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domenica 26 novembre 2017

In Libano sale la tensione tra rifugiati siriani e libanesi

                      foto JC Antakli
 Nell'articolo di S.I.R. che sotto riportiamo, padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano, esprime gravi preoccupazioni per la situazione nel Paese, in particolare a causa della presenza di due milioni di rifugiati siriani, il 35% della popolazione. Preoccupazioni che ci sono state ampiamente riferite anche da vari interlocutori durante il nostro recente viaggio in Libano. 
E con doloroso sconcerto abbiamo anche sentito nei discorsi dei Libanesi un diffuso sentimento di esasperazione verso i Siriani ...
 E' evidente come l'arrivo massiccio dei rifugiati abbia avuto un impatto destabilizzante per il Paese dei Cedri, già fragile dal punto di vista politico e socioeconomico.  Ma pensiamo che del dramma, foriero di tensioni, dei profughi siriani in Libano occorra cogliere anche altri aspetti. Infatti, i rifugiati non sono solo un onere finanziario che pesa sulle casse dello Stato libanese: rappresentano anche un'entrata economica, da parte di innumerevoli organizzazioni internazionali e a favore di enti assistenziali nazionali, che hanno inoltre l'opportunità di assumere personale libanese per i loro progetti.  Quanto al deterioramento del mercato del lavoro, i responsabili non sono i Siriani sottopagati ma piuttosto gli imprenditori libanesi che assumono i rifugiati senza contratto e con condizioni orarie e di lavoro irregolari.  E gli endemici problemi di traffico, blackout di energia, smaltimento dei rifiuti, risalgono a ben prima dell'arrivo dei rifugiati. I delitti sessisti contro le donne non sono appannaggio dei soli criminali siriani....
 E, soprattutto, davanti alle miserrime condizioni di vita della maggioranza dei Siriani nei cosiddetti 'campi profughi', abbiamo l'obbligo morale di ricordare chi ha causato questa situazione. Sono i Paesi e le entità che negli anni hanno sostenuto il terrorismo, alimentando in tal modo una devastante guerra. Una tragedia che ha distrutto un Paese, la Siria, dal quale ben pochi fino al 2011 avrebbero pensato di andar via...
      La redazione di OraproSiria


S.I.R., 24 novembre 2017

Libano, “un Paese accogliente e generoso che sta pagando a caro prezzo la sua generosità. Ne risentiamo in termini di infrastrutture, lavoro, servizi e welfare. Oggi il 36% della popolazione libanese vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Il 60% di questo 36% è composto da giovani di età compresa tra i 16 e 27 anni. Crescono i disoccupati tra i libanesi a vantaggio dei rifugiati siriani che lavorano in nero, senza tutele e senza aggravio di tasse”.
È una disamina che va dritta al cuore del problema quella che padre Paul Karam, presidente della Caritas Libano, traccia della situazione nel Paese del Cedri, dove dal 2011, anno di inizio della guerra siriana, sono affluiti 1,2 milioni di rifugiati (dato Unhcr) “ma sono almeno 1,8 milioni, perché vanno calcolati quelli che non vogliono essere registrati, soprattutto tra i cristiani”. Ciò equivale a dire che “il 35% della popolazione libanese è composto da siriani, senza dimenticare circa 500mila palestinesi e 70mila iracheni e altre centinaia di migliaia di lavoratori stranieri”.

Bomba demografica. Complice una “frontiera porosa e scarsi controlli, almeno nella fase iniziale della guerra, i rifugiati sono entrati dalla Siria e oggi non c’è una località nel Paese dove non siano presenti con tutto il loro carico di bisogni” che rispondono al nome di istruzione, lavoro, sanità, casa, infrastrutture.
Non è facile per un Paese di 4 milioni di abitanti far fronte a queste emergenze, in particolare il lavoro che scarseggia per la crisi economica, i servizi sociali ridotti all’essenziale, le infrastrutture divenute insufficienti (scuole e ospedali). Per esempio, per permettere ai bambini siriani di andare a scuola è stata stabilita l’apertura pomeridiana delle aule con un ulteriore aggravio di spese di gestione e manutenzione scolastica”.
Crescono nel contempo anche le tensioni sociali tra libanesi e siriani, questi ultimi già accusati di “rubare il lavoro ai siriani” e al centro, sempre più spesso, di gesti di criminalità e di reati gravi come furti e rapimenti.

Ma la vera bomba a orologeria per il Libano è rappresentata dalla demografia che rischia di far saltare il confessionalismo, sistema che premia le 18 confessioni presenti nel Paese e riconosciute dalla Costituzione che affida a ciascuna ruoli e incarichi istituzionali, Presidenza della Repubblica ai cristiani, Capo del Governo ai sunniti, presidente Parlamento agli sciiti e via dicendo. “Solo negli ultimi tre anni – secondo dati di Caritas Libano – sono nati circa 150mila bambini che non sono stati registrati né in Libano né in Siria. Ufficialmente non esistono, non hanno carta di identità, ma provengono da famiglie in larghissima maggioranza sunnite.
Questi nuovi nati sono destinati ad alterare i rapporti di forza delle confessioni.
Sunniti, infatti, sono anche i palestinesi che già vivono nel Paese dei cedri”.
                                                 foto JC Antakli

Quale soluzione?
È tempo di programmare il ritorno dei siriani in patria, almeno nelle zone pacificate”, sostiene padre Karam, per il quale il rientro dei rifugiati è una  delle risposte principali da dare per alleggerire il carico dell’accoglienza sulle spalle dei libanesi. “Si tratta – afferma – di un lavoro da pianificare nei prossimi anni, concertato tra organismi internazionali e nazionali con l’ausilio di Ong, agenzie umanitarie impegnate sul terreno come la stessa Caritas”.

Questo non significa, sottolinea il presidente di Caritas Libano, “un passo indietro nella scelta dell’assistenza e dell’accoglienza ai rifugiati. Tutt’altro. Bisogna però dare anche spazio a quei libanesi, e sono tanti, che hanno bisogno di aiuto materiale”.
A tale scopo la Caritas ha proposto che “il 30% di ogni progetto o programma di solidarietà destinato ai siriani vada ai libanesi quindi alla comunità ospitante”. Un’istanza che dovrà essere presentata ai donors. Nel caso venisse accettata “finanziare progetti di sviluppo per la comunità locale diventerebbe più facile e la popolazione, specie dei villaggi, sarà spinta a restare”, dice padre Karam. “Cosa che non accade oggi. Ai nostri centri di ascolto, infatti, sono sempre di più i libanesi che vengono a chiedere aiuto di ogni tipo, pagamenti bollette, cibo, vestiario, e anche visite mediche. Le richieste sono praticamente raddoppiate in ogni Centro. In collaborazione con Caritas straniere abbiamo attivato delle cliniche mobili che servono separatamente libanesi e siriani. Sono sempre più frequenti, infatti, le tensioni tra i due gruppi con i primi che accusano i secondi di non pagare nessun ticket sanitario. Oggi i libanesi vogliono essere considerati alla stregua dei rifugiati”.
Una guerra tra poveri che, per padre Karam, “va assolutamente evitata, anche perché a rimetterci per primi sono soprattutto i giovani che scelgono così di emigrare privando il Libano delle sue leve più forti e istruite”.

Un miracolo. “Come il Libano abbia potuto fino ad oggi sostenere tutto il peso dell’accoglienza dei rifugiati si può spiegare solo con un miracolo. E devo dire – aggiunge il presidente della Caritas – che molto aiuto è arrivato dai libanesi della diaspora che hanno inviato aiuti e denaro ai loro connazionali qui. Grazie alle loro rimesse anche lo Stato è rimasto in piedi. Ma tutto questo sarà vano se non si trovano vie diplomatiche per dare soluzione giuste e sostenibili ai conflitti che si avvitano uno con l’altro in questa area mediorientale. Senza pace e giustizia il rischio di implosione di questa Regione è dietro l’angolo. Con effetti tragici per tutto il mondo”.

mercoledì 22 novembre 2017

Parla il parroco della città martire Maloula, padre Eid Tawfik: «Noi cristiani dobbiamo perdonare ma se i musulmani non riconoscono gli errori commessi non ci potrà essere riconciliazione»

di Leone Grotti

«Noi cristiani di Maloula dobbiamo perdonare, perché il perdono è il cuore della nostra fede. Ma per la riconciliazione questo non basta». Non c’è traccia di odio nelle parole di padre Tawfik Eid e non è scontato. Il parroco di Maloula, città martire siriana, si trova in Francia per un ciclo di conferenze e ha rilasciato una lunga intervista video a Tv Libertés. Padre Eid ricorda i giorni del settembre 2013, quando i jihadisti di Al-Nusra entrarono nella città, vicina a Damasco, e la conquistarono uccidendo tre cristiani (dichiarati martiri), sequestrandone altri sei (cinque sono stati ritrovati morti), distruggendo case, chiese e rubando preziose icone di santi. In quei giorni i musulmani si unirono ai jihadisti, rivoltandosi contro i vicini di casa cristiani e partecipando alle sevizie.

«VENUTI PER UCCIDERVI». La vicenda è drammatica. All’inizio delle proteste antigovernative, due terzi dei musulmani di Maloula hanno preso le parti del Free Syrian Army e si sono presentati come protettori dei residenti cristiani di fronte ai jihadisti di Al Nusra a condizione che i cristiani non si organizzassero in una milizia di difesa locale e facessero pressioni sui militari per rimuovere il posto di blocco che era stato istituito nei pressi del monastero dei Santi Sergio e Bacco. Cosa che poi è avvenuta, col risultato di consegnare alture e monastero a Jabhat al Nusra sin dal marzo 2013. In seguito i musulmani antigovernativi di Maloula hanno appoggiato le operazioni militari dei jihadisti o addirittura si sono uniti a loro. Su una parete del salone polifunzionale della parrocchia di San Giorgio, accuratamente razziato, si legge una grande scritta verniciata su di una parete: «Cristiani, alawiti, sciiti, drusi: siamo venuti per uccidervi».

LA RICONCILIAZIONE. Dopo che Maloula è stata riconquistata dall’esercito nel 2014, la vita in città sta lentamente tornando alla normalità. Tutto è da ricostruire, soprattutto i rapporti e la fiducia reciproca. «Per tornare a vivere come prima i musulmani devono prima riconoscere i loro errori. I cristiani non possono coltivare l’odio nel loro cuore, altrimenti saremmo uguali ai terroristi. Però non può esserci riconciliazione senza il pentimento da parte loro». Dalle parole e dai silenzi di padre Eid si capisce che il processo è in corso ma è ancora lontano dalla conclusione.

«COME GESÙ SULLA CROCE». Tra i cristiani rapiti e ritrovati sgozzati c’era anche il sagrestano di padre Eid, che però ha perdonato. Ma il sacerdote è il primo a imparare la fede dai suoi parrocchiani, che come tutta la popolazione del villaggio parla ancora un dialetto aramaico molto simile a quello di Gesù: «Come Gesù sulla croce, anche noi abbiamo gradito: “Dio, perché ci hai abbandonato?”. Ma poi abbiamo scoperto che non ci aveva affatto lasciati soli e la dimostrazione sono le poche perdite che abbiamo subito. La città, pur avendo passato dei mesi terribili, non è stata distrutta e oggi siamo tornati. La nostra fede oggi non solo non è stata minata, ma è più forte e sono i miei parrocchiani a dirmelo per primi».

«CRISTIANI, IMPEGNATEVI IN POLITICA». Il sacerdote, invitato in Europa dall’associazione francese SOS Chrétien d’Orient, che sta aiutando a ricostruire Maloula, ha rivolto al termine dell’intervista un appello alla Francia e all’Occidente: «Prima di tutto devo ringraziare di cuore chi ci sta aiutando a tornare a vivere. Ma voglio anche dire una cosa a tutti i cristiani, a tutti i cattolici e agli uomini di buona volontà: voi dovete affrontare una sfida più dura della nostra. Noi abbiamo subìto l’offensiva dei terroristi, voi dovete combattere contro ateismo e laicismo. Per farlo non potete limitarvi a lamentarvi delle cattive leggi che vengono approvate in Europa, dovete impegnarvi di più in prima persona nella vita pubblica e innervarla con la vostra esperienza di fede. Non basta dire che gli altri sono cattivi. Se non lo fate, se non vi impegnate in politica, nessuno lo farà al posto vostro».

domenica 19 novembre 2017

Padre Bahjat, parroco a Damasco: "la Siria può tornare ad essere un luogo in cui si può vivere, dialogare... Più che timore oggi ho molta speranza per il futuro del mio Paese"

 No alla soluzione militare alla crisi siriana e  impegno a sostenere la “sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Siria”.  È quanto emerge dalla dichiarazione congiunta del presidente russo, Vladimir Putin, e di quello Usa, Donald Trump, diffusa dopo un colloquio al vertice Apec che si è svolto in Vietnam. Per i due leader mondiali  “la soluzione politica definitiva del conflitto deve essere trovata nel processo negoziale di Ginevra”.
  Un auspicio condiviso da padre Bahjat Elia Karakach, francescano della Custodia di Terra Santa. Originario di Aleppo, dal 2016 padre Karakach è il guardiano del convento della Conversione di San Paolo, a Damasco, e parroco della locale comunità latina composta da circa 250 famiglie, frequentata anche da molti cristiani appartenenti ad altri riti. Con lui proviamo a fare il punto sulla crisi siriana, che dopo la sconfitta militare dell’Isis, pare essere giunta ad una svolta. 
        S.I.R. 14 novembre 2017
Padre Karakach, sembra che la guerra stia lentamente finendo e che la Siria possa riprendere a vivere. È davvero così? Qual è la situazione nel Paese?
Oggi c’è più speranza rispetto a un anno fa, abbiamo un orizzonte. La svolta si è consumata dopo la presa di Aleppo (dicembre 2016, ndr.). Oggi avvertiamo un miglioramento della vita quotidiana, a Damasco, per esempio abbiamo di nuovo l’erogazione di energia elettrica per 24 ore, alcuni servizi pubblici stanno tornando alla normalità e questo rende più facile la vita quotidiana della popolazione. Tuttavia bisogna dire che 
la ripresa è lenta perché i nostri giovani sono ancora al fronte.  Ci sono infatti ancora zone del Paese dove sono presenti gruppi terroristici.

L’Isis, con la caduta della sua ex roccaforte, Raqqa, sembra sconfitto militarmente. Resta aperto l’altro fronte quello del conflitto tra governo e ribelli, una partita importante per il futuro della Siria.
Lo Stato islamico è stato sconfitto militarmente ma la sua ideologia terroristica è ancora piuttosto diffusa e in futuro potrebbe trovare spazio in altre sigle e nomi. Questa è la vera guerra che avvertiamo quotidianamente.
Infondere e promuovere una mentalità di apertura e di accoglienza dell’altro è un compito di tutti, anche di chi si ritiene un oppositore aperto, civile, che non imbraccia le armi e che sa dialogare e negoziare per una Siria migliore.

Molti analisti sostengono che in Siria si combatte una guerra per procura, dove a fronteggiarsi sono gli interessi di potenze regionali e non. Cosa prova nel vedere la sua terra trasformata da altri in un campo di battaglia?
Sicuramente rabbia. Vedere questo mi fa capire quanto sia importante la Siria che per secoli ha rappresentato un modello di convivenza e di tolleranza. Ora 
qualcuno ha deciso che  il mosaico deve essere rotto.
Per evitare questa tragedia confido molto nei tanti siriani, uomini e donne di buona volontà, capaci e coscienti, che hanno una visione buona e positiva per costruire una Siria migliore.

Visti i grandi interessi in gioco non teme per la sovranità futura della Siria?
Un timore di questo tipo lo abbiamo avvertito maggiormente qualche anno fa.
Oggi mi pare che la Siria abbia vinto in termini di sovranità.
C’è una verità innegabile ed è quella che il terrorismo si sta riducendo e che la Siria, nonostante tutto, può tornare ad essere un luogo in cui si può vivere, dialogare grazie a persone capaci di farlo. Più che timore oggi ho molta speranza per il futuro del mio Paese.

Bisogna riconoscere che se lo Stato islamico è stato sconfitto militarmente questo lo si deve anche agli interventi – da sponde opposte – di russi e americani. Non crede che le due potenze vorranno qualcosa in cambio, a questo punto?
Nei giochi politici ci sono spese da pagare. Indipendentemente da ciò, permane forte la volontà dei siriani di continuare a vivere in un Paese libero. Su questo non nutro alcun dubbio.

Prima ricordava come la Siria sia sempre stata un  crocevia di fedi e culture. Cosa avete fatto in questi anni di guerra come comunità cristiana per preservare questo mosaico?
Quello che abbiamo sempre fatto in tanti secoli di presenza in Siria:  
essere aperti e accoglienti verso tutti, senza distinzione di fedi, etnie, culture. Così facendo speriamo di essere un segno profetico non solo per la Siria del futuro, ma per tutto il Medio Oriente.
La Siria potrebbe tornare ad essere un modello di convivenza adottabile da tanti altri Paesi della regione.

Parlando di accoglienza non si possono dimenticare i milioni di rifugiati e di sfollati interni provocati dalla guerra. Torneranno tutti? Vede un futuro per i cristiani, e le altre minoranze, nella Siria che verrà?
Bisogna essere realistici: non tutti torneranno. Ma c’è già chi comincia a fare rientro nelle proprie abitazioni.
La dispersione provocata da anni di conflitto potrebbe diventare una risorsa per il Paese se venisse sfruttata in termini di apertura culturale, sociale e religiosa. Quel mosaico che è la Siria potrebbe così arricchirsi di nuovi pezzi e ampliarsi ulteriormente.
Molti siriani che ora sono all’estero nutrono un forte desiderio di tornare e di aiutare per ricostruire una Siria migliore.

Da dove cominciare per ricostruire una Siria migliore?
Ricominciare dai bambini. Bisogna ripartire dall’educazione, dall’istruzione, dalla formazione perché un Paese che ha subito una tale violenza ha anche difficoltà a rimettere in piedi un sistema educativo. Mi auguro che anche noi, come comunità cristiana, possiamo dare il nostro contributo per guarire le ferite causate dalla guerra. Molti dei nostri bambini sono traumatizzati, hanno visto scene inaudite di violenza, sono nati durante il conflitto. Nel nostro santuario della Conversione di san Paolo abbiamo portato avanti un progetto di sostegno psicologico per i più piccoli. Il 70% di loro erano musulmani. Lo scopo era riportarli ad una vita normale, ma ci vorrà tempo.
Ripartire dai bambini è la garanzia migliore per il futuro della Siria. E poi  dal dialogo.

Stiamo pensando ad una sorta di centro in cui persone di fedi ed etnie diverse possano dialogare e condividere momenti di vita anche in campi come l’arte, la musica, il teatro. Tutti quei valori umani che possono garantirci una vita migliore.

mercoledì 15 novembre 2017

«Lo sporco segreto di Raqqa» e della guerra siriana


Piccole Note, 15 novembre

«Lo sporco segreto di Raqqa», questo il titolo di un reportage della Bbc «che documenta l’accordo dei curdi siriani per l’uscita indenne da Raqqa di 4mila jihadisti armati, foreign fighters compresi, con l’avallo americano e britannico. Un’intesa “segreta” ma già denunciata dai russi ai quali la coalizione a guida Usa avrebbe impedito di bombardare le colonne jihadiste». Così Alberto Negri sul Sole 24ore del 15 novembre.
«La lotta al terrorismo è una realtà a geometria variabile», spiega ancora il cronista del Sole. «Viene condotta dagli alleati degli americani e da Washington a seconda degli interessi tattici e geopolitici che guidano i rapporti tra le potenze occidentali e i loro partner arabi».
Nel reportage della Bbc, che hanno intervistato diversi testimoni del fatto, si dettaglia che i miliziani dell’Isis hanno portato con sé non solo familiari, ma anche «tonnellate di armi e munizioni […] il convoglio era lungo sei-sette chilometri. Comprendeva quasi 50 camion, 13 autobus e più di 100 veicoli del gruppo islamico. I combattenti dell’Isis, con i loro volti coperti, sedevano in modo sfacciato su alcuni dei veicoli».
«I combattenti dell’Isis», si legge ancora, «hanno preso tutto quello che potevano portare. Dieci camion sono stati caricati con armi e munizioni». Uno degli autisti del convoglio ha spiegato: «C’erano tanti stranieri: della Francia, della Turchia, dell’Azerbaigian, del Pakistan, dello Yemen, dell’Arabia Saudita, della Cina, della Tunisia, dell’Egitto…».
Particolare che spiega, semmai ce ne fosse bisogno, che la narrativa che vuole la guerra siriana come una guerra civile è alquanto bizzarra. Non è stata un’evacuazione, spiega ancora la Bbc, ma un vero e proprio «esodo».
Interessante un altro particolare riportato dai testimoni: «c’erano aeromobili della coalizione, a volte droni, che seguivano il convoglio». Tanto è vero che dalla coalizione hanno poi dovuto spiegare che hanno «monitorato» la fuga. E che combacia con le accuse dei russi, che affermano che le forze della coalizione hanno impedito loro di attaccare il convoglio.
Questa operazione coperta, ancora negata nelle sue dimensioni e nel coinvolgimento dei militari Usa e britannici, è stata portata alla luce grazie alla testimonianza degli autisti del convoglio. Ingaggiati per far uscire alcuni uomini da Raqqa, si sono visti invece catapultati in uno scenario da incubo. Peraltro non sono stati pagati e hanno spifferato tutto.
Una sporca faccenda, che ha permesso a molti miliziani dell’Isis di disperdersi nel territorio siriano, come spiega la Bbc, rafforzando l’opera di contrasto a Damasco.  Uno dei miliziani, intervistato dalla Bbc, ha affermato: «nel nostro gruppo ci sono fratelli francesi che sono partiti per la Francia per compiere attacchi in quello che sarà chiamato “‘day of reckoning”. Val la pena ricordarselo alla prossima strage…
Val la pena accennare che quanto descritto stride con i numeri ufficiali ammessi successivamente dal comando della coalizione, che ha dovuto correggere il minimalismo iniziale, che limitava l’evacuazione a qualche decina di miliziani (peraltro non stranieri), agli attuali 250. Che ci fanno 250 miliziani con «tonnellate di armi e munizioni»?
Bugie su bugie, purtroppo. Lo sporco segreto di Raqqa non è che la punta dell’iceberg dell’enorme «sporco segreto» che abita la «sporca guerra» siriana. Da questo punto di vista, mescolare le carte, come fanno alcuni cronisti, spiegando che accordi simili sono stati fatti da siriani e libanesi è erroneo (blando eufemismo).  Un conto sono gli accordi che gli aggrediti possono stipulare con gli aggressori, siano essi jihadisti, al Qaeda o Isis, che hanno uno scopo strettamente strategico e limitato. Un conto sono gli accordi stipulati da quanti stanno conducendo una asserita campagna contro il Terrore in terra straniera, come appunto le forze della coalizione, che invece di combattere il Terrore, lo propagano. È tutt’altra cosa.
In questi giorni, le forze del Sdf, milizie curde-islamiche guidate dalla coalizione internazionale, hanno preso il controllo del campo petrolifero di al-Tanak, il secondo bacino petrolifero della Siria. L’Isis sarebbe scappato dopo i primi scontri con le milizie anti-Terrore.
Sull’Agenzia di stampa iraniana Fars, invece, si parla di un accordo tra l’Isis e la coalizione, «che prevede la cessione delle posizioni alle forze degli Stati Uniti».
Fonte di parte, certo (anche se le fonti della coalizione non si sono rivelate molto attendibili). E però forse può spiegare un particolare non secondario di questa sporca guerra:  mentre l’Isis combatte alla morte contro russi e siriani, davanti alle forze della coalizione scappa senza colpo ferire, per trovare riparo in aree di attrito con le forze di cui sopra. Tale il mistero di questo Terrorismo a geometria in-variabile.

lunedì 13 novembre 2017

Viaggio nella Siria che attende la pace


Aleppo è un po' come un campo di rovine nel quale le rose qua e là iniziano a germogliare. A prima vista, è sempre uno spettacolo di desolazione, ma ovunque la vita ricomincia. Gli Aleppini puliscono, riparano, e i negozi riaprono uno dopo l'altro. Davanti ai resti di quelli che furono edifici storici sorgono piccole pile di pietre, disposte ordinatamente; questi blocchi millenari o centenari poi saranno utilizzati per la ricostruzione. Gli abitanti ritornano a passeggiare davanti a questa impenetrabile Cittadella, che troneggia intatta quale simbolo di vittoria sulla devastazione che la circonda...
Con il ritorno dell'acqua, due giorni alla settimana o più a seconda dei quartieri, e dell'elettricità, 12 ore al giorno, il quotidiano è meno difficile. Finora, non c'è ancora alcuna certezza e la pace attende sempre la sua ora. Gruppi jihadisti, tra cui al-Nusra ribattezzato Tahrir al-Sham (HTS), stanziati a pochi chilometri di distanza, sparano ancora razzi, che occasionalmente cadono sui quartieri a Ovest. I Curdi controllano il distretto di Sheikh Maqsoud come una fortezza, blocchi di calcestruzzo bloccano le vie di accesso, è una vera e propria enclave nella città.

Damasco, che non è stata sfigurata dalla guerra, vive la stessa incertezza. La periferia sud della capitale, dove solo centomila persone vivono sul milione di abitanti pre-guerra, è ancora occupata da 5000 membri dell'opposizione armata; ogni notte al tramonto, questi gruppi, da ISIS ad al Nusra, fanno tuonare le loro armi come se volessero ricordare la loro presenza e la loro capacità di nuocere. A volte i razzi cadono nella città e uccidono a caso, ma i Damasceni ne fanno un punto d'onore di rimanere stoici e di attendere alle proprie faccende di ogni giorno, come se nulla fosse...
Nelle conversazioni, la guerra è onnipresente; tutte le famiglie, senza eccezione di classe o di origine, contano un fratello, un figlio, un cugino morto in battaglia, ognuno porta le sue ferite. Un medico di Raqqa, incontrato a Damasco, racconta come due terroristi dello Stato Islamico entrarono nel suo studio e, senza preavviso, gli piantarono sette pallottole in corpo, poi lo trascinarono fuori sull'asfalto e se ne andarono dandolo per morto. Lui invece ha continuato a vivere, con una lieve zoppìa, come un risorto. Un altro medico della ex capitale dell'ISIS non si calma: "A Raqqa, c'erano tra 3.000 e 6.000 combattenti Ceceni. È stata una situazione vergognosa: non c'erano corridoi umanitari per permettere alla popolazione di fuggire; gli ultimi abitanti sono morti o sotto il bombardamento della Coalizione o saltati sulle mine; la città è distrutta per l'85%. "(1)
Cubo di Rubik
Ma ancor più dei ricordi di questo conflitto, che non è ancora finito, è il futuro che preoccupa i siriani. Se la guerra sembra essere vinta militarmente, c'è ancora circa un 10% del territorio siriano non ancora sotto il controllo di Damasco (2). Tutti i siriani sanno che solo la politica riporterà la pace. Con tutte le interferenze straniere, il terreno siriano è diventato straordinariamente complesso. Sembra un Cubo di Rubik: ad ogni cambiamento di uno dei dati, il tutto viene modificato. I nemici di ieri, come la Turchia e l'Iran, si riavvicinano su interessi convergenti; gli amici di oggi, la Russia e l'Iran, potrebbero avere divergenze... Sicuramente, Israele e il suo recente alleato Saudita non sono mai lontani.
Che cosa faranno i Curdi Siriani? I pareri differiscono: "100 anni fa, non c'erano Curdi in Siria, non possono dire: ecco, è la nostra terra." "I Curdi siriani non vogliono un loro Stato indipendente, del resto il dialogo tra loro e Damasco non è mai stato rotto." Ognuno fa la sua analisi e si fa delle domande. Tuttavia, tutti concordano sul fatto che i negoziati sono in corso, la pace si farà sul (o sotto) il tavolo, e nulla è ancora veramente definito...
Un cantiere monumentale ...
Malgrado tutto, il dopoguerra è già iniziato e il progetto, stimato in 600 miliardi di dollari, è titanico. Non si tratta solo di ricostruire case, edifici, infrastrutture, ma anche di soccorrere a tutti i problemi umani. Secondo Ali Haïdar, Ministro della Riconciliazione Nazionale, "il quadro è nero perché tutti i livelli sociali sono stati colpiti. La questione dei "bambini senza una famiglia", gli orfani dei jihadisti, è complessa. Per trovare l'identità dei genitori, è necessario fare appello alla medicina legale, ai test del DNA... Per quanto riguarda gli stranieri, in assenza di rapporti diplomatici con alcuni Stati, come la Francia, il problema è ancora più arduo. Su questo argomento sono in preparazione diverse leggi, ma il ministro sa bene che "ci vorrà del tempo". E cosa fare di quegli 8.000 - 10.000 Uiguri che vivono, persuasi di essere tornati in terra santa, con donne e bambini nella regione di Idlib? (3)
Anche la questione degli sfollati e degli esuli non è facile. I primi dovrebbero essere in grado di tornare a casa in modo che non ci siano sconvolgimenti demografici che causino altre crisi. Secondo il ministro Ali Haïdar "questo è il nostro obiettivo principale, il ritorno di tutti gli sfollati nelle loro aree di origine. Rifiutiamo il termine sostituzione delle popolazioni." Quanto agli esuli, le situazioni sono diverse. Come risolvere l'equazione libanese in cui i rifugiati sono presi in ostaggio dalle diatribe politiche interne a Beirut? È comunque certo che la maggior parte degli esuli nei Paesi della Regione tornerà. Per coloro che hanno ottenuto i visti in Occidente, il ritorno è più incerto. Questi Paesi hanno concesso, in via prioritaria, asilo a siriani istruiti, formati e che quindi vivono in buone condizioni. Di conseguenza, c'è una carenza di medici, ma anche di artigiani, scalpellini così utili per la ricostruzione del paese.
Sanzioni perverse
E come ricostruire un Paese sotto embargo? Solo pochi mesi fa, le misure adottate dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti provocarono l'ira dei medici di fronte alla carenza di attrezzature e medicinali. Oggi, gli operatori sanitari che abbiamo incontrato alzano le spalle, o sollevano gli occhi al cielo per lamentare gli effetti negativi di queste sanzioni. Un radiologo commenta: "Poiché non potevamo ottenere i pezzi di ricambio per gli scanner o le risonanze, abbiamo acquistato apparecchiature in India, Cina o Russia. A causa degli eventi, abbiamo dovuto rivolgerci ai BRICS che mostrano rispetto verso noi, a differenza degli Occidentali." Quanto ai medicinali, le fabbriche dei generici producono nuovamente la quantità bastante per garantire il consumo interno; per quelli, come gli anti antitumorali, che non sono fatti in Siria, vengono contrabbandati dal Libano, e naturalmente sono molto più costosi. Mai nella storia, un embargo contro uno Stato ha piegato un paese o ha risolto una crisi politica. In compenso, sicuramente, queste misure coercitive danneggiano la popolazione, arricchiscono i profittatori della guerra e alimentano la corruzione.
È questo l'obiettivo?
La diplomazia dei piccoli passi
Se il corpo medico è riuscito a trovare qualche rimedio, soffre naturalmente, come tutti i siriani dell'embargo finanziario. Soffre anche il blocco della cooperazione scientifica con i colleghi francesi. La Francia "dei Lumi" non avrebbe disonore dall'apertura di una via di diplomazia scientifica per consentire a medici e archeologi, la maggioranza dei quali è stata formata in Francia, di riprendere le loro cooperazioni (4).  Anche l'Unione Europea allo stesso modo, ne avrebbe giovato in dignità, levando le sue sanzioni così inefficaci quanto controproducenti e partecipando alla ricostruzione di un Paese che ha, insieme alla Francia, contribuito a distruggere ...
                                  Leslie Varenne, Direttrice dell' IVERIS
(1) Col deputato onorario, Gérard Bapt, l'IVERIS ha accompagnato una delegazione di medici invitati al congresso della Società Siriana di Radiologia che si teneva dal 20 al 23 ottobre a Damasco e ad Aleppo. La delegazione francese era composta da tre medici radiologi: Anas Alexis Chebib Presidente anche del Collettivo per la Siria, Véronique Bouté anche Presidentessa dell'associazione transmediterranea Astarté, Jocelyne Chopier dottoressa all'Assistenza pubblica degli Ospedali di Parigi. A Beirut, il dottore Assaad Mohanna ha raggiunto la delegazione.
(2) L'esercito siriano avanza molto rapidamente. All'epoca del nostro viaggio, erano ancora più del 30% i territori occupati, quindici giorni più tardi, con la presa di bastioni jihadisti nella regione di Deir ez-Zor e della città di Boukamal, solo il 10% del Paese sfugge ancora al controllo di Damasco. Restano, tuttavia ancora delle "sacche" soprattutto a Damasco ed Aleppo così come la città e la regione di Idlib.
(3) Le cifre sono spesso un pomo della discordia, parecchie fonti ci hanno dato cifre differenti, tutte concordano tuttavia nel dire che migliaia di Uiguri sono installati con le loro famiglie nel governatorato di Idlib.

 (4)  
Durante il suo soggiorno, l'IVERIS ha incontrato Maamoun Abdulkarim, direttore del Patrimonio e delle Antichità della Siria. L'istituto ritornerà prossimamente al suo ruolo nel salvataggio del patrimonio dell'umanità.
 ( trad. dal francese Gb.P.)

giovedì 9 novembre 2017

Libano: Hariri si dimette ... contro l'Iran


Richard Labévière , 06-11-2017

Le dimissioni di venerdì scorso del primo ministro libanese Saad Hariri suonano come un ulteriore colpo di tuono nel cielo già abbastanza tormentato del Medio Oriente. Questa drammatica mossa segue l'invito del presidente americano Donald Trump, lanciato il 20 maggio da Riyad, a "isolare l'Iran". Viene nella fase finale di una rivoluzione di palazzo in Arabia Saudita che ha visto, sabato scorso, l'arresto di trenta principi e uomini d'affari. Infine, si verifica in un contesto strategico dominato dalla riconquista di quasi tutta la Siria da parte dell'esercito governativo e i suoi alleati russi, iraniani e Hezbollah libanesi.

LA DISFATTA DELL'ASSE AMERICANO-ISRAELO-SAUDITA
Con la liberazione di Deir ez-Zor da parte dell'esercito governativo siriano, l'opposizione armata e i suoi sostenitori sunniti -Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, ecc - sono sotto controllo . Riprendendo le regioni orientali della Siria, l'esercito siriano e i suoi alleati non solo liberano le zone ricche di petrolio che saranno essenziali per la ricostruzione del paese, ma soprattutto operano la loro congiunzione con le forze di Baghdad al confine con l'Iraq, una fascia di 650 chilometri tra la Giordania e la Turchia.

"L'incubo di un "corridoio sciita" tanto temuto da Washington, Riyadh e Tel Aviv riemerge come uno spettro di panico", ha detto un ambasciatore europeo di stanza a Beirut "al punto che per ritardare questa inevitabile inversione, le forze speciali statunitensi nella zona hanno spinto dei gruppi Curdi a fare alleanza con le restanti unità di combattenti  ISIS ancora dispiegate nella Siria orientale”.
Deir ez-Zor era l'ultimo centro urbano nelle mani di Dae'ch in Siria dalla caduta della Raqqa a metà ottobre. Dopo aver controllato un terzo del paese, Dae'ch è ora con le spalle al muro nella valle dell'Eufrate. Il 7 ottobre, il generale americano Robert Sofge, numero due della Coalizione internazionale anti- Dae'ch , ha stimato che circa 2.000 combattenti jihadisti si nascondono nel deserto circostante. 
Le due vittorie di Raqqa e Deir ez-Zor certamente non significano la fine di Dae'ch. "Anche se estremamente indebolita, l'organizzazione ha disseminato cellule dormienti nelle zone liberate e già si reindirizza verso azioni di guerriglia tradizionali, con il sostegno di diversi gruppi curdi", dice una fonte militare europea, aggiungendo: "l'asse americano-israeliano-saudita perderà questa guerra e l'Iran e la Russia vinceranno ... ».

Nonostante le proteste degli Stati Uniti, le truppe irachene hanno eliminato dalle zone di confine con la Siria la maggior parte dei gruppi salafiti. Le milizie irachene hanno anche attraversato il confine per aiutare le truppe siriane a recuperare Abu Kamal, l'ultima località controllata da Dae'ch . È certo che questa giunzione promuoverà la collaborazione militare tra Siria e Iraq, un incubo per Washington, Tel Aviv e Riyadh.
Gli Stati Uniti avevano previsto di prendere Abu Kamal con le unità delle Forze Democratiche Siriane (SDF) - le loro forze proxy Curde. Purtroppo per loro, le forze del governo siriano li hanno battuti in corsa. Per diversi giorni di fila, i bombardieri Tu-22M3 a lungo raggio della Russia hanno sostenuto l'offensiva siriana con grandi incursioni effettuate direttamente dalla Russia. Hezbollah ha impegnato diverse migliaia di combattenti.

Sponsorizzato dall'Arabia Saudita in Iraq e Siria, Dae'ch è stato quindi spazzato via, l'Iraq ha ripreso la sua sovranità nazionale e la Siria sta per recuperare la propria. In entrambi i casi, le forze armate governative hanno impedito ai Curdi di appropriarsi di parte del territorio e sventato i tentativi di rilanciare la guerra civile a loro vantaggio. Di fronte al fallimento degli Stati Uniti che puntavano su una "partizione" eufemisticamente chiedendo l'istituzione di un "federalismo", il recupero di quasi tutto il territorio nazionale siriano rilancia una dinamica di riscossa e di nuovi irredentismi.
Le dichiarazioni di Benjamin Netanyahu, il 5 novembre alla BBC, involontariamente confermano questo sviluppo e la sconfitta dell'asse USA-Israele-saudita, "le dimissioni di Saad Hariri significano che Hezbollah ha preso il potere, il che significa che l'Iran ha preso il potere. Questa è una chiamata a svegliarsi! Il Medio Oriente sta vivendo un momento estremamente pericoloso in cui l'Iran sta cercando di dominare e controllare l'intera regione ... Quando tutti gli Arabi e gli Israeliani sono d'accordo su una cosa, il mondo deve sentirlo. Dobbiamo fermare questa presa di controllo iraniana ".  In ogni caso, ogni volta che una nuova minaccia si volge sull'Iran, è il Libano che tintinna.

FINE DI UNA RIVOLUZIONE DI PALAZZO
Ormai, l'Arabia Saudita e i suoi satelliti del Golfo (con la notevole eccezione del Qatar) stanno cercando un altro teatro da cui potrebbero sfidare e indebolire l'Iran per compensare la perdita della Siria. L'urgente desiderio di rovesciare la situazione regionale potrebbe indurli a cercare di riprendere piede in Libano. Gli Stati del Golfo, Israele e gli Stati Uniti non vogliono che l'Iran raccolga i benefici di una vittoria in Siria.

Ironia della sorte: il primo ministro libanese (che ha un passaporto saudita) si è dimesso per ordine dell' Arabia Saudita, in Arabia Saudita, in diretta televisiva sulla TV saudita Al-Arabia . Nella sua lettera di dimissioni, scritta da funzionari del palazzo saudita, accusa l'Iran di interferenze straniere nella politica libanese. Una voce sostiene inoltre che l'assassinio di Saad Hariri era progettato in Libano, il che non ha alcun senso ci hanno confermato vari capi dipartimento della sicurezza interna libanese, anche se i parenti del Primo Ministro sostengono che è il servizio di Intelligence francese che lo avrebbero avvertito.  A Beirut, questi ultimi negano formalmente "queste voci infondate". Altre fonti evocano una montatura del Mossad …

Ancora, le dimissioni del primo ministro libanese in Arabia Saudita sono concomitanti con uno spettacolare arresto di principi e soprattutto di potenti leader della Guardia Nazionale e della Marina. Riyadh ha deciso di bloccare i conti bancari del miliardario principe Walid bin Talal e di dieci altri dignitari sauditi. Trenta ex ministri e uomini d'affari sono stati arrestati la notte tra sabato e domenica in nome della lotta contro la corruzione. I portavoce del Palazzo annunciano che circa mille miliardi di dollari potrebbero essere recuperati. Ma altre voci regionali più informate sostengono che "sotto il pretesto di una improbabile lotta contro la corruzione, si tratterebbe soprattutto per il nuovo potere installato a Riyadh di completare la sua rivoluzione di palazzo eliminando le personalità saudite che non condividono le nuove opzioni di Mohamad Ben Salman, vale a dire un ravvicinamento con Israele e un inasprimento del confronto con Iran, Qatar e i mondi sciiti”.

Le dimissioni a sorpresa di Saad Hariri completano una rivoluzione di Palazzo che accade in piena ripresa dei negoziati internazionali sulla Siria. Durante la visita in Iran il 1 ° novembre Putin ha confermato la sua determinazione a continuare il processo di Astana con una futura riunione dei vari componenti dell'opposizione a Sochi. A Ginevra, il rappresentante speciale dell'ONU Staffan de Mistura ha previsto un altro giro di colloqui tra l'opposizione e il governo siriano il 28 novembre.
All'inizio della settimana, Thamer al-Sabhan, il ministro saudita degli affari del Golfo, aveva minacciato l'Hezbollah libanese e aveva annunciato che sarebbero arrivate sorprese. Facendo riferimento ad uno dei suoi tweets indirizzati al governo libanese, il ministro ha aggiunto: "Ho mandato questo messaggio al governo perché il partito di Satana (ossia Hezbollah) vi è rappresentato ed è un partito terroristico. Il problema non è quello di rovesciare il governo, ma piuttosto di rovesciare Hezbollah ".

HASSAN NASRALLAH FA APPELLO ALLA CALMA
Domenica sera, in un discorso televisivo, il segretario generale di Hezbollah ha rassicurato che "l'escalation politica verbale non cambia la realtà regionale". Egli ha invitato i Libanesi alla calma e a non cedere a tre voci diffuse da coloro che cercano di provocare una crisi costituzionale: un complotto per assassinare Saad Hariri, un attacco israeliano e un piano saudita per attaccare il Libano.
Hassan Nasrallah ha risposto punto per punto spiegando in sostanza: l'annuncio di un progetto di assassinio è "totalmente fantasioso"; l'agenda di Tel-Aviv non è identica all'agenda di Riyad e non può contemplare attacchi militari nel contesto attuale; infine, l'Arabia Saudita non ha i mezzi per attaccare il Libano. Si potrebbe aggiungere ... mentre perde in Siria, si è impantanata in Yemen e reprime le strade in Bahrain, mentre gli ultimi arresti potrebbero provocare reazioni popolari e cristallizzare una crisi di regime latente da diversi mesi!
Inoltre, il leader di Hezbollah reputa che le dimissioni di Saad Hariri non sono la sua decisione personale e che si deve aspettare il suo ritorno in Libano perchè si spieghi davanti ai suoi colleghi, forse questo giovedì, a meno che il primo ministro libanese non sia detenuto in Arabia Saudita - sotto arresto domiciliare o persino in prigione?  Con l'intelligenza politica che sappiamo, Hassan Nasrallah ha accuratamente evitato di infierire su Saad Hariri personalmente, preferendo andare alla fonte di queste dimissioni a sorpresa: l'Arabia Saudita!

Sulla stessa lunghezza d'onda, quelli vicini al presidente del Libano Michel Aoun hanno dichiarato che le dimissioni - annunciate da un paese straniero - sono incostituzionali. Il presidente si rifiuta di prendere atto di ciò prima di aver sentito, dalla bocca dell'interessato, i motivi di tale decisione. All'unisono, i due politici hanno chiesto il ritorno fisico di Saad Hariri sul territorio libanese, per poter adottare le misure appropriate.

Ancor prima dell'annuncio delle dimissioni di Saad Hariri, Samir Geagea, capo delle forze libanesi (FL), aveva anch'egli moltiplicato i suoi attacchi contro Hezbollah. Sempre allineato a Tel Aviv e Riad, il leader di estrema destra cercherà senza dubbio di approfittare della situazione per indebolire i suoi concorrenti in campo cristiano presentandosi come l'unica alternativa possibile alla successione al presidente Michel Aoun .

Altre conseguenze devono essere temute. L'amministrazione statunitense potrebbe cogliere l'opportunità di annunciare nuove sanzioni contro Hezbollah e Libano. L'Arabia Saudita continuerà ad infiltrare alcuni dei suoi combattenti al-Qaeda e Dae'ch in Siria e in Iraq. Come da molti decenni, la monarchia wahhabita finanzierà nuove operazioni terroristiche in Libano e in altri paesi della regione, mirando agli obiettivi sciiti e cristiani. Senza rischiare di lanciare una guerra aperta, Israele probabilmente continuerà a infastidire e provocare Hezbollah lungo il confine meridionale del Libano, nonché le sue violazioni quotidiane dello spazio aereo e delle acque territoriali del Paese dei Cedri.

In risposta ad un articolo molto strano di Médiapart sulle dimissioni di Saad Hariri, Bernard Cornut - collaboratore di prochetmoyen-orient.ch- ha inviato una risposta che merita di essere diffusa: "l'articolo cita i 1,5 milioni di rifugiati come fonte di instabilità in Libano e la guerra in Siria come causa di questi rifugiati. Non menziona la ragione principale per lo scatenarsi e il prolungarsi di questa guerra, vale a dire l'approvazione di Hillary Clinton per il sostegno finanziario e l'armamento massiccio dei ribelli mercenari impegnati in Siria, tramite basi statunitensi in Turchia ( Incirlik e Hatay) e in Giordania, come Hamid Ben Jassem, ex primo ministro e ministro degli Esteri di Qatar, recentemente ha riconosciuto chiaramente in un'intervista televisiva il 25 ottobre. Egli specificava ciò che aveva già ammesso in un'intervista del 15 aprile 2017 al Financial Times, citando la sua visita al re Abdullah di Arabia dall'inizio degli eventi in Siria per garantire questo massiccio sostegno illegale a delle ribellioni illegali.
 L'ex ministro del Qatar dichiara: "Per quanto riguarda la Siria, non appena gli eventi sono iniziati, sono andato in Arabia Saudita per incontrare il re Abdullah. Questo in seguito alle istruzioni di Sua Altezza (padre del principe attuale del Qatar). Gli ho detto che sta succedendo così (in Siria)! Ha risposto: siamo con voi. Occupatevi di questo caso e noi ci coordiniamo con voi ... ma prendete il caso nelle mani ". E lo abbiamo preso in mano! Non voglio dare i dettagli, ma abbiamo molti documenti e prove su questo. Tutto ciò che andava (in Siria) passava in Turchia in coordinamento con le forze americane. Tutta la distribuzione è stata fatta attraverso le forze americane, i Turchi, noi stessi e i nostri fratelli siriani, tutti i militari erano presenti ".

Richard Labévière
    (trad.  OraproSiria)

lunedì 6 novembre 2017

Ricostruire la fiducia sarà la vera sfida della convivenza tra siriani

  CRUX ottobre 2017, John L. Allen Jr.

Sebbene il conflitto sanguinoso in Siria sia ancora incombente dopo sei lunghi anni, la sua fine però potrebbe risultare meno complicata che il ritorno ai rapporti relativamente fiduciosi che una volta esistevano nel Paese tra Musulmani e Cristiani. Molti profughi cristiani siriani dicono che dopo aver visto i loro vicini musulmani unirsi per attaccarli, è impossibile immaginare di potersi nuovamente fidare di loro...

La fine della guerra in Siria potrebbe essere più facile che la ricostruzione della fiducia tra cristiani e musulmani.

Rana, una rifugiata cristiana siriana che vive nella città di Zahle nel centro del Libano, con la sua bambina di un anno. (Credito: Ines San Martin / Crux.)

ZAHLÉ, Libano - Per sei anni, la fine di una sanguinosa guerra civile scoppiata in Siria nel 2011 ha sfidato i migliori sforzi di diplomatici e strateghi militari. Eppure fermare i combattimenti potrebbe rivelarsi la parte più facile, rispetto alla ricostruzione della fiducia tra cristiani e musulmani che, per molti versi, è stata la prima vittima della guerra.
"Non riuscirò mai a perdonarli, mai", dice Victoria, una rifugiata siriana fuggita da Aleppo e madre di due figli, che attualmente vivono in un appartamento sovvenzionato dalla Chiesa a Zahlé, Libano, nella valle della Bekaa. La sovvenzione è resa possibile da 'Aiuto alla Chiesa che Soffre', fondazione pontificia che supporta i cristiani perseguitati in tutto il mondo. Victoria chiede che il suo cognome non venga citato, dal momento che suo marito, Abed, è scomparso mentre era al lavoro in Siria poco prima che la famiglia fuggisse. Nel caso in cui egli sia ancora vivo, teme possa subire ritorsioni. A lungo termine vorrebbe avere un nuovo futuro per sé e per la sua famiglia "ovunque in Occidente", dice, e la sua prima scelta sarebbe verso l'Australia.
"I nostri vicini musulmani quando sono iniziati i combattimenti, ci hanno attaccato", dice. "Non riesco a perdonarli. Hanno distrutto tutto ciò che avevamo.".  Victoria è categorica: anche se la pace tornerà in Siria, lei ritiene "impossibile" vivere con gli stessi vicini senza temere continuamente che la stessa cosa possa accadere di nuovo.
Sana Samia, che è la responsabile per la raccolta di fondi e la gestione del progetto per l'arcidiocesi Greco-Melkita di Zahlé, ha affermato che uno degli obiettivi del loro sostegno ai rifugiati è quello di aiutare i Cristiani che vorranno tornare a casa quando sarà il momento giusto perchè possano riuscire a farlo con successo e, oltre all'istruzione e a un posto di lavoro, significa anche essere disposti a coesistere costruttivamente con i Musulmani. "Devono imparare a fidarsi di nuovo", ha detto Samia, "ma è estremamente difficile a causa di tutto quello che hanno visto e sperimentato".
Secondo i propri standard, l'impegno dell'arcidiocesi per aiutare i rifugiati è enorme, con una cifra di circa 2 milioni di dollari ogni anno, secondo padre Elian Chaar, che sovrintende alle finanze della chiesa.
A sua volta, questo è un riflesso della scala della crisi globale dei rifugiati nel paese, dal momento che il Libano ospita oggi una popolazione di rifugiati ufficialmente stimata a 1,5 milioni (anche se alcuni ritengono che il totale reale sia molto più alto) oltre ad una popolazione autoctona di poco più di 4 milioni. Come ha sottolineato il membro del congresso della California Issa Darrell in una recente udienza sul Libano, è come se gli Stati Uniti fossero costretti ad ospitare 100 milioni di rifugiati.
Padre Chaar ha dichiarato che la spesa di 2 milioni di dollari rappresenta all'incirca un aumento del 65% del bilancio dell'assistenza umanitaria dell'arcidiocesi da sei anni fa, con una gran parte del denaro proveniente dall'Aiuto alla Chiesa che Soffre. La chiesa locale sotto l'arcivescovo Isaam John Darwish sta facendo tutto quello che può per promuovere buone relazioni tra Musulmani e Cristiani. L'ospedale arcidiocesano, Tel Chiha, cura senza distinzione sia i Musulmani che i Cristiani, anche ospitando i pazienti musulmani con le loro esigenze dietetiche e di privacy, e lo stesso arcivescovo Darwish lavora attraverso le ONG che gestiscono i campi profughi retti da musulmani locali per fornire assistenza.
In ogni caso quale che sia il grande impegno che la Chiesa locale e i donatori internazionali attuino, la mancanza di fiducia può essere difficile da colmare.
Rana, che ha anch'essa chiesto di non dire il suo cognome, è una madre di tre figli dell'età di nove, cinque e un anno. In termini di personalità, è una persona solare e felice, nonostante viva in un micro appartamento con una piccola cucina, dove i materassi usurati devono essere messi di notte sul pavimento per permettere a tutti di dormire.  È raro non vedere Rana sorridere e avere una risata pronta. Eppure, quando le si chiede se può perdonare i Musulmani che l'hanno attaccata, si spegne improvvisamente, e il "no" che pronuncia è categorico. "Ci hanno pugnalato nella schiena", dice, riferendosi ai suoi vicini musulmani del suo villaggio siriano, dicendo che è fuggita a Zahlé proprio perché è noto per avere una forte maggioranza cristiana.
"Abbiamo vissuto sempre pacificamente con loro, ma hanno pianificato [l'attacco] sotto il tavolo", dice. "Quando sono incominciati i combattimenti loro ci sono venuti dietro". "Abbiamo vissuto insieme nello stesso posto", dice Rana, "ma avevano odio per noi e ci hanno mentito".
Racconta di aver visto che le persone con cui aveva vissuto e lavorato tutta la sua vita hanno iniziato a partecipare alle manifestazioni, chiedendo che i Cristiani fossero eliminati, e li ha poi osservati saccheggiare case cristiane che avevano preso di mira.  "Non potrò mai fidarmi di nuovo", dice. Inoltre, Rana confessa che la sfiducia è ora generalizzata verso tutti i Musulmani. Per scelta, lei non ha amici musulmani in Zahlé . Indicando la porta del suo piccolo appartamento, ci spiega che la sua vicina di casa è una donna musulmana, ma con lei non parla mai e non ha alcuna intenzione di farlo.
Naturalmente, per ogni storia di Musulmani Siriani che si sono uniti all'assalto anti-cristiano, ci sono anche resoconti di Musulmani che rischiano la loro vita per aiutare i loro vicini Cristiani. I Cristiani sono anche consapevoli del fatto che molti Musulmani stessi sono stati gli obiettivi dell'ISIS ed ora vivono una vita altrettanto difficile come la loro, perché anche quei Musulmani sono stati costretti a fuggire.
Padre Elie Chaaya,, accademico e pastore Greco-Melkita, però dichiara che la diffidenza non è generalizzata: nel villaggio dove si trova la sua parrocchia dice che c'è una popolazione mista di Cristiani e Musulmani sunniti e sostiene che i rifugiati cristiani possono vivere insieme ai musulmani "senza paura". 
 Chaar, tuttavia, per la sua esperienza dice che il sospetto spesso corre abbastanza profondo.
"Quando i Musulmani Siriani cominciarono a venire qui, tutti li temevano, Libanesi e rifugiati allo stesso modo", racconta. "Vuoi sapere, sì o no, se questo ragazzo è infettato con la cultura dell'ISIS? ... Non puoi aiutare preoccupandoti che potrebbero essere estremisti, cosa che rende difficile fidarsi di loro".
Samia dice, che nonostante la china sia ripida da risalire, ricostruire la fiducia è essenziale se i Cristiani vogliono rimanere in Medio Oriente.
"Vogliamo che i Cristiani siano in condizione di poter rimanere qui, nella terra dove nacque Cristo e dove nacque il cristianesimo", dice. "Se vogliamo restare, dobbiamo essere in grado di vivere bene con i musulmani".  “Non abbiamo un'altra scelta", conclude Samia.

giovedì 2 novembre 2017

Storie dalla Siria


di Giampiero Pettenon, Salesiani don Bosco

Abbiamo ascoltato la storia di Juliana, che a diciassette anni è diventata la donna di casa, visto che la madre e il fratello hanno trovato rifugio in Germania, mentre lei ed il papà sono ancora in Siria in attesa di ottenere il visto per il ricongiungimento familiare. Quando, raccontando le sue giornate, ci ha detto che deve far da mangiare al papà perché la mamma non c'è, è scoppiata a piangere. Lacrime di nostalgia. Ha solo diciassette anni e la mamma le manca tanto.
L'ha consolata Nour, una bella giovane di ventiquattro anni, neo cooperatrice salesiana, che due anni fa ha perso il fratello, vittima di una scheggia di bomba caduta sul negozio nel quale era andato a comprarsi il vestito da sposo, perché al suo matrimonio mancavano solo poche settimane. Anche Nour non ha saputo trattenere le lacrime al ricordo di questa morte assurda.
Quanto dolore si sta accumulando in tutte queste persone, quanto!

Anche don Mounir ci racconta che il nonno è stato ucciso dai ribelli. Stava andando in macchina con la nonna, quando hanno cominciato a sparare all'auto. Erano vicino ad un posto di blocco dell'esercito regolare ed hanno cercato di raggiungerlo di corsa. La nonna ce l'ha fatta. Ma al nonno sono arrivate due pallottole sulle schiena ed è stramazzato al suolo. Morto. Lo strazio è stato di non poterlo prendere subito dopo, perché i cecchini dell'ISIS per giorni hanno impedito di avvicinarsi al defunto.

Dove trovano la forza per andare avanti, tutte queste persone?
La risposta semplice e disarmante, per noi abituati a tante riflessioni e razionalizzazioni, viene dalla bocca sia dei salesiani sia dei giovani che intervistiamo. La fede li aiuta ad andare avanti e a sperare in un futuro di pace. Quando si salutano e quando commentano un fatto, sulla loro bocca esce con frequenza una esclamazione di riconoscenza e di fede: grazie a Dio siamo vivi, grazie a Dio ora non sparano più molto, grazie a Dio il viaggio è andato bene.

Grazie a Dio, dico io, ci sono queste persone che portano la loro croce con fede e speranza, dando una testimonianza formidabile di ciò che sono i cristiani veri.





Sposi nel mezzo della guerra e della miseria



La guerra, il terrorismo e la povertà non sono stati un ostacolo per alcune coppie nel decidere di unirsi per sempre in matrimonio .
Storie d'amore che sovrastano le avversità in questo paese.  Essi ricevono assistenza finanziaria dalla Chiesa latina di San Francesco d'Assisi ad Aleppo, in Siria, amministrata dai frati francescani.

Diala e Khalil
Khalil e Diala si sono sposati nel luglio 2016, quando la città di Aleppo era ancora in potere dei terroristi. Khalil ha detto ad ACI Prensa che prima della guerra aveva aperto un panificio con i suoi risparmi, ma ha perso tutto quando la guerra civile è scoppiata nel 2011. Il ragazzo 32enne ha ricordato che quando ha incontrato Diala "aveva solo un dollaro in tasca" e ha detto che entrambi hanno "grande fede e fiducia in Dio e che senza questo non si sarebbero sposati. Il Signore è colui che ci aiuta e ci conduce ".
La coppia sopravvive grazie all'aiuto finanziario della Chiesa latina di San Francesco d'Assisi. Diala, che ha 25 anni, lavora nel segretariato della chiesa e in un laboratorio di abbigliamento.
Khalil è riuscito ad aprire un'altra panetteria insieme a un socio, ma l'attività non aumenta perché la città è immersa nella povertà dopo la sua liberazione nel dicembre 2016.

Jihad e Joumana
Anche Jihad, 36 anni e Joumana, 31, si sono sposati in Siria nel luglio del 2016 e hanno una figlia di tre mesi. Grazie al sostegno finanziario della Chiesa latina di San Francesco a Aleppo hanno affittato un appartamento per un anno, ma non hanno elettricità.
Entrambi hanno detto ad ACI Prensa che non sanno che cosa accadrà a loro in futuro e che "solo grazie all'aiuto della Chiesa possiamo sopravvivere. Non vogliamo lasciare il paese e dobbiamo anche curare i nostri parenti anziani, ma la vita è molto difficile ".
"Stiamo lavorando molto duramente tutto il giorno e con ciò che guadagniamo è difficile sopravvivere", spiegano.

 Mazen e Ewa
Questi giovani si sono incontrati sei anni fa e si sono sposati nell'agosto 2017. Hanno detto a ACI Prensa che "senza l'aiuto della Chiesa non avremmo deciso di formare una famiglia ".
Mazen, che ha 24 anni, lavora nell'esercito siriano dalle 8:00 alle 14:00 e poi lavora nella piccola fabbrica di pantaloni dello zio. Prima di sposarsi, ha vissuto con la sua famiglia in un appartamento della zia perché la sua casa è stata distrutta durante i bombardamenti. Ewa ha 23 anni e ancora non riesce a trovare un lavoro.
La chiesa latina di San Francesco a Aleppo li ha aiutati a trovare un appartamento in cui soggiorneranno per un anno.

Aymad e Mirna
Aymad e Mirna si sono sposati nel 2016 e hanno detto ad ACI Prensa che "viviamo giorno per giorno". Questa coppia ha un figlio di nome Mark, e Mirna è anche a sei mesi di gravidanza.
Aymad, 36 anni, possiede un negozio di gioielli e lavora dalle 8:00 alle 11:00 mentre Mirna, 28enne, è insegnante. Quel poco che guadagnano serve a pagare l'affitto, che sale sempre di più e non sanno se resteranno nell'appartamento perché la figlia del proprietario tornerà in città e lo occuperà.
Questa coppia riceve soldi dal fondo amministrato dai francescani di Aleppo per comprare il cibo. Inoltre, Aymad e sua sorella si prendono cura dei genitori anziani che non ricevono una pensione dallo Stato.

Bassam e Miryam
Bassam e Miryam, rispettivamente di 31 e 29 anni, si sono incontrati nel 2014 e si sono sposati nel 2015 "nel bel mezzo della guerra senza conoscere nessuno che ci potesse appoggiare".
Entrambi lavorano, ma ciò che guadagnano è sufficiente per vivere tre settimane e da due anni ricevono un aiuto finanziario dalla Chiesa latina di San Francesco.
Bassam e Miryam hanno studiato letteratura francese e hanno una figlia di un anno. Hanno detto a ACI Prensa che hanno deciso di rimanere a Aleppo, anche se tutti i loro parenti sono fuggiti all'estero, perché "abbiamo fede in Dio e nella sua provvidenza. Speriamo che la guerra finisca e possiamo vivere del nostro lavoro ".