Traduci

giovedì 7 giugno 2018

Aleppo. Nuovi inizi a partire dalla fede e dalla speranza

Fr. Ibrahim Alsabagh ha presentato in Italia il libro “Viene il mattino”, racconti di chi assiste personalmente al nuovo inizio di una delle città più antiche del mondo distrutta dalla guerra.

L'immagine può contenere: 6 persone, persone in piedi
Nuovi inizi a partire dalla fede e dalla speranza. Dal 2011 la Siria è stata messa in ginocchio dalla guerra e dalle tante morti, anche di civili. Nonostante questo, si possono vedere i primi passi di una nuova storia. È quanto Fr. Ibrahim Alsabagh ha raccontato della città di Aleppo nel libro “Viene il mattino”. Con il cessare delle ostilità nel 2016, il religioso ha visto nascere un nuovo inizio.
“Con questo contatto quotidiano, con questo respiro unico nella sofferenza, ci uniamo sempre con la carità di una madre a dare risposta alle necessità primarie della gente. Comprendere la necessità e rispondere immediatamente, senza indugi, a queste necessità”.

Fr. Ibrahim è francescano e vive ad Aleppo dal 2014. È nato in Siria, in un’epoca in cui il paese era noto per la convivenza tra le religioni. Di ritorno al suo paese, ha visto i suoi conterranei perdere tutto. Come parroco ad Aleppo ha visto la città distrutta dai missili e Fra Ibrahim ha raccontato che per molto tempo la gente non credeva che i bombardamenti ad Aleppo sarebbero mai finiti e, senza sapere da dove cominciare a ricostruire la città, la popolazione ha avuto e ha tuttora bisogno di un grande aiuto. 
“É inutile parlare di ricostruzione di case, di economia, di lavoro, senza parlare di un nuovo inizio nel cuore della gente e senza pensare a come guarire il cuore. Solo un cuore guarito e libero, come ha detto Papa Francesco, può sentirsi responsabile e potrà dare il meglio di sé. Per questo dobbiamo iniziare sempre dal cuore, dalla sua conversione, dalla guarigione di tanti cuori, per parlare di una vera ricostruzione della società e dell’intero paese”.

Aleppo è una delle città più antiche al mundo. Dopo anni di guerra, quel che resta di essa sono edifici distrutti, imprese e scuole chiuse. Migliaia di abitanti hanno già lasciato la città e chi è rimasto deve affrontare la difficoltà di mantenere la propria famiglia. Fr. Ibrahim ha evidenziato che, in mezzo a questa lotta, per parlare di speranza bisogna realizzare qualcosa di concreto. È così che i francescani, insieme con altre istituzioni della Chiesa, operano in questo processo di ricostruzione. Ci sono segnali tangibili che Aleppo ha un futuro.
“Ci sarà sempre speranza. La speranza è il punto fermo, soprattutto per noi cristiani. A nessuno è permesso disperarsi. A nessuno è permesso, anche in una realtà molto dura e difficile, non conservare la fede nella possibilità che il futuro possa essere molto migliore”.

Una situazione che sta a cuore anche a Papa Francesco. Il parroco di Aleppo ha incontrato il Papa e ha raccontato che il Pontefice prega sempre per la pace nel paese. Innumerevoli volte nel corso del suo pontificato ha chiesto ai fedeli di tutto il mondo di pregare per la fine del conflitto in Siria, oltre che invocare una negoziazione pacifica da parte della comunità internazionale. L’amore del Santo Padre per la popolazione del Medio Oriente ha incentivato ancor più Fr. Ibrahim a tornare e partecipare a questo processo di rinascita.

“Con te cresco”. Il nuovo centro estivo di Aleppo

L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono, spazio al chiuso
L'immagine può contenere: 10 persone, folla

“Con te cresco.” È questo lo slogan scelto quest’ anno dalla parrocchia San Francesco D’Assisi di Aleppo per il centro estivo. Per due mesi quasi 350 giovani potranno partecipare a diversi corsi: dal canto, allo sport, a lavoratori artistici e linguistici.

S.E. Mons. GEORGE ABU KHAZEN ,Vicario Apostolico di Aleppo: 
“Con te cresco.” Con Cristo cresciamo e cresciamo tutti insieme, perché non possiamo crescere in Cristo se non cresciamo insieme. Cresciamo insieme se cresciamo nella pace, nell’ accettare l’altro e se possiamo vivere i nostri valori umani e cristiani.
Un tema che “nasce dal desiderio comune sia dei genitori sia della Chiesa che i nostri bambini crescano, dal punto di vista umano e da quello spirituale, come Gesù nella casa di Nazareth, “in età, sapienza e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini”. 

MIKE HALLAQ, Dir. Esecutivo campo estivo:
"Il nostro obbiettivo è quello di far crescere i ragazzi, non solo quello di portarli qui e farli giocare. Certo vogliamo che giochino, siano felici, ma allo stesso tempo che possano fare qualcosa che li migliori.  Un progetto che quest’anno si è esteso anche alle altre parrocchie di altri riti della città: un impegno a far crescere questi bambini come discepoli di Cristo. Mettere al centro il bene di ciascuno e metterlo nelle condizioni di sviluppare le proprie capacità è uno degli obbiettivi primari di questo campo". 

ROULA MISTRIH, Responsabile campo estivo:
"Vogliamo che questo centro estivo sia per loro un “oasi felice”, una risorsa di gioia nelle loro vite. Mi auguro che possano migliorare la loro relazione con Gesù e allo stesso tempo accrescere i loro talenti e praticarli.
Un centro estivo che porta gioia, speranza e pace nel cuore di Aleppo 
Voglio migliorare nel disegno
Voglio migliorare nel nuoto
Voglio migliorare nella musica"

lunedì 4 giugno 2018

In che modo l'Occidente usa i rifugiati come arma contro la Siria e la regione?


del Generale Amine Mohamed Htaite - Professore universitario e ricercatore strategico – Beirut
Traduzione: Gb.P.
L'approccio all'argomento dei rifugiati siriani è uno dei più sensibili e delicati per la sua natura e il suo aspetto primario di questione umanitaria il cui oggetto è la sofferenza di popolazioni costrette a lasciare le loro case per sfuggire agli orrori della guerra, come in tutte le guerre e come molti popoli, incluso il popolo libanese. Alcune popolazioni sono diventate sfollate internamente al proprio Paese e alcune, non trovando rifugio nel loro Paese, sono state costrette all'emigrazione. L'emigrazione forzata dei popoli dalla terra è ciò che molti Siriani attualmente stanno vivendo sia all'interno che all'esterno della loro patria.
Tuttavia, l'aspetto umanitario evocato dal massiccio spostamento del popolo siriano durante i sette anni di conflitto ha lentamente ceduto il passo all'aspetto politico legato, in un modo o nell'altro, agli obiettivi primari di coloro che hanno guidato la guerra mondiale contro la Siria. Prendiamo atto con sgomento che coloro che sostengono di preoccuparsi degli sfollati e dei rifugiati, invece di adoperarsi per spegnere il conflitto e riportare a casa i rifugiati, non fanno che alimentare il fuoco. Infatti, dopo il fallimento dei suoi progetti in Siria, l'Occidente, che versa lacrime di coccodrillo sul destino dei rifugiati e la loro sicurezza, si fissa sulla strategia del prolungamento del conflitto e impedisce in tutti i modi il ritorno dei rifugiati nonostante il fatto che l'85% dei territori liberati dall'Esercito Arabo Siriano (SAA) siano sicuri e le aree controllate e stabilizzate dallo Stato siriano siano in grado di ospitare quattro milioni di rifugiati. Il governo siriano ha fatto valere le sue capacità di sicurezza e logistiche di ospitare e prendersi cura di questi rifugiati come aveva già fatto con successo per quattro milioni di sfollati interni ai quali aveva fornito riparo e opportunità di lavoro.
Questo comportamento occidentale, contrario ad ogni logica, basato sul principio dello spostamento e dell'insediamento al di fuori della Siria, ci pone di fronte alla verità nascosta dietro la maschera dell'umanitario. La verità è che lo spostamento forzato stesso è, fin dall'inizio, parte del piano di aggressione. Altrimenti, come si spiegano le tende nei campi della Turchia per migliaia di rifugiati quando non veniva sparato un solo colpo sui suoi confini? Come spiegare la prontezza delle Nazioni Unite nello stabilire un regime speciale per i rifugiati siriani, suggerendo che questa situazione sarebbe durata molto a lungo? Secondo le dichiarazioni di alcuni funzionari di questa organizzazione, si prevedeva addirittura che "la maggior parte delle popolazioni sfollate non tornerà in Siria e che sarà stabilita altrove".
Per quanto riguarda l'Europa, che presta particolare attenzione alla questione, si può presumere che si stia assicurando che i rifugiati siano sistemati proprio nei luoghi in cui già si trovano in Turchia, in Libano e in Giordania, per timore del loro afflusso nel continente, che potrebbe compromettere la sua sicurezza e stabilità. Questa argomentazione o semplificazione del problema è una giustificazione, certamente meritoria per alcuni aspetti, ma non convincente. In che modo un rifugiato siriano che torna a casa e riprende una vita normale, come è avvenuto con i siriani di Beit Jinn che hanno scelto volontariamente e dignitosamente di tornare alle proprie case, potrebbero danneggiare l'Europa?
Vediamo in questo irrazionale comportamento occidentale solo la tendenza a continuare l'aggressione e il rifiuto di ammettere il fallimento dei suoi progetti in terra siriana. L'Occidente considera i rifugiati come un'arma usata contro la Siria in primo luogo e contro la regione più in generale, per raggiungere obiettivi sotto l'apparenza dell'aspetto umanitario della questione. I più importanti tra questi obiettivi sono:
1) Impedire alla Siria di investire nelle sue vittorie sul terreno: il controllo di oltre l'85% delle aree popolate, il ritorno alla vita normale, la ripresa dell'attività quotidiana, sono la prova materiale della sconfitta degli aggressori.
2) Mantenere alcuni dei Siriani sotto il controllo occidentale e alla sua mercé, per reclutarli contro il loro Paese: l'Occidente, incapace di fornire unità militari per perpetrare la sua aggressione e occupazione della Siria, e per paura delle immancabili perdite contro la Resistenza che se ne occuperà dopo aver completato la liberazione e la pulizia delle aree centrali e intermedie, vuole addestrare unità di combattimento siriane all'estero, sotto il suo comando, che alleggerirebbero il peso di perdite umane e materiali, soprattutto perché i paesi del Golfo sono obbligati a finanziarne i costi.
3) Servire la strategia del prolungamento del conflitto su cui gli Stati Uniti si appoggiano dopo la loro sconfitta in Siria: questo elemento è chiaramente e pubblicamente dichiarato e riconosciuto dagli Stati Uniti e dai suoi agenti occidentali, ritenendo che la fine del conflitto in Siria rappresenti una sconfitta strategica importante che potrebbe ridurre drasticamente la loro influenza in Medio Oriente e persino sloggiarli.
4) Causare un cambiamento demografico in tutti i paesi della regione che aprirebbe la strada a uno spostamento delle frontiere e alla revisione dei confini voluta da Israele: e noi ricordiamo qui la strategia degli Stati Uniti del "caos costruttivo" adottata per ridisegnare un nuovo Medio Oriente basato sulla creazione di stati etnici, comunitaristi, confessionali, settari e razziali; stati deboli che potrebbero essere creati solo attraverso una riconfigurazione demografica derivante dapprima da massicci spostamenti forzati e dalla successiva pianificata implementazione. Ed è proprio su questo punto che la questione dei profughi è un pericolo per la Siria, che diventa anche un pericolo per il Libano e la Giordania. Per quanto riguarda la Turchia, è chiaro che fa parte del piano occidentale che le dà l'opportunità di spostare i suoi confini annettendo territorio siriano; è la sua attuale ambizione per Afrin e sono le sue aspirazioni per l'area di Aleppo da Tell Rifaat a Manbij fino a Jarablus. È per questo motivo che l'Occidente insiste nel collegare la questione dei rifugiati alla soluzione globale. I più accorti comprenderanno questo aspetto.
Per tutti questi motivi, riteniamo che la soluzione del problema degli sfollati vada al di là dei soli interessi siriani e comprenda l'intera regione, in particolare il Libano. Questo problema di spostamento e reinsediamento rappresenta un pericolo per l'unità della Siria, ma anche per l'unità e la sicurezza dei Paesi vicini. Pertanto, il grido che il Libano ha levato contro la dichiarazione di Bruxelles, emanata dall'Unione Europea e dalle Nazioni Unite, è un atto difensivo che deve essere seguito e deve unire i Libanesi nel suo rifiuto. Nessuno ha il diritto di rimanere in silenzio perché il silenzio è inaccettabile ed è un segno di tacita approvazione e persino di tradimento contro il Libano.
Riteniamo inoltre che il coordinamento siriano-libanese per risolvere il problema dei rifugiati sia un dovere nazionale che incide direttamente sulla sicurezza e sulla stabilità del Libano. Qualsiasi individuo o entità o stato che rifiuti questo coordinamento, ostacoli qualsiasi soluzione e impedisca il ritorno dei rifugiati siriani nella loro terra natia, è semplicemente un nemico del Libano. Infine, affermiamo che la risoluzione del problema dei rifugiati, non solo in Libano ma negli altri Paesi ospitanti, e il loro rimpatrio nel loro Paese, è una parte essenziale della battaglia difensiva condotta dal campo dalla Resistenza contro l'aggressione americano-sionista sostenuta dai Paesi arabi della regione. Qualsiasi indulgenza su questo argomento è solo un servizio reso a facilitare l'aggressione contro la regione.
https://reseauinternational.net/comment-loccident-utilise-t-il-les-refugies-comme-arme-contre-la-syrie-et-la-region/

giovedì 31 maggio 2018

Washington non riesce a sconfiggere Assad, così punirà il suo popolo


Una coalizione di menagramo sta trattenendo gli aiuti finché non sia caduto il regime di Assad. Così sarà la normale popolazione siriana a soffrire.

Di GEOFFREY ARONSON •  maggio 2018
Traduzione: Gb.P.
Le bombe continuano a cadere sulla Siria nella costernazione di tutti gli interessati. Il presidente siriano Bashar al-Assad mette in guardia su un conflitto sul suolo siriano che coinvolgerà Israele, l'Iran e la Russia. "Le cose", dice, "potrebbero andare fuori controllo".
L'intensificarsi nei giorni recenti della violenza tra Iran e Israele è una chiara prova della reiterazione del messaggio "Assad deve andarsene" nella miserevole situazione della Siria.
Si potrebbe pensare che, dopo aver perso la guerra per il regime-change in Siria, Washington avrebbe intrapreso una revisione approfondita delle valutazioni errate e di una miriade di altri problemi che hanno prodotto la debacle in atto. Si sarebbe potuto pensare che almeno avrebbe cercato di elaborare una politica post-bellica per la Siria che la ripagasse dell'incredibile danno arrecato a quel Paese e ai suoi cittadini così a lungo provati.
Invece, gli Stati Uniti stanno replicando la loro campagna fallita contro Assad, mobilitando una coalizione internazionale per negare a lui e, cosa più importante, al popolo siriano gli strumenti per ricostruire. Le armi di questa battaglia non sono gli F-15 o i mortai, ma la negazione degli aiuti alla ricostruzione, i finanziamenti internazionali per la riabilitazione delle infrastrutture della Siria pubbliche e private e un reiterato regime di pesanti sanzioni, intese a sabotare la capacità della Siria di Assad e del suo decimato settore privato di riemergere dalle ceneri. Inoltre, c'è stato uno sforzo fragile anche se costoso, per creare, con il sostegno degli "amici della Siria" di Washington, qualcosa di diverso nelle regioni orientali del Paese al momento al di fuori del controllo del regime.
Questa politica meschina, che in effetti era stata annunciata quando il presidente Trump aveva detto a marzo che avrebbe messo "in sospensione" i 200 milioni di dollari di finanziamento per la ripresa in Siria, si basa sugli stessi presupposti che ci hanno animato da quando Assad è stato dichiarato persona non grata. E non ha più probabilità di successo rispetto ai nostri tentativi di cambio di regime.
Tuttavia, nel mondo di oggi niente ha più successo di un fallimento. L'amministrazione Trump sta cercando di costruire un consenso tra gli Stati Uniti e i suoi alleati in favore del proseguimento della guerra e del cambio di regime con altri mezzi, cioè, opponendosi al ritorno dei profughi dai campi in Giordania, Libano e Turchia, e ostacolando la capacità del regime, i suoi sostenitori e i Siriani in generale per risorgere dalle macerie.
"La ricostruzione e il sostegno internazionale per la sua attuazione sarebbero un dividendo di pace, molto potente, ma lo sarà solo una volta che una transizione politica credibile e inclusiva sarà in atto", ha spiegato il capo della politica estera dell'UE Federica Mogherini, il 5 aprile durante una conferenza stampa.
Non importa che gli alleati degli Stati Uniti nella regione, in particolare il Libano, dove uno su quattro dei residenti è siriano, così come la Giordania, si lamentino del massiccio onere per l'accoglienza ai rifugiati. Queste nazioni sono ansiose, mentre le armi oltre il confine restano relativamente in silenzio, di rimpatriare i Siriani che hanno accolto.
Il primo ministro libanese Saad Hariri, nel suo intervento a Bruxelles, ha avvertito che la continua opposizione al rimpatrio creerà una diaspora siriana permanente e destabilizzante in Libano, non diversamente dai Palestinesi che vi hanno vissuto in un limbo dal 1948. "Il Libano è diventato un unico campo profughi ", si è lamentato Hariri.
Questa settimana il presidente del Libano Michael Aoun ha chiesto aiuto all'Egitto, all'Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per assicurare il ritorno dei rifugiati siriani nel loro paese, "per mettere fine alle loro sofferenze da una parte e, dall'altra, per porre fine alle ripercussioni sociali, economiche ed educative, e in termini di sicurezza in Libano, dovute a questo spostamento".
Anche la Turchia sta incoraggiando il ritorno di un'avanguardia di 3,5 milioni di rifugiati in aree lungo il confine ora sotto il suo controllo. "Risolveremo la questione Afrin, la questione Idlib, e vogliamo che i nostri fratelli e sorelle rifugiati ritornino nel loro Paese", ha spiegato il presidente Recep Tayyip Erdogan all'inizio di quest'anno.
Il messaggio di Bruxelles non è stato incoraggiante. L'aiuto umanitario sarà disponibile, ma sarà probabilmente inadeguato finché gli USA e i suoi amici europei giocheranno a fare i guastafeste. Come il segretario agli esteri britannico Boris Johnson ha dichiarato: "Se vogliamo procedere con la ricostruzione della Siria, ci deve essere una transizione dal regime di Assad".
Gli Stati Uniti sono un grande donatore di "assistenza umanitaria" ai Siriani sia all'interno che all'esterno del loro Paese, nelle aree sotto il regime e sotto il controllo dell'opposizione. La maggior parte della gente dimentica o non sa che gli Stati Uniti stanno conducendo attacchi aerei in Siria da anni. A settembre del 2017, ad esempio, gli Stati Uniti avevano lanciato 32.801 bombe sulla Siria, rispetto alle 30.743 nel 2016, aggiungendo così altre distruzioni alle infrastrutture siriane da quando è scoppiata la guerra civile nel 2011.
Tale "benevolenza umanitaria" fornisce pane quotidiano agli sfollati interni ad Aleppo e al campo di Zaatari in Giordania, ma esclude il sostegno alla ricostruzione della rete elettrica siriana, alla ricostruzione di strutture pubbliche e all'importazione di attrezzature agricole per sostenere la ripresa economica. La politica degli Stati Uniti mira a garantire che milioni di siriani non muoiano di fame, ma rifiuta il sostegno agli sforzi per consentire loro di nutrirsi da sè. Come questa "leva" si traduca nella cacciata di Assad è un enigma. Per orientarsi, basta guardare alla Striscia di Gaza, dove gli sfortunati abitanti sono stati sottoposti a una "dieta" supportata dagli Stati Uniti da quando Hamas ha assunto il potere più di un decennio fa.
C'è un insolito grado di unanimità a Washington rispetto a quello che di solito è un divisivo spartiacque politico, a sostegno di queste politiche sfortunate. La debacle della recente politica americana in Siria è sempre stata un affare bipartisan. Gonfiare il petto di fronte ad Assad è diventato uno dei pochi casi su cui regna il consenso politico. Pochi davvero vogliono mettersi dalla parte sbagliata degli angeli riconoscendo la forza di resistenza di Assad. Molti di meno sono disposti a suggerire che il riconoscimento di questa realtà deve essere la base per un nuovo sguardo della politica statunitense.
Invece, Washington applaude il passaggio della "No Assistence for Assad Act", che è la versione del Congresso di mettere "uno stop" sui fondi per il recupero della popolazione siriana. Nelle osservazioni precedenti l'approvazione del provvedimento, il membro del Congresso Ed Royce ha spiegato:
Rappresentanti della Siria, dell'Iran e della Russia si stanno attivando verso tutta la comunità internazionale provando a raccogliere fondi per la ricostruzione. Non li troveranno qui!
Sarebbe irragionevole che i fondi del governo USA venissero utilizzati per la stabilizzazione o la ricostruzione nelle aree sotto il controllo del regime illegittimo di Assad e dei suoi alleati. Non appoggeremo la costruzione di infrastrutture a beneficio di Hezbollah, delle Guardie rivoluzionarie iraniane o delle milizie straniere reclutate e pagate dal regime iraniano.
Se - o quando - arriverà il giorno in cui il governo siriano non sarà più guidato da Bashar al-Assad e dai suoi alleati, allora gli Stati Uniti potranno guardare ancora una volta alla prospettiva dell'assistenza. Abbiamo un interesse a vedere un giorno una Siria stabile, sicura e non ostile.
Ma fino ad allora, chiedo che i membri si uniscano a noi per assicurarsi che nessun finanziamento americano sia nelle mani di Assad e dei suoi sodali.
Vi sono, tuttavia, altri "amici della Siria" - in particolare Russia, Cina, Iran, la maggior parte dei vicini della Siria e decine di nazioni minori - che hanno una visione diversa dei vantaggi della ricostruzione e delle opportunità economiche e di sviluppo che fornirà.
Secondo Wajih Bizri, presidente della Camera di Commercio Internazionale del Libano, i Libanesi stanno collaborando con le controparti siriane nel settore del turismo e in progetti commerciali. "Chiunque sia interessato ad andare in Siria non può aspettarsi che qualcuno arrivi e gli dica che tutto è assolutamente sicuro al 100% in Siria", dice Bizri. "Sarà troppo tardi allora."
Gli investimenti sono ben avviati nel porto libanese di Tripoli, a soli 28 chilometri dal confine siriano, per espandere la sua capacità di far fronte al previsto aumento delle importazioni per la Siria. Le aziende cinesi sono in primo piano in questo sforzo.
"Penso che sia tempo di concentrare tutti gli sforzi sullo sviluppo e la ricostruzione della Siria, e penso che la Cina svolgerà un ruolo più importante in questo processo fornendo più aiuti al popolo siriano e al governo siriano", ha osservato Qi Qianjin, ambasciatore della Cina in Siria, a febbraio.
La stessa Russia ha riconosciuto il compito "colossale" di finanziare la ricostruzione della Siria, stimata in 250 miliardi di dollari. Senza la partecipazione occidentale, la riabilitazione sarà più lenta e più costosa, ma il treno ha ormai lasciato la stazione. Può essere rallentato, con grandi costi umanitari, ma non può essere fermato.
Geoffrey Aronson è presidente e co-fondatore di The Mortons Group e uno studioso non residente, presso il Middle East Institute.

lunedì 28 maggio 2018

L'UE ha rinnovato le sue sanzioni economiche sulla Siria per il settimo anno consecutivo

«La speranza non si uccide solo con il fucile, ma anche con le sanzioni»

in questo documento si spiega nel dettaglio in cosa consistono le sanzioni UE alla Siria

Riprendiamo la
testimonianza delle Monache Trappiste siriane circa l'impatto delle sanzioni sulla popolazione:


"Si sa benissimo che queste misure non colpiscono affatto chi è al potere. Le sanzioni colpiscono la gente, ed in modo durissimo… Niente materie prime per lavorare, niente medicinali, anche per le malattie gravi. Tutto carissimo, i prezzi degli alimenti sono arrivati a dieci volte tanto... Senza lavoro, in un paese in guerra, dilaga la violenza, la delinquenza, il contrabbando, la corruzione, la speculazione, l’insicurezza. Questi, sono i frutti delle sanzioni..
La gente non ne può più. “Benissimo, è proprio questo che si vuole con le sanzioni: esasperare la gente perché faccia pressione sul governo”.
Benissimo?? E CHI lo vuole ? .. OTTO anni di sofferenza della gente, anni di vita tirata con i denti… Provate a immaginare quanti sono OTTO anni per un bambino in crescita? Quanto importanti?
E’ possibile pensare di usare anni di sofferenza della gente per ottenere un risultato politico, strategico? mascherandolo poi come il bene vero della gente stessa? No, non è proprio possibile. E se non sappiamo trovare altri strumenti, allora siamo veramente  indegni di chiamarci paesi democratici.. (cioè, paesi che dovrebbero avere a cuore le sorti del popolo !!!!)  
E poi si continuano a mandare soldi, aiuti.. E di questo, va detto con sincerità, qui tutti sono davvero grati, perché l’Occidente sa essere, è davvero molto generoso. Voi stessi che leggete, sì, tante volte avete aperto il cuore. 
Ma non è assurdo ? non sarebbe meglio creare lavoro, creare opportunità ? Fermare le speculazioni che aumentano a dismisura i costi ? Far ripartire la vita, ed investire in progetti? "
Al link di seguito il comunicato UE che informa che le sanzioni dal maggio 2018 sono rinnovate fino al 1 giugno 2019:

sabato 26 maggio 2018

Aiuto umanitario a Ghouta orientale - Monastero Mar Yakub

‘They know that we know they are liars, they keep lying’: West's war propaganda on Ghouta crescendos
La Ghouta orientale è una vasta regione intorno a Damasco, la cui città più importante è Douma. Per anni è stata una base in cui migliaia di terroristi hanno imposto violentemente la legge della Sharia alla popolazione praticamente in ostaggio. È piena di corridoi sotterranei che spesso furono scavati da civili innocenti. Nel monastero di Mar Yakub ci siamo presi cura per alcune settimane di una madre e un bambino che sono stati rinchiusi in una prigione sotterranea a East Goutha per due anni. Durante la guerra, i terroristi di quella regione spararono quasi ogni giorno bombe alla cieca sulla parte densamente abitata e libera di Damasco. All'inizio del 2018, quel terrorismo è stato orribilmente esteso in modo da far piovere quasi costantemente bombe sulla capitale siriana. A quel punto, l'esercito siriano prese una decisione che annunciava la fine della violenza terroristica. I soldati siriani hanno liberato East Ghouta in un solo mese. I terroristi furono uccisi o scortati a Idlib e Jarablous sul confine turco. Immediatamente dopo la liberazione, il 13 marzo 2018, il monastero di Mar Yakub iniziò i lavori di soccorso nella Ghouta orientale. Quello che segue è una breve panoramica degli aiuti umanitari che il monastero di Mar Yakub fornisce alla popolazione.

Il nostro convento, in collaborazione con Preemptive Love Coalition, fornisce assistenza a dieci campi profughi intorno a Damasco, dove oggi vengono accuditi circa 52.000 rifugiati provenienti dalla Ghouta orientale (all'inizio di marzo 2018 erano circa 90.000 persone). La stessa Ghouta orientale è stata quasi completamente distrutta dopo 7 anni di terrore e dopo la liberazione dell'esercito siriano che è stato costretto a risolvere la situazione con attacchi aerei (circa il 95% degli edifici sono in macerie). Non ci sono più terroristi ISIS. Eppure ci sono ancora case o appartamenti che sono più o meno abitabili. Ci sono persone che hanno scelto di rimanere lì invece di andare nei campi profughi. Anche il nostro monastero li aiuta. Il servizio di soccorso ha vari livelli:
  1. Medico: abbiamo due hospitainers e tre ambulanze che vanno da un campo all'altro per aiutare la gente. Abbiamo medici specializzati in medicina generale, ginecologia e operazioni. Ora c'è una domanda per dentisti e pediatri. I medici sono assistiti da infermiere. Ogni mese assistono 40.000 persone malate. Qualche volta un medico era costretto a prendersi cura di 700 pazienti al giorno all'inizio della liberazione di East Ghouta (un giorno che poteva durare fino a 16 ore)!  Oggi, ora che l'organizzazione sta migliorando, i medici si prendono cura di 200-300 pazienti al giorno. La maggior parte dei medici è fuggita all'estero durante la guerra. Siamo perciò costretti a dare ai medici siriani ancora disponibili un'alta retribuzione mensile per spostarsi quotidianamente a Est-Ghouta, sotto il pericolo ancora reale. Va detto che il nostro monastero è l'unica organizzazione che ha medici sul posto. La Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni hanno a disposizione infermieri e medicine, ma nessun dottore. Mar Yakub fornisce anche medicinali ai rifugiati, in particolare contro il diabete, l'ipertensione e le malattie cardiache (questo riguarda principalmente i farmaci che devono essere assunti ogni giorno).
  2. Cibo: a Dweir (un campo profughi) diamo cibo a 10.500 persone al giorno. A Douma (la capitale della Ghouta orientale) 4000 persone ricevono un pasto caldo ogni giorno. Nel nostro monastero abbiamo un caseificio dove vengono preparati ogni giorno centinaia di chili di yogurt (600 kg) per le cucine di Damasco. Quelle cucine vengono ora ampliate e presto una tonnellata di yogurt al giorno non sarà più sufficiente (i siriani mangiano yogurt senza zucchero quasi ogni pasto).
  3. Distribuzioni: abbiamo distribuito pannolini e latte per bambini per 3000 bambini. Inoltre, 10.000 persone hanno ricevuto un kit di salute . Abbiamo distribuito vestiti per donne, uomini e bambini, oltre a materassi e cuscini.
  4. Alloggio: Nel campo profughi di Feiha il monastero ha fornito servizi igienici mobili, lavandini e docce. Abbiamo anche piazzato una recinzione per proteggere il campo profughi.
  5. Aiuto psicologico: sotto la guida di uno psichiatra con due impiegati, il monastero fornisce anche un aiuto psicologico ai rifugiati traumatizzati.
Questa è solo una foto della situazione a Damasco. 
(Vedi il servizio di Alex Thomson per Channel 4 “It was hell”… “We were the living dead”  https://www.channel4.com/news/inside-ghouta-as-syrian-government-fully-controls-damascus-for-the-first-time-in-seven-years)

          

In tutta la Siria, circa 700 persone ora sono impiegate come lavoratori a pagamento nel nome del monastero. Ogni giorno 100.000 siriani ricevono un pasto caldo grazie al monastero. Qualche giorno fa il governatore della provincia di Damasco ha dichiarato in una riunione: "A East Ghouta la Mezzaluna Rossa (l'equivalente della Croce Rossa) ha tentato, ma la squadra di Mar Yakub ha ottenuto i risultati migliori".  Altri hanno testimoniato: "Le persone di Mar Yakub hanno un cuore, puoi vedere che lavorano con tutta la loro anima". 
Questa è la bellezza della nostra squadra. Anche se abbiamo meno risorse rispetto alle grandi organizzazioni, puoi vedere che sono tutte distribuite senza riserve. 
Cristo dice: "Dare è meglio che ricevere"
La stragrande maggioranza della nostra squadra è musulmana. Eppure le giacche che indossano sono decorate con una grande croce. È la gioia di Cristo che portano a chi è nel bisogno. Siamo eternamente grati a Madre Agnès Mariam per il suo incessante lavoro per il popolo siriano. È lei che ha creato questa squadra.  Organizzazioni umanitarie internazionali come UNFPA, Partners, LDS-Charties, Preemtive Love Coalition e altri hanno trovato in lei una persona affidabile per aiutare i siriani. Per le organizzazioni occidentali, è molto importante avere una persona fidata sul posto che conosca la cultura e le esigenze della popolazione locale e chi abbia intuizioni per creare grandi progetti.
Per il prossimo futuro, speriamo di aprire un centro per assistere persone disabili (persone che hanno perso gli arti sotto le bombe).  Vogliamo anche organizzare corsi di formazione per i bambini nei campi profughi.  Infine, abbiamo bisogno di dentisti, una sala per i raggi X e un laboratorio per eseguire esami delle urine e del sangue.

Fratel Jean del Monastero Mar Yakub, Qara

mercoledì 23 maggio 2018

Nulla è scontato nel Levante tranne una cosa : non è ancora finita.


Nessuna forza si ritirerà dalla Siria: lo spettro di una guerra allargata contro l'Iran e Hezbollah in Medio Oriente è molto reale



Damasco -Elijah J. Magnier-

Tradotto daAlice Censi

Incontrando il suo omologo siriano Bashar al-Assad, il presidente russo Vladimir Putin a Sochi ha espresso il proprio desiderio di un’ uscita di tutte le forze militari straniere dalla Siria, tuttavia non è riuscito a chiarire come avrebbe potuto ottenere il ritiro delle forze d’occupazione americane e turche da circa il 50% del nord e dell’est del paese. Queste forze hanno i loro piani espansionistici e i loro obbiettivi geopolitici che presuppongono una lunghissima occupazione, infatti, alla luce dell’esplosiva situazione in Medio Oriente, su vari fronti, si pensa che nessuna forza si ritirerà in tempi brevi. I mesi a venire potrebbero rivelare piani bellici che porterebbero il Medio Oriente verso una guerra molto più ampia, pertanto sia gli USA che la Turchia ritengono che sia necessario mantenere le loro forze sul campo, vicinissime al punto più caldo al mondo, pronte ad intervenire.
Il presidente Donald Trump annunciava mesi fa l’ intenzione di ritirare le sue forze dalla Siria; in realtà non sta ordinando loro di attaccare e sconfiggere l’ISIS nelle province di  al-Hasaka e a Deir-ezzour : sono passati molti mesi durante i quali c’è stata una minima attività contro lo “Stato Islamico” e non seria abbastanza da giustificare la presenza delle truppe americane con l’intenzione dichiarata di condurre la guerra soltanto al gruppo terroristico per sconfiggerlo.
Nel frattempo, Washington mantiene due importanti areoporti militari e numerose basi che accolgono parecchi contingenti militari nel nord e inoltre comanda circa 35.000 militanti, curdi e arabi;  le forze americane, britanniche e francesi nella zona settentrionale curda e a est, al valico di al-Tanaf, addestrano, riforniscono e mantengono sotto il loro comando altri 30.000 militanti.

Ma gli Usa non sono l’unica forza di occupazione nella zona: la Turchia ha preso il controllo di Afrin e Idlib, dove si trovano tra i 70.000 e 100.000 militanti, inclusi quelli di al-Qaeda ( prima era Hayat Tahrir al-Sham, cioè Jabhat al Nusra) adesso nella variante più radicale Horras al-Deen ( i Guardiani della Religione). La Turchia ha impiantato scuole, imposto la lingua turca e considera questo territorio siriano come parte della Turchia.
La Siria non è solo minacciata nel nord, Israele nel sud sta cercando di imporsi nello scenario siriano : durante gli anni della guerra Tel Aviv ha bombardato le posizioni siriane e iraniane più di 100 volte.
L’esplosiva situazione nel Levante si è estesa anche alla Palestina dove Trump ha dichiarato la Capitale della Palestina ( Gerusalemme est e ovest) come Capitale di Israele e ha inaugurato la nuova ambasciata americana proprio a Gerusalemme innescando  grandi rivolte tra la popolazione locale.

Come se tutto ciò non fosse sufficiente, Trump, illegalmente, si è ritirato dal trattato nucleare con l’Iran, senza lasciare alcun margine ai suoi partners europei, ha infatti minacciato di colpire la collaborazione economica tra Usa ed Europa e le compagnie europee intenzionate a trattare con l’Iran se non revocano i contratti.
Quasi ogni giorno Trump impone delle nuove sanzioni all’Iran  e ha rinnovato le sanzioni a Hezbollah, il principale alleato dell’Iran, per ricordare continuamente chi è il “nemico del mondo” e  quindi il prossimo obbiettivo su cui si dirigerà ( e dove molto probabilmente si dirigeranno le sue armi).

Secondo fonti ben informate, infatti, avvengono incontri regolari a livello politico e militare in Medio Oriente allo scopo di discutere e pianificare le prossime azioni militari e studiare gli scenari di guerra contro l’Iran e i suoi alleati. Questi scenari vanno ben oltre le decine di missili da crociera: si parla di una guerra molto più diffusa che colpisca l’Iran prima e poi Damasco : tutto questo perché gli appassionati del “cambio di regime” rifiutano di accettare la realtà dei fatti e di “mollare” il Levante alla Russia e all’”asse della resistenza”.
Come è stato detto prima, ci sono oltre 150.000 militanti, armati, nel nord e nell’est della Siria pronti a entrare di nuovo in combattimento quando l’Iran –e molto probabilmente il suo alleato Hezbollah – saranno sotto attacco diretto, senza la possibilità di difendere il loro alleato siriano (questa è la valutazione delle menti del piano). Potrebbe succedere che le forze sotto il controllo turco preparino un attacco ai curdi o espandano il loro perimetro di controllo per raggiungere Aleppo. Nulla è scontato nel Levante tranne una cosa : non è ancora finita.

Questo è lo scenario più pessimista in cui si possono trovare il Libano, la Siria e l’Iran a causa della volontà di imporre un “ nuovo Medio Oriente” e indirettamente sconfiggere la Russia. Gli USA sarebbero i maggiori protagonisti con la loro macchina militare, insieme ad Israele, mentre i paesi mediorientali sarebbero felici di finanziare questa campagna. Le recenti decisioni di Trump contro l’Iran, infatti,hanno alzato il prezzo del petrolio che sta raggiungendo il suo livello più alto negli ultimi quattro anni : questo garantisce maggiori entrate finanziarie a tutti i paesi pronti a impegnarsi in una nuova guerra anche se sia l’Iran che la Russia traggono beneficio dall’aumento.
Comunque, questo possibile scenario di guerra avrebbe una pesante ricaduta sulle popolazioni mediorientali (incluso l’Iran) e anche europee perché la guerra includerebbe senz’altro –in questo caso- blocchi aerei e marittimi e sarebbe colpito lo stretto di Hormuz (o sequestrate le navi) dove passa oltre il 20% del petrolio . Nel 1988, nel 2007 e nel 2008 lo stretto era stato spettatore di uno scontro tra Iran e Stati Uniti. Ogni chiusura dello stretto andrebbe ad incidere su tutti i commerci e i prezzi delle merci nel mondo.

No! Si prevede che nessuna forza militare se ne andrà dalla Siria. Il presidente Putin può soltanto esprimere i suoi desideri con la volontà di imbarcare tutte le parti in una soluzione politica ma sapendo che non ha il controllo sui protagonisti. Putin non ha intenzione di farsi trascinare in una guerra più estesa con nessuno dei paesi che stanno occupando dei territori della Siria, pertanto non ha nessuna influenza per convincerli ad andarsene.
Damasco e Tehran conoscono entrambe la realtà delle regole del gioco , mentre i desideri di Putin non sono realistici e sono lontani ,al momento, dall’essere praticabili.
Il “gioco delle nazioni” si sta scaldando, i colloqui di pace sono per ora irraggiungibili, il rullo dei  tamburi di guerra si sente in tutto il medio oriente… e forse al di là.

https://ejmagnier.com/2018/05/21/nessuna-delle-forze-militari-presenti-in-siria-se-ne-andra-in-attesa-di-una-guerra-piu-grande-con-liran-e-hezbollah-in-medio-oriente/

martedì 22 maggio 2018

Aleppo dice addio a suor Marguerite, angelo dei malati per 50 anni




Commemorazione di Suor Marguerite

Suor Marguerite è nata il 3 giugno 1928 a Jezzine, in Libano, con il nome di Nadima Slim.
E' la quarta in una famiglia di 5 fratelli.
All'età di 8 anni, perde sua madre. Viene inviata all'orfanotrofio delle Suore di 'San Giuseppe dell'Apparizione' a Khan in Saida (Libano) per continuare la sua educazione.
Nel 1949, a causa di un problema alla schiena, viene mandata ad Aleppo per un intervento chirurgico di ernia del disco dal Dr. Henri Fruchaud. Dopo 3 mesi di convalescenza molto dolorosa, lei rimane qui e vi lavora per circa un anno. Durante questa esperienza, il Signore la chiama a dare la vita al servizio degli altri.

Nel 1950, entra nel Postulato e fa il suo Noviziato a Marsiglia, dove emette i suoi primi voti nel 1952 e riceve il mandato per la missione dell'ospedale di Aleppo. Data la giovane età, le sue qualità professionali ed umane, il dott. Fruchaud la prende come assistente in sala operatoria. Con lui, lavora giorno e notte per alleviare la sofferenza degli ammalati.
Nel 1958, pronuncia i suoi voti perpetui.
Nel 1963, viene inviata ad Attar in Mauritania, poi a Port Etienne (ora Nouadhibou); successivamente a Nouakchott dove lavora presso il dipartimento di chirurgia dell'Ospedale Nazionale.
Poi nel 1968, trascorre un anno a Lione. Date le sue capacità organizzative, viene rimandata all'ospedale di Aleppo per "un anno" con la missione di risollevare l'ospedale che era in difficoltà: un anno che invece si protrarrà fino ai suoi ultimi giorni.

Nel 1983, diventa Direttore dell'Ospedale e assumerà questa responsabilità cercando di fare di questo ospedale uno dei migliori della Siria: Ha introdotto e cambiato tutto ciò che era necessario per servire al meglio gli ammalati, ed anche i medici e il personale infermieristico. Non ha risparmiato alcuno sforzo per rinnovare l'attrezzatura e i diversi servizi. Cercava sempre il meglio senza alcuna considerazione per i costi finanziari.
Durante la guerra, nonostante le molte difficoltà, ha voluto con l'accordo di tutte le Sorelle tenere aperto l'ospedale e dare tutto il necessario per poter curare la popolazione e specialmente i civili feriti a motivo della guerra.
Era una donna di fede, che ha fondato la sua vita e la sua azione su Cristo. Ha tratto la propria forza e dinamismo dalla preghiera e nella meditazione.

Lavorare per la maggior gloria di Dio, adempiere la sua Volontà e favorire la Provvidenza, è stato per Suor Marguerite l'orientamento costante della sua vita.
La sua fiducia in Dio dentro l'insicurezza, il distacco da tutte le cose materiali, una devozione speciale per la Vergine Maria e per le anime del Purgatorio, ci hanno rivelato tutta la ricchezza di un'anima appassionata di Dio e di ogni uomo.
Durante la sua lunga malattia, ha mantenuto l'attenzione per l'ospedale e ha seguito tutte le attività con una mente ampia e con cuore aperto, per il bene dei malati e dello staff.

In sintesi:
UNA VITA INTERAMENTE DONATA A DIO E AL SERVIZIO DELLA POPOLAZIONE DI ALEPPO!
Per questo, rendiamo grazie a Dio e che la sua memoria e testimonianza di vita rafforzino la nostra Speranza e ci siano d'esempio e di slancio verso il futuro, per l'avvento del Suo Regno.

 Le Suore dell'Ospedale Saint Louis, Congregazione di San Giuseppe dell'Apparizione 

domenica 20 maggio 2018

Frère Jean-Pierre di Tibhirine: "Restare, significava essere fedeli alla nostra vocazione"

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero dei Trappisti di Notre Dame dell'Atlas, sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità, tutti di nazionalità francese.  Il sequestro fu rivendicato un mese dopo dal Gruppo Islamico Armato, che propose in cambio alla Francia uno scambio di prigionieri. 
Dopo inutili trattative, il 21 maggio dello stesso anno i terroristi annunciarono l'uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio; i corpi non furono invece mai ritrovati. Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, e dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono nel monastero di Fès in Marocco. L'assassinio dei monaci è avvenuto nel contesto della sanguinosa guerra civile algerina (Wikipedia) . Perciò i 7 monaci verranno beatificati insieme al gruppo dei 19 MARTIRI DI ALGERIA. 
Riproponiamo, nell'anniversario del loro martirio, la testimonianza di  Frère Jean-Pierre Schumacher, raccolta da Laurence Faure e pubblicata su La Vie 
Marzo 2012: P. Jean Pierre SCHUMACHER, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine saluta un'impiegata musulmana del Priorato di Notre Dame de l'Atlas, Midelt, Marocco. © Bruno ROTIVAL / CIRIC

Frère Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto di Tibhirine, parla della prossima beatificazione dei suoi sette fratelli, recentemente riconosciuti come martiri dalla Chiesa cattolica con altri 12 uomini e donne religiosi algerini. Come padre Amédée, morto nel 2008, Jean-Pierre Schumacher era chiuso nella sua stanza durante il rapimento degli ostaggi del 1996. Malgrado il dramma vissuto 22 anni fa, il monaco trappista che ora ha 94 anni ha scelto di continuare a vivere a Midelt (Marocco), nel Monastero di Notre-Dame-de-l'Atlas.
"Quando ho appreso della prossima beatificazione dei miei sette fratelli... ho sentito anzitutto una gioia grande e profonda! Ora essi sono potenti intercessori presso Dio. Questo riconoscimento conferisce un significato particolare al loro martirio, come a quello di Monsignor Pierre Claverie e degli altri loro compagni martiri in Algeria. Non hanno lasciato il paese. Nonostante i rischi. Perché non si abbandonano i propri amici quando sono in pericolo. Per arrivare a ciò, ovviamente, devi stabilire amicizie reali e profonde. È anche necessario che questi amici esprimano il loro desiderio di avere la nostra presenza al loro fianco.
"L'annuncio del Vangelo in silenzio", "essere da soli una Cristianità", diceva il Beato Charles de Foucauld ... È un po' quello che la Chiesa vive qui, in Nord Africa, nel suo rapporto con l'Islam. Abbiamo vissuto a Tibhirine qualcosa che illustra questo spirito. Eravamo in rapporto con una dozzina di membri della congregazione musulmana Alawiya, di obbedienza Sufi. Non potevamo pregare insieme, perché le nostre religioni sono diverse, ma ci incontravamo due volte all'anno nel 'Ribat es Salaam' (il Legame della Pace, un'associazione di dialogo spirituale con l'Islam supportata da Christian de Chergé con Claude Rault, padre bianco, vescovo di Laghouat in Algeria, dal 2004 al 2017, ndr). Una delle prime cose che ci hanno chiesto di fare, era di non entrare nelle discussioni teologiche. Senza negare la teologia cristiana, ovviamente - perché ne abbiamo bisogno e lo sappiamo - non ne parlavamo perché ciò avrebbe rotto qualsiasi dialogo.
Fede cristiana, fede musulmana
Così ci siamo riuniti in una stanza del monastero, con alcune panche e un tavolo, ma ognuno pregava separatamente, in silenzio: è assolutamente monastico, e ciò mi è piaciuto molto! Christian de Chergé chiedeva di accendere la candela. Era una candela rossa. Non c'era bisogno di spiegazioni teologiche, è risaputo cosa significa : Dio è presente. È anche uno dei più bei nomi di Dio, tra i 99 nomi dati a Lui dai musulmani: "Dio è luce" - "Allah e' Nur" in arabo. Così senza pronunciare parola eravamo silenziosi e ognuno stava alla presenza di Dio per circa mezz'ora. Poi ci scambiavamo una parola e quelli che lo desideravano condividevano la risonanza che assumeva questa parola nelle loro vite. Ad esempio, "Dio è luce": noi come loro, potevamo meditare questa frase secondo la nostra fede.
Conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita.
È difficile confrontare la fede cristiana con la fede musulmana. Eppure anche i musulmani hanno i loro martiri, in un senso vicino al nostro: conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita. E, naturalmente, non possiamo che provare grande ammirazione per quel padre di famiglia musulmano che ha dato la sua vita per salvare quella di Christian Chergé quando egli era un ufficiale in Algeria nel 1959. Un atto compiuto secondo la sua fede, la sua carità. E questo è proprio ciò che all'epoca ha interpellato Christian: quest'uomo, che non era un cristiano, ha vissuto ciò che è al vertice della nostra fede cristiana e del Vangelo! Dare la propria vita per coloro che si amano... Questo fatto ha riecheggiato nella vita personale del nostro priore di Tibhirine; egli pensava di non poter fare altro che dare la sua vita, a sua volta, per il popolo algerino. Non poteva sapere cosa poi sarebbe successo, ma era già la disposizione del suo cuore.
La bellezza e il lavoro dello Spirito SantoQuesta storia mostra, se uno lo vuol vedere - e crederci - che lo stesso Spirito agisce negli uomini di fede e di preghiera che si lasciano guidare da Dio. Era la passione di Christian scoprire la bellezza e l'operato dello Spirito Santo in ognuno, e di cooperarvi, incoraggiarlo. Senza alcun desiderio di proselitismo. Questa è la nostra specificità.
Una volta ho incontrato un uomo, in un eremo di Charles de Foucauld, che voleva attirare i musulmani a diventare Cristiani... Noi diamo un significato diverso alla parola conversione: anche noi abbiamo bisogno di convertirci a Dio, di ascoltare meglio la sua Parola e di viverla. Il primo punto, quindi, è diventare tu stesso migliore e più disponibile a Dio. Partendo da questo, lasciamo che il Signore agisca sull'altro, reciprocamente. Noi speriamo che questa azione dello Spirito cresca nell'uomo e gli consenta di rispondere fedelmente a ciò che Dio si aspetta da lui. Ma è opera di Dio, è Lui che fa il lavoro, in modo intimo. Esiste una forma di eguaglianza tra noi e colui al quale ci rivolgiamo: siamo tutti figli di Dio. A volte pensiamo che siamo più avanti, ma non è sempre sicuro ... a volte l'altro può essere più avanti di noi. Il Signore ci vuole tutti. Agisce nell'altro e in noi. Ciò deve essere incoraggiato da questa offerta di se stessi a Dio.
Dal 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi d'opinione, abbiamo preso la decisione unanime di rimanere.
Molti ci fanno questa domanda: perché siamo rimasti a Tibhirine in quel momento? È un po' come quello che è accaduto a Christian: questo desiderio di scoprire l'anima musulmana, tramite una reciproca ricerca di Dio. Già nel 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi di opinione, preso la decisione unanime di rimanere. Questo momento cruciale appare bene nel film "Uomini di Dio" (Xavier Beauvois, 2010, ndr). È la nostra vocazione, allora, che era in gioco. Rimani o parti? Rimanere significava essere fedeli alla nostra vocazione, al motivo per cui Dio ci aveva voluto lì. Andarsene, sarebbe stato come un soldato che lascia il fronte per paura del pericolo, quando lui non comanda, che la sua vita è al servizio di ciò per cui è stato mandato. Qualunque cosa costi. Non potevamo andarcene per questo: questa missione la riceviamo, la viviamo, l'abbiamo dentro di noi.
L'amore prevarrà sull'odio
Dopo il rapimento dei nostri fratelli nel 1996, quando rimanemmo soli con padre Amédée (morto nel 2008, ndr), eravamo determinati a continuare. Per prima cosa volevamo rimanere a Tibhirine per proseguire l'opera di Dio e accoglierla in mezzo agli eventi che ci avesse dato di vivere. Avevamo anche pensato che i nostri fratelli potessero essere liberati e quindi dovevamo aspettarli ...
Più tardi, quando la loro morte fu confermata, pensammo di accogliere altri fratelli, per rilanciare la vita monastica con lo stesso spirito. Ma le forze militari hanno insistito perché partissimo, per la nostra sicurezza.
Ci portarono ad Algeri, in una casa diocesana, poi raggiungemmo il Marocco, come era stato concordato con i nostri fratelli scomparsi: se, nonostante il nostro desiderio di rimanere, ci fossimo dispersi, avevamo deciso all'unanimità di incontrarci a Fez - un annesso di Tibhirine aperto dal 1988.
Quello che era certo, era che se fossimo stati costretti a lasciare l'Algeria, saremmo rimasti in un paese musulmano. Nel monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Midelt, viviamo come una continuazione di Tibhirine. È la stessa comunità che si è trasferita e vogliamo continuare a vivere di tali amicizie, perché è questo l'essenziale del nostro "dialogo islamo-cristiano". I nostri martiri in Algeria ci stimolano oggi - e probabilmente per molti anni a venire - a credere che l'Amore prevarrà sull'odio e sulla violenza che esso genera.
Un desiderio di condividere
I nostri legami con la popolazione locale si riassumono nella convivialità, attraverso tutte le questioni concrete della vita quotidiana. La nostra regola di solito impone una stretta clausura, ma non si può vivere qui come in un paese della cristianità: ci devono essere cose che passano tra le due comunità, per arrivare a una conoscenza e a una stima reciproca. Creare dei legami è essenziale per dialogare e accogliere lo Spirito che lavora in ciascuno.
Questo scambio è facilitato dall'ospitalità del popolo berbero ... Penso in particolare allo spuntino di mezzogiorno offerto dai dipendenti musulmani del monastero: non possiamo evitarlo, dobbiamo andarci! (Ride). Ci piace, ovviamente, è un desiderio di condivisione. Questa è la carità: il desiderio di piacere a Dio, che ci chiede di essere buoni con gli altri. Durante la nostra quaresima, alcuni amici musulmani agiscono anche verso di noi come agirebbero tra di loro: ci offrono la loro zuppa del Ramadan.
Qui siamo quindi oranti tra oranti.
Il nostro ruolo di monaci, è principalmente quello di essere oranti. La nostra vita deve essere tutta una preghiera: è l'obiettivo della vita monastica. Gli antichi Padri del deserto, nei primi secoli, insistevano molto sulla purezza del cuore, quella disposizione permanente dell'essere proteso verso Dio, un traguardo che si raggiunge solo alla fine della vita. Per questo, ci esercitiamo nel corso della nostra giornata ad essere presenti a Dio. Questo è l'essenziale.
Assomiglia un po' a questo ciò che fanno i musulmani: hanno cinque preghiere distribuite nella giornata, in momenti specifici. Noi ne abbiamo sette, dalle vigilie alla compieta. Lo scopo di questa distribuzione della preghiera è di santificare le altre ore del giorno: ci strappiamo dalle attività materiali per lodare e riempirci di Dio. Anche quella dei musulmani ha questo obbiettivo. Qui siamo quindi oranti tra questi oranti. Le persone tra le quali viviamo spesso ci danno questo esempio: qualunque cosa facciano nella loro giornata, la fanno nel nome di Dio - "Bismillah", dicono. "
Cosa significa la frase "Monsignor Claverie e i suoi compagni"?
La causa di beatificazione dei martiri d'Algeria porta il nome di "Monsignor Claverie e i suoi compagni". Il termine "compagno" ha attraversato la storia della Chiesa. "È la traduzione usuale, ricevuta dal latino socius (socii al plurale), che si riferisce al fatto che i missionari non sono di solito inviati da soli, ma sempre in gruppi di almeno due che si accompagnano (Marco 6, 7, Luca 10, 1)," ci spiega Jean Duchesne, membro dell'Osservatorio Fede e Cultura. Così, un gran numero di martiri non sono soli, ad esempio i santi Blandina e Potino "e i loro 46 compagni", martiri del II° secolo a Lione. "La fede non è mai solitaria: è sempre trasmessa da altri, messaggeri di Dio, e porta frutto in quanto esige di non essere tenuta per sé ma condivisa, prima ancora che venga messa alla prova nel martirio", dice Jean Duchesne. I martiri in Algeria non hanno vissuto da soli la loro chiamata, hanno dato la loro vita fino alla fine "in un unico corpo di membri di Cristo".
     Anne-Laure Filhol

mercoledì 16 maggio 2018

I vescovi della Terra Santa: «Si ponga fine all’assedio di Gaza»

Di fronte alle notizie drammatiche di queste ultime ore l’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa, la Conferenza episcopale che riunisce i vescovi dei diversi riti, ha diffuso questa sera un appello. Lo riportiamo qui nella traduzione di Mondo e  Missione :


I vescovi della Terra Santa: «Si ponga fine all’assedio di Gaza»«È fonte di grave preoccupazione apprendere che sessanta palestinesi sono stati uccisi ieri e circa tremila sono rimasti feriti nelle proteste che si sono tenute vicino al confine di Gaza con Israele.
Queste vittime – o almeno la maggior parte di loro – si sarebbero potute evitare se mezzi non letali fossero stati utilizzati dalle forze israeliane.
Facciamo appello a tutte le parti coinvolte affinché rinuncino alla violenza e trovino strade per porre fine appena possibile all’assedio imposto su circa due milioni di persone che vivono nella Striscia di Gaza.
Nel frattempo, ieri, siamo stati anche testimoni dello spostamento dell’ambasciata americana nello Stato di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Come abbiamo già detto in passato, qualsiasi mossa o decisione unilaterale sulla Città Santa di Gerusalemme non aiuta a far avanzare la pace tra israeliani e palestinesi, tanto attesa.
Cogliamo l’occasione per esprimere il nostro impegno in favore della posizione – espressa numerose volte dalla Santa Sede – che esprime la necessità di rendere Gerusalemme una città aperta a tutti i popoli, il cuore religioso delle tre religioni monoteiste, e di evitare misure unilaterali. Crediamo che non ci sia ragione per impedire alla Città di essere la capitale di Israele e della Palestina, ma ci si potrà giungere solo attraverso il negoziato e il rispetto reciproco.
Di fronte a questi tristi sviluppi, e mentre la Festa della Pentecoste si avvicina, chiediamo specificamente a tutte le Chiese e più in generale a tutti i popoli di elevare le proprie preghiere a Dio Onnipotente affinché porti la pace e la giustizia ai popoli della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero. Per questo invitiamo le nostre e tutte le altre Chiese e i fedeli delle altre religioni a pregare per la pace e la giustizia in Terra Santa».

Già questa mattina l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, aveva diffuso una sua lettera in cui – ricordando come «ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace» – invita a una giornata di digiuno e di preghiera per la Terra Santa che si terrà sabato 19 maggio, alla viglia della Pentecoste. 
A tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose e ai fedeli della diocesi latina di Gerusalemme,
Il Signore vi dia pace!
In questi giorni assistiamo all’ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa. La vita di tanti giovani ancora una volta è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace!
Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l’uno all’altro.
Invito tutta la comunità cristiana della diocesi ad unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto.
Dobbiamo pregare di più per la pace e per la nostra conversione, e per quella di tutti.
Dobbiamo veramente pregare lo Spirito affinché cambi il nostro cuore per meglio comprendere la Sua volontà e darci la forza di continuare ad operare per la giustizia e la pace!
Invito inoltre tutta la diocesi – parrocchie, comunità religiose, associazioni e movimenti – in questi giorni di preparazione alla solennità di Pentecoste a dedicare una giornata di preghiera e digiuno per la pace di Gerusalemme e a fare in modo che la liturgia del giorno di Pentecoste sia accompagnata dalla preghiera per la pace.
In Cristo,
Gerusalemme, 15 maggio 2018
+Pierbattista Pizzaballa
Amministratore Apostolico