osato supporre, devo dire, gente ricca di speranza, in un modo molto forte, determinata a Vivere, perché anche se non capisco la lingua e le conversazioni mi rendo conto che non c'è, in generale, alcuna propensione a parlare della guerra. Tuttavia, dopo un primo contatto, sia i pazienti che gli operatori mi raccontano di così tante perdite, della sofferenza ... di tempo e ancora più tempo mobilitati per il servizio militare, e della vita differita, con sogni perduti. 
Sono racconti di Vita e sopportazione in cui vedo accettazione, ma non rassegnazione. 
Con tutte la difficoltà della lingua, posso però prestare attenzione ad ogni espressione non verbale, allo sguardo, alle mani, al modo in cui mi restituiscono lo sguardo e infine un intuire e uno stare che mi permettono un po' di capire, aiutata dalla conoscenza che alcuni hanno della lingua francese o inglese.

Impressiona questa realtà in cui tutte, ma proprio tutte le persone hanno perdite di parenti e il constatare anche il gran numero di bambini e di giovani con cancro, forse in relazione a queste circostanze in cui sono nati e vivono ...

Nella grande città, la vita sembra "normale", qualunque cosa ciò possa significare, c'è tutto il traffico e il movimento delle persone con le borse della spesa. Ma ne abbiamo davvero parlato, del loro bisogno di "credere" che si torna alla normalità, che possono andare dal parrucchiere o prendere un gelato nella solita piazza. E oltre a questo, sono anche stanchi di essere "maltrattati" nelle notizie, questi che sono rimasti sono i resistenti, che amano il loro paese o non hanno nemmeno avuto condizioni sicure per andarsene. Restano anche quelli molto poveri.

Quello che posso dire del mio tempo qui è che mi sento accolta, faccio e mi restituiscono lo sforzo nella comunicazione, e incontro una realtà culturale; per esempio, nel numero di familiari che accompagnano il loro malato, in ogni momento, che può essere anche 6 o 8 persone; o ad esempio le famiglie dei pazienti di cui mi sto occupando esagerano i semplici ringraziamenti che devo accettare sotto pena che si sentano "offese" con il mio rifiuto.

Descrivere come le relazioni e le interazioni con i malati e i familiari si sviluppano, con una cultura così differente, non è possibile, perché la presenza, il sorriso, lo sguardo e il tocco sono più che "parole" e dominano. Queste conversazioni/relazioni hanno superato ogni aspettativa che avessi potuto avere.

Questo periodo ha risvegliato in me una forte crescita emotiva e spirituale.  Anche il silenzio che mantengo in una parte considerevole di ciascuna delle mie giornate, facilita un'attenzione al vissuto e alle forti suggestioni che mi porta emotivamente.

Un grande abbraccio

São

   (FINE)

mercoledì 7 novembre 2018

QARA, crocevia di pace (4)



Un tempo, prima della guerra, il monastero Deir Mar Yacoub (san Giacomo l’Interciso) a Qara, sulla via fra Damasco e Homs, era un luogo di preghiera frequentato anche da pellegrini cristiani e musulmani: sia per ragioni spirituali che per la tranquillità e la bellezza della costruzione, grande, di pietra chiara, con grotte antichissime, una suggestiva chiesa sotterranea, reperti archeologi molto interessanti sparsi un po' dappertutto.

Qara, un tempo… in tempo di pace
I monaci e le monache residenti vivevano (e vivono tuttora) nel grande convento in stanze essenziali, senza mobili, con bagni in comune, cucina semplice con molti cibi dell’orto, carne solo se arriva in dono. Alternavano la meditazione alle attività agricole e artistiche: la madre superiora, madre Agnès de la Croix, fondatrice dell' Ordine dell'Unità di Antiochia, dipingeva icone. Grazie ai pozzi, in questo territorio scarsamente piovoso e apparentemente desertico, il frutteto del monastero era pieno di olivi, melograni, albicocchi. Essiccate a strati con un metodo particolare, le albicocche si conservavano a lungo, un pieno di vitamine da portar via insieme alle tisane di erbe e delle preziose, delicate rose che si chiamano “di Damasco”.

Attività umanitarie in tempo di guerra
Con la guerra iniziata nel 2011, la tranquillità è venuta meno e la calma monastica ha lasciato il posto a un fervore da alveare, dapprima concentrato sul soccorso a chi doveva stare in vita. Tempo della preghiera nella notte e primo mattino, il monastero durante la giornata si è dedicato all’assistenza ai tanti sfollati, ma non sono mancati attacchi da parte di gruppi armati jihadisti e qualche anno fa ha vissuto drammatici giorni di assedio durante i quali i monaci han dovuto rifugiarsi nelle antiche grotte sotterranee.
Qara è una cittadina in prevalenza mussulmana, con 50 famiglie cristiane, circa il 20% della popolazione. Gli uni e gli altri adesso stanno prendendo il monastero come punto di riferimento, una specie di centro vitale attorno al quale ruotare.
Le sei suore e i due monaci (di diverse nazionalità) hanno la supervisione di diverse attività umanitarie, ma hanno affidato le operazioni a un collaboratore fidato che chiamano Abu George (il vero nome è Sake Esrur) e a sua moglie Sylvie, due cristiani che hanno lasciato Damasco per venire a lavorare a Qara. Con i due figli vivono presso il monastero e gestiscono nel Centro Sociale circa 30 lavoratori, sia cristiani e musulmani. A loro volta questi dipendenti coordinano circa 200 volontari che distribuiscono gli aiuti, vanno a consegnare cibo e prodotti sanitari nei campi profughi, poi corrono al porto a sdoganare i container e tornare in camion a Qara, scaricando rapidamente tutto nel grande magazzino del monastero. Ed eccoli ripartire per le destinazioni dei soccorsi.

I monaci hanno fatto la scelta di una radicale povertà, benchè al monastero arrivi di tutto sia dalle agenzie internazionali (le quali sono alla ricerca di partner affidabili) che da benefattori dall'Europa. Nella parte immensa della nuova costruzione al piano interrato sono ammucchiati pacchi, secchi, scatoloni, in maggioranza provenienti dalle organizzazioni non governative che ormai stanno prendendo il monastero come punto di riferimento di fiducia per le distribuzioni anche nelle zone per loro non raggiungibili. Scatoloni e secchi poi partono in camion per le distribuzioni nei campi profughi o nelle località più bisognose. Ad Aleppo il monastero di Qara ha addirittura aperto una cucina per trentamila pasti al giorno, oltre a un Hospitainer: nel linguaggio degli interventi di emergenza, è un container completamente attrezzato, come un piccolo ospedale da campo.
I monaci hanno ospitato nel tempo diversi sfollati. Ora è il turno di tre ragazzine sui 12 anni e due bambini, reduci da situazioni drammatiche.

Mussalaha: riconciliazione, un progetto visionario
Ma le attività umanitarie, necessarie in un’emergenza bellica, non sono certo le uniche a brulicare al monastero e intorno. La madre superiora è stata fra le principali animatrici del movimento Mussalaha. In arabo questo termine significa riconciliazione (aggiungi e togli poche lettere ed ecco che hai l’opposto: musallahin, gruppi armati). Dal 2013, nel pieno della guerra fomentata in modo criminale da tanti paesi rimasti impuniti, un gruppo di religiosi cristiani e musulmani, insieme a cittadini siriani laici si sono impegnati per ricreare l'unità del popolo siriano, al di là delle ferite della guerra. Il movimento Mussalaha ha lavorato per tregue locali fra l’esercito siriano e i gruppi armati non jihadisti. In seguito è stato creato un apposito ministero della Riconciliazione. Ma tutto è nato dalla base.

L’attuale fervore di attività del monastero, in fondo, è un altro modo per continuare l’opera della Mussalaha. Padre Daniel, che è il superiore dei monaci di Qara, una persona molto buona, spirituale e umile ma anche molto realista, dice: “La Siria è certamente un paese piegato, quasi spezzato dalla sofferenza. Ma in fondo no, non si è piegata e la gente è fiera, vuole rialzarsi, e in fondo in fondo è come orgogliosa perché dice: per primi ce l'abbiamo fatta.  Il destino della Siria sembrava molto simile a quello dell’Iraq, della Libia, degli altri paesi massacrati dai piani imperialisti, e invece ce l'hanno fatta…”.
  Decisamente i siriani potrebbero insegnare la resilienza al mondo occidentale.
Prosegue padre Daniel: Certo la guerra non è ancora finita e ci vorrà ancora del tempo per la vittoria. E le strade per la vittoria sono due: sicuramente quella militare nei confronti dei terroristi, ma insieme la mussalaha che è la grandissima sfida”.




R come ricostruzione e resilienza, insieme
Intrecciata alla riconciliazione, la ricostruzione. La Siria vi si sta coraggiosamente avviando. A tutti i livelli. Colpisce la capacità di creare iniziative, anche lì a Qara. I monaci si sono divisi i compiti. Suor Myri, portoghese, segue un laboratorio di sartoria. Le donne alle macchine da cucire sono tutte musulmane. Il responsabile è un signore sfollato da Homs che già lavorava nell'ambito della tessitura e della produzione di capi di abbigliamento. Le donne non hanno ancora l'esperienza sufficiente per la produzione delle borse e altri capi in modo industriale. Suor Myri spesso rimanda indietro la borsa malfatta ( ma quelle che abbiamo portato da vendere in Italia a sostegno delle donne rifugiate sono bellissime). Attenta è la verifica della qualità anche nel locale dove si produce la biancheria: hanno ricevuto dall'Europa pezzi di tessuto adatti a ricavare ricavare mutande e magliette, biancheria intima molto richiesta. … 

Spiega suor Maria: “Nella cittadina di Qara è terminata la fase dell'emergenza e dell'aiuto ai profughi e ora si sta passando a un'idea di sussistenza, di lavoro autogestito. E’ impressionante, fioriscono iniziative, idee, progetti per l’occupazione e la ripresa: gli stessi abitanti vengono qui a proporre e noi appoggiamo, valorizziamo, diamo in gestione le attività a laici affidabili. Non finisce mai, un'iniziativa ne tira un'altra”.

Si inventano di tutto. Sull'autostrada fra Homs e Damasco hanno aperto un bar con giardino esterno e all’interno il ristorante, 'Taybat Qara' cioè: cose buone. Chi si ferma a bere il caffè o a mangiare può anche acquistare i prodotti del monastero cucinati da vari gruppi di donne. Funziona così: man mano, la gente va a dire “so fare questo”, ed ecco che viene recuperato un sapere tradizionale e incentivata la creatività.

Anche chi governa la città partecipa a questo sforzo di ripresa della vita. Sotto il ristorante c’è un grande forno a cui soprintende l’amministratore cittadino; lì lavorano come cuochi diversi ragazzi che imparano a fare dolci antichi della Siria, come un rinomato dolce ai pistacchi irrorato da grasso di pecora.
Insomma uno spazio per le idee di tutti, per le proposte di tutti.

Le donne, la famiglia, i diritti
Suor Maria Gloria, cilena, coordina il Centro Sociale che ha molteplici attività. Cucina tipica, lavori di cucito, fabbricazione di piccoli oggetti regalo, decorazioni su vetro e ceramica, incontri tra donne per parlare di bambini, di salute. A poco a poco nell'ambito di questi dialoghi informali emergono aspetti più delicati come la violenza familiare, le difficoltà di relazione. Ma il Centro offre anche consulenza nell'ambito della separazione, del diritto familiare patrimoniale …. Una volta alla settimana arriva uno psicologo da Saydnaya per incontri con le donne. Un avvocato matrimonialista assiste nelle cause di separazione, sempre un po' complicate nel diritto musulmano.

I progetti sono proposti talvolta da organizzazioni non governative altre volte da Madre Agnès, che li vaglia e se non sono consoni allo spirito cristiano e alla mentalità locale non vengono accettati e messi in atto. Dunque, non c'è da parte del monastero un'accettazione supina di tutto ciò che viene proposto dalle agenzie umanitarie, come purtroppo è accaduto in altri paesi, compreso il Libano.

Ma il giacimento?
Tutto ciò che arriva viene destinato ai poveri. La distribuzione degli aiuti è controllata in modo ferreo, così da arginare la corruzione, uno dei mille effetti collaterali delle guerre. Abu George vaglia le richieste di aiuto con il metro della verità e della trasparenza, per non fare distribuzioni a casaccio a eventuali approfittatori.
 A Qara, i volontari ricevono una paga minima. Non è il guadagno la loro motivazione. E’ che attorno ai monaci sta crescendo come un senso di famiglia, la percezione che quella è come una casa.

Tutto bene? Lo speriamo con tutto il cuore.
Per Qara, c’è una nuova preoccupazione: la scoperta recente, proprio ai confini della proprietà del monastero, di un enorme giacimento di gas che, pensano lì, inevitabilmente porterà problemi.

Non è forse cominciata anche per il gas, la guerra per procura che per poco non ha inghiottito la Siria?

domenica 4 novembre 2018

"Ora tutto si gioca in un lavoro educativo..." (3)


A Damasco siamo ospiti dei Salesiani, una piccola comunità traboccante della vitalità dei giovani che affollano allegramente l'oratorio. Il direttore Don Mounir da mattina a sera ascolta, incoraggia i ragazzi a vivere con serenità i momenti di gioco, li corregge e li guida a prendere sul serio il proprio desiderio di amicizia con Gesù ed essere veri nella vita quotidiana in mezzo ai compagni di altre confessioni.  
Lo coadiuvano, un giovane dinamico neo-sacerdote indiano inviato da poche settimane in Siria “in missione” e padre George Fattal che tra i vari altri incarichi ha pure quello di cappellano nel carcere di Adra, dove viene ricevuto con rispetto e stima.    

Attende di tornare nella natia Aleppo il fratello Giuseppe Musciati, che ha trascorso la maggior parte dei suoi 82 anni in Egitto e in Venezuela come coadiutore nelle scuole di formazione professionale salesiane: “Gesù è il grande amore della mia vita, tutto ciò che Dio mi ha dato e mi darà di salute e vita, è per i giovani” , ripete con lo sguardo affettuoso e sereno di chi ne ha viste tante sentendosi sempre prediletto dal Signore.

La presenza amorevole delle Suore Salesiane nell'Ospedale Italiano, molte delle quali anziane che non hanno voluto assolutamente lasciare il paese in guerra, continua ad offrire un luogo di assistenza sanitaria qualificata, grazie anche al progetto 'Ospedali Aperti' della Nunziatura e di AVSI che sta permettendo alla struttura privata di continuare a dare cure ai meno abbienti. Resta presso di loro la nostra Maria Da Conceiçao, infermiera che ha scelto di offrire due mesi di missione al popolo siriano sofferente, di cui riporteremo la testimonianza nel prossimo articolo.

In licenza dal servizio militare Deeb Haraqa passa a salutare abuna Mounir: è un bel ragazzo di 27 anni, da oltre sei anni presta servizio di leva nell'Esercito, perché così è questa guerra... Più volte si è trovato in pericolo sui fronti di Aleppo, di Daraa, a Qaboun... soprattutto quando è stato assegnato al corpo di guardia di un generale. Ci spiega che l'Armata è assolutamente laica, non è permessa alcuna manifestazione religiosa, neppure gesti di preghiera né musulmani né cristiani. Tuttavia il suo comandante, musulmano, ha sempre espresso una fiducia particolare in lui, cristiano, e don Mounir sorridendo cita il detto popolare “mangia da un druso e dormi da un cristiano”.
La paga dei militari siriani è misera, il cibo frugale (pane patate e pomodori) li fa guardare con invidia al ricco caldo rancio dei commilitoni russi o Hezbollah.
Come tanti altri figli della Siria, Deeb ha risposto alla chiamata alle armi con la convinzione che si tratta di difendere il proprio Paese dal Califfato, da un progetto di cancellazione della civiltà della Siria: “Questa guerra non è contro una minoranza, e non è per colpire i cristiani, ma per colpire la Siria tutta”, afferma pacatamente. Certo, dopo sei anni è stanco: non può permettersi di farsi una famiglia, sa che dovrà ancora aspettare a prendere la responsabilità di una moglie e di figli, “meglio non lasciare una vedova” scherza.
So che tra di voi corre una brutta fama dei soldati siriani come di prepotenti che usano violenza alla popolazione, ma è del tutto immeritata: cerchiamo di proteggere i civili, di difendere il nostro popolo. Quando mi sono trovato faccia a faccia col nemico nella trincea di fronte a me, mi sono accorto di avere davanti volti allucinati, gente impasticcata resa come automi e cervelli lavati senza cognizione della realtà”.
La riconciliazioni con le milizie locali?: “Se sono siriani e depongono le armi, sono d'accordo che sia offerta a loro la possibilità del perdono”.



Sfidando il traffico frenetico di Damasco, tra ingorghi mostruosi e clacson che strombazzano all'impazzata, ci accolgono con delicata attenzione i Francescani di Bab Touma nel consueto momento del “caffè di Gesù” che raduna i fedeli dopo la Messa festiva, e le bellissime dolci ragazze del Patriarcato Greco Melkita: e si stringe il cuore al racconto discreto nei mesi di terrore per i missili dalla Ghouta sui quartieri cristiani, della povertà di tante famiglie sfollate, della fatica di avere oggi i mezzi di sussistenza per chi prima della guerra viveva con agio.
Si rendono conto che la guerra si trascina, ma la gente punta semplicemente a destreggiarsi nel quotidiano; la Siria è veramente massacrata e le ferite più profonde sono quelle dei morti che ogni famiglia conta, della insicurezza, della corruzione che la povertà ha amplificato, eppure i siriani restano un popolo non schiacciato, che vuole ricostruire il paese e la coesione sociale.

Tutti ci testimoniano la necessità di un lavoro educativo, in ogni ambito: i cristiani, per sostenere le ragioni per restare ed aiutare i giovani che nell'animo sono fragili ed insicuri;  i musulmani stessi per salvaguardare un Islam non politicizzato e fuori dall'influenza dei religiosi. A tal proposito, l'amico (sunnita) Said guarda con un certo malcontento al controverso decreto 16 dell'Awkaf , che a suo parere rischia di riportare surrettiziamente elementi religiosi all'interno dell'ordinamento sociale siriano, che egli come tanti altri pensatori fedeli all'islam spirituale vuole assolutamente laico , senza alcun appiglio all'introdursi di elementi oscurantisti di quell'islam fondamentalista che ha causato la funesta crisi siriana. E cita, suo malgrado, le parole del Ministro degli esteri francese Le Drian "Assad ha vinto la guerra, ma non ha ancora vinto la pace”. Non perchè Said creda poi molto alla efficacia della sbandierata 'soluzione politica', ma perchè comprende la necessità vitale della riconciliazione affinchè tanti morti e tanta devastazione non siano stati invano. “I problemi dell'Islam radicale si combatteranno con la educazione e il dialogo.., basta che se ne vadano i non-siriani”, ci viene ribadito con convinzione.

Chi ha detto che i siriani non discutono di politica? In caffè avvolti da nuvole di fumo di arghile e sigarette fumate forsennatamente (del resto un pacchetto costa l'equivalente di 50 centesimi nostri) ognuno degli amici ci vuol dare la sua lettura e spiegare cosa è questa guerra e le prospettive. 
Riportiamo qui i loro pensieri, con il rispetto e la consapevolezza di non avere competenze per giudicare, ma solamente le nostre preghiere da innalzare al Cielo per questo popolo che merita finalmente la Pace:

1  Qui si gioca un conflitto assai più ampio che quello tra sunniti e sciiti (che scuote l'Oriente ma non ha rilevanza primaria nella Siria dove si conviveva), che coinvolge molti attori internazionali e progetti mondiali di potere geopolitico, economico, energetico. L'interesse ai giacimenti di petrolio e gas (si parla anche di silicio nella zona desertica tra Palmyra e Homs) è uno dei moventi, assieme alla lotta intestina all'interno del mondo sunnita. I Paesi occidentali, Israele, Nato e satelliti del Golfo hanno provveduto con le solite procedure alla destabilizzazione della Siria, manovrando le truppe dei tagliagole jihadisti, attizzando il fuoco dello 'scontro confessionale' e finanziando le operazioni di indottrinamento all'islam fondamentalista attraverso predicatori e opere caritative.
2  Non molti credono nella 'soluzione politica' e considerano assai più decisiva la 'soluzione militare' .
3  Circa preoccupazioni e prospettive: sperano che i loro governanti conducano la fase post guerra con la stessa determinazione mostrata durante la guerra (si temono gli opportunisti che non mancano mai). Credono che la pace in Siria produrrà cambiamenti forti negli altri paesi arabi vicini, quindi la tranquillità non è garantita nell'immediato. Comunque la speranza è forte specialmente contando sulla presenza amichevole politica di Russia e Iran ed economica della Cina... Non hanno alcuna fiducia nei governi colonialisti occidentali e sono delusi dagli europei che li hanno abbandonati nonostante i legami storici. Ci domandano di lavorare per un' Italia cosciente e per un' Europa più libera..
4  Infine ammettono che le condizioni di una vera pace ancora non ci sono... essendo una delle ragioni fondamentali della guerra la sicurezza di Israele e l'applicare la "pace israeliana", con la complicità di molti governi arabi fantocci, finchè non succedano questi cambiamenti non ci sarà pace.

giovedì 1 novembre 2018

Deo gratias, Syria, per la tua fede che resiste (2)


Nella regione montuosa a nord di Damasco, gli amici ci conducono a visitare luoghi cristiani sereni, lindi, preservati dalla guerra come la deliziosa Maarat;

o Deir Mar Elias, con la vertiginosa scalinata che conduce alla antica grotta che ospitava il profeta Elia nel suo ritiro nel deserto, dove è quasi percepibile la sua presenza immersa nel dialogo con il Signore, nell'immenso silenzio dell'infinito che si stende tutto attorno;



il santissimo monastero della Madonna di Saydnaya, che ha resistito grazie allo strutturarsi di gruppi di autodifesa che più volte hanno respinto l'infiltrarsi nelle milizie islamiste;

e la grandiosa statua di Gesù benedicente, donata dai Russi, dall'alto di Deir Cherubim che spazia sull'orizzonte intero, ancora oggi meta di pellegrini a cui ci uniamo con un certo stupore.














     
               Le tracce del Cristianesimo in Siria sono tutt'altro che scomparse!

Tutta diversa è l'atmosfera che si respira a Sadad, cittadina del Qalamoun dove nell'ottobre del 2013 si consumò il più terribile massacro di cristiani: dopo sette giorni di invasione delle orde di ESL e formazioni ormai confuse nella galassia di quelli che ancora in Occidente definiscono “ribelli moderati”, si ritrovarono nei campi, nelle case, nei pozzi, 45 corpi di civili torturati e uccisi nei modi più orribili e le chiese devastate e orribilmente insozzate.
Sulla strada semideserta , tra case ancora costellate di fori di proiettili, ci viene incontro il giovane parroco siro-ortodosso abouna Michail, che con la simpatica moglie e il figlioletto ci conduce a visitare due delle chiese che gli abitanti con le loro mani hanno riparato dai danni inflitti dai radicali islamisti.

Ci illustra gli affreschi di stile siriaco sparsi su tutte le pareti della chiesa di San Giorgio e della cappella dei santi martiri Sergio e Bacco, e con orgoglio ci ricorda che Sadad, da sempre abitata unicamente da cristiani, è menzionata ben due volte nell'Antico Testamento, nel libro dei Numeri (34,8) e Ezechiele (47,16).  Legge qualche riga dal Messale scritto in siriaco aramaico e  racconta gli eventi di quei giorni orribili in cui gli abitanti all'arrivo delle bande jihadiste si dettero alla fuga senza poter prendere nulla con sé, ma più di 1500 famiglie che non erano riuscite a scappare furono tenute in ostaggio senza elettricità, acqua nè comunicazioni; ogni casa fu derubata ed ogni proprietà vandalizzata, le scuole e l'ospedale demoliti, manufatti antichi, Bibbie storiche e preziosi documenti distrutti. Egli stesso fu minacciato di essere sgozzato e ne uscì solamente perchè tenne testa con fermezza alle provocazioni.
Per la riconquista di Sadad morirono molti soldati dell'Esercito siriano e da allora la città è difesa dai cittadini stessi che si sono offerti volontari per unirsi alle 'Forze di Difesa Nazionale' , gruppi di autodifesa a guida civile che ricevono le armi dalle Forze Armate.

Quando il sacerdote riuscì a rientrare nella cappella di Sergio e Bacco, che era stata usata dai terroristi come dormitorio, trovò il pavimento cosparso da chili di droga e di alcool (musulmani??) e le pareti coperte di scritte ingiuriose in arabo. Per fortuna gli affreschi (del 1700) erano situati in alto e non furono insozzati: questo fu già un fatto miracoloso, perchè gli affreschi non sono dipinti con colori ma con materiali completamente naturali come pollini ed essenze di piante e fiori; inoltre sono pieni di riferimenti simbolici comprensibili solo in contesto siriaco aramaico.




La chiesa di san Giorgio invece fu gravemente danneggiata nello scambio di colpi tra i 'mussalahim' e l'esercito, e il restauro è riuscito in modo parziale, con gravi perdite di pregiati manufatti e strutture.



Padre Michail conta sui benefattori cristiani internazionali per l'aiuto finanziario all'acquisto del materiale necessario alla ricostruzione delle case e la riabilitazione del centro medico, mentre intende far svolgere il lavoro agli abitanti stessi, che si sono offerti con entusiasmo per collaborare alla rinascita della loro comunità.

Scende la sera, li abbracciamo uno ad uno mentre una domanda ci trafigge: "Ma come avete fatto a non capire? Questi non portavano 'democrazia e libertà', ma odio e sradicamento della nostra presenza dal nostro Oriente, che svuotato dalla matrice originaria cristiana sarà terra di conflitti e caos permanenti".