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martedì 12 settembre 2017

Padre Daniel da Qara: un nuovo coraggio, come mai prima


Lettera di Padre Daniel
Mar Yakub, 8 settembre 2017

Uno strano senso di sicurezza  
  La catena montuosa dei Monti anti-Libano, i nostri vicini incrollabili e impressionanti, è sempre stata testimone silenziosa della nostra vita quotidiana. Ai piedi dei Monti i nostri compaesani avevano i loro alberi da frutto. Le ciliegie di Qara erano conosciute in tutto il Medio Oriente per la loro qualità superiore. Questo paradiso è andato subito perduto appena i terroristi vi hanno fatto la loro tana. Tutto è stato distrutto, e da allora la nostra vita quotidiana minacciata. Infatti da quel momento il ritornello quotidiano era: "oggi non si può andare al campo grande", "oggi non si può lavorare in giardino", "oggi per la sicurezza è meglio non mangiare fuori”... Dalla scorsa settimana, i terroristi e ISIS provenienti dalla regione di confine e in tutto il Qalamoun sono stati cacciati via. Ci sono alcuni soldati presenti per togliere le mine e per controllare le frontiere, ma sono finite le sparatorie, i colpi di cannone, nelle vicinanze o nelle lontananze, e sono finiti anche i movimenti di truppe. Uno strano silenzio. È come ci mancasse qualcosa. Invece no, dobbiamo adattarci di nuovo a quella deliziosa pace e armonia siriana che abbiamo conosciuto prima della guerra.
   E all'improvviso la situazione è di nuovo come prima della guerra. Già due gruppi vogliono visitarci durante il weekend. Sono 70 persone, uomini e donne. Solo che al momento non ci sono camere disponibili nel nuovo edificio, tutto è pieno di aiuti umanitari che escono ed entrano continuamente. E' vero che abbiamo ampi spazi e che abbiamo tanti materassi e possiamo liberare qualche camera. Possiamo provarci, tutti sono benvenuti se accettano le limitazioni della situazione. Tutto è preparato al meglio. All'ultimo momento tuttavia i 2 gruppi decidono di aspettare e di rimandare la loro visita. Accipicchia.
   Nel frattempo, in Deir Ezzor c’è già un'atmosfera di festa dopo la liberazione repentina, ma allo stesso tempo c'è un urgente bisogno di aiuto. Viene caricato un camion con aiuti umanitari e i nostri due confratelli partono mercoledì mattina per diversi giorni per aiutare la popolazione martirizzata di Deir Ezzor.
  Allo stesso tempo, si lavora non-stop nelle piccole “imprese” di Qâra. Le 35 donne che hanno iniziato lavoretti con l’uncinetto e la maglia, producono oggi vestiti creativi. I loro prodotti sono distribuiti all’estero. Anch'io porto ogni volta una borsa piena, quando possibile. Alcuni dicono che è stupido perché ci sono tanti negozi con bei capi a buon prezzo. Eppure noi continuiamo la distribuzione in modo legale. Infatti regaliamo tutto ai nostri amici e benefattori, e loro ci donano liberamente un po’ di soldi: alla fine abbiamo abbastanza soldi per poter pagare queste donne. La prossima volta potrete leggere sul nostro sito internet commoventi testimonianze di donne che hanno perso tutto e talvolta anche i loro mariti e che ora vivono in Qâra con i loro genitori o suoceri, e possono sopravvivere solo grazie a questo loro lavoro a maglia creativo.

Il convoglio di primo soccorso a Deir Ezzor    I nostri due fratelli sono partiti mercoledì mattina verso Deir Ezzor con un convoglio di aiuti umanitari e un equipaggio di Mar Yakub: cinque camion e due ambulanze. Erano anche accompagnati da due medici, due infermieri e un gruppo di ragazzi e ragazze, che indossavano una giacca rossa con il segno della nostra comunità. Venerdì sera sono ritornati esausti. Per due ore abbiamo ascoltato senza fiato ciò che hanno visto e sperimentato. Hanno guidato le macchine per ore nel deserto ardente. Avvicinandosi al Deir Ezzor, la strada, appena liberata, era piena di profonde buche. Lungo la strada c’erano alcuni cadaveri dei terroristi. C’erano anche grandi bossoli vuoti di mine disseminate. Un camion ha bucato una gomma e un altro ha avuto altri problemi e cosi sono stati costretti a trasbordare tutto in un'altra vettura. Tutti hanno aiutato, anche i due medici e le due infermiere che erano sulle ambulanze. Alla fine, quando il convoglio è arrivato davanti alle porta della città, ha dovuto aspettare: Asmaa al-Assad, la moglie del presidente, aveva provveduto a inviare decine di camion di aiuti umanitari ed era inteso che questi camion dovevano entrare per primi in città. Dopo un tempo di attesa e di informazioni avanti e indietro, al nostro convoglio era finalmente consentito di entrare fino al centro della città. La popolazione e i soldati, che erano da tre anni assediati da IS, per tutto questo tempo erano stati riforniti solo via aerea. La Mezzaluna Rossa aveva fornito cibo attraverso paracadute. Nonostante questi aiuti, tanti sono morti, soprattutto bambini, a causa di sottoalimentazione o infezioni.  Il primo soccorso è stato caotico. Migliaia di persone, molte di loro visibilmente affamate, si spingevano fra loro mendicando per cibo e bevanda. Infine l'esercito è dovuto intervenire per riportare l'ordine. Così ad ognuno è stato consegnata una borsa con dieci patate, cinque uova, una scatola di latte in polvere, acqua ... Le decine di camion della moglie del presidente hanno provveduto che finalmente ogni persona fosse in grado di mangiare e bere. Inizialmente c'era una tanica di acqua e una sola tazza per dissetare una decina di persone. Nonostante il fatto che tante case ed edifici sono stati distrutti, la ricchezza che aveva questa regione è visibile nelle numerose ville e case belle, circondate da palme.  
  La miseria in cui queste persone sono sopravvissute per anni ci fa porre la domanda: perche’ noi ci preoccupiamo di tante cose così futili?
    (trad. A Wilking )

domenica 10 settembre 2017

Cosa ne è stato della comunità cristiana di Palmyra?

L'antica città di Palmyra fu sede di una piccola comunità cristiana che ora vive in esilio. L'arcivescovo siro-cattolico di Homs, accompagnato da alcuni sacerdoti, è tornato alle rovine della parrocchia distrutta.
 di Vincent Gelot, di ritorno dalla Siria
Un segno della croce, qualche preghiera sussurrata in punta di labbra e un rosario appeso allo specchietto retrovisore. "Non dimenticate di prendere da bere" ricorda l'arcivescovo siro cattolico Philippe Barakat di Homs ai sacerdoti che lo accompagnano. L'automobile si avvia a passo d'uomo. Gli sguardi dei passeggeri sono ansiosi. "La strada per il deserto sarà lunga e questa è la prima volta che siamo tornati a Palmyra da quando l'esercito siriano l'ha riconquistata." confida il prelato barbuto, accendendo freneticamente la prima sigaretta del viaggio. "Non sappiamo su cosa andremo a cascare", mormora. Conquistata dall'organizzazione Stato Islamico (ISIS o Daech in arabo) nel maggio 2015, la città emblematica era stata ripresa nel marzo 2016 da parte dell'esercito siriano, sostenuto dai suoi alleati russi e iraniani, prima di cadere nuovamente nove mesi più tardi in mano a Daech. Riconquistata ai jihadisti nel marzo di quest'anno, alla città è ancora vietato l'accesso, i permessi di accesso sono complicati da ottenere, e la distanza di 160 km. in linea d'aria da Homs permane pericolosa.
Una cappella discreta ma colorata
Celebre per il suo antico sito archeologico, Palmyra (o Tadmor come gli Orientali la chiamano) lo è molto meno per la sua piccola comunità cristiana e per la sua modesta chiesa. "La parrocchia è dedicata a Santa Teresa del Bambin Gesù e risale al periodo del mandato francese. I Francesi l'avevano donata alla diocesi siriaco cattolica di Homs alla fine del mandato ", spiega il vescovo Barakat.
Situata nel cuore della città moderna, lungo la Via Regale decantata dalle guide turistiche, dove alberghi-ristoranti rivaleggiavano con i negozi di souvenir, la chiesa, la cui comunità parrocchiale era composta da cinque famiglie siriache e centinaia di fedeli di tutti i riti, "era una parrocchia molto colorata", ricorda padre Georges Khoury, il sacerdote di Palmyra. "Durante la Messa della Domenica, c'erano albergatori armeni, mercanti greci, soldati, lavoratori ... e persino turisti stranieri di passaggio!” Il cellulare dell'abuna (Padre) vibra. Uno dei suoi parrocchiani gli ha chiesto di fotografare la condizione della sua casa. Dopo la riconquista di Palmyra nel marzo scorso, la zona è ancora sotto controllo militare e nessun civile ha potuto tornare sul posto.
Il deserto, ocra e grigio, si stende a perdita d'occhio. L'auto prosegue la sua corsa lungo l'antico percorso, una volta utilizzato da carovane e cammelli, adesso trasformato in un asfalto deformato dal calore soffocante di agosto e malridotto dal passaggio continuo dei camion militari. La monotonia del viaggio è a volte interrotta dai posti di blocco dell'esercito siriano, dal passaggio di carri armati russi, auto blindate con mitragliatori e pickup recanti la bandiera gialla e nera della divisione "Fatimidi" una milizia sciita composta da combattenti afghani. D'un tratto, la strada si trova a correre a lato di un aeroporto militare per diversi chilometri. "Si tratta della base aerea T4, che ha svolto un ruolo chiave nella seconda riconquista di Palmyra" commenta il vescovo. "I terroristi hanno tentato più volte di prenderla senza mai riuscirvi." Inseguiti dopo una feroce battaglia, le milizie di Daech sono state respinte indietro di un centinaio di chilometri a est verso Deir-ez-Zor, dove i combattimenti continuano.
"Ho pianto molto"
Le ore passano, l'orizzonte si apre e le lingue si sciolgono. Incollando le sigarette, Padre Georges ricorda quel 21 maggio 2015 quando gli uomini di Daech entrarono in Palmyra: "L'esercito governativo è venuto ad avvisarci che i jihadisti stavano avvicinandosi. Ho noleggiato autobus e automobili malridotte per evacuare le nostre famiglie verso Homs. Sette ore più tardi, Daech prese possesso di Palmyra.". Poi, saranno gli anni dell' esilio, ancora di guerra e di privazioni, dove anche la sua comunità ha trovato rifugio nella frazione di Meskané alla periferia rurale di Homs: "Le famiglie sono rimaste parecchi mesi ad abitare nei locali della parrocchia. Ma la situazione si trascinava e non c'era lavoro, per cui le famiglie hanno finito per trasferirsi altrove o emigrare". La popolazione cristiana della Siria, che contava due milioni di anime prima dell'inizio della insurrezione nel 2011, adesso sarà all'incirca un terzo di allora.
A tutt'oggi, Padre Georges ha in cura la Parrocchia di Meskané mentre fa il "commesso viaggiatore" per visitare i suoi fedeli di Palmyra sparsi in tutta la regione: "Io porto loro cesti di cibo, medicine, vestiti, garantendo nel contempo la cura pastorale. Ho anche celebrato diversi battesimi e alcuni matrimoni!" Nel corso di questi anni bui, ha assistito da lontano, impotente e inorridito, alla messa in scena delle esecuzioni nel teatro antico, dove secondo l'OSDDH circa 280 persone sono state massacrate, e alla distruzione di monumenti storici. "Palmyra era la perla dell'Oriente e l'orgoglio di tutti i Siriani. Il giorno in cui han fatto saltare i templi di Baalshamin e di Bêl ho pianto molto ", ammette Padre Georges, che - sulla quarantina - ha vissuto a Palmyra per dieci anni ed era diventato un familiare dell'antico sito al quale L'UNESCO ha attribuito un "valore universale eccezionale".
Improvvisamente, la cittadella araba di Fakhr-Ed-Din, una fortezza del XII° secolo, appare in cima al suo picco roccioso. Le bocche si zittiscono. Entriamo in Palmyra.
Il perdono degli antenati
La città moderna di Palmyra potrebbe assomigliare a un castello di carte collassato o a un villaggio fantasma del far-west dopo l'OK Corral. Barricate tra edifici rovinati, minareti abbattuti in mezzo a veicoli bruciati, ovunque tracce di saccheggi e combattimenti stradali, ma non un'anima viva ad eccezione dei soldati di pattuglia. Adiacente ad una piazzetta con la fontana a secco, dove gli abitanti amavano alla sera prendere il fresco dell'oasi, fumando un narghilé, un "caffè turistico" in agonia è in attesa del cliente. "La città è in condizioni molto peggiori della prima volta", dice abuna Georges che era ritornato a vederne lo stato dopo la prima riconquista di Tadmor nella primavera del 2016. "Non promette niente di buono", sbotta.
Il prete invita il conducente a fermarsi. Il veicolo parcheggia davanti a quella che, prima del suo visibile stato miserabile, doveva essere una cappella. All'interno, l'altare è devastato, le lastre del pavimento sono state strappate e le pareti sono carbonizzate. Padre Georges è prostrato: "Dopo la prima partenza degli islamisti, la chiesa era stata saccheggiata ma non bruciata. Ho anche pensato di rimetterla in uso almeno simbolicamente. Ma adesso è distrutta!" lamenta. Adiacente al santuario, la casa di accoglienza ha subito lo stesso destino. Sostenuto dall'Oeuvre d'Orient, questo Centro con una dozzina di camere aveva come obbiettivo la creazione di posti di lavoro e stimolare la comunità cristiana locale accogliendo i visitatori e i pellegrini. "Abbiamo iniziato i lavori del centro nel 2010. Il sito stava per essere completato. Che spreco!" si rammarica Monsignor Barakat e conclude: "Che i nostri antenati e i nostri figli perdonino ciò che abbiamo fatto della Siria!". 
Prima di lasciare i luoghi, facciamo un salto all'antico sito. Il veicolo passa davanti al museo archeologico, completamente saccheggiato e devastato. Dalla pista di ciottoli, l'ippodromo e i primi colonnati sfilano... "L'ottanta per cento del sito dovrebbe essere ancora in piedi" ha giudicato a lume di naso padre Georges, prima di aggiungere "Il sito rimane impressionante. Prima lo era due volte di più”. Veniamo bloccati dall'esercito nei pressi delle torri funerarie, anch'esse vittime della follia distruttiva dei jihadisti. Subito la strada è interrotta: “non potete andare oltre" ci avverte un uomo in armi, indicandoci di svoltare. Su un colonnato crollato per i tre quarti, di fronte alle immensità desolate e brucianti, lo stendardo dei "Fatimidi" vincitori, sormontato da una bandiera russa slavata, galleggia nel vento.
  Vincent Gelot, capo dei progetti per il Medio Oriente dell'Œuvre d’Orient
     traduzione: Gb.P.

venerdì 8 settembre 2017

“Il giorno della Natività della Vergine Maria – diceva il cardinal J.Ratzinger l’8 settembre 1991 – non è un compleanno come tanti altri...."

La natività di Maria nella tradizione bizantina





di Manuel Nin 
Osservatore Romano



La festa della natività della Madre di Dio, l’8 settembre, è celebrata nelle Chiese d’oriente e d’occidente, e parecchi testi bizantini per questa festa sono entrati nell’ufficiatura romana. Inoltre, l’inizio dell’anno liturgico bizantino, l’1 settembre, situa la natività di Maria come la prima delle grandi feste, allo stesso modo che il 15 agosto, la sua dormizione, è l’ultima grande festa, e in qualche modo la conclusione, dell’anno liturgico. La celebrazione, preceduta il 7 da una pre-festa, prosegue fino alla vigilia dell’Esaltazione della croce il 13 settembre. E già dalla vigilia la liturgia sottolinea la gioia per la nascita di colei che diventa la madre del Verbo incarnato.
I titoli dati a Maria quasi sempre vengono messi in parallelo con quelli cristologici: «Con la tua natività, o immacolata, sono sorti sul mondo i raggi spirituali della gioia universale, che a tutti preannunciano il sole della gloria, Cristo Dio. La Vergine ricettacolo di Dio, la Madre di Dio pura, il vanto dei profeti, la figlia di Davide, nasce oggi da Gioacchino e da Anna la casta, e rovescia col suo parto la maledizione di Adamo che ci colpiva. Tu sei stata madre del creatore di tutti».
Un tropario della vigilia riunisce dodici titoli dati a Maria presi da testi veterotestamentari interpretati in chiave cristologica e quindi anche mariologica: l’immagine dei monti dai salmi, la mensa e il candelabro dal libro dell’Esodo, il trono dalle profezie di Isaia e di Daniele, il roveto ardente ancora dal libro dell’Esodo: «Gioisci, ricapitolazione dei mortali; gioisci, tempio del Signore; gioisci, monte santo; gioisci, mensa divina; gioisci, candelabro tutto luminoso; gioisci, vanto dei veri credenti, o venerabile; gioisci, Maria, madre del Cristo Dio; gioisci, tutta immacolata; gioisci, trono di fuoco; gioisci, dimora; gioisci, roveto incombusto; gioisci, speranza di tutti».
Nel vespro per due volte si mette in evidenza il mistero e la teologia della festa. Per confermare la professione di fede nella vera incarnazione del Verbo eterno di Dio, l’autore di questo testo, Sergio patriarca di Costantinopoli nel VII secolo, presenta in parallelo il cielo e la terra, la dimora di Dio e quella dell’uomo, la terra che diventa per l’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo di Maria dimora del Dio vivo: «Oggi Dio, che riposa sui troni spirituali, si è apprestato sulla terra un trono santo; colui che ha consolidati i cieli con sapienza nel suo amore per gli uomini si è preparato un cielo vivente: perché da sterile radice ha fatto germogliare per noi, come pianta portatrice di vita, la madre sua. O Dio dei prodigi, speranza dei disperati, Signore, gloria a te».
Un altro testo, dello stesso Sergio, propone anche una lettura ecclesiologica. Maria è il luogo dove si congiungono le due nature nel Verbo di Dio incarnato e la Chiesa diventa luogo della bellezza: «Venite, fedeli tutti, corriamo verso la Vergine, perché ecco, nasce colei che prima di essere concepita in seno è stata predestinata a essere madre del nostro Dio; il tesoro della verginità, la verga fiorita di Aronne che spunta dalla radice di Iesse, l’annuncio dei profeti, il germoglio dei giusti Gioacchino e Anna nasce, e il mondo con lei si rinnova. Essa è partorita, e la Chiesa si riveste del proprio decoro. Il tempio santo, il ricettacolo della divinità, lo strumento verginale, il talamo regale nel quale è stato portato a compimento lo straordinario mistero della ineffabile unione delle nature che si congiungono in Cristo: adorando lui, celebriamo l’immacolata nascita della Vergine».
L’anno liturgico bizantino si svolge tra le due grandi feste della Madre di Dio: la sua nascita e la sua dormizione. La vita di Maria percorre il mistero di Cristo, come quella della Chiesa che lo annuncia e lo celebra: «Oggi le porte sterili si aprono e ne esce la divina porta verginale. Oggi la grazia comincia a dare i suoi frutti, manifestando al mondo la Madre di Dio, per la quale le cose terrestri si uniscono a quelle celesti, a salvezza delle anime nostre. Oggi è il preludio della gioia universale. Oggi cominciano a spirare le aure che preannunciano la salvezza. La sterilità della nostra natura è finita, perché la sterile diventa madre di colei che resta vergine dopo aver partorito il creatore, di colei dalla quale colui che è Dio per natura assume ciò che gli è estraneo, e con la carne per gli sviati opera la salvezza».

mercoledì 6 settembre 2017

La geopolitica scrive la storia del calcio siriano.

Undici soldati 
La Siria prosegue la sua riconquista dentro e fuori dal campo: l’esercito rompe l’assedio di Deir Ezzor e la nazionale di calcio si qualifica ai playoff per i mondiali in Russia.


di Sebastiano Caputo 

Chi lo avrebbe mai detto che la Siria avrebbe vinto anche sul fronte calcistico.  Improvvisamente, non uno, ma due eserciti sono avanzati parallelamente per riprendersi tutto. Così mentre i valorosi soldati della Syrian Arab Army hanno appena rotto l’assedio di Deir Ezzor, una città sperduta nel deserto orientale letteralmente accerchiata per tre anni dai miliziani dello Stato Islamico, la nazionale di calcio ha conquistato per la prima volta nella sua storia la qualificazione ai playoff per i mondiali che si disputeranno in Russia nel 2018.  L’epopea individuale dell’eroico Issam Zahr al Din, druso eretico, comandante della 104a brigata paracadutisti della Guardia repubblicana, ora si intreccia con quella di Ayman Hakeem, allenatore delle “Aquile di Qasioun”, riuscito nell’impresa sportiva dopo aver pareggiato con l’Iran (già qualificato) nell’ultima sfida del girone.   Hard e soft power si mescolano, fino a confondersi, per ridare speranza ad un intero popolo devastato da una guerra sporca scoppiata nella primavera del 2011 e che ormai dura da oltre sei anni. Perché le lacrime di chi ha perso parenti e amici sacrificati sull’altare della patria possono asciugarsi per un attimo di fronte ad un passato che si allontana sempre di più. Il ritorno del calcio in Siria è anche sinonimo di ritorno alla normalità.
   Quella che i commentatori sportivi chiamavano la “Nazionale parallela”, una squadra nata nel luglio del 2014 a Tripoli (Libano) in cui figuravano ex giocatori professionisti, molti dei quali provenienti dalla ribelle Homs, è di fatto scomparsa qualche mese dopo insieme a tutti quei guerriglieri “moderati” sponsorizzati dal mondo occidentale e arruolatisi col passare degli anni nelle fila di Daesh o nelle costole di Jabhat Al Nusra, il ramo siriano di Al Qaeda.   Oggi a sventolare negli stadi asiatici e nelle strade in festa c’è solo il tricolore nero-bianco-rosso con le due stelle verdi al centro, anche se la squadra rimane in esilio per motivi di sicurezza dall’inizio del conflitto.   A causa della situazione economica dell’intero sistema-calcio siriano (premier league siriana interrotta poi ripresa con metà delle squadre, stadi vuoti per paura degli attentati, stipendi dei giocatori congelati, sanzioni, giovani talenti morti in guerra o arruolatisi nell’esercito) la nazionale stava per abbandonare la competizione, fino a quando il governo di Damasco è riuscito a firmare un accordo in extremis con la Malesia: l’Hang Jebeat Stadium di Malacca deciderà di ospitare tutte le partite casalinghe.
  Da quel giorno è iniziato il volo delle 23 “Aquile di Qasioun” che le ha portate a sconfiggere nelle ultime gare del terzo roundl’Uzbekistan (1-0) e il Qatar (3-1) e a pareggiare con la Cina di Marcello Lippi (2-2) e l’Iran (2-2) qualificatosi di fatto come primo del girone A. E’ la geopolitica a scrivere la storia del calcio siriano. La Repubblica Araba di Siria si è ritrovata sola contro Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Con la scusa della violazione dei diritti umani, dopo le prime insurrezioni legittime e spontanee della popolazione, le cancellerie occidentali e i loro alleati della regione avevano puntato sulla destabilizzazione di un governo non allineato, quello di Bashar Al Assad, che è riuscito col passare degli anni a tessere una rete di alleanze da Beirut fino a Teheran passando per Baghdad.

   Senza dimenticare la  discesa in campo della Russia di Vladimir Putin che il 30 settembre del 2015 ha ribaltato il tavolo militare per tutelare l’accesso ai mari caldi (le basi di Tartous e Latakia) e difendere il suo più grande alleato in Medio Oriente.      Paradossalmente, nel mondiale che avrà come epicentro Mosca, la nazionale siriana raggiunge i playoff (sfiderà l’Australia e per poco non prendeva l’Arabia Saudita) battendo il nemico statuale qatariota – tra i Paesi sponsor dei jihadisti insieme a Riad – e pareggiando all’ultimo secondo con l’Iran – membro anche lui del cosiddetto “asse della Resistenza” – nella sfida decisiva del girone. Il telecronista più famoso di Damasco che grida “Allah” incarna la voce di un intero popolo che la sera della qualificazione è sceso a festeggiare ad Aleppo, Homs, Tartous, Latakia, unito, come se non si fosse mai diviso.
“Apparteniamo a tutte le confessioni – aveva dichiarato prima della partita il trequartista Abdelzaraq Al Hussain – cristiani, sciiti, e sunniti siamo tutti una famiglia, giochiamo per una squadra e per un solo Paese”.
  E’ lo specchio di quello che era la Siria prima delle infiltrazioni terroristiche foraggiate dalle nazioni menzionate sopra, un vero e proprio mosaico laico e multiconfessionale che, con tutti i suoi problemi interni, aveva sempre tutelato le minoranze etnico-religiose. Ma gli interessi privati di pochi sono diventati gli obblighi della comunità internazionale. Eppure Mister Hakeem – insieme ai tanti generali dell’esercito che in tutti questi anni non hanno mai disertato – ha ribaltato tutti i teoremi, persino quello sugli italiani di Winston Churchill:  i siriani vincono le partite di calcio come fossero guerre e vincono le guerre come se fossero partite di calcio. Ai playoff ci vorrà il mancino dell’ala Kharbin, la tenacia del capocannoniere Al Soma, la classe di Al Mawas, la grinta e le lacrime della saracinesca Almeh, erede dello storico portierone Mosab Balhous, per scrivere dentro e fuori dal campo la storia della liberazione della Siria.

http://www.rivistacontrasti.it/calcio/undici-soldati/

martedì 5 settembre 2017

Video: 'Aleppo: le macerie, la speranza'

Ringraziamo TV2000 per questo bel reportage, veritiero e commovente, che documenta la tragedia, la resistenza , la forza del popolo e della Chiesa di Aleppo

sabato 2 settembre 2017

100 milioni di dollari all'anno il ricavo dell'ISIS per il contrabbando di antichi reperti dall'Iraq e dalla Siria

Un artefatto distrutto in un museo, dove i militanti dello Stato islamico nel 2015 si sono filmati mentre distruggevano statue e sculture inestimabili durante la battaglia contro i militanti a Mosul, in Iraq, l'11 marzo.

di Callum Paton
I jihadisti dello Stato islamico (ISIS) ricavano annualmente fino a 100 milioni di dollari trafficando le antichità rubate dall'Iraq e dalla Siria e vendendole sul mercato nero. Il Wall Street Journal ha riferito che, mentre non è stato possibile calcolare una cifra precisa sull'ammontare delle entrate generate per l'ISIS dal commercio degli artefatti, un funzionario francese della sicurezza non nominato, ipotizza che sia di circa 100 milioni di dollari. Le stime provenienti da altre fonti variano da poche decine di milioni in su.
Il commercio di oggetti rubati dall'Iraq e dai siti storici della Siria è diventato importante per l'ISIS, in quanto il territorio da esso controllato, e come conseguenza la sua capacità di contare sui ricavi petroliferi, diminuisce. "L'ISIS sta intensificando questa linea di traffico per compensare la perdita dei ricavi petroliferi", ha dichiarato a un quotidiano un funzionario francese della sicurezza. Per molti affaristi siriani e contrabbandieri, provati dalla "guerra civile" di sei anni, la vendita di antichità è diventata una necessità. Un cosiddetto intermediario, Muhammad Hajj Al-Hassan, ha descritto come l'ISIS abbia invaso la sua casa in Siria e quasi lo abbia giustiziato sospettando la sua simpatia per l'esercito siriano libero (FSA). In seguito, con riluttanza, ha iniziato a commercializzare artefatti per l'ISIS destinati ad acquirenti europei, su richiesta di Abu Laith Al-Dairi, capo del gruppo che si occupa di questi reperti antichi.
L'importanza che l'ISIS pone sul commercio delle antichità si riflette nell'utilizzo di jihadisti stranieri da parte del gruppo per gestire le sue operazioni. Il quadro dei combattenti internazionali è considerato più fedele rispetto alle controparti locali. I locali sono autorizzati da ISIS a scavare nei siti archeologici per estrarre i reperti. I permessi erano inizialmente gratuiti, ma ora il gruppo impone circa il 20 per cento del valore di ogni oggetto estratto. ISIS chiede che tutti gli oggetti scoperti siano rivenduti direttamente al gruppo militante stesso; poi raggiunge i concessionari.
Hassan descrive come abbia recentemente venduto due Bibbie antiche per 11.800 dollari ad un acquirente russo in una città nel sud della Turchia. Le Bibbie provenienti dalla Siria orientale sono state poi estradate dalla Turchia, nascoste in un camion pieno di verdure. Hassan ha percepito una commissione del 25 per cento per mediare la vendita. Il resto dei profitti è stato dato al commerciante che ha trasportato le Bibbie in Turchia.
Un altro intermediario ha descritto come abbia pagato 1.000 dollari a una donna siriana che trasportava una statua di bronzo romana sul confine tra la Siria e la Turchia. Il reperto proveniva da Raqqa e potrebbe essere un falso.
Nel mese di luglio, l'Hobby Lobby di Oklahoma City è stato multato di 3 milioni di dollari per il suo acquisto illegale di manufatti ritenuti rubati nel 2010 e contrabbandati dall'Iraq. "Nel dicembre 2010 infatti, Hobby Lobby ha concluso un accordo per l'acquisto di oltre 5.500 manufatti, composti da tavolette e mattoni cuneiformi, sigilli a bolla di argilla e sigilli cilindrici, per 1,6 milioni di dollari", ha dichiarato al momento il Dipartimento di Giustizia. "L'acquisizione degli artefatti era piena di bandiere rosse (segnalazioni di rischio)".
   trad Gb.P.
https://steemit.com/politics/@sarahabed/isis-makes-up-to-usd100-million-a-year-smuggling-ancient-artifacts-from-iraq-and-syria

giovedì 31 agosto 2017

Diario di viaggio di un gruppo di italiani in Siria

Le macerie, la distruzione della guerra. Ma anche la letizia di una comunità cristiana che non smette di sperare. Tra attività, progetti per dare una casa a giovani coppie, oratori... 

Gianni Mereghetti 
Da Beirut il viaggio in auto per arrivare ad Aleppo è lungo. Il pericolo non si avverte, la strada è presidiata dai militari di Bashar al-Assad, ragazzi giovani ma che infondono comunque una certa sicurezza. I controlli sono superficiali, forse perché chi ci accompagna è molto conosciuto, l’impressione è che i due autisti facciano spesso questa tratta e sappiano il fatto loro. 
Homs vediamo i primi segni della guerra. Attraversiamo un lago salato asciutto per arrivare alla nostra destinazione: Aleppo. I check point si infittiscono, se ne incontra uno ogni duecento metri. Si cominciano a vedere palazzi abbattuti, case sventrate, strade irriconoscibili. Dopo otto ore siamo nel cuore della città martire di questa guerra. Nella distruzione della guerra cominciamo a vedere gente che si muove: è la città che vive, che vuole continuare a vivere dopo l’orrore della guerra.

Arriviamo nella parrocchia dei Francescani e ad accoglierci c’è padre Ibrahim Alsabagh, insieme ai i suoi collaboratori. Ci colpisce subito ritrovare il sorriso che in questi anni abbiamo visto tante volte stampato sulla faccia di padre Ibrahim, sui volti delle persone che incontriamo. È il primo contraccolpo dei quattro giorni che passeremo ad Aleppo, un viaggio che don Luciano e don Andrea hanno voluto intraprendere, rispondendo a un invito di padre Ibrahim e alla grande amicizia coltivata in questi anni con lui, a cui si sono aggiunti anche Angelo, Paolo e Matteo. 

Come è possibile che, in un luogo in cui si percepisce l’incombere della morte, sia presente una letizia più forte della distruzione provocata dalla guerra? Non abbiamo dovuto aspettare molto per trovare una traccia della risposta. Dopo aver pranzato, padre Ibrahim ci ha portato alla distribuzione dei pacchi alimentari per la comunità armena e lì, sui volti dei volontari, abbiamo rivisto la stessa letizia. 
  La distribuzione dei pacchi alimentari è certo la condivisione del bisogno di tante famiglie povere, ma ciò che muove questa risposta non è il loro pur encomiabile impegno, ciò che muove la risposta è la Presenza reale di Gesù. È l’esperienza dell’unità della fede, della sua capacità di abbracciare l’uomo per i bisogni che sente.
   Con l’abbraccio alla Comunità armena e con il gesto di preghiera con cui inizia la distribuzione dei pacchi alimentari, padre Ibrahim ci fa cogliere la portata educativa di questo gesto: non come puro dare ma come capacità di attingere al Suo sguardo d’amore. Ogni giorno all’Oratorio dei francescani viene fatta la distribuzione dei pacchi alimentari e ogni giorno si coglie che sta accadendo qualcosa di più della pura distribuzione di viveri, sta accadendo il Suo amore, quello sguardo di cui ha bisogno tutta questa gente. Qui ad Aleppo incontriamo lo stesso metodo delle prime comunità cristiane, la certezza che Gesù abbraccia tutti e tutto, e per farlo non gli basta la sua potenza che pur avrebbe, domanda la nostra libertà. 
   Quando padre Ibrahim è arrivato, in parrocchia non c’era praticamente nulla. Poi, le diverse esigenze che sono emerse, come la gestione dei pacchi alimentari, l’aiuto a non cadere vittime delle banche, la ricostruzione di appartamenti e l’organizzazione dell’oratorio estivo, hanno fatto diventare la parrocchia un luogo vivo, un centro di assunzione del bisogno, ancor prima, una comunità cristiana.

Con padre Ibrahim siamo andati a vedere il centro della città, devastato dalla violenza degli jihadisti e dell’Isis: una operazione di devastazione sistematica, non è rimasto in piedi se non un cumulo di macerie. L’abbiamo guardata passo dopo passo e, ad ogni nuovo angolo che si apriva e che ci portava a vedere nuove macerie, ci sentivamo assediati da un’angoscia profonda, come la percezione che non fosse possibile ricostruire. Invece padre Ibrahim proprio nel cuore della città devastata ci ha fatto vedere in due momenti che la ricostruzione è già in atto, che la città sta rifiorendo. 
  Il primo è quello del sostegno che la parrocchia dà a chi vuol iniziare un nuovo lavoro. Abbiamo visitato un forno per fare i biscotti, una sartoria, un bar. Il metodo di questi progetti è semplice: la parrocchia sostiene economicamente l’inizio senza chiederne la restituzione, chiede solo che chi ha ricevuto questo aiuto possa proseguire con le sue energie e diventando sempre più protagonista. 
  Il secondo progetto è quello della ricostruzione di case, con lo scopo di convincere i cristiani a rimanere anche in questi quartieri rasi al suolo. È un giovane ingegnere, Noubar, ad accompagnarci tra le macerie il miracolo di appartamenti rimessi in piedi. Padre Ibrahim ci ha fatto conoscere le giovani famiglie e i fidanzati che sta seguendo in questo momento così difficile della ricostruzione. Queste giovani coppie hanno bisogno di una casa e di un lavoro, è di questo che bisogna occuparsi in primo luogo.
  Padre Ibrahim ci porta a vedere il cimitero latino che stanno mettendo a posto e dove stanno cercando di mettere un nome su tutte le tombe. Perché è importante sfondare il muro di separazione che divide i vivi dai morti. 

Nel Collegio dei Francescani, 800 bambini assieme ai loro genitori hanno vissuto un momento di festa per la conclusione dell’oratorio estivo. Le due ore di festa con canti, balli, rappresentazioni ci hanno commosso profondamente, perché ci hanno testimoniato un fiotto di vita, un fiotto che scorreva con tanta freschezza e inarrestabile energia. 

Nel dialogo con il Vicario apostolico di tutta la Siria, Georges Abou-Khazen, e nell’incontro con le suore di Madre Teresa di Calcutta che vivono nel vicariato, è emerso in modo chiaro che la Chiesa fa rivivere l’umano, arrivando con la forza dello Spirito dovunque e ridando una speranza che sembrerebbe altrimenti impossibile. 
 È una forza che innanzitutto impatta con il nostro cuore, che dell’unità di vita che c’è ad Aleppo ha tanto bisogno. 

https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2017/08/31/diario+di+viaggio+siria+aleppo+padre+ibrahim

lunedì 28 agosto 2017

La geopolitica di ISIS


Piccole Note, 28 agosto

L’Isis fa politica, anzi geopolitica, a modo suo. L’attacco a Barcellona, infatti, non sembra casuale, ma dettato dal progetto di inserire una nuova variante nel braccio dii ferro che oppone la Catalogna a Madrid.   Il primo ottobre, infatti, i leader indipendentisti catalani hanno indetto un referendum per decidere la secessione dalla Spagna. Referendum dichiarato illegale dalle autorità madrilene, che però ad oggi non è stato revocato.
Un referendum  che fa paura non solo a Madrid ma anche alla leadership dell’Unione europea, che lo vede come una minaccia alla stabilità del sistema.
Si sta replicando un po’ quel che accadde con il quesito sulla Brexit. Una brexit in formato ridotto, certo, ché la Catalogna non è la Gran Bretagna per importanza e per storia.  E però, il solo fatto che si possa svolgere la consultazione rappresenta un’insidia, dal momento che, peraltro, si rischia un effetto emulativo. Una querelle nella quale è entrata a suo modo l’Isis, compiendo strage sulle Ramblas.
L’azione destabilizzante avrebbe dovuto sortire l’effetto opposto: la Catalogna, da sola, non può assicurare la sicurezza dei suoi cittadini: da qui la tragica incertezza di un’avventura in solitaria.  Peraltro sono argomentazioni che alcuni analisti e politici, spagnoli e non, hanno usato all’indomani della strage.   Una convergenza parallela, quella tra Isis e oppositori della secessione catalana, che non deve stupire: non si tratta di scomodare chissà quali complotti. L’Isis, almeno le sue menti strategiche, sa bene che la globalizzazione è un brodo di coltura ideale per le sue manovre.
Senza globalizzazione non si dà terrorismo globale. Un assioma banale, che l’Isis tiene presente quando dispiega le proprie azioni. Così oltre al solito effetto-paura, l’attentato doveva servire per fiaccare le forze indipendentiste, meglio, convincere i cittadini catalani della pericolosità del loro progetto, dal momento che il referendum indipendentista è, per quanto piccolo, un vulnus alla globalizzazione, un’operazione oppositiva al processo di integrazione mondiale.
Non è andata così, come dimostra anche il netto contrasto tra gli inquirenti catalani, gli ormai noti mossos d’esquadra, e quelli spagnoli, che hanno pubblicamente duellato.  Clamorosa la smentita all’annuncio iberico che avvertiva il mondo della chiusura dell’indagine. Niente affatto, hanno replicato da Barcellona, dove gli inquirenti hanno continuato a inseguire e arrestare, mentre il Ministero dell’Interno spagnolo si stracciava le vesti per la mancanza di coordinamento tra polizia catalana e guardia civil iberica , di fatto tagliata fuori dall’inchiesta.
Insomma, l’Isis ha fatto da catalizzatore a uno scontro che si sta dipanando a vari livelli, anche se pare che la sua azione abbia sortito l’effetto contrario a quanto sperato: almeno questo indica la pubblica contestazione diretta verso le autorità spagnole e lo stesso re, giunti a Barcellona a piangere le vittime dell’eccidio.
Ma al di là del dato politico, ancora in evoluzione, va accennato a un altro particolare della strage cui si è dato poco peso. L’attentato, spiegano tutti i giornali, avrebbe dovuto svolgersi in altro modo, ovvero attraverso una serie di deflagrazioni contemporanee.
Sarebbe stata una strage epocale. Tra l’altro la distruzione della Sagrada Familia, la chiesa capolavoro di Gaudì che doveva essere investita da camion bomba, avrebbe dato all’eccidio un valore simbolico, anti-cristiano, ancora più forte.
Poco rischioso procurarsi l’esplosivo adatto: si trattava di usare allo scopo delle bombole di gas, facili da reperire senza destare sospetti; le bombole dovevano essere modificate per ottenere l’effetto desiderato, ma un qualche errore umano ha mandato all’aria tutto.  E la casa-covo di Alcanar, dove erano state stipate le bombole, è saltata in aria e con lei il piano originale (purtroppo non il proposito sanguinario).
Una nuova modalità stragista, anzi antica. Già, perché è stata perfezionata in Siria, dai cosiddetti ribelli siriani. come si vede nella foto che accompagna l’articolo, che vede questi “ribelli” all’opera.  Tali ordigni sono stati lanciati a migliaia sui quartieri di Aleppo controllati dal governo, massacrando civili inermi, tra cui molte donne e bambini. Cannon Hell, erano stati battezzati i meccanismi di lancio di tali ordigni, per dare un tocco di simpatia al tutto.
Tutto ciò avveniva con la benedizione dei governi d’Occidente, pronti a denunciare i crimini di Damasco, ma miopi e afoni riguardo le malefatte sanguinarie dei “loro”ribelli di fiducia, quelli impegnati a combattere contro Damasco per porre fine al governo di Assad.  Un martellamento durato anni, nel silenzio più totale delle cancellerie occidentali (rotto solo dagli inascoltati presuli locali, e pochi altri, che pure hanno denunciato ad alta voce lo scempio; sul punto vedi anche Piccolenote).
Cancellerie che si sono ridestate solo quando Assad ha iniziato a riprendere i quartieri di Aleppo in mano ai macellai diletti dall’Occidente, stavolta per invocare la fine delle operazioni belliche dell’esercito siriano (cosa che dava respiro e nuova libertà di manovra ai macellai incistati nei quartieri occupati di Aleppo).
Ma questa è storia vecchia, anche se prima o poi dovrà essere scritta scevra della propaganda occidentale, che ancora oggi non si rassegna al fallimento del regime-change siriano. Quel che conta in questa sede è sottolineare che la tecnica usata dai terroristi di Barcellona è stata messa a punto e ampiamente utilizzata dai terroristi che hanno insanguinato la Siria.
Come uguali sono le reti di riferimento degli agenti del Terrore di Barcellona e di Aleppo, anche se per necessità mimetiche si nascondono sotto altre e più fantasiose sigle.
Facile concludere che le cancellerie occidentali hanno seminato vento e ora raccolgono tempesta. Il problema è che la tempesta non tocca quanti hanno contribuito ad alimentare il mostro, ma poveri civili innocenti. A Barcellona oggi come in Siria allora.
Eppure, anche di fronte all’evidenza, si negano gli errori del passato, anzi si persevera ciecamente in essi, continuando a propalare narrazioni che vedono in Assad un macellaio e nei suoi antagonisti dei paladini della libertà.
Non è solo un tragico errore storico, è anche una questione di igiene. Anzitutto mentale, ché il sonno della mente produce mostri. Ma anche igiene delle parole, che diventano non più utili alla comprensione ma alla propaganda. Tutto ciò non aiuta a contrastare il Terrore, che si anzi nutre di queste oscure ambiguità.

lunedì 21 agosto 2017

I Patriarchi cattolici d’Oriente e la fine delle comunità cristiane orientali

Sperando contro ogni speranza” e rimettendosi nelle mani della “giustizia di Dio”: con questa coscienza il Consiglio dei patriarchi cattolici d’oriente ha pubblicato il comunicato finale della sua sessione annuale (10-11 agosto 2017), tenutosi a Dimane (nord del Libano), sede estiva del patriarcato maronita.

Non senza tristezza, i patriarchi rimproverano la comunità internazionale di assistere allo spegnersi - a causa dell’insicurezza e dell’emigrazione - l’una dopo l’altra le Chiese orientali in Iraq, Siria, ma anche in Palestina, Libano e perfino in Egitto, senza che la loro reazione sia all’altezza della tragedia. Essi avvertono che se questo stato di cose continuerà, si tratterà di un vero “progetto di genocidio” e di un “affronto contro l’umanità”.

Il loro messaggio coincide con la pubblicazione di cifre eloquenti sulla diminuzione dei cristiani nei vari Paesi del Medio oriente, in particolare in Iraq, Siria e Terra santa. In quest’ultimo spazio condiviso dal punto geografico fra Israele e i Territori occupati, i cristiani rappresentano solo l’1,2% della popolazione; in Siria, per il fatto della guerra scoppiata nel 2011, il loro numero è in caduta da 250mila a 100mila, secondo statistiche recenti. E intanto anche il patriarca dei caldei fa fatica a convincere i cristiani della Piana di Ninive a riguadagnare il suolo natale, riconquistato a Daesh.
In un “appello generale” un po’ confuso, forse per essere stato scritto a più mani, dove la speranza di mescola alle grida e ai lamenti, i patriarchi affermano: “È tempo di lanciare un appello profetico a testimonianza della verità… siamo invitati a restare attaccati alla nostra identità orientale e a restare fedeli alla nostra missione. Assumendo la cura del piccolo gregge, noi patriarchi orientali siamo afflitti nell’assistere all’emorragia umana dei cristiani che abbandonano le loro terre natali in Medio oriente”.
Gli oppressori che agiscono in piena cognizione di causa, gli insensati che abusano del nostro pacifismo, sappiano che la giustizia di Dio avrà l’ultima parola. Ai nostri fedeli, diciamo che ormai noi somigliamo al lievito nella pasta, alla luce che brilla in un mondo assetato dello Spirito vivificante. Restiamo radicati nella terra dei padri e degli antenati, sperando contro ogni speranza in un avvenire in cui, come componenti di un patrimonio autentico e specifico, saremo compresi come delle fonti di arricchimento per le nostre società e per la Chiesa universale in Oriente e in Occidente”.
Dobbiamo rimanere attaccati alla proclamazione della verità nella carità, e a proclamare con coraggio la legittimità della separazione fra Stato e religione nella costituzione delle nostre patrie, e dell’uguaglianza di tutti per diritti e doveri, senza badare all’appartenenza religiosa o comunitaria. Si tratta di una condizione sine qua non perché vengano rassicurati i cristiani e gli altri piccoli componenti nazionali”.

Appello alla comunità internazionale
Alle Nazioni Unite e ai Paesi interessati in modo diretto dalla guerra in Sira, Iraq e Palestina, noi domandiamo di fermare le guerre, i cui obbiettivi sono ormai chiari: distruggere, uccidere, spingere all’esodo, rilanciare le organizzazioni terroriste, diffondere lo spirito d’intolleranza e di conflitto fra le religioni e le culture. Il prosieguo di questa situazione e l’incapacità a stabilire una pace giusta, globale e duratura nella regione, assicurando il ritorno dei rifugiati e degli sfollati al loro focolare nella dignità e nella giustizia, rimarrà come uno stigma di vergogna per tutto il XXI secolo”.

Appello a papa Francesco
Al successore di Pietro, diciamo che siamo pronti a rispondere all’appello per la santità, seguendo il Salvatore sul cammino della Passione. Ma ricordiamo pure che noi rappresentiamo delle Chiese fiorite in terra d’Oriente fin dall’epoca apostolica... e la cui esistenza è in reale pericolo”.
Abbiamo tutti partecipato a conferenze, seminari, fatto incontri; abbiamo cercato di trasmettere al mondo la bruttura della sorte inflitta al popolo cristiano. Ma non siamo una “nazione” con larghe frontiere, o che attiri l’attenzione dei giganti della finanza; noi siamo ormai un ‘piccolo gregge’ pacifico! Un piccolo gregge che non conta su nessun altro che voi per invitare i grandi che presidiano ai destini del mondo, che continuano a spingere all’esodo i cristiani del Medio oriente e, senza dubbio, a un progetto di genocidio, una catastrofe umana, come pure uno scacco alla civiltà e un affronto a tutta l’umanità”.

In Libano scuole a rischio chiusura
In altra parte, il comunicato registra la sequenza ecumenica tradizionale, tenutasi al primo giorno, con la presenza dei patriarchi orientali ortodossi e la visita al capo di Stato. Come è ovvio, i patriarchi ortodossi orientali condividono le stesse preoccupazioni e sono di fronte alle stesse sfide.
Il comunicato esprime anche l’inquietudine del Segretariato delle scuole cattoliche del Libano (che accolgono il 70% della popolazione scolastica), di fronte all’approvazione della nuova griglia salariale di cui beneficiano gli insegnanti e che andrà a gonfiare almeno del 20% i costi del funzionamento. Il segretariato prevede che numerose scuole gratuite, sovvenzionate dallo Stato, specie in provincia e nel mondo rurale, saranno incapaci di far fronte agli aumenti e dovranno chiudere. Essi hanno dunque espresso la loro preoccupazione nel vedere “centinaia” di insegnanti lasciati disoccupati e domandano allo Stato libanese di supplire agli aumenti generati.
Il comunicato non ha mancato di presentare il Libano come un modello democratico, che tutti i Paesi arabi dovrebbero imitare, a causa del principio della separazione fra lo Stato e la religione; ed ha infine domandato il ritorno degli sfollati [siriani e palestinesi - ndr] accolti dal Libano e divenuti “un pesante fardello e una minaccia per la sicurezza politica, economica e sociale” del Paese.

Fra i partecipanti al raduno vi sono: i patriarchi cattolici Béchara-Raï (maroniti); Ignace Youssef Younan III (siro-cattolici); Joseph Absi (greco-melchiti cattolici); Ibrahim Isaac Sidrak (patriarca emerito copto cattolico, presidente del consiglio dei patriarchi e vescovi cattolici d’Egitto); Louis Raphaël I Sako (caldeo); Gregorio Bédros XX (armeno cattolico);  William Shomali (rappresentante di mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme).
Fra i capi religiosi presenti alla sessione ecumenica: patriarca Youhanna X (greco-ortodosso); patriarca Ignatius Ephrem II (Siro-ortodosso); Catholicos Aram I ( armeno ortodosso);  Salim Sahyouni (presidente della Comunità evangelica in Siria e Libano).


venerdì 18 agosto 2017

Noi siriani e l'attentato a Barcellona: di Claude Zerez

In occasione della vacanza in Italia dell'amico siriano Claude Zerez con la sua famiglia, gli chiediamo di esprimere a caldo la sua reazione rispetto all'attentato di Barcellona e lo stato d'animo dei siriani.
“Noi abbiamo vissuto quotidianamente il problema del  terrorismo e, colpiti in particolare nella mia famiglia con l'assassinio di mia figlia Pascale da parte delle brigate jihadiste, ci rendiamo conto di come sono dimenticate le centinaia di migliaia di vittime del terrorismo in Siria...
Ci sentiamo solidali e viviamo nella nostra carne la tristezza delle famiglie di Barcellona colpite dal terrorismo, quel terrorismo cominciato in Afghanistan e che si è propagato in tutto il mondo, ma di cui Iraq e Siria sono diventate le basi e le fonti.

Adesso la grande domanda che ci poniamo è se il terrorismo non è diventato il pretesto per prendere le risorse del paesi d'Oriente. Non si può non notare in ciò che succede in Siria che, oltre al terrorismo,  il grande problema che colpisce il popolo innocente è quello delle sanzioni. Faccio un esempio: malgrado Aleppo sia stata liberata nel dicembre 2016,  il popolo è ancora oggi privato di acqua, di elettricità, di medicinali, di carburante. Le sanzioni occidentali ci paralizzano.
Ancora più dolorosa poi in questa situazione è la presenza di alcune milizie corrotte legate al governo che rubano e sottopongono la gente ad angherie innumerevoli.

Di fronte ai fatti di Barcellona, di Nizza e tutti gli altri attentati contro la popolazione innocente noi siamo assolutamente solidali, ma la grande domanda che ci poniamo è come si può risolvere tutto questo: con la forza? No, bisogna ad ogni costo fermare il conflitto e il caos che il conflitto infiamma in Oriente. Cioè bisogna ritornare al dialogo e lasciare che sia il popolo siriano che decide della propria sorte, perché attualmente sono degli stranieri quelli che decidono il destino della Siria. Lasciate il popolo siriano gestire il proprio avvenire.
Per ricostruire avremo bisogno di riconvertire i cuori dei giovani che sono stati radicalizzati e istruiti ad ammazzare, sgozzare, schiacciare 'gli infedeli' in nome di Allah. Ciò evidentemente richiederà il tempo di molte generazioni e tanto lavoro. Ma questo è importante: abbiamo persone di buona volontà, sia musulmani che cristiani, che credono nella convivenza, abbiamo musulmani che vengono a dire ai cristiani: “noi abbiamo bisogno di voi, voi siete lo specchio e senza di voi l'Islam non potrà mostrare il suo volto tollerante e la Siria mantenere il suo volto laico”.

Riprendere il dialogo inter-siriano spingerà i musulmani non fanatici a rigettare le ideologie jihadiste che non rappresentano l'Islam. Noi abbiamo bisogno di musulmani che esprimano l' Islam moderato, tollerante, che rifiuta la violenza, perché il terrorismo trova il suo terreno fertile tra le popolazioni incolte e più povere che credono nel riscatto attraverso lo Stato Islamico."
Claude Zerez 

lunedì 14 agosto 2017

Maria è viva per tutta l'eternità (di san Giovanni Damasceno)

Oggi l`arca santa e vivente del Dio vivo, colei che portò in seno il suo stesso Creatore, riposa nel tempio del Signore, non costruito da mano d`uomo. Davide, suo antenato e progenitore di Dio, trasale di gioia; gli angeli danzano in festa, gli arcangeli applaudono e le potenze del cielo cantano gloria...  Colei che fece scaturire per tutti la vera vita, come avrebbe potuto essere soggetta alla morte? E` vero: anch`essa si piega alla legge promulgata dal proprio figlio e, come figlia del vecchio Adamo, subisce la sentenza emessa contro il padre, poiché neppure suo Figlio, che è la Vita stessa, vi si è sottratto. Ma, come madre del Dio vivente, è giusto che sia portata presso di lui.
  Perché, se Dio ha detto, a proposito del primo uomo creato: Che ora non stenda la sua mano per cogliere il frutto dell`albero della vita e, gustandolo, non viva in eterno (Gen 3,22), colei che ha ricevuto in sé la Vita stessa, infinita e illimitata, la Vita che non conosce né inizio né termine, come non sarebbe viva per tutta l`eternità?
 
  Un tempo, il Signore Dio aveva scacciato dal paradiso dell`Eden e mandato in esilio i progenitori della nostra razza mortale, che erano come inebriati dal vino della disobbedienza, avevano gli occhi del cuore appesantiti dall`ebbrezza della trasgressione, lo sguardo dello spirito oppresso dallo stordimento della colpa, ed erano addormentati nel sonno della morte. Ma ora, il paradiso non riceverà forse colei che ha infranto in sé l`impeto delle passioni e ha portato alla luce il germoglio dell`obbedienza a Dio e al Padre, dando inizio alla vita di tutto il genere umano? Il cielo non le aprirà forse con gioia le sue porte?...   
  Se Cristo, che è la Vita e la Verità, ha detto: Dove sono io, là sarà anche il mio servo (Gv 12,26), a maggior ragione, come non abiterà con lui sua madre?... Poiché il corpo santo e puro che in lei si era unito al Verbo divino, si levò dal sepolcro il terzo giorno, bisognava che anche lei fosse strappata alla tomba e che la madre fosse assunta presso il Figlio.
  Egli era sceso verso di lei: così essa, la creatura amata sopra ogni altra, doveva essere elevata in una dimora più grande e più perfetta, nel cielo stesso (cf. Eb 9,11.24). Era giusto che colei che aveva ospitato nel suo grembo il Verbo divino si stabilisse nella dimora del suo Figlio.  E come il Signore disse che egli doveva essere nella casa del Padre (cf. Lc 2,49), così era necessario che la Madre abitasse nella dimora regale di suo Figlio, nella casa del Signore, negli atri del nostro Dio (Sal 134,2). Perché, se lì è la dimora di tutti quelli che sono nella gioia, dove mai dovrebbe risiedere colei che è la causa stessa della gioia?
   Giovanni Damasceno, Homilia II in dormitionem B.V.M.