Traduci

domenica 17 giugno 2018

Aria di rinascita, a Damasco


di Fulvio Scaglione

(Damasco) Come sempre, i fatti importanti te li rivelano le piccole cose. La strada dal confine col Libano a Damasco già meno sconnessa. I paesini che la fiancheggiano più illuminati. I posti di blocco meno fitti e più rilassati. Nella capitale, poi, il fermento è assoluto. È vero, sono arrivato in tempo per le ultime ore del Ramadan, quando già impazzavano i preparativi per Eid al Fitr, la festa che segna la fine del mese di digiuno e purificazione: alla grande moschea degli Omayyadi erano in allestimento grande tavolate piene di cibo, il suq formicolava di gente impegnata negli ultimi rifornimenti prima che i negozi chiudessero per un week end lungo (Eid al Fitr più il venerdì) di riposo. Ma non è solo questo.
In realtà è scoppiato il dopoguerra. Anche se la  guerra  continua a Sud e a Nord, anche se il presidente Bashar al Assad è comparso in tv per ricordare che “il conflitto sarà ancora lungo”, nell’animo dei damasceni c’è l’insopprimibile sollievo di chi pensa che il peggio è davvero passato. Di nuovo, tante piccole cose lo dimostrano. Certi nuovi caffè del centralissimo quartiere di Bab Touma (la Porta di Tommaso), a grande concentrazione cristiana. I negozietti pieni delle bandiere delle nazionali che giocano la Coppa del Mondo di calcio in Russia. Il modo ormai distratto con cui i soldati, ai posti di blocco, manovrano l’aggeggio che manda impulsi elettronici per far saltare a distanza eventuali auto-bomba. E anche i manifesti dei “martiri” (i soldati, ma anche i cittadini, uccisi da Isis, Al Nusra e altri terroristi), che sui muri di Bab Touma si sono ancora moltiplicati. Un peso di lutti e sofferenze che fa capire perché i damasceni vogliano poter finalmente sorridere e festeggiare, anche a dispetto della realtà.

Perché la pace, a esser realisti, è ancora lontana. I Paesi che hanno investito nella distruzione della Siria non molleranno facilmente, anche se ora sembrano più preoccupati dell’Iran. E la ricostruzione, qui, non è ancora davvero partita proprio perché è legata in modo strettissimo alla questione della pace. Sono due, infatti, i principali ostacoli alla rinascita economica della Siria. Da un lato le forze più produttive, ovvero gli uomini in età da lavoro, sono decimate dalla leva militare o dalla fuga all’estero per evitare la leva, il che è la stessa cosa. Oggi la Siria è mandata avanti da  donne e  anziani, con tutto ciò che questo comporta in un Paese del Medio Oriente.

L’altro impedimento forte sono le sanzioni internazionali, che la Ue tra l’altro ha appena prolungato di un anno. Mutilano le attività economiche e sono una follia totale, perché non sfiorano Assad né i personaggi del suo entourage ma, semmai, fanno soffrire i civili siriani incolpevoli. Sono alloggiato, a Damasco, in una casa delle suore francescane dove sono state ospitate, negli anni, decine e decine di famiglie di malati di cancro che, a causa delle sanzioni, non hanno più modo di trovare i medicinali o di disporre dei macchinari per curarsi adeguatamente. Le sanzioni ottengono questi risultati, non altri.
L'immagine può contenere: 1 persona, cielo e spazio all'aperto
Ma la gente di Damasco, che fino a qualche settimana fa sopportava la pioggia di razzi e colpi di mortaio dai quartieri di Jobar e Harasta e oggi cammina tranquilla per le strade, ha deciso che è ora di essere allegri. Per la prima volta dopo sette anni.

venerdì 15 giugno 2018

Le misure coercitive unilaterali rafforzano la crisi umanitaria in Siria


Dichiarazione di Idriss Jazairy, relatore speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra su "gli effetti negativi delle misure coercitive unilaterali sull'esercizio dei diritti umani", alla fine della sua missione nella Repubblica Araba Siriana.
L'immagine può contenere: una o più persone, scarpe e spazio all'aperto
Idriss Jazairy, relatore speciale sull'effetto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani, ha visitato la Siria dal 13 al 17 maggio 2018 su invito del governo siriano. Alla fine del suo viaggio, era profondamente preoccupato di come vengono applicate le sanzioni unilaterali. Una delle conseguenze è il rifiuto dell'aiuto umanitario di emergenza per il popolo siriano; le sanzioni aggravano la crisi umanitaria in Siria e riguardano soprattutto le popolazioni più fragili. Idriss Jazairy ha annunciato che nel settembre 2018 apparirà il suo rapporto dettagliato contenente i suoi risultati e le sue raccomandazioni.
Pubblicato in inglese da   Ohchr.org 
Traduzione:  OraproSiria 

Osservazioni preliminari e raccomandazioni
Vorrei iniziare questo incontro esprimendo la mia gratitudine al governo della Repubblica araba siriana per il suo invito a visitare il paese e per la franchezza e la disponibilità che ha dimostrato e che hanno facilitato gli incontri della mia missione. Vorrei anche ringraziare l'ufficio del coordinatore residente, i membri della squadra nazionale delle Nazioni Unite e l'ufficio dell'Alto commissario per i diritti umani per il loro prezioso sostegno.
Il Consiglio per i diritti umani mi ha incaricato di monitorare gli effetti negativi delle misure coercitive unilaterali sull'esercizio dei diritti umani, di riferire e formulare raccomandazioni. In diverse occasioni, le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per l'uso di tali misure che potrebbero essere in conflitto con il diritto internazionale, il diritto internazionale umanitario, la Carta delle Nazioni Unite, le norme e i principi che governano relazioni pacifiche tra Stati.
Durante la mia visita, ho avuto l'onore di essere ricevuto da ministri, vice ministri e alti funzionari dei Ministeri degli Affari Esteri e degli Espatriati, dell'Economia e del Commercio, Amministrazione locale e Ambiente, del Lavoro e Affari Sociali, Trasporti, Agricoltura e riforma agraria, dell'Elettricità e della Sanità. Ho anche incontrato la direzione della commissione per la pianificazione e la cooperazione internazionale, l'ufficio centrale di statistica, la Camera di Commercio e il governatore della Banca centrale.
Il personale della società civile, le organizzazioni umanitarie e gli esperti indipendenti mi hanno dato delle guide. Infine, sono grato anche per i numerosi corpi diplomatici che hanno condiviso le loro opinioni con me durante la mia visita. Ho apprezzato molto i briefing della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l'Asia occidentale a Beirut prima della mia visita.

Lo scopo di questa missione era di esaminare fino a che punto le misure coercitive unilaterali dirette alla Repubblica araba siriana indeboliscano la piena realizzazione dei diritti sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani e in altri strumenti internazionali sui diritti umani.  Presenterò il mio rapporto completo al Consiglio per i diritti umani nel settembre 2018. Questo rapporto contiene le mie osservazioni preliminari sui risultati della mia visita.
Ho esaminato la situazione della Repubblica araba siriana in quanto obiettivo di misure coercitive unilaterali da parte di diversi Stati. Ho analizzato le prove rilevanti e ho cercato di valutare l'impatto attuale di tali misure sul popolo siriano. Uno Stato ha istituito misure coercitive unilaterali nel 1979, che sono state rafforzate negli anni successivi. Un gruppo più ampio di Stati ha iniziato ad applicare misure simili nel 2011.
Le misure collettive richiedono un divieto di commercio per l'importazione e l'esportazione di vari servizi e beni. Ciò include anche i trasferimenti finanziari internazionali. La sovrapposizione di diversi gruppi di misure collettive settoriali, unitamente all'introduzione sistematica di restrizioni finanziarie, equivale al loro impatto complessivo sull'imposizione di restrizioni più ampie sulla Siria. Sono state inoltre attuate misure complementari rivolte a persone in base al loro rapporto con il governo.
Per la loro natura globale, queste misure hanno avuto un effetto devastante sull'intera economia e sulla vita quotidiana delle persone comuni. Ciò ha esacerbato le loro sofferenze a causa della devastante crisi che si è sviluppata dal 2011. Distinguere gli effetti delle misure coercitive unilaterali di questa crisi pone molte difficoltà, ma ciò non sminuisce in alcun modo la necessità di ripristinare i loro diritti umani fondamentali nel loro insieme.
È chiaro che la sofferenza inflitta da misure coercitive unilaterali ha aumentato la sofferenza causata dal conflitto. In effetti, ironia della sorte, queste misure attuate dagli Stati di origine senza preoccuparsi dei diritti umani, attualmente contribuiscono al deterioramento della crisi umanitaria come una conseguenza fortuita.

Il drammatico aumento della sofferenza del popolo siriano
L'economia siriana continua a deteriorarsi a un ritmo allarmante. Dopo l'applicazione delle misure coercitive nel 2011 e l'inizio dell'attuale crisi, il PIL annuo totale della Siria è diminuito di due terzi. Le riserve in valuta estera sono state esaurite e le attività finanziarie internazionali e altre attività continuano a essere congelate. Nel 2010, 45 lire siriane erano scambiate a un dollaro; nel 2017, il tasso è sceso a 510 lire per dollaro. L'inflazione è aumentata drasticamente dal 2010, con un picco dell'82,4% nel 2013; il prezzo del cibo è aumentato durante questo periodo. La combinazione dei fattori ha portato alla devastazione delle condizioni di vita della popolazione che era già stata danneggiata dal conflitto. Questo fenomeno riguarda in particolare la metà dei siriani attivi che ricevono uno stipendio fisso.

Conseguenze non intenzionali delle misure coercitive unilaterali
Questo danno all'economia ha avuto effetti prevedibili sulla capacità dei siriani di comprendere la loro economia e i loro diritti sociali e culturali. Gli indici di sviluppo umano siriano sono tutti crollati. C'è stata una crescita vertiginosa del tasso di povertà tra i siriani ordinari.  Mentre non c'era insicurezza alimentare prima dello scoppio della violenza, nel 2015 il 32% dei siriani ne è stato colpito. Allo stesso tempo, la disoccupazione è aumentata dall'8,5% nel 2010 a oltre il 48% nel 2015.

Restrizioni bancarie
Le preoccupazioni onnipresenti di cui ho sentito parlare durante la mia missione riguardano gli effetti negativi delle restrizioni finanziarie su tutti gli aspetti della vita siriana. Le restrizioni della Banca centrale, delle banche pubbliche e delle banche private, nonché delle transazioni nelle principali valute internazionali hanno eliminato la capacità di chiunque di fare affari a livello internazionale.
Pur avendo teoricamente incluso "deroghe umanitarie", nella pratica queste si sono rivelate costose ed estremamente lente.
L'incertezza sul fatto che le transazioni violino o meno le misure coercitive unilaterali ha portato a un "raffreddamento" di banche e aziende che sono, quindi, riluttanti o incapaci di fare affari con la Siria. Ciò ha impedito alla Siria, alle multinazionali, agli attori non governativi (compresi quelli che lavorano solo nel campo umanitario) e ai cittadini siriani di condurre transazioni finanziarie internazionali (anche per beni legalmente importati) , ottenere credito o, per attori internazionali, pagare salari o pagare imprenditori in Siria.
Ciò ha costretto i siriani a trovare alternative, come il hawala [un sistema tradizionale di pagamento informale nel mondo arabo, ndr], causando la circolazione di milioni di dollari attraverso costosi intermediari finanziari che a volte si sono rivelati parte di organizzazioni terroristiche. Questi canali, che non sono trasparenti, non possono essere controllati e aumentano il costo della transazione, e rimangono l'unico modo per operare a livello internazionale per le società e gli attori più piccoli nella società civile siriana.

Assistenza medica
La Siria offre un accesso universale e gratuito all'assistenza sanitaria a tutti i suoi cittadini. Prima dell'attuale crisi, godeva di uno dei più alti livelli di assistenza nella regione. Le richieste create dalla crisi hanno travolto il sistema e causato un livello eccezionalmente elevato di bisogno. Nonostante ciò, le misure restrittive, in particolare quelle relative al sistema bancario, hanno influenzato la capacità della Siria di acquistare e pagare farmaci, attrezzature, pezzi di ricambio e software. Sebbene in teoria vi siano esenzioni, in pratica le società internazionali private non sono pronte a superare gli ostacoli necessari per garantire di poter trattare con la Siria senza essere accusate di violare inavvertitamente misure restrittive.

Migrazione e "fuga di cervelli"
Sebbene la situazione della sicurezza sia un fattore determinante nel flusso migratorio della Siria, bisogna sottolineare che il drammatico aumento della disoccupazione, la mancanza di offerte di lavoro, la chiusura delle imprese a causa dell'impossibilità di ottenere materie prime, macchinari o esportazione dei loro beni hanno tutti contribuito all'aumento dell'emigrazione dei siriani. Alcuni Stati “accoglienti” hanno selezionato migranti qualificati e hanno esercitato pressioni sui meno fortunati per tornare in Siria. La "fuga di cervelli" ha indebolito particolarmente le industrie mediche e farmaceutiche, proprio nel periodo peggiore per la Siria.
La fine anticipata dell'attuale conflitto non metterà fine al flusso di migranti, specialmente in Europa, data la saturazione dei paesi vicini. È probabile che tali flussi continuino fino a che le misure coercitive unilaterali impediranno alle autorità siriane di risolvere i problemi urgenti connessi alle infrastrutture sociali ed economiche, come il ripristino delle forniture di acqua ed elettricità.
Divieto di commercio di attrezzature e pezzi di ricambio
Il divieto di commercio di attrezzature, macchinari e pezzi di ricambio ha spazzato via l'industria siriana. I veicoli, comprese le ambulanze, i camion dei pompieri e le macchine agricole mancano di pezzi di ricambio. Pompe idriche difettose compromettono gravemente l'approvvigionamento idrico e riducono la produzione agricola. Le centrali elettriche non funzionano più e le nuove non possono essere costruite o mantenute, il che causa interruzioni di corrente. Macchine complesse, che richiedono manutenzione da parte di tecnici internazionali, non funzionano più e danneggiano dispositivi medici e macchinari di fabbrica. Gli aerei civili non sono più in grado di volare in sicurezza e gli autobus di trasporto pubblico sono in uno stato disdicevole. A prescindere dai motivi che i Paesi di origine adducono per giustificare la restrizione dei cosiddetti beni a duplice uso, devono essere compiuti sforzi maggiori per garantire l'autorizzazione dei beni chiaramente destinati all'uso civile e per garantire che possano essere finanziati.
Embargo sulla tecnologia

A seguito di misure coercitive unilaterali, i siriani non sono in grado di acquisire molte tecnologie, compresi telefoni cellulari e computer. Le società di software, le società tecnologiche e il software bancario e finanziario sono dominati dagli americani e sono vietati in Siria. È quindi difficile trovare alternative, il che ha paralizzato o perturbato ampie sezioni di istituzioni siriane.

 Istruzione e formazione

La mancanza di supporti, di acqua e di forniture energetiche, così come la mancanza di materiale didattico che ritarda la ricostruzione delle scuole, ha impedito a 1,8 milioni di bambini di andare a scuola. La capacità dei siriani di contribuire alla comunità internazionale è stata seriamente compromessa. I siriani sono stati esclusi dai programmi di scambio educativo internazionale e incontrano grandi difficoltà nell'ottenere un visto, il che impedisce a molti di loro di studiare o di viaggiare all'estero, di espandere la loro formazione e competenze o di partecipare a conferenze internazionali. Ritirando i loro servizi consolari dalla Siria, i Paesi hanno costretto i siriani, compresi i più poveri, a recarsi nei paesi vicini per inoltrare tali domande, sottoponendoli a costose restrizioni d'ingresso.
Conclusione

Sono profondamente preoccupato che le misure coercitive unilaterali contribuiscano all'attuale sofferenza dei siriani. Proclamare la necessità di estendere misure coercitive in vista della protezione della popolazione o dell'agevolazione di una transizione democratica è difficilmente compatibile con le sofferenze subite sul piano umanitario ed economico. È giunto il momento di chiedersi se queste conseguenze non intenzionali non siano più gravi di quelle ragionevolmente accettabili per gli stati democratici. A prescindere dagli obiettivi politici, devono esserci modi più umani di raggiungerli, nel pieno rispetto del diritto internazionale.

Data la complessità del sistema di misure coercitive unilaterali in vigore, occorrerebbe un approccio graduale per affrontare la deplorevole situazione dei diritti umani in Siria oggi. Ciò implicherebbe un approccio sequenziale che soddisferebbe i bisogni umanitari di base delle persone in tutto il paese, senza precondizioni, quando si tratta di vita o di morte. Un primo passo potrebbe integrare l'urgente necessità di sicurezza alimentare, che riguarda quasi un terzo della popolazione. Il secondo passo deve essere tradotto in misure efficaci sul terreno, gli Stati di origine devono rispettare i loro impegni e adempiere ai loro obblighi autorizzando esenzioni umanitarie, in particolare per le transazioni finanziarie. Infine, deve esserci una discussione seria sulla riduzione delle misure coercitive unilaterali, a partire da quelle che hanno l'effetto più scioccante sulla popolazione, così che queste promuovano la costruzione della fiducia tra le parti, con, obiettivo finale, la rimozione delle misure coercitive unilaterali. Spero che questo briefing  e la mia prossima relazione contribuiscano a tal fine.
Grazie. 

martedì 12 giugno 2018

Padre Samir. Il rapporto tra cristiani e musulmani: cittadinanza, lealtà, verità, come fratelli di un’unica famiglia umana

Una strada più bella di convivenza, come fratelli di un’unica famiglia umana; un rifiuto della violenza e dell’incancrenirsi al passato; un impegno a rispettare la cittadinanza di tutti, senza dividere i diritti fra cristiani e musulmani. È il messaggio e l’invito che p. Samir Khalil Samir, gesuita, esperto islamologo a livello mondiale, rivolge agli “amici musulmani”, insieme all’appello a distinguere la politica dalla religione. Nei giorni scorsi, in occasione del suo 80mo compleanno, p. Samir ha partecipato a un convegno in suo onore tenutosi presso il Pontificio istituto orientale. P. Samir propone anche una pista per la fondamentale testimonianza dei cristiani nel mondo arabo. 

Asianews 4 giugno 2018
1. L’Islam non è solo una religione: è una totalità
“L’Islam, a differenza del cristianesimo, non è solo una religione: è una totalità. È questo la sua forza e il pericolo. Può diventare un impero, una dittatura, perché niente sfugge all’islam: l’economia, la politica, l’aspetto militare, il rapporto uomo-donna, i gesti precisi nella preghiera, il modo di vestirsi, tutto! Tutto è islamico!
“È una forza, una potenza, ma è anche la lacuna, la difficoltà dell’islam. Mescolando religione, politica, economia e potere, la religione perde la sua essenza. È ciò che cerco di spiegare agli amici musulmani: fino a che ci sarà questo miscuglio – e rischia di essere per l’eternità – sarà difficile per i musulmani trovare una linea umanistica completa.
2. Il problema: mescolare politica e religione
Mescolare politica e religione è successo a tutte le religioni, in alcuni periodi. Spesso i musulmani mi criticano dicendo: “E allora, le crociate?”, aggiungendo cose inesatte e non vere. Io rispondo: “Tu stai parlando di una fase della storia, ma andiamo alla radice. Prendi il Vangelo, e trovami un solo passo in cui Gesù dice ‘combattetele, uccideteli, non fateli fuggire’, come sta scritto nel Corano” (2: 190-191; 4: 89; 9: 5; 9: 123; ecc.). Questa è la grande differenza! Gli uomini sono tutti simili, ma il testo fondatore è essenziale.
Gesù non dice “occhio per occhio, dente per dente” (Levitico 24:20; Esodo 21:24), come Mosè. Al contrario, Egli dice: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.  Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Matteo 5, 38-42).
A chi mi viene a dire: “Ma allora, tu ti sottometti a lui, al musulmano!”. Rispondo: “No, io supero la provocazione, per aiutarlo a capire: è la visione evangelica di Cristo, il suo progetto originale.
Invece, il progetto originale di Maometto è un progetto politico, che usa sì la religione e la fede – ma è politico. L’islam non è capace di distinguere le due dimensioni. Ci sono tendenze che vogliono dissociare politica e religione, ma vengono criticate. Viene detto loro che quanto da loro portato avanti “non è l’Islam”.
Questo capita anche in altre religioni. Pensiamo all’induismo – che io credevo essere il pacifismo perfetto – e a quello che accade in India oggi: ogni giorno c’è un attacco contro protestanti, cattolici, musulmani. C’è difficoltà a distinguere la religione dalla cultura politica e economica.
3. “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!”
In Egitto, nel 1919, ci fu la rivoluzione contro i britannici. Il capo dell’opposizione, il famoso Saad Zaghloul, per raccogliere tutti gli egiziani – musulmani, cristiani, ebrei, miscredenti – contro di loro, lanciò lo slogan: “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!” (Ad-dīn li-llāh, wa-l-waṭan li-l-ǧamī‘).
Copti e musulmani stavano mano nella mano contro gli inglesi che invadevano l’Egitto. Era una questione nazionale, non religiosa. Non era un conflitto tra musulmani (cioè egiziani) e cristiani (cioè britannici), ma un conflitto puramente politico.  
Questa è stata la vera rivoluzione delle mentalità. Abbiamo combattuto allora mano nella mano. E abbiamo vissuto poi anche mano nella mano, musulmani, cristiani ed ebrei. In proporzione a loro numero, c’erano più ministri cristiani che musulmani; lo stesso a tutti i livelli della vita sociale, economica, culturale e politica. Gli ebrei si sentivano a casa, e i i negozi più grandi erano i loro. 
La religione è affare personale, tra me e Dio. Nessuno ha diritto d’interferire. È questa distinzione dei settori che è fondamentale, è quello che nel dialogo islamo-cristiano cerco, personalmente, di suggerire. Se parliamo di islam, cristianesimo e ebraismo, non parliamo di ebrei, musulmani e cristiani: parliamo del progetto. È un progetto puro, valido per tutti gli esseri umani, o è un progetto per “tribù”? Finché non ci capirà questo, temo che non ci sarà pace.
4. I periodi di liberalismo nella storia islamica
Nel corso della storia, abbiamo avuto periodi in cui vi è stato rispetto per tutti, soprattutto nel periodo abbasside, tra il 750 e l’anno mille. Eravamo tutti insieme, gli uni erano discepoli degli altri. Man mano, tutto si è poi politicizzato.
Più tardi, nel 1800, abbiamo riscoperto questa possibilità di convivenza, con un’apertura fino alla metà del 20mo secolo; ma poi è tornata la tendenza islamista. Il ritorno a un’era più liberale è possibile, ma non è prevedibile a breve tempo.
Ora siamo addirittura passati dall’intransigenza al terrorismo. Ed è un terrorismo squisitamente islamico. Chi uccide lo fa nel nome dell’islam, non nel nome dell’arabismo o del nazionalismo, ma contro chi non è un “perfetto islamico”: sciiti, yazidi, cristiani… E questa corrente sta arrivando anche in Occidente. Io temo che l’Europa non si accorga dell’immensità del pericolo.
Queste settimane in Gran Bretagna hanno proposto che ai musulmani si applichi la sharia, e non la legge inglese! Se la Gran Bretagna accettasse una cosa del genere – se ognuno avesse la sua legge: cristiani, ebrei, indù, ecc. –  allora non ci sarebbe più patria, non ci sarebbe più Paese.
Il principio fondamentale da attuare è questo: la distinzione dei settori. La politica vale per tutti, la decidiamo tutti insieme e sbagliamo – e ci correggiamo – tutti insieme. La fede è un fatto personale. Se tu vuoi essere ateo, hai il diritto di esserlo. Penso che ti manchino degli elementi, ma quello è affare tuo. Tu hai il diritto di essere ateo, come io ho il diritto di essere credente, e l’altro di essere musulmano o buddista, ecc. Questo manca nella visione islamica.
5. Aiutare i musulmani a ritrovare il loro liberalismo di una volta
I cristiani devono aiutare i musulmani (ed altri gruppi religiosi o ideologici) a ricordare questi principi: non è un principio solo cristiano, è un principio umanistico. Siamo tutti “italiani”, “umani”, uomo e donna. Io non ho autorità sulla donna, né una donna ha autorità su di me. Tutti siamo sotto una sola autorità, quella della legge e – se si crede – sotto quella di Dio.
Se la Costituzione divide cristiani e musulmani, o donna e uomo – come, purtroppo dal 1971 avviene in quella egiziana – non c’è più uguaglianza e non c’è più cittadinanza! Questo concetto di cittadinanza era “la” richiesta maggiore del Sinodo per il Medio Oriente nell’ottobre-dicembre 2010, ma non è stato possibile trasmetterla alla popolazione musulmana.
La disuguaglianza tra musulmani e non musulmani, uomo e donna, ricco e povero, i vari stati sociali, ecc., sono le cause del ritardo a tutti i livelli in molti Paesi. La costituzione e le leggi valgono ugualmente per tutti, e non dovrebbe esserci nessuna distinzione tra i membri del Paese e della nazione!
6. Il salafismo è la piaga dell’islam
La piaga attuale dell’islam è la tendenza salafita, che consiste a pensare che la soluzione ai mali presenti dell’islam è il ritorno all’islam delle origini, del settimo secolo. Questa tendenza prende varie forme e nomi: il wahhabismo, da un certo Muḥammd Ibn ‘Abd al-Wahhāb (1703-1792), che viveva a Najd nel centro dell’Arabia ; i salafiti, nati in Egitto alla fine del XIX° secolo, con il desiderio di riformare l’Islam tornando al modello dei primi compagni e successori di Maometto ; i Fratelli musulmani, movimento creato in Egitto nel marzo 1928 da Hassan al-Banna.
In questi gruppi, c’è una visione per cui non si distingue fra il settimo secolo e il ventunesimo. Ciò che era valido allora lo è oggi. Eppure sono passati 14 secoli, e ora la mentalità è cambiata, e cambia giorno per giorno. Come si può dire “torniamo a praticare quello che si faceva al tempo del Profeta”, come affermano i salafiti? Non si può. Bisogna avere buon senso e logica, e per questo la critica deve essere fatta, con rispetto, certo! – perché so che chi applica quest’idea lo fa perché è convinto che quella sia la parola di Dio – , ma fatta con forza e violenza !
Allora, lo aiuto, dicendo: “Rifletti con me, riflettiamo insieme”. La nostra missione è di aiutare a riflettere, e loro devono decidere. Non posso decidere per loro, ma non posso ignorare che loro stiano pensando con criteri non contemporanei. Si tratta di un impegno di informazione e di apertura, non di imporre qualcosa.
È il messaggio che trasmetto personalmente agli amici musulmani. Senza aggressività, dico: “Fratello mio, io ti voglio tanto bene. Vedi come puoi fare una famiglia, amata e amante, strutturata; come fare un’industria che sia per il bene dei poveri”. Serve equilibrare tutto, pensare globalmente. E, in fin dei conti, siamo tutti esseri umani, membri di una famiglia che può essere la patria, degli egiziani, degli italiani… ma non una famiglia che divide.
7. Cristiani del mondo arabo: la nostra missione
Quando si dice “musulmano”, si contrappone a “cristiano”. Io penso all’evangelizzazione, è vero, ma non per convertire, ma per annunciare il Vangelo, un progetto di liberazione! Se tu pensi che questo messaggio ti aiuti ad essere migliore, prendi quel che vuoi. Ma non cerco di farti cristiano. Cerchiamo una strada più bella. Se ne vedi una, seguila – ma alla condizione che non vi sia mai qualcuno che ne soffre, che ne paga il prezzo.
Vorrei concludere con ciò che abbiamo scritto nell’Assemblea speciale per il Medio Oriente, in Vaticano, l’8 dicembre 2009:
“Il rapporto tra cristiani e musulmani va compreso a partire da due principi: da una parte, come cittadini di uno stesso Paese e di una stessa patria che condividono lingua e cultura, come gioie e dolori dei nostri Paesi; dall’altra, noi siamo cristiani nelle e per le nostre società, testimoni di Cristo e del Vangelo. Le relazioni sono, più o meno spesso, difficili, soprattutto per il fatto che i musulmani generalmente non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini” (§ 68).
“Tocca a noi, perciò, lavorare, con spirito d’amore e lealtà, per creare un’uguaglianza totale tra i cittadini a tutti i livelli: politico, economico, sociale, culturale e religioso, e questo conformemente alla maggioranza delle Costituzioni dei nostri Paesi. Con questa lealtà alla patria, e in questo spirito cristiano, noi facciamo fronte alla realtà vissuta, che potrebbe essere irta di difficoltà quotidiane, cioè di dichiarazioni e minacce da parte di certi movimenti. Constatiamo, in molti Paesi, la crescita del fondamentalismo, ma anche la disponibilità di un gran numero di musulmani a lottare contro questo estremismo religioso crescente” (§ 70).

Concludo con la dichiarazione al mondo del Concilio Vaticano II, il 28 ottobre 1965: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate, 3).
Questa è la visione cristiana, che, nella mia conoscenza limitata, mi sembra essere la più aperta di tutte le altre.

sabato 9 giugno 2018

Le proteste sociali in Giordania e l'accordo nel sud della Siria


di Scarlett Haddad (OLJ)
Traduzione: OraproSiria

Le proteste sociali in Giordania occupano attualmente una parte importante delle notizie regionali. Mentre il loro catalizzatore è stato indubbiamente il decreto sulle nuove tasse, la maggior parte dei media arabi collega questi movimenti con l'accordo che sta per essere raggiunto nella regione meridionale della Siria, come anche con quello che si sta definendo "l'accordo del secolo" sul conflitto israelo-palestinese. 
I media del Qatar mettono in causa direttamente i servizi degli Emirati Arabi Uniti e Sauditi nell'attizzare i conflitti sociali in Giordania, ma queste accuse possono essere parte del conflitto tra questo emirato e i Sauditi e i loro alleati. Tuttavia, rapporti diplomatici arabi suggeriscono che le proteste sociali sono più o meno legate agli sviluppi nella regione, in particolare in Siria. Secondo questi rapporti, il Regno hashemita avrebbe da qualche tempo preso le distanze dal campo americano-saudita in Siria. Non solo il quartier generale operativo in Giordania, che negli ultimi anni aveva svolto un ruolo importante nell'addestramento e nella formazione delle forze di opposizione siriane, ha cessato le operazioni, ma ancor più, lo Stato Giordano ha recentemente deciso di "normalizzare" i suoi rapporti con la Siria, attraverso la riapertura del valico di Nassib (il più importante tra i due paesi) per ragioni principalmente economiche, poiché questo passaggio può portare al Tesoro giordano quasi 400 milioni dollari al mese in entrate doganali, secondo le stime. In altre parole, la Giordania non vuole più che i piani contro il regime siriano passino attraverso il suo territorio. Ciò costituisce una posizione avanzata che rafforza la posizione di Damasco nel sud, in particolare nella provincia di Deraa. 

Secondo i rapporti diplomatici di cui sopra, la posizione della Giordania probabilmente faciliterà la conclusione di un accordo russo-israeliano per quella parte della Siria che prevede l'accettazione da parte degli israeliani dello spiegamento dell'esercito siriano nel sud, al confine del Golan occupato, in cambio del ritiro delle forze alleate (Iran e Hezbollah) dalla suddetta regione. 

Questo accordo, che inciampa ancora sul ritiro degli Stati Uniti dalla base di Tanaf situata sul confine siriano-iracheno ma vicino alla Giordania (una condizione posta da russi e siriani), è stato presentato come una vittoria per gli Israeliani che ottengono così il il ritiro degli Iraniani e degli Hezbollah dall'adiacente area del Golan, dove questi ultimi avevano affermato di voler creare una forza di resistenza per riproporre uno scenario simile a quello accaduto nel sud del Libano. Questo è il motivo per cui i suddetti reports diplomatici prevedono un'azione israeliana presso gli Americani a favore della conclusione di questo accordo. 

Sempre secondo gli stessi rapporti, gli Israeliani hanno bisogno di questo accordo per soffocare la possibilità che si crei un fronte permanente e attivo lungo le Alture del Golan. Soprattutto perché non hanno ancora digerito gli ultimi sviluppi in questa regione, in particolare quello che il Segretario Generale di Hezbollah ha definito in uno dei suoi discorsi "la notte dei missili". Durante quella notte, furono lanciati 48 missili dal territorio siriano verso posizioni israeliane nel Golan. Gli israeliani riconobbero solo il lancio di 20 missili, assicurando che la maggior parte di essi fu intercettata. Ma secondo Hassan Nasrallah, il loro numero è molto più alto e hanno raggiunto obiettivi militari israeliani importanti e segreti, installati nel Golan occupato e destinati a monitorare le attività delle forze avversarie. Inoltre, gli Israeliani non sono ancora riusciti a determinare l'identità di coloro che hanno lanciato i missili (esercito siriano, Iraniani o Hezbollah). Ciò aumenta ulteriormente la loro confusione, poiché hanno ammesso che la loro forza aerea non può più sorvolare e bersagliare impunemente obiettivi in Siria da quando uno dei suoi aerei militari è stato abbattuto da un missile lanciato dal territorio siriano. Gli Israeliani quindi hanno tastato il terreno e ottenuto risposte che non li hanno affatto rassicurati. Questo è il motivo per cui ora considerano che un ritorno alla situazione prebellica in Siria sia preferibile per la stabilità nel Golan. È in questo contesto che chiedono il dispiegamento dell'esercito siriano nel sud del paese per rilanciare il cessate il fuoco che era in vigore in precedenza e che è stato in linea di principio garantito dalle Forze di Pace delle Nazioni Unite. Questa rivendicazione, presentata come una vittoria, è in realtà un riconoscimento del fallimento di tutti i tentativi di rovesciare il regime siriano e del piano di aiuto alle forze dell'opposizione siriana che è durato quasi sette anni. Mostra anche che, nonostante le loro minacce, gli Israeliani temono l'apertura del fronte del Golan e la presenza di forze dell'asse della resistenza in quest'area. 

In questo contesto, la richiesta di ritiro delle forze iraniane e alleate dal sud della Siria non è una vittoria ma un desiderio di calma, per essere in grado di concentrarsi sulla questione israelo-palestinese e l'esecuzione del famoso "accordo del secolo" proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Secondo quanto si sa circa il piano americano, Gerusalemme non dovrebbe più essere reclamata dai Palestinesi e sarà consacrata capitale dello Stato ebraico.  Questo sarebbe anche l'altro motivo del desiderio di "punire" la Giordania che rifiuta questa disposizione, perché essa è il "guardiano dei Luoghi Santi" di Gerusalemme. Dossier da seguire ...  

https://www.lorientlejour.com/article/1119625/les-protestations-sociales-en-jordanie-et-le-deal-dans-le-sud-de-la-syrie.html

giovedì 7 giugno 2018

Aleppo. Nuovi inizi a partire dalla fede e dalla speranza

Fr. Ibrahim Alsabagh ha presentato in Italia il libro “Viene il mattino”, racconti di chi assiste personalmente al nuovo inizio di una delle città più antiche del mondo distrutta dalla guerra.

L'immagine può contenere: 6 persone, persone in piedi
Nuovi inizi a partire dalla fede e dalla speranza. Dal 2011 la Siria è stata messa in ginocchio dalla guerra e dalle tante morti, anche di civili. Nonostante questo, si possono vedere i primi passi di una nuova storia. È quanto Fr. Ibrahim Alsabagh ha raccontato della città di Aleppo nel libro “Viene il mattino”. Con il cessare delle ostilità nel 2016, il religioso ha visto nascere un nuovo inizio.
“Con questo contatto quotidiano, con questo respiro unico nella sofferenza, ci uniamo sempre con la carità di una madre a dare risposta alle necessità primarie della gente. Comprendere la necessità e rispondere immediatamente, senza indugi, a queste necessità”.

Fr. Ibrahim è francescano e vive ad Aleppo dal 2014. È nato in Siria, in un’epoca in cui il paese era noto per la convivenza tra le religioni. Di ritorno al suo paese, ha visto i suoi conterranei perdere tutto. Come parroco ad Aleppo ha visto la città distrutta dai missili e Fra Ibrahim ha raccontato che per molto tempo la gente non credeva che i bombardamenti ad Aleppo sarebbero mai finiti e, senza sapere da dove cominciare a ricostruire la città, la popolazione ha avuto e ha tuttora bisogno di un grande aiuto. 
“É inutile parlare di ricostruzione di case, di economia, di lavoro, senza parlare di un nuovo inizio nel cuore della gente e senza pensare a come guarire il cuore. Solo un cuore guarito e libero, come ha detto Papa Francesco, può sentirsi responsabile e potrà dare il meglio di sé. Per questo dobbiamo iniziare sempre dal cuore, dalla sua conversione, dalla guarigione di tanti cuori, per parlare di una vera ricostruzione della società e dell’intero paese”.

Aleppo è una delle città più antiche al mundo. Dopo anni di guerra, quel che resta di essa sono edifici distrutti, imprese e scuole chiuse. Migliaia di abitanti hanno già lasciato la città e chi è rimasto deve affrontare la difficoltà di mantenere la propria famiglia. Fr. Ibrahim ha evidenziato che, in mezzo a questa lotta, per parlare di speranza bisogna realizzare qualcosa di concreto. È così che i francescani, insieme con altre istituzioni della Chiesa, operano in questo processo di ricostruzione. Ci sono segnali tangibili che Aleppo ha un futuro.
“Ci sarà sempre speranza. La speranza è il punto fermo, soprattutto per noi cristiani. A nessuno è permesso disperarsi. A nessuno è permesso, anche in una realtà molto dura e difficile, non conservare la fede nella possibilità che il futuro possa essere molto migliore”.

Una situazione che sta a cuore anche a Papa Francesco. Il parroco di Aleppo ha incontrato il Papa e ha raccontato che il Pontefice prega sempre per la pace nel paese. Innumerevoli volte nel corso del suo pontificato ha chiesto ai fedeli di tutto il mondo di pregare per la fine del conflitto in Siria, oltre che invocare una negoziazione pacifica da parte della comunità internazionale. L’amore del Santo Padre per la popolazione del Medio Oriente ha incentivato ancor più Fr. Ibrahim a tornare e partecipare a questo processo di rinascita.

“Con te cresco”. Il nuovo centro estivo di Aleppo

L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono, spazio al chiuso
L'immagine può contenere: 10 persone, folla

“Con te cresco.” È questo lo slogan scelto quest’ anno dalla parrocchia San Francesco D’Assisi di Aleppo per il centro estivo. Per due mesi quasi 350 giovani potranno partecipare a diversi corsi: dal canto, allo sport, a lavoratori artistici e linguistici.

S.E. Mons. GEORGE ABU KHAZEN ,Vicario Apostolico di Aleppo: 
“Con te cresco.” Con Cristo cresciamo e cresciamo tutti insieme, perché non possiamo crescere in Cristo se non cresciamo insieme. Cresciamo insieme se cresciamo nella pace, nell’ accettare l’altro e se possiamo vivere i nostri valori umani e cristiani.
Un tema che “nasce dal desiderio comune sia dei genitori sia della Chiesa che i nostri bambini crescano, dal punto di vista umano e da quello spirituale, come Gesù nella casa di Nazareth, “in età, sapienza e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini”. 

MIKE HALLAQ, Dir. Esecutivo campo estivo:
"Il nostro obbiettivo è quello di far crescere i ragazzi, non solo quello di portarli qui e farli giocare. Certo vogliamo che giochino, siano felici, ma allo stesso tempo che possano fare qualcosa che li migliori.  Un progetto che quest’anno si è esteso anche alle altre parrocchie di altri riti della città: un impegno a far crescere questi bambini come discepoli di Cristo. Mettere al centro il bene di ciascuno e metterlo nelle condizioni di sviluppare le proprie capacità è uno degli obbiettivi primari di questo campo". 

ROULA MISTRIH, Responsabile campo estivo:
"Vogliamo che questo centro estivo sia per loro un “oasi felice”, una risorsa di gioia nelle loro vite. Mi auguro che possano migliorare la loro relazione con Gesù e allo stesso tempo accrescere i loro talenti e praticarli.
Un centro estivo che porta gioia, speranza e pace nel cuore di Aleppo 
Voglio migliorare nel disegno
Voglio migliorare nel nuoto
Voglio migliorare nella musica"

lunedì 4 giugno 2018

In che modo l'Occidente usa i rifugiati come arma contro la Siria e la regione?


del Generale Amine Mohamed Htaite - Professore universitario e ricercatore strategico – Beirut
Traduzione: Gb.P.
L'approccio all'argomento dei rifugiati siriani è uno dei più sensibili e delicati per la sua natura e il suo aspetto primario di questione umanitaria il cui oggetto è la sofferenza di popolazioni costrette a lasciare le loro case per sfuggire agli orrori della guerra, come in tutte le guerre e come molti popoli, incluso il popolo libanese. Alcune popolazioni sono diventate sfollate internamente al proprio Paese e alcune, non trovando rifugio nel loro Paese, sono state costrette all'emigrazione. L'emigrazione forzata dei popoli dalla terra è ciò che molti Siriani attualmente stanno vivendo sia all'interno che all'esterno della loro patria.
Tuttavia, l'aspetto umanitario evocato dal massiccio spostamento del popolo siriano durante i sette anni di conflitto ha lentamente ceduto il passo all'aspetto politico legato, in un modo o nell'altro, agli obiettivi primari di coloro che hanno guidato la guerra mondiale contro la Siria. Prendiamo atto con sgomento che coloro che sostengono di preoccuparsi degli sfollati e dei rifugiati, invece di adoperarsi per spegnere il conflitto e riportare a casa i rifugiati, non fanno che alimentare il fuoco. Infatti, dopo il fallimento dei suoi progetti in Siria, l'Occidente, che versa lacrime di coccodrillo sul destino dei rifugiati e la loro sicurezza, si fissa sulla strategia del prolungamento del conflitto e impedisce in tutti i modi il ritorno dei rifugiati nonostante il fatto che l'85% dei territori liberati dall'Esercito Arabo Siriano (SAA) siano sicuri e le aree controllate e stabilizzate dallo Stato siriano siano in grado di ospitare quattro milioni di rifugiati. Il governo siriano ha fatto valere le sue capacità di sicurezza e logistiche di ospitare e prendersi cura di questi rifugiati come aveva già fatto con successo per quattro milioni di sfollati interni ai quali aveva fornito riparo e opportunità di lavoro.
Questo comportamento occidentale, contrario ad ogni logica, basato sul principio dello spostamento e dell'insediamento al di fuori della Siria, ci pone di fronte alla verità nascosta dietro la maschera dell'umanitario. La verità è che lo spostamento forzato stesso è, fin dall'inizio, parte del piano di aggressione. Altrimenti, come si spiegano le tende nei campi della Turchia per migliaia di rifugiati quando non veniva sparato un solo colpo sui suoi confini? Come spiegare la prontezza delle Nazioni Unite nello stabilire un regime speciale per i rifugiati siriani, suggerendo che questa situazione sarebbe durata molto a lungo? Secondo le dichiarazioni di alcuni funzionari di questa organizzazione, si prevedeva addirittura che "la maggior parte delle popolazioni sfollate non tornerà in Siria e che sarà stabilita altrove".
Per quanto riguarda l'Europa, che presta particolare attenzione alla questione, si può presumere che si stia assicurando che i rifugiati siano sistemati proprio nei luoghi in cui già si trovano in Turchia, in Libano e in Giordania, per timore del loro afflusso nel continente, che potrebbe compromettere la sua sicurezza e stabilità. Questa argomentazione o semplificazione del problema è una giustificazione, certamente meritoria per alcuni aspetti, ma non convincente. In che modo un rifugiato siriano che torna a casa e riprende una vita normale, come è avvenuto con i siriani di Beit Jinn che hanno scelto volontariamente e dignitosamente di tornare alle proprie case, potrebbero danneggiare l'Europa?
Vediamo in questo irrazionale comportamento occidentale solo la tendenza a continuare l'aggressione e il rifiuto di ammettere il fallimento dei suoi progetti in terra siriana. L'Occidente considera i rifugiati come un'arma usata contro la Siria in primo luogo e contro la regione più in generale, per raggiungere obiettivi sotto l'apparenza dell'aspetto umanitario della questione. I più importanti tra questi obiettivi sono:
1) Impedire alla Siria di investire nelle sue vittorie sul terreno: il controllo di oltre l'85% delle aree popolate, il ritorno alla vita normale, la ripresa dell'attività quotidiana, sono la prova materiale della sconfitta degli aggressori.
2) Mantenere alcuni dei Siriani sotto il controllo occidentale e alla sua mercé, per reclutarli contro il loro Paese: l'Occidente, incapace di fornire unità militari per perpetrare la sua aggressione e occupazione della Siria, e per paura delle immancabili perdite contro la Resistenza che se ne occuperà dopo aver completato la liberazione e la pulizia delle aree centrali e intermedie, vuole addestrare unità di combattimento siriane all'estero, sotto il suo comando, che alleggerirebbero il peso di perdite umane e materiali, soprattutto perché i paesi del Golfo sono obbligati a finanziarne i costi.
3) Servire la strategia del prolungamento del conflitto su cui gli Stati Uniti si appoggiano dopo la loro sconfitta in Siria: questo elemento è chiaramente e pubblicamente dichiarato e riconosciuto dagli Stati Uniti e dai suoi agenti occidentali, ritenendo che la fine del conflitto in Siria rappresenti una sconfitta strategica importante che potrebbe ridurre drasticamente la loro influenza in Medio Oriente e persino sloggiarli.
4) Causare un cambiamento demografico in tutti i paesi della regione che aprirebbe la strada a uno spostamento delle frontiere e alla revisione dei confini voluta da Israele: e noi ricordiamo qui la strategia degli Stati Uniti del "caos costruttivo" adottata per ridisegnare un nuovo Medio Oriente basato sulla creazione di stati etnici, comunitaristi, confessionali, settari e razziali; stati deboli che potrebbero essere creati solo attraverso una riconfigurazione demografica derivante dapprima da massicci spostamenti forzati e dalla successiva pianificata implementazione. Ed è proprio su questo punto che la questione dei profughi è un pericolo per la Siria, che diventa anche un pericolo per il Libano e la Giordania. Per quanto riguarda la Turchia, è chiaro che fa parte del piano occidentale che le dà l'opportunità di spostare i suoi confini annettendo territorio siriano; è la sua attuale ambizione per Afrin e sono le sue aspirazioni per l'area di Aleppo da Tell Rifaat a Manbij fino a Jarablus. È per questo motivo che l'Occidente insiste nel collegare la questione dei rifugiati alla soluzione globale. I più accorti comprenderanno questo aspetto.
Per tutti questi motivi, riteniamo che la soluzione del problema degli sfollati vada al di là dei soli interessi siriani e comprenda l'intera regione, in particolare il Libano. Questo problema di spostamento e reinsediamento rappresenta un pericolo per l'unità della Siria, ma anche per l'unità e la sicurezza dei Paesi vicini. Pertanto, il grido che il Libano ha levato contro la dichiarazione di Bruxelles, emanata dall'Unione Europea e dalle Nazioni Unite, è un atto difensivo che deve essere seguito e deve unire i Libanesi nel suo rifiuto. Nessuno ha il diritto di rimanere in silenzio perché il silenzio è inaccettabile ed è un segno di tacita approvazione e persino di tradimento contro il Libano.
Riteniamo inoltre che il coordinamento siriano-libanese per risolvere il problema dei rifugiati sia un dovere nazionale che incide direttamente sulla sicurezza e sulla stabilità del Libano. Qualsiasi individuo o entità o stato che rifiuti questo coordinamento, ostacoli qualsiasi soluzione e impedisca il ritorno dei rifugiati siriani nella loro terra natia, è semplicemente un nemico del Libano. Infine, affermiamo che la risoluzione del problema dei rifugiati, non solo in Libano ma negli altri Paesi ospitanti, e il loro rimpatrio nel loro Paese, è una parte essenziale della battaglia difensiva condotta dal campo dalla Resistenza contro l'aggressione americano-sionista sostenuta dai Paesi arabi della regione. Qualsiasi indulgenza su questo argomento è solo un servizio reso a facilitare l'aggressione contro la regione.
https://reseauinternational.net/comment-loccident-utilise-t-il-les-refugies-comme-arme-contre-la-syrie-et-la-region/

giovedì 31 maggio 2018

Washington non riesce a sconfiggere Assad, così punirà il suo popolo


Una coalizione di menagramo sta trattenendo gli aiuti finché non sia caduto il regime di Assad. Così sarà la normale popolazione siriana a soffrire.

Di GEOFFREY ARONSON •  maggio 2018
Traduzione: Gb.P.
Le bombe continuano a cadere sulla Siria nella costernazione di tutti gli interessati. Il presidente siriano Bashar al-Assad mette in guardia su un conflitto sul suolo siriano che coinvolgerà Israele, l'Iran e la Russia. "Le cose", dice, "potrebbero andare fuori controllo".
L'intensificarsi nei giorni recenti della violenza tra Iran e Israele è una chiara prova della reiterazione del messaggio "Assad deve andarsene" nella miserevole situazione della Siria.
Si potrebbe pensare che, dopo aver perso la guerra per il regime-change in Siria, Washington avrebbe intrapreso una revisione approfondita delle valutazioni errate e di una miriade di altri problemi che hanno prodotto la debacle in atto. Si sarebbe potuto pensare che almeno avrebbe cercato di elaborare una politica post-bellica per la Siria che la ripagasse dell'incredibile danno arrecato a quel Paese e ai suoi cittadini così a lungo provati.
Invece, gli Stati Uniti stanno replicando la loro campagna fallita contro Assad, mobilitando una coalizione internazionale per negare a lui e, cosa più importante, al popolo siriano gli strumenti per ricostruire. Le armi di questa battaglia non sono gli F-15 o i mortai, ma la negazione degli aiuti alla ricostruzione, i finanziamenti internazionali per la riabilitazione delle infrastrutture della Siria pubbliche e private e un reiterato regime di pesanti sanzioni, intese a sabotare la capacità della Siria di Assad e del suo decimato settore privato di riemergere dalle ceneri. Inoltre, c'è stato uno sforzo fragile anche se costoso, per creare, con il sostegno degli "amici della Siria" di Washington, qualcosa di diverso nelle regioni orientali del Paese al momento al di fuori del controllo del regime.
Questa politica meschina, che in effetti era stata annunciata quando il presidente Trump aveva detto a marzo che avrebbe messo "in sospensione" i 200 milioni di dollari di finanziamento per la ripresa in Siria, si basa sugli stessi presupposti che ci hanno animato da quando Assad è stato dichiarato persona non grata. E non ha più probabilità di successo rispetto ai nostri tentativi di cambio di regime.
Tuttavia, nel mondo di oggi niente ha più successo di un fallimento. L'amministrazione Trump sta cercando di costruire un consenso tra gli Stati Uniti e i suoi alleati in favore del proseguimento della guerra e del cambio di regime con altri mezzi, cioè, opponendosi al ritorno dei profughi dai campi in Giordania, Libano e Turchia, e ostacolando la capacità del regime, i suoi sostenitori e i Siriani in generale per risorgere dalle macerie.
"La ricostruzione e il sostegno internazionale per la sua attuazione sarebbero un dividendo di pace, molto potente, ma lo sarà solo una volta che una transizione politica credibile e inclusiva sarà in atto", ha spiegato il capo della politica estera dell'UE Federica Mogherini, il 5 aprile durante una conferenza stampa.
Non importa che gli alleati degli Stati Uniti nella regione, in particolare il Libano, dove uno su quattro dei residenti è siriano, così come la Giordania, si lamentino del massiccio onere per l'accoglienza ai rifugiati. Queste nazioni sono ansiose, mentre le armi oltre il confine restano relativamente in silenzio, di rimpatriare i Siriani che hanno accolto.
Il primo ministro libanese Saad Hariri, nel suo intervento a Bruxelles, ha avvertito che la continua opposizione al rimpatrio creerà una diaspora siriana permanente e destabilizzante in Libano, non diversamente dai Palestinesi che vi hanno vissuto in un limbo dal 1948. "Il Libano è diventato un unico campo profughi ", si è lamentato Hariri.
Questa settimana il presidente del Libano Michael Aoun ha chiesto aiuto all'Egitto, all'Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per assicurare il ritorno dei rifugiati siriani nel loro paese, "per mettere fine alle loro sofferenze da una parte e, dall'altra, per porre fine alle ripercussioni sociali, economiche ed educative, e in termini di sicurezza in Libano, dovute a questo spostamento".
Anche la Turchia sta incoraggiando il ritorno di un'avanguardia di 3,5 milioni di rifugiati in aree lungo il confine ora sotto il suo controllo. "Risolveremo la questione Afrin, la questione Idlib, e vogliamo che i nostri fratelli e sorelle rifugiati ritornino nel loro Paese", ha spiegato il presidente Recep Tayyip Erdogan all'inizio di quest'anno.
Il messaggio di Bruxelles non è stato incoraggiante. L'aiuto umanitario sarà disponibile, ma sarà probabilmente inadeguato finché gli USA e i suoi amici europei giocheranno a fare i guastafeste. Come il segretario agli esteri britannico Boris Johnson ha dichiarato: "Se vogliamo procedere con la ricostruzione della Siria, ci deve essere una transizione dal regime di Assad".
Gli Stati Uniti sono un grande donatore di "assistenza umanitaria" ai Siriani sia all'interno che all'esterno del loro Paese, nelle aree sotto il regime e sotto il controllo dell'opposizione. La maggior parte della gente dimentica o non sa che gli Stati Uniti stanno conducendo attacchi aerei in Siria da anni. A settembre del 2017, ad esempio, gli Stati Uniti avevano lanciato 32.801 bombe sulla Siria, rispetto alle 30.743 nel 2016, aggiungendo così altre distruzioni alle infrastrutture siriane da quando è scoppiata la guerra civile nel 2011.
Tale "benevolenza umanitaria" fornisce pane quotidiano agli sfollati interni ad Aleppo e al campo di Zaatari in Giordania, ma esclude il sostegno alla ricostruzione della rete elettrica siriana, alla ricostruzione di strutture pubbliche e all'importazione di attrezzature agricole per sostenere la ripresa economica. La politica degli Stati Uniti mira a garantire che milioni di siriani non muoiano di fame, ma rifiuta il sostegno agli sforzi per consentire loro di nutrirsi da sè. Come questa "leva" si traduca nella cacciata di Assad è un enigma. Per orientarsi, basta guardare alla Striscia di Gaza, dove gli sfortunati abitanti sono stati sottoposti a una "dieta" supportata dagli Stati Uniti da quando Hamas ha assunto il potere più di un decennio fa.
C'è un insolito grado di unanimità a Washington rispetto a quello che di solito è un divisivo spartiacque politico, a sostegno di queste politiche sfortunate. La debacle della recente politica americana in Siria è sempre stata un affare bipartisan. Gonfiare il petto di fronte ad Assad è diventato uno dei pochi casi su cui regna il consenso politico. Pochi davvero vogliono mettersi dalla parte sbagliata degli angeli riconoscendo la forza di resistenza di Assad. Molti di meno sono disposti a suggerire che il riconoscimento di questa realtà deve essere la base per un nuovo sguardo della politica statunitense.
Invece, Washington applaude il passaggio della "No Assistence for Assad Act", che è la versione del Congresso di mettere "uno stop" sui fondi per il recupero della popolazione siriana. Nelle osservazioni precedenti l'approvazione del provvedimento, il membro del Congresso Ed Royce ha spiegato:
Rappresentanti della Siria, dell'Iran e della Russia si stanno attivando verso tutta la comunità internazionale provando a raccogliere fondi per la ricostruzione. Non li troveranno qui!
Sarebbe irragionevole che i fondi del governo USA venissero utilizzati per la stabilizzazione o la ricostruzione nelle aree sotto il controllo del regime illegittimo di Assad e dei suoi alleati. Non appoggeremo la costruzione di infrastrutture a beneficio di Hezbollah, delle Guardie rivoluzionarie iraniane o delle milizie straniere reclutate e pagate dal regime iraniano.
Se - o quando - arriverà il giorno in cui il governo siriano non sarà più guidato da Bashar al-Assad e dai suoi alleati, allora gli Stati Uniti potranno guardare ancora una volta alla prospettiva dell'assistenza. Abbiamo un interesse a vedere un giorno una Siria stabile, sicura e non ostile.
Ma fino ad allora, chiedo che i membri si uniscano a noi per assicurarsi che nessun finanziamento americano sia nelle mani di Assad e dei suoi sodali.
Vi sono, tuttavia, altri "amici della Siria" - in particolare Russia, Cina, Iran, la maggior parte dei vicini della Siria e decine di nazioni minori - che hanno una visione diversa dei vantaggi della ricostruzione e delle opportunità economiche e di sviluppo che fornirà.
Secondo Wajih Bizri, presidente della Camera di Commercio Internazionale del Libano, i Libanesi stanno collaborando con le controparti siriane nel settore del turismo e in progetti commerciali. "Chiunque sia interessato ad andare in Siria non può aspettarsi che qualcuno arrivi e gli dica che tutto è assolutamente sicuro al 100% in Siria", dice Bizri. "Sarà troppo tardi allora."
Gli investimenti sono ben avviati nel porto libanese di Tripoli, a soli 28 chilometri dal confine siriano, per espandere la sua capacità di far fronte al previsto aumento delle importazioni per la Siria. Le aziende cinesi sono in primo piano in questo sforzo.
"Penso che sia tempo di concentrare tutti gli sforzi sullo sviluppo e la ricostruzione della Siria, e penso che la Cina svolgerà un ruolo più importante in questo processo fornendo più aiuti al popolo siriano e al governo siriano", ha osservato Qi Qianjin, ambasciatore della Cina in Siria, a febbraio.
La stessa Russia ha riconosciuto il compito "colossale" di finanziare la ricostruzione della Siria, stimata in 250 miliardi di dollari. Senza la partecipazione occidentale, la riabilitazione sarà più lenta e più costosa, ma il treno ha ormai lasciato la stazione. Può essere rallentato, con grandi costi umanitari, ma non può essere fermato.
Geoffrey Aronson è presidente e co-fondatore di The Mortons Group e uno studioso non residente, presso il Middle East Institute.