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lunedì 22 ottobre 2018

Mons. Boutros Marayati: Ricostruire le pietre e riconciliare i cuori

«Ricostruire le pietre è facile, ma riconciliare i cuori e ricucire gli uomini è più difficile».  Con queste parole Boutros Marayati (70 anni), arcivescovo di Aleppo degli armeni cattolici, sintetizza la sfida che attende i siriani nei prossimi anni.

Estratto da  Terrasanta.net

«La situazione è più calma, da quando l’esercito governativo ha conquistato la città e i ribelli si sono spostati verso Idlib...Adesso  pare reggere il cessate il fuoco, non si è più svegliati nella notte da bombe e missili. L’aeroporto non ha ancora riaperto, poiché è sotto tiro, ma acqua ed elettricità sono tornate in quasi tutti i quartieri dopo oltre cinque anni». Il fronte non è comunque lontano, si spara a dieci chilometri dalla città e in altre zone della Siria, e Marayati non esclude che ci siano «gruppi dormienti in città».
«Ora che le armi paiono tacere c’è da ricostruire la fiducia tra gli abitanti. L’odio, che a volte strumentalizza la religione, porta a vedere con diffidenza e sospetto i concittadini. Insieme ai religiosi musulmani stiamo lavorando per seminare riconciliazione e perdono.....  Nel nostro governatorato  non c’è famiglia che non abbia una piaga per il conflitto; dei 4 milioni di abitanti ne sono rimasti solo un milione; 70 mila i cristiani, rispetto ai 200 mila che erano prima del conflitto. C’è una generazione di bambini che ha visto solo la guerra, non ha mai studiato con la luce delle lampade, non si è mai lavata le mani con l’acqua corrente; è senza latte e senza medicine. L’Aiuto alla Chiesa che soffre, la Croce Rossa, Sant’Egidio, le Caritas, ATS e altre associazioni  hanno dato un aiuto decisivo alla sopravvivenza». Monsignor Marayati evoca due immagini: quella dei bambini senza più genitori e un istituto di anziani armeni delle diverse confessioni (cattolici, ortodossi, riformati) distrutto di recente dalle bombe.
 «Alcuni abitanti iniziano a tornare sia tra chi era sfollato sul litorale e non riesce più a pagare l’affitto, sia tra i rifugiati in Libano, dove la situazione è sempre più dura». Le cifre di siriani giunti nel Paese dei cedri variano da un minimo di un milione a un massimo di due, in uno Stato di 10 mila chilometri quadrati con 4,5 milioni di abitanti. L’ostilità nei confronti dei profughi cresce, i permessi di soggiorno scadono e diventa difficile uscire dai campi profughi.
Ad Aleppo i cristiani abitano soprattutto ad ovest, mentre è la parte orientale la più colpita. «Stiamo iniziando a ricostruire – dice Marayati – noi armeni cattolici, su cinque chiese, siamo riusciti a riaprirne tre; due sono distrutte. La nostra scuola, che prima della guerra aveva mille studenti, ha appena riaperto con 450 alunni in una nuova sede (la vecchia è stata bombardata)». Dai più giovani arriva una forte sfida: «Per i quartieri di Aleppo ci sono alcune centinaia di ragazzi di strada, giovanissimi che hanno perso i genitori per la guerra. Hanno bisogno di essere aiutati: da questo dipenderà se diventeranno criminali o buoni cittadini. Insieme ad alcuni religiosi musulmani, stiamo lavorando con loro». Altri giovani armeni cattolici vanno a giocare, educando alla pace, nelle tende degli sfollati con i bambini a cui è stata rubata l’infanzia.
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 Purtroppo ancora questo giovedì 18 ottobre i terroristi hanno lanciato missili sui quartiere di al-Sabil e al-Mokambo  ad Aleppo, causando feriti, morti e danni materiali a un certo numero di case.
« Anche nella calma apparente di Aleppo pare di stare sopra un vulcano, per la paura che la guerra riesploda di nuovo». 

venerdì 19 ottobre 2018

Gioventù in Siria


Tratto dal contributo all’incontro di religiosi formatori italiani, Subiaco 2018.

Questa relazione si basa su alcuni colloqui avuti con religiosi che lavorano con i giovani siriani. 


di Suor Marita Mantovani , OCSO*  

Per un discorso oggi sulla gioventù in Siria (come per ogni altro ambito sociale) si deve sempre tenere conto della grande discriminante: la guerra in atto da ormai più di sette anni. 
In qualsiasi visuale, in qualsiasi questione, automaticamente si parla di un «prima» e un «adesso».


La società
  Prima: con Hafez Assad (il padre dell’attuale presidente), al governo dal ’40 al ’90, la parola d’ordine era: Prima di tutto sei siriano, cittadino di uno Stato di diritto, e poi venivano le appartenenze etniche e religiose. Questo creava una mentalità di convivenza e rispetto. C’era molta povertà, ma dignitosa. Scuole e ospedali erano gratis. Il grande peso economico era costituito dai debiti di guerra. Tutto il meglio partiva per la Russia, ai siriani rimanevano le briciole. Per cui chi poteva farsi una casetta, trovare una discreta collocazione lavorativa, si riteneva fortunato. E si affezionava alle sue cose perché, perdute quelle, non avrebbe avuto altro. Per cui si capisce come i più anziani, ora, non vogliano abbandonare la loro terra, a costo di morirci dentro. E non solo gli anziani, anche giovani adulti esprimono questo sentimento.
 Questo stesso sentimento di attaccamento differenzia radicalmente i siriani dai libanesi, che hanno potuto godere di un tenore di vita più alto di quello dei siriani. Di fatto, fra gli emigrati molti dei siriani, forse anche la maggioranza, desiderano ritornare. I libanesi no. È l’educazione siriana che è diversa da quella libanese.
  Dopo: i debiti di guerra sarebbero stati completamente estinti nel 2017, e quindi la Siria avrebbe potuto veramente decollare. Noi stesse abbiamo visto i cambiamenti radicali nel tenore di vita dal 2005 fino all’inizio della guerra. La Siria, che non aveva debito internazionale, e che quindi non era ricattabile politicamente per mezzo del sistema bancario, e che sarebbe diventata autosufficiente, stava diventando troppo forte, per cui «hanno voluto metterla in ginocchio». E sono arrivate la guerra e le sanzioni internazionali.

La Chiesa
 C’è differenza fra ortodossi e cattolici, specie se sono latini. Per i cattolici, la grande epoca di formazione è stata quella degli anni ’80. Nei riguardi della Chiesa, e non solo nei giovanissimi, la mentalità era di questo tipo.
   Prima: tutto era dovuto alla Chiesa, con due visuali diverse fra loro: 1) «Chiesa sul piedistallo», intoccabile, insindacabile, perché sempre considerata migliore di qualunque cosa, ma lontana da un dialogo effettivo con i fedeli. 2) «Chiesa accessibile»: è possibile invece entrare in dialogo con essa, promuovere un vero incontro tra fedeli e Chiesa. Evidentemente si sente in entrambe le posizioni la realtà forte della Chiesa intesa come gerarchia, come parte clericale posta di fronte alla Chiesa dei fedeli. Nasce la domanda: i fedeli sanno, hanno coscienza di essere loro stessi Chiesa?
  Adesso: tutto si deve chiedere alla Chiesa, perché è nella Chiesa che c’è tutto: la Chiesa ha i mezzi, ha i contatti, ha gli aiuti. Quindi, c’è chi considera male i religiosi, perché li vede come accaparratori di beni, di aiuti; ma c’è anche chi soffre per la Chiesa, chi viene alla Chiesa per darsi nel servizio. La parola «servizio» torna frequentemente nei laici impegnati, in Siria.
 Ciò che si vive ora è l’insicurezza. I genitori non hanno più niente, con l’inflazione anche quelli che erano agiati si ritrovano a non avere più molto. Con l’enorme distruzione di immobili molti si ritrovano a non avere più casa o hanno perduto i guadagni degli affitti, con i quali vivevano. Tutti devono lavorare per vivere, e il lavoro o non c’è, o è molto poco.
 Le Chiese sono occupate negli aiuti umanitari, ovviamente necessari, ma questo va a detrimento dell’assistenza spirituale ai fedeli. Ora, per fortuna, molti religiosi si rendono conto che occorre trovare un equilibrio fra aiuti materiali e servizio spirituale, ma ormai l’immagine della Chiesa assistenziale si è radicata, e la gente va dove trova più aiuto umanitario, al punto di partecipare alla messa per avere diritto all’assistenza. E così è cominciata, in alcune parti, la discriminazione fra cristiani e musulmani, cosa che prima non esisteva.

I giovani
 Per natura sono accoglienti, aperti, capaci di dare tutto. L’educazione e la ricerca, la sete di risorse intellettuali e spirituali, li portano ad assorbire tutto quanto è loro offerto per una migliore capacità di servizio, alla società e alla Chiesa. Mancano, in generale, di una formazione personale, intesa nel senso della loro personale vocazione di incontro e relazione col Cristo. La società prima, che temeva le forti personalità, e poi le Chiese, concentrate più sul senso di appartenenza al rito, alla piccola comunità locale, che sull’appartenenza universale alla fede cristiana, e quindi sulla responsabilità del credere, hanno trascurato la formazione della persona in quanto tale, la coscienza di sé, delle proprie radici, del proprio futuro.
 Prima: sempre affamati di «altro», quello che veniva dall’Occidente, considerato migliore. Si valutava quello che si era in base a quanto si era ricevuto: se non si era ricevuto niente, non si era niente. Da qui la ricerca continua di nuovi studi, conoscenze, nuovi diplomi. La società favoriva in modo speciale i giovani, permettendo incontri e soggiorni all’estero. Molti hanno potuto studiare in Europa e in America, nel passato. Per quanto riguarda la fede, tutti hanno sempre cercato un’educazione religiosa e delle risorse spirituali per vivere. Tutti si sono sempre basati molto su Dio, ciascuno secondo la sua tradizione religiosa, cristiani e musulmani.
 Adesso: i giovani sono smarriti. Devono lavorare per mantenersi agli studi e spesso anche per mantenere la famiglia. Non hanno più tempo da dedicare a Dio, sono cresciuti in fretta, per le pressioni della vita. Non hanno una prospettiva chiara del futuro, anche solo dal punto di vista del lavoro, della famiglia.
 La violenza della guerra ha modificato la loro coscienza: per vivere occorre entrare nella mentalità del dover sopravvivere, ad ogni costo. Solo chi prevale può vivere. La violenza vista e subita è diventata persino un gusto, uno spettacolo cercato e contemplato con cinismo. La distruzione dell’altro è divenuta cosa normale, lecita. La perdita di valori e principi positivi, la sfiducia rispetto alla convivenza, come ad esempio, il «tradimento» da parte di vicini di casa di altra fede che si consideravano amici, ha generato il vuoto. In una recente inchiesta  in un solo paesino di periferia sono risultati 84 minorenni tossicomani, numero esorbitante per le dimensioni del paese e la realtà sociale della Siria prima.
  Ma evidentemente ci sono ancora molti giovani sani, anche se feriti profondamente dalle perdite della famiglia e della società, giovani che ancora sono disponibili al servizio gratuito, nella Chiesa e nel contesto della città (anche lavorando insieme fra cristiani e musulmani), e a imparare dimensioni nuove nel servizio. C’è molta sete di «senso», di una parola vera, diversa, che apra uno squarcio di speranza vera sulla semplice sopravvivenza.
 Molti giovani, più ancora che le ragazze, sono impegnati nella Chiesa, sia nella vita parrocchiale che nei gruppi formati e sostenuti dalle congregazioni religiose presenti (gesuiti, salesiani, maristi, francescani, ecc.). La sfida, ora, sta nel ricondurre i giovani al rispetto mutuo, a una scala di valori che metta al centro la dignità dell’uomo, di ciascun uomo, e la sua responsabilità di fronte alla fede e alla vita. Così come alla testimonianza cristiana di una speranza vera, reale, che dà senso al restare qui, oggi, in Siria, in un modo positivo e creativo, nonostante le reali difficoltà di fronte al futuro.
 Per tutti, infatti, o almeno per la stragrande maggioranza dei giovani, il pensiero fisso rimane «partire». I ragazzi per evitare il servizio militare, che oltre a essere un’immersione crudamente reale nella violenza e nella morte (compresa la propria), anche nelle condizioni migliori è un impegno senza termine (ci sono giovani, tanti, che ormai sono di leva da sette anni).  Le ragazze sognano la partenza per potersi sposare con il loro ragazzo che ormai sta all’estero e non può più ritornare in Siria, o per poter trovare condizioni di studio, lavoro e matrimonio più solide e piene. In generale, si cerca non solo di sottrarsi alla guerra, ma anche di trovare una vita migliore in un Occidente idealizzato, che di fatto sarà incapace di soddisfare il bisogno di vita più umana e più piena dei ragazzi siriani. 
 Di fatto, quelli che restano, lo fanno o per motivazioni morali realmente forti, resistendo continuamente alle sollecitazioni che vengono da tutti i loro amici che già stanno cercando di crearsi una nuova vita lontano dalla Siria, oppure perché sono così poveri da non avere denaro sufficiente per partire, per trovarsi qualche contatto, ma se avessero chi li aiuta… 

 Si può forse aggiungere che l’esperienza che facciamo nei nostri, ancora molto limitati, contatti con i giovani, è che il nostro tipo di umanesimo, cioè il modo benedettino di vivere la fede e anche i rapporti umani (stile di accoglienza, di preghiera, e vita di comunità sono le cose che colpiscono i giovani), attira, suscita domande, interesse.
  Voi siete diverse è una delle cose che ci dicono più spesso. Questa espressione ci interroga molto, perché ci fa capire la sete soggiacente, sete di un modo di vivere la fede che risponda all’esperienza indistintamente globalizzata e globalizzante che i giovani vivono, prima di raggiungere una vera coscienza di se stessi. 
 C’è bisogno di una vera cultura cristiana, intesa come capacità di valutare tutta l’esperienza in base a dei criteri di fede che abbiano solide radici in un’identità matura, come singoli e come Chiesa.

* Suor Marita Mantovani è maestra del noviziato del monastero trappista Nostra Signora Fons pacis, ad Azeir, Siria.

Testo estratto dal n° 15 della Rivista VITA NOSTRA, strumento per custodire e far conoscere la ricchezza della tradizione e della vita benedettino-cistercense. 
 La rivista Vita Nostra viene prodotta in formato cartaceo e in formato digitale  e viene normalmente inviata ai soci di Nuova Citeaux e a chi effettua una donazione a sostegno della rivista o delle attività dell’Associazione medesima, e a chiunque ne faccia richiesta.

martedì 9 ottobre 2018

Il Medio Oriente all'Onu, echi da New York. Il testo dell'allocuzione del Ministro al-Moallem.

 Nell’arena dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, al Palazzo di Vetro di New York, molti capi di Stato e di governo, o ministri degli Esteri, si sono avvicendati per l’inaugurazione della 73.ma sessione. Nei discorsi pronunciati, il tema della Terra Santa, e del Medio Oriente più in generale, è riecheggiato più volte davanti ai rappresentanti dei 193 Stati membri.
 Terrasanta .net propone un'antologia di brani di diversi oratori: Donald Trump, Hassan Rouhani, Re Abdallah di Giordania, Abdel Fattah al Sisi,  Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani,  Michel Aoun, Donald Tusk,  Sergey Lavrov,  Wang Yi, Walid al- Moallem,  Arcivescovo Paul Richard Gallagher . La trovate qui:

Noi proponiamo il testo integrale in inglese del discorso di Walid al-Moallem,  Ministro degli Affari Esteri e degli Espatriati della Repubblica Araba di Siria

Madam President of the 73rd session of the United Nations General Assembly, 
I would like to congratulate you and your country #Ecuador on your election as president of the current session of the General Assembly and I wish you all success. I would also like to thank your predecessor for presiding over the Assembly during the previous session. 
Madam President, ladies and gentlemen, 
Every year we arrive at this important international forum, hoping that every corner of this world has become more secure, stable, and prosperous. Today, our hope is stronger than ever, and so is our confidence that the will of the people shall eventually triumph. Our hope and confidence are the result of more than seven years of hardship, during which our people suffered from the scourge of terrorism. However, Syrians refused to compromise. They refused to succumb to #terrorist_groups and their external supporters. They stood their ground. They remained defiant, fully convinced that this was a battle for their existence, their history, and their future, and that they will ultimately emerge victorious. To the disappointment of some, here we are today, more than seven years into this dirty war against my country, announcing to the world that the situation on the ground has become more secure and stable and that our war on terror is almost over, thanks to the heroism, resolve, and unity of the people and the army, and to the support of our allies and friends. However, we will not stop at these achievements. We remain committed to fighting this sacred battle until we purge all Syrian territories from terrorist groups, regardless of their names, and from any illegal foreign presence. We will pay no heed to any attacks, external pressure, lies or allegations that seek to discourage us. This is our duty and a non-negotiable right that we have exercised as we set out to eradicate terrorism from our land. 
Madam President,
The governments of certain countries have denied us our right, under international law, and our national duty to combat terrorism and protect our people on our land and within our own borders. At the same time, these governments formed an illegitimate international coalition, led by the United States, on the pretext of combating terrorism in Syria. The so-called international coalition has done everything but fight terrorism. It has even become clear that the coalition’s goals were in perfect alignment with those of terrorist groups; sowing chaos, death and destruction in their path. The coalition destroyed the Syrian city of #Raqqa completely; it destroyed infrastructure and public services in the areas it targeted; it committed massacres against civilians, including children and women, which amount to war crimes under international law. The coalition has also provided direct military support to terrorists, on multiple occasions, as they fought against the #Syrian_army. It should have been more aptly named ‘The Coalition to Support Terrorists and War Crimes.’ 
The situation in Syria cannot be divorced from the battle raging between two camps on the world stage: one of the camps promotes peace, stability, and prosperity across the world, advocates dialogue and mutual understanding, respects international law, and upholds the principle of non-interference in the internal affairs of other states. The other camp tries to create chaos in international relations and employs colonization and hegemony as tools to further its narrow interests,  even if that meant resorting to corrupt methods, such as supporting terrorism and imposing an economic blockade, to subjugate people and governments that reject external diktats and insist on making their own decisions. 
What happened in Syria should have been a lesson to some countries but those countries refuse to learn. Instead, they choose to bury their head in the sand. This is why ladies and gentlemen we, the members of this organization, must make a clear and unequivocal choice: are we going to defend international law and the UN charter and be on the side of justice? Or are we going to submit to hegemonic tendencies and the law of the jungle that some are trying to impose on this organization and the world?
Ladies and gentlemen, 
Today, the situation on the ground is more stable and secure thanks to progress made in combating terrorism. The government continues to rehabilitate the areas destroyed by terrorists to restore normalcy. All conditions are now present for the voluntary return of Syrian refugees to the country they had to leave because of terrorism and the unilateral economic measures that targeted their daily lives and their livelihoods. Thousands of Syrian refugees abroad have indeed started their journey back home. The return of every Syrian refugee is a priority for the Syrian state. Doors are open for all Syrians abroad to return voluntarily and safely. And what applies to Syrians inside Syria also applies to Syrians abroad. No one is above the law. Thanks to the help of Russia, the Syrian government will spare no effort to facilitate the return of those refugees and meet their basic needs. A special committee was recently established to coordinate the return of refugees to their places of origin in Syria and to help them regain their lives. We have called upon the international community and humanitarian organizations to facilitate these returns. However, some western countries and in line with their dishonest behavior since the start of the war on Syria continue to prevent the return of refugees. They are spreading irrational fears among refugees; they are politicizing what should be a purely humanitarian issue, using refugees as a bargaining chip to serve their political agenda, and linking the return of refugees to the political process. 
Today, as we are about to close the last chapter in the crisis, Syrians are coming together to erase the traces of this terrorist war and to rebuild their country with their own hands, whether they stayed in Syria or were forced to leave. We welcome any assistance with reconstruction from those countries that were not part of the aggression on Syria and those that have come out clearly and explicitly against terrorism. However, the priority is for our friends that stood by us in our war on terror. As for the countries that offer only conditional assistance or continue to support terrorism, they are neither invited nor welcome to help.
Madam President, 
As we move ahead on counter-terrorism, reconstruction and the return of refugees, we remain committed to the political process without compromising on our national principles. These include preserving the sovereignty, independence, and territorial unity of the Syrian Arab Republic, protecting the exclusive right of Syrians to determine the future of their country without external interference, and eradicating terrorism from our country. We expressed time and again our readiness to respond to any initiative that would help Syrians end the crisis. We have engaged positively in the Geneva talks, the Astana process and the Syrian national dialogue in Sochi. However, it has always been the other parties that rejected dialogue and resorted to terrorism and foreign interference to achieve their goals. 
Nevertheless, we continue to implement the outcomes of the #Sochi Syrian national dialogue on the formation of a constitutional committee to review the current constitution. We presented a practical and comprehensive vision on the composition, prerogatives and working methods of the committee and submitted a list of representatives on behalf of the Syrian state. We stress that the mandate of the committee is limited to reviewing the articles of the current constitution, through a Syrian-led and Syrian-owned process that may be facilitated by the Special Envoy of the Secretary-General for Syria. No preconditions should be imposed on the committee, nor should its recommendations be prejudged. The committee must be independent since the constitution is a Syrian matter to be decided by Syrians themselves. Therefore, we will not accept any proposal that constitutes an interference in the internal affairs of Syria or leads to such interference. The Syrian people must have the final word regarding any constitutional or sovereign matter. We stand ready to work actively with our friends to convene the committee along the parameters I have just mentioned. 
In addition to these international initiatives, local reconciliation is well underway. Reconciliation agreements allowed us to stem the bloodshed and prevent destruction in many areas around Syria. They restored stability and a normal life to these areas and allowed people to return to the homes they were forced to leave because of terrorism. Reconciliation, therefore, will remain our priority. 
Ladies and gentlemen, 
The battle we fought in Syria against terrorism was not only a military one. It was also an ideological battle, between the culture of destruction, extremism, and death, and the culture of construction, tolerance, and life. Therefore, I launch an appeal from this rostrum, calling for fighting the ideology of terrorism and violent extremism, drying up its support and financial resources, and implementing relevant Security Council resolutions, notably resolution 2253. The military battle against terrorism, albeit important, is not enough. Terrorism is like an epidemic. It will return, break out, and threaten everyone without exception. 
Madam President, ladies and gentlemen, 
We fully condemn and reject the use of chemical weapons under any circumstances, wherever, whenever, and regardless of the target. This is why Syria eliminated completely its chemical program and fulfilled all its commitments as a member of the Organization for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW), as confirmed by numerous OPCW reports. Although some western countries are constantly trying to politicize its work, we have always cooperated with the OPCW to the largest extent possible. Unfortunately, every time we express our readiness to receive objective and professional investigative teams to investigate the alleged use of chemical weapons, these countries would block such efforts because they know that the conclusions of the investigations would not satisfy the ill-intentions they harbor against Syria. These countries have ready-made accusations and scenarios to justify an aggression on Syria. This was the case when the United States, France, and the UK launched a wanton aggression on Syria last April, claiming that chemical weapons were used without any investigation or evidence and in a flagrant violation of Syria’s sovereignty, international law and the UN charter. Meanwhile, these same countries disregarded all reliable information we provided on chemical weapons in the possession of terrorist groups that used them on multiple occasions to blame the Syrian government and justify an attack against it. The terrorist organization known as ‘the White Helmets’ was the main tool used to mislead public opinion and fabricate accusations and come up with lies on the use of chemical weapons in Syria. The White Helmets was created by British intelligence under a humanitarian cover. It has been proven however that this organization is part of the Al-Qaida-affiliated Nosra Front. Despite all allegations, we remain committed to liberating all our territory without concern for the black banners of terrorists or the theatrics of the White Helmets. 
Ladies and gentlemen, 
In another episode of the terrorist war on #Syria since 2011, suicide bombings orchestrated by ISIL rocked the governorate of Suwayda in southern Syria last July. It is worth noting that the terrorists behind that attack came from the Tanf area where US forces are present. The area has become a safe haven for ISIL remnants who are now hiding in the Rukban refugee camp on the border with Jordan, under the protection of US forces. The United States also sought to prolong the crisis in Syria by releasing terrorists from Guantanamo prison and sending them to Syria, where they became the effective leaders of the Nosra Front and other terrorist groups. Meanwhile, the Turkish regime continues to support terrorists in Syria. Since day one of the war on Syria, the Turkish regime has trained and armed terrorists, turning Turkey into a hub and a corridor for terrorists on their way to Syria. When terrorists failed to serve its agenda, the Turkish regime resorted to direct military aggression, attacking cities and towns in northern Syria. However, all these actions that undermine Syria’s sovereignty, unity, and territorial integrity and violate international law will not stop us from exercising our rights and fulfilling our duties to recover our land and purge it from terrorists, whether through military action or reconciliation agreements. We have always been open to any initiative that prevents further deaths and restores safety and security to areas affected by terrorism. That is why we welcomed the agreement on #Idlib reached in Sochi on September 17th. The agreement was the result of intensive consultations and full coordination between Syria and Russia. The agreement is timebound, includes clear deadlines, and complements the agreements on the deescalation zones reached in Astana. We hope that when the agreement is implemented, the Nosra Front and other terrorist groups will be eradicated, thus eliminating the last remnants of terrorism in Syria. Any foreign presence on Syrian territory without the consent of the Syrian government is illegal and constitutes a flagrant violation of international law and the UN charter. It is an assault on our sovereignty, which undermines counter-terrorism efforts and threatens regional peace and security. We therefore consider any forces operating on Syrian territory without an explicit request from the Syrian government, including US, French, and Turkish forces, occupying forces and will be dealt with accordingly. They must withdraw immediately and without conditions. 
Ladies and gentlemen, 
Israel continues to occupy a dear part of our land in the Syrian Golan and our people there continue to suffer because of its oppressive and aggressive policies. Israel even supported terrorist groups that operated in southern Syria, protecting them through direct military intervention and launching repeated attacks on Syria. But just as we liberated southern Syria from terrorists, we are determined to liberate fully the occupied Syrian Golan to the lines of June 4th, 1967. Syria demands that the international community put an end to all these practices and compel Israel to implement relevant UN resolutions, notably resolution 497 on the occupied Syrian Golan. The international community must also help the Palestinian people establish its own independent state, with Jerusalem as its capital, and facilitate the return of Palestine refugees to their land, pursuant to international resolutions. Any actions that undermine these rights are null and void and threaten regional peace and security, especially the Israeli racist law known as “the nation-state law” and the decision of the US administration to move the US embassy to Jerusalem and stop funding UNRWA.
Madam President, 
Syria strongly condemns the decision of the US administration to withdraw from the Iran nuclear agreement, which proves once again the United States’ disregard for international treaties and conventions. We express once again our solidarity with the leaders and people of the Islamic Republic of Iran and trust that they will overcome the effects of this irresponsible decision. We also stand with the government and people of Venezuela in the face of #US attempts to interfere in their internal affairs. We call once again for lifting the unilateral economic measures against the Syrian people and all other independent people around the world, especially the people of the DPRK, Cuba, and Belarus. 
Madam President, ladies and gentlemen, 
With the help of allies and friends, Syria will defeat terrorism. The world must never forget that and should treat us accordingly. It is time for all those detached from reality to wake up, let go of their fantasies, and come to their senses. They must realize that they will not achieve politically what they failed to achieve by force. We have never compromised on our national principles even when the war was at its peak. We will surely not do that today! At the same time, we want peace for the people of the world because we want peace for our people. We have never attacked others. We have never interfered in the affairs of others. We have never exported terrorists to other parts of the world. We have always maintained the best relations with other countries. Today, as we seek to defeat terrorism, we continue to advocate dialogue and mutual understanding to serve the interests of our people and to achieve security, stability, and prosperity for all.

venerdì 5 ottobre 2018

'Damascus': uno sguardo di salvezza sulla Siria

Documentario di Myrna Nabhan

Rimettere l'umano al centro di un conflitto che lo supera di molto: questa è l'ambizione di 'Damascus', un documentario girato a Damasco tra il 2015 e l'inizio del 2017.  Anche se la forma non è sempre perfetta, l'importante è altro. Questo film è un messaggio di speranza, una lezione sulla vita stessa, che offre uno sguardo di salvezza sulla Siria. Lungi dall'essere schiacciata dal conflitto, questa società dispiega la sua immensa ricchezza, la sua cultura del rispetto e della libertà. Un messaggio di fraternità e tolleranza.   La regista Myrna Nabhan sceglie davvero di concentrarsi sulla vita, più che sulla morte. Nonostante l'inferno quotidiano che vivono, i Damasceni continuano ad andare avanti. È toccante, bello, commovente e necessario.
 In Gallia e altrove, lo zero non è un numero, è uno strumento e una rappresentazione del nulla. 23.000.000 di siriani nella mente di un occidentale o di un giornale sono 23 e sei piccoli nulla. Ma quando un uomo apre il suo negozio per vendere nulla per giorni, zero diventa un numero e non rappresenta più il nulla; rappresenta la fede e la speranza.  (Septième Art et demi)

"Damascus": dare un volto alla guerra in Siria

di GAËLLE MOURY
Politologa come formazione, Myrna Nabhan offre un'altra immagine del conflitto siriano attraverso le testimonianze incrociate dei suoi abitanti. Nata in Belgio da padre siriano e madre marocchina, Myrna Nabhan cresce a Damasco. All'età di 18 anni, torna a Bruxelles per studiare scienze politiche e poi studio dei conflitti presso l'ULB. Un percorso e un'identità multipli che sono parte integrante di lei, del suo modo di vedere il mondo. Anche una forza, che l'ha spinta a voler mostrare la Siria in modo diverso rispetto alle immagini di guerra e di edifici devastati.
"Il conflitto è iniziato appena dopo la fine dei miei studi", dice la giovane donna. Ho continuato ad andare e tornare dalla Siria perché ho ancora la famiglia lì. Durante i miei viaggi, osservavo come le persone cercassero di vivere in questa situazione che le superava completamente. Poi ho iniziato a condividere la mia esperienza sotto forma di testimonianze per diversi media (La Libre, Le Vif e l'Huffington Post in particolare, ndr). ". Testimonianze che interessano molto i lettori. Myrna Nabhan decide quindi di continuare il suo lavoro con un approccio documentario. "Ho vissuto con questa realtà ogni giorno. A volte ero arrabbiata di essere in Belgio e non poter fare nulla. Perciò mi sono chiesta cosa sapevo e cosa potevo fare. Così ho iniziato a realizzare piccoli video sulle domande che le persone mi ponevano in Belgio. Chiedevano se c'erano ancora edifici in piedi, oppure volevano sapere se le donne fossero state tutte rapite da Daesh o se i bambini potevano ancora andare a scuola. Ho identificato i problemi che interessavano e poi ho iniziato a costruire qualcosa al riguardo. "
Inizialmente, il progetto era modesto, girato in GoPro e finanziato attraverso il crowdfunding. Poi poco a poco è cresciuto, diventato professionale fino a diventare un film.
https://www.cinenews.be/fr/films/damascus/videos/58811/
Damas, Là où l'Espoir est Le Dernier à Mourir - Photo 3
"Damasco, la città che non dorme mai è diventata una città che non dorme più  "

"Concentrarsi sulla vita e non più sulla morte"
"L'obiettivo non era nè commuovere nè mostrare le cose in modo asettico. Volevo mantenere la testimonianza genuina come, dal parrucchiere, si può parlare di un colore dei capelli e due minuti dopo di un missile. Volevo parlare della Siria in un altro modo: oltre le bombe. Concentrarsi sulla vita e non più sulla morte, sulla guerra. Dimostrare che sono persone come te e me, che hanno le stesse aspirazioni. Non possono più solo sopravvivere. Le cose sono un po' migliorate, il grado di violenza è forse diminuito, ma è un paese distrutto. Distrutti i legami interpersonali. C'è una società, delle persone da ricostruire ancor prima di ricostruire gli edifici. Più di due milioni di bambini non vanno più a scuola. Sono la Siria di domani. "
Girato tra il 2015 e l'inizio del 2017, il film è basato su molteplici testimonianze che hanno una cosa in comune: la speranza e il sorriso commovente di queste persone che lottano per la vita. "Parlare di speranza durante una guerra può sembrare strano ma, in effetti, non lo è. È un film sulla resilienza e questo fenomeno non ha confini. L'abbiamo provato anche in Belgio dopo gli attentati: siamo stati toccati nella nostra carne, nei nostri valori, ma abbiamo continuato ad andare avanti. Questa è una delle armi migliori rispetto all'atrocità di un conflitto."

traduzione dal francese di Gb.P.

martedì 2 ottobre 2018

Ad Aleppo, un lavoro educativo


di Pierre le Corf
Pubblico poco ma va tutto bene, ho solo un sacco di lavoro invisibile per il momento.
Abbiamo un programma con i bambini per sensibilizzare alla non violenza in generale, sia nei confronti delle persone che verso animali, in particolare dei gatti, cani e uccelli.
L'immagine può contenere: 2 persone, bambino e spazio all'apertoL'immagine può contenere: una o più personeL'immagine può contenere: 1 persona, bambino
L'immagine può contenere: una o più persone, persone sedute, bambino e spazio al chiusoL'immagine può contenere: una o più persone e persone seduteL'immagine può contenere: 1 persona, con sorriso

Non c'è solo molta violenza all'interno di alcuni bambini a causa della guerra, ma anche un sacco di incomprensioni e di ignoranza. Chi ruba un uovo oggi poi ruberà un bue, chi batte un animale adesso, poi sfogherà la sua violenza altrove e sugli altri in futuro. Un giorno sui suoi figli? Su sua moglie?
Per quanto riguarda i bambini che ho in classe o nei miei programmi, si tratta di dare loro alternative di vita, insegnando loro a fare scelte positive e ad esternare ed espellere ciò che li ferisce, altrimenti le stesse armi che li hanno feriti loro le useranno per ferire altri.
Nel frattempo il nostro rifugio è sempre aperto, la nostra strada viene sempre bombardata, è successo sia ieri che l'altro ieri, ma tutto va bene.
We are superheroes

domenica 30 settembre 2018

Accogliamo l’invito alla preghiera alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo che ci viene dal Sommo Pontefice

... nella coscienza che il compito che ci è assegnato è proprio la creazione di spazi di verità, di fede e di carità


L'inno ' Sub tuum praesidium' in arabo 

Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede
Il Santo Padre ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici, il Santo Padre ha incontrato padre Fréderic Fornos S.I., direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa; e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera – ha affermato il Pontefice pochi giorni fa, l’11 settembre, in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe - è l’arma contro il Grande accusatore che “gira per il mondo cercando come accusare”. Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione “Sub Tuum Praesidium”.
L’invocazione "Sub Tuum Praesidium" recita così:
“Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta”.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
Il Santo Padre ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII:
“Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen”.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].

martedì 25 settembre 2018

Nella tana qaedista di Idlib una sparuta comunità di Cristiani vive e testimonia la propria fede

Testimonianza dalla roccaforte jihadista di Idlib: “Resteremo cristiani fino alla morte”

Da Knayeh, non distante da Idlib, ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad e dei jihadisti filo-qaedisti del fronte Hayat Tahrir al-Sham (al-Nusra), arriva la testimonianza dei pochi cristiani rimasti sostenuti dagli unici religiosi, due frati della Custodia di Terra Santa, rimasti al loro fianco, padre Hanna Jallouf e padre Louai Bsharat. Minacciati da rapimenti e omicidi, privati di case e terreni, tollerati nel culto sottoposto a rigide restrizioni: "Ai fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. Anche se nella sofferenza viviamo un tempo di grazia"

di Daniele Rocchi
Agensir, 25 settembre 2018

Ringraziamo il Signore che ancora siamo vivi”. La voce di padre Hanna Jallouf, 66 anni, francescano siriano della Custodia di Terra Santa, è quella dei cristiani che vivono nei villaggi di Knayeh, Yacoubieh e Gidaideh che si trovano nella zona di Idlib, nel nord della Siria, ultimo bastione degli oppositori al presidente siriano Assad e dei terroristi islamisti. Qui, a poca distanza dal confine turco, si sono concentrati, in questi anni di guerra, decine di migliaia di combattenti, anche stranieri, del fronte Hayat Tahrir al-Sham – gruppo jihadista di ideologia salafita, affiliato ad Al-Qaeda ed erede del meglio conosciuto Jabhat Al Nusra – decisi a non arrendersi all’esercito regolare siriano e ai suoi alleati russi e iraniani. Nei giorni scorsi si era parlato di un’imminente attacco volto alla riconquista della roccaforte jihadista poi rientrato in seguito al vertice di Sochi, sul Mar Nero, durante il quale il presidente russo Putin e il leader turco Erdogan hanno trovato un accordo per creare, intorno a questa area contesa, una zona demilitarizzata. L’accordo dovrebbe portare al “ritiro di tutti i combattenti radicali” da Idlib, scongiurando una crisi umanitaria di vaste proporzioni dal momento che nell’area vivono anche due milioni e mezzo di siriani, molti dei quali sfollati interni.
Una sofferenza comune. L’accordo ha fatto tirare un sospiro di sollievo a padre Hanna, e al suo confratello Louai Bsharat, gli unici religiosi cristiani rimasti a Knayeh e Yacoubieh, nei conventi di san Giuseppe e di Nostra Signora di Fatima. Allontanato per ora lo spettro di nuovi combattimenti, sul terreno restano i problemi di sempre e “condizioni di vita sempre più dure man mano che sale la tensione”.
Non sappiamo come andrà a finire – dice padre Hanna che è parroco latino di Knayeh – i ribelli non intendono né arrendersi né ritirarsi. Se lo facessero tutti noi che viviamo qui, cristiani e musulmani, ne trarremmo giovamento. Anche i nostri fratelli musulmani soffrono molto. Vengono costretti ad andare in moschea e a seguire pratiche che sono solo nella mente di questi fanatici”.
Cristiani vittime di rapimenti e omicidi. Dal canto loro i cristiani di Knayeh e Yacoubieh vivono rintanati in casa terrorizzati. “La paura è enorme per le nostre comunità già povere – dichiara il frate -. Gli aiuti non arrivano come un tempo e sono iniziati i rapimenti  non conosciamo gli autori di questi crimini, se siano semplici malviventi o membri delle milizie che controllano la zona. Alcuni giorni fa è stato rapito il nostro avvocato e la famiglia ha dovuto sborsare circa 50mila dollari per il suo rilascio. Una cifra enorme”. Anche padre Hanna ha vissuto l’esperienza del rapimento: venne prelevato da miliziani del fronte Jahbat Al-Nusra, nell’ottobre del 2014, con 16 parrocchiani. “Dopo diversi giorni sono stato riportato al mio convento di Knayeh”, ricorda il religioso.
Volevano costringerci alla conversione e prenderci il convento. Ma siamo rimasti saldi nella fede e tornati a casa più forti e motivati di prima”.
Adesso ai rapimenti si sono aggiunte le esecuzioni sommarie e gli omicidi: Il 19 settembre – rivela padre Hanna – un uomo, da sempre vicino alla nostra parrocchia, è stato ucciso. La sua unica colpa? Quella di aiutare i cristiani”. Nella comunità locale cresce la paura e nessuno vuole uscire più. “Nessuno va più a lavorare i propri terreni. Dentro casa si sentono più al sicuro”. Tuttavia i timori vengono messi da parte quando si tratta di andare a messa. “Ogni giorno vengono in chiesa almeno 50-60 persone. La domenica sono molte di più perché arrivano anche dai villaggi vicini. I cristiani che vivono nei tre villaggi – spiega padre Hanna – sono circa 1.100, tra latini, armeno ortodossi e greco ortodossi”.
La loro sofferenza non è di oggi. “Viviamo così dal 2011, dall’inizio della guerra. Qui sono passati tutti i gruppi di ribelli e terroristi, da Isis fino ad al-Nusra e Hayat Tahrir al-Sham – sottolinea il francescano -. Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono andati via o fuggiti. Molte chiese e luoghi di culto armeni e greco ortodossi sono stati distrutti o bruciati. Tra questi anche il nostro convento di Ghassanie. Siamo rimasti due frati in due conventi e cerchiamo di assistere materialmente e spiritualmente i cristiani. La vita è difficile, manca praticamente tutto, i prezzi per acquistare i beni necessari sono altissimi. Non abbiamo elettricità e acqua corrente”.
I miliziani di al Nusra hanno preso le nostre terre, anche quelle dei conventi, e hanno cacciato i cristiani dalle proprie case per dare alloggio ai loro profughi e ai loro combattenti”.
Gli aiuti ai cristiani locali arrivano dalla Custodia di Terra Santa e dalla sua ong “AtsPro Terra Sancta”: “Ogni mese – racconta padre Hanna – riusciamo a dare alle nostre famiglie, circa 260, beni di prima necessità come medicine e latte oltre a voucher per acquistare gasolio per elettricità e riscaldamento, vestiti e libri scolastici. Abbiamo organizzato anche un servizio per portare i bambini a scuola. Le scuole non danno sostegno che per il Corano, l’arabo, l’inglese e la matematica. Ai nostri alunni diamo anche altro materiale di studio ma all’insaputa dei gruppi fondamentalisti che controllano la zona. Se lo sapessero sarebbe un guaio per noi”.
Testimonianza e martirio. 
Nella tana del fronte qaedista Hayat Tahrir al-Sham questa sparuta comunità di poco più di 1000 cristiani vive e testimonia la propria fede, anche se le restrizioni sono tante. 
Le nostre celebrazioni sono tollerate solo se svolte all’interno della chiesa, ma ci è vietato esporre all’esterno croci, statue dei santi, immagini sacre, suonare campane”, spiega il parroco, che poi rivela: “Due mesi fa sono stato convocato dal tribunale religioso dove mi è stato intimato di non vestire più l’abito da frate in quanto segno religioso indicante la fede cristiana. Così mettiamo il saio in valigia quando dobbiamo muoverci e lo indossiamo nelle zone dove ci è permesso”.
Padre Hanna sa bene che questo è il prezzo da pagare da chi ha scelto di    “restare tra la nostra gente e il nostro popolo. Restiamo saldi nella fede con la nostra comunità. Qui è nato il cristianesimo, qui sono le nostre radici. A 500 metri da Knayeh, nella strada che da Apamea portava ad Antiochia è passato san Paolo. Ai fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. I nostri avi sono nati e morti qui. Così faremo anche noi”.
 “La situazione è grave – conclude padre Jallouf – ma continuiamo a pregare e sentiamo ogni giorno sentiamo la mano di Dio che veglia su di noi. Preghiamo per la pace in Siria, perché finisca questa strage inutile.   Abbiamo paura del futuro ma nel dolore e nella sofferenza viviamo un tempo di grazia”.

sabato 22 settembre 2018

La 'Grande Israele': la guerra alla Siria come parte del processo di espansione territoriale israeliana.

Come introdotto nel precedente articolo sul 'piano Feltman-Bandar' , proponiamo una seconda chiave di lettura degli attuali eventi, nel contesto del  Piano per il 'Grande Medio Oriente' , o meglio il 'Grande Israele'.   A questo 'piano' si riferiscono le parole dell'ambasciatore siriano presso le Nazioni Unite Bachar al-Jaafari, pronunciate il 18 settembre 2018 all'indomani dell'attacco israeliano sulla città di Latakia : 
"Questi governi hanno voluto questa guerra contro il mio paese per influenzare la politica adottata dal suo governo e per cambiare la sua identità nazionale, al fine di servire il progetto di un nuovo Medio Oriente composto da entità o stati deboli e permanentemente in conflitto, fondati su una base religiosa, settaria o etnica, che imita il progetto sionista di uno Stato-nazione del popolo ebreo in Israele, che nega il diritto del popolo palestinese a uno Stato indipendente. Quindi tutta la storia si riassume nella Palestina. L'intera storia si riassume a Palestina e Israele!" 

"Grande Israele": il piano sionista per il Medio Oriente

Introduzione di Michel Chossudovsky
Il seguente documento relativo alla formazione della "Grande Israele" costituisce la pietra angolare di potenti fazioni sioniste all'interno dell'attuale governo Netanyahu, del partito Likud, nonché all'interno dell'establishment militare e dell'intelligence israeliani .
Il presidente Donald Trump ha confermato senza mezzi termini il suo sostegno agli insediamenti illegali di Israele (ivi compresa la sua opposizione alla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, relativa all'illegalità degli insediamenti israeliani nella West Bank occupata). Inoltre, spostando l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme e permettendo l'espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati e non solo, il presidente degli Stati Uniti ha fornito una approvazione di fatto del progetto "Greater Israel" (Grande Israele) come formulato nell'ambito del Piano Yinon.
Tenete a mente: questo progetto non è strettamente un progetto sionista per il Medio Oriente, esso è parte integrante della politica estera degli Stati Uniti, ovvero l'intento di Washington di fratturare e balcanizzare il Medio Oriente. La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele ha lo scopo di innescare l'instabilità politica in tutta la regione.
Secondo il padre fondatore del sionismo Theodore Herzl, "l'area dello Stato ebraico si estende: "Dal ruscello dell'Egitto fino all'Eufrate". Secondo Rabbi Fischmann, "La Terra Promessa si estende dal fiume dell'Egitto (il Nilo) fino all'Eufrate, includendo parti della Siria e del Libano".
Visto nel contesto attuale, compreso l'assedio su Gaza, il Piano Sionista per il Medio Oriente intrattiene uno stretto rapporto con l'invasione dell'Iraq del 2003, la guerra del Libano del 2006, la guerra in Libia del 2011, le guerre in corso in Siria, Iraq e Yemen, per non parlare della crisi politica in Arabia Saudita.
Il progetto "Greater Israel" consiste nell'indebolire ed infine nel fratturare i vicini stati arabi come parte di un progetto espansionista israeliano-statunitense, con il sostegno della NATO e dell'Arabia Saudita. A questo proposito, il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Israele è dal punto di vista di Netanyahu un mezzo per espandere le sfere di influenza di Israele nel Medio Oriente e affrontare l'Iran. Inutile dire che il progetto "Greater Israel" è coerente con il disegno imperiale americano.
"Greater Israel" consiste in un'area che si estende dalla Valle del Nilo fino all'Eufrate. Secondo Stephen Lendman : "Un secolo fa, il piano dell'Organizzazione Sionista Mondiale per uno Stato Ebraico includeva:
La Palestina storica;
Il Libano meridionale fino a Sidone e al fiume Litani;
Le alture del Golan in Siria, la pianura di Hauran e Deraa; e
il controllo della ferrovia Hijaz da Deraa ad Amman, Giordania e il Golfo di Aqaba.
Alcuni sionisti volevano di più - terra dal Nilo ad Ovest all'Eufrate nell'Est, comprendente Palestina, Libano, Siria occidentale e Turchia meridionale ".
Il progetto sionista sostiene il movimento degli insediamenti ebraici. Più in generale si tratta di una politica di esclusione dei Palestinesi dalla Palestina giungendo all'eventuale annessione della Cisgiordania e di Gaza allo Stato di Israele.
La Grande Israele creerebbe un numero di Stati proxy. Che comprenderebbero parti del Libano, della Giordania, della Siria, del Sinai, nonché parti dell'Iraq e dell'Arabia Saudita. (Vedi mappa).
Secondo Mahdi Darius Nazemroaya in un articolo di Global Research del 2011, [Preparare la scacchiera per lo "scontro di civiltà": dividere, conquistare e dominare il "nuovo Medio Oriente"] il Piano Yinon era una continuazione del progetto coloniale britannico in Medio Oriente:
"[Il piano Yinon] è un piano strategico israeliano per garantire la superiorità regionale israeliana. Insiste e afferma che Israele deve riconfigurare il suo ambiente geopolitico attraverso la balcanizzazione degli Stati Arabi circostanti in Stati più piccoli e più deboli. Gli strateghi israeliani consideravano l'Iraq come la loro più grande strategica sfida da uno Stato arabo. Questo è il motivo per cui l'Iraq è stato delineato come il fulcro della balcanizzazione del Medio Oriente e del mondo arabo. In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell'Iraq in uno Stato Curdo e due Stati arabi, uno per i musulmani sciiti e l'altro per i musulmani sunniti. Il primo passo verso la creazione di questo è stata la guerra tra Iraq e Iran, che il Piano Yinon studia. The Atlantic, nel 2008, e il Giornale delle Forze Armate dell'Esercito degli Stati Uniti, nel 2006, hanno entrambi pubblicato mappe ampiamente diffuse che seguivano da vicino le linee del piano Yinon. A parte un Iraq diviso, che anche il Piano Biden richiede, il Piano Yinon prevede la divisione di Libano, Egitto e Siria. Anche la partizione di Iran, Turchia, Somalia e Pakistan segue in linea con questa visione. Il Piano Yinon prevede anche la disgregazione del Nord Africa e la prefigura con partenza dall'Egitto per poi riversarsi nel Sudan, in Libia e nel resto della regione.”
La "Grande Israele "richiede la disgregazione degli Stati Arabi esistenti in piccoli stati.
"Il piano opera su due premesse essenziali. Per sopravvivere, Israele deve 1°) diventare un potere regionale imperiale e 2°) deve effettuare la divisione dell'intera area in piccoli Stati mediante la dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti. Quanto piccoli, dipenderà dalla composizione etnica o settaria di ogni Stato. Di conseguenza, la speranza sionista è che Stati basati sul settarismo diventino satelliti di Israele e, ironia della sorte, la sua fonte di legittimazione morale... Questa non è una nuova idea, né emerge per la prima volta nel pensiero strategico sionista. In effetti, frammentare tutti gli Stati Arabi in unità più piccole è stato un tema ricorrente. "(Piano Yinon, oppure vedi QUI la versione originale edita da Israel Shahak)
Viste in questo contesto, la guerra alla Siria e all'Iraq sono parte del processo di espansione territoriale israeliana.
A questo proposito, la sconfitta dei terroristi sponsorizzati dagli Stati Uniti (ISIS, Al Nusra) da parte delle forze siriane con il sostegno di Russia, Iran e Hezbollah costituisce una battuta d'arresto significativa per Israele.
Michel Chossudovsky, Global Research, 6 settembre 2015, aggiornato il 18 settembre 2018
Traduzione in italiano di Gb.P.