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lunedì 30 gennaio 2017

Papa Francesco esorta alla memoria dei martiri e delle piccole Chiese perseguitate


Il Papa nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Cuore dell’omelia di Francesco: i martiri. 
“Oggi ce ne sono più dei primi secoli” , “i media non lo dicono” perché non fa notizia, nota il Papa che invita a fare memoria di quanti soffrono il martirio.




Noi non li dimentichiamo





Radio Vaticana, 30/01/17

Senza memoria non c’è speranza”. Lo ricorda Francesco nell’omelia che ruota attorno alla Lettera agli Ebrei nella quale si esorta a richiamare alla memoria tutta la storia del popolo del Signore. Proprio nel capitolo undicesimo, che la Liturgia propone in questi giorni, si parla della memoria. Prima di tutto una “memoria di docilità”, la memoria della docilità di tanta gente, a cominciare da Abramo che, obbediente, uscì dalla sua terra senza sapere dove andava. In particolare poi, nella Prima Lettura odierna tratta sempre dal capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei, si parla di altre due memorie. La memoria delle grandi gesta del Signore, compiute da Gedeone, Barac, Sansone, Davide , “tanta gente – dice il Papa – che ha fatto grandi gesta nella storia di Israele”.

Oggi ci sono più martiri che nei primi secoli: i media non lo dicono perché non fa notizia
E poi c’è un terzo gruppo di cui fare memoria, la “memoria dei martiri”: “quelli che hanno sofferto e dato la vita come Gesù”, che “furono lapidati, torturati", "uccisi di spada”. La Chiesa è infatti “questo popolo di Dio”, “peccatore ma docile”, “che fa grandi cose e anche dà testimonianza di Gesù Cristo fino al martirio”:

I martiri sono quelli che portano avanti la Chiesa, sono quelli che sostengono la Chiesa, che l’hanno sostenuta e la sostengono oggi. E oggi ce ne sono più dei primi secoli. I media non lo dicono perché non fa notizia, ma tanti cristiani nel mondo oggi sono beati perché perseguitati, insultati, carcerati. Ce ne sono tanti in carcere, soltanto per portare una croce o per confessare Gesù Cristo! Questa è la gloria della Chiesa e il nostro sostegno e anche la nostra umiliazione: noi che abbiamo tutto, tutto sembra facile per noi e se ci manca qualcosa ci lamentiamo… Ma pensiamo a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio!”.
Non posso dimenticare”, prosegue Francesco, “la testimonianza di quel sacerdote e quella suora nella cattedrale di Tirana: anni e anni di carcere, lavori forzati, umiliazioni”, per i quali non esistevano i diritti umani.

La più grande forza della Chiesa è nelle piccole Chiese perseguitate
Quindi il Papa ricorda che la più grande forza della Chiesa oggi è nelle “piccole Chiese” perseguitate:

E anche noi, è vero e giusto anche, siamo soddisfatti quando vediamo un atto ecclesiale grande, che ha avuto un gran successo, i cristiani che si manifestano… E questo è bello! Questa è forza? Sì, è forza. Ma la più grande forza della Chiesa oggi è nelle piccole Chiese, piccoline, con poca gente, perseguitati, con i loro vescovi in carcere. Questa è la nostra gloria oggi, questa è la nostra gloria e la nostra forza oggi”.

Il sangue dei martiri è seme di cristiani
“Una Chiesa senza martiri - oserei dire -  è una chiesa senza Gesù”, afferma in conclusione il Papa che invita dunque a pregare “per i nostri martiri che soffrono tanto”, “per quelle Chiese che non sono libere di esprimersi”: “loro sono la nostra speranza”. E il Papa ricorda che nei primi secoli della Chiesa un antico scrittore diceva: “Il sangue dei cristiani, il sangue dei martiri, è seme dei cristiani”.

Loro con il loro martirio, la loro testimonianza, con la loro sofferenza, anche dando la vita, offrendo la vita, seminano cristiani per il futuro e nelle altre Chiese. Offriamo questa Messa per i nostri martiri, per quelli che adesso soffrono, per le Chiese che soffrono, che non hanno libertà. E ringraziamo il Signore di essere presenti con la fortezza del Suo Spirito in questi fratelli e sorelle nostri che oggi danno testimonianza di Lui”.

http://it.radiovaticana.va/news/2017/01/30/papa_esorta_alla_memoria_dei_martiri_nella_messa_a_s_marta/1289119

Non fuori tema, interessante riflessione sul film "Silence" di Scorsese dal blog di Costanza Miriano :
https://costanzamiriano.com/2017/01/30/silence-il-veleno-dellapostasia-come-atto-damore/

martedì 24 gennaio 2017

Da Aleppo, lettera aperta di Pierre le Corf a Hollande (e a chiunque voglia conoscere la verità)


Incontrai per caso, credo attraverso il dottor Nabil Antaki, una delle sue prime storie raccolte ad Aleppo. Ne fui profondamente colpita e la tradussi.  Pierre le Corf vide la mia traduzione, mi ringraziò, chiese la mia ‘’amicizia’’, i suoi racconti cominciarono ad arrivarmi direttamente ed io continuai a tradurli, sempre più convinta che questo giovane Francese sarebbe diventato un inestimabile testimone della tragedia di Aleppo.

I Siriani sono accoglienti, straordinariamente ospitali e disponibili con l’ospite a prescindere, ma raccontare è un’altra cosa. Una specie di cerimonia che richiede tempo, rispetto e pazienza. Devono capire che sei disposto a partecipare, a rivivere insieme a loro la rievocazione e a credergli.  Ho fatto per tanti anni la ‘’raccogli storie’’ in Siria (di tutt’altro genere: mi sono occupata a lungo della sua narrativa orale) e ho capito subito che Pierre aveva l’attitudine giusta per conquistare la fiducia e il rispetto indispensabili perché i suoi interlocutori gli affidassero le loro esperienze.

 Ultimamente la stampa mainstream ha cominciato a occuparsi spesso di Pierre. Ho letto un volgare articolo denigratorio nei suoi confronti e un suo articolo di risposta. Deve essergli costato molte ore di fatica e di tensione per aver dovuto ribattere ad un mucchio di sciocchezze e cattiverie.
  Voglio dirgli che non ha bisogno di ribattere a questi pamphlet. La sua risposta devono essere altre storie. Tante storie. Tutte quelle che riesce a raccogliere. Sono così veritiere, autentiche, efficaci! Quelli che lo attaccano hanno capito dove sta la sua forza e cercano di distrarlo.
  Bravo Pierre. Continua a far sentire la voce e le storie dei Siriani vittime di questa sporca guerra. Grazie.
           Maria Antonietta Carta   
                                                                                       
Da Aleppo, lettera aperta a François Hollande, Presidente della Repubblica Francese e, per conoscenza, ai candidati alla Presidenza della Repubblica.  

Signor Presidente,  
 sto mettendo in discussione i valori con cui sono cresciuto: i valori di un Paese che amo, il mio Paese, la Francia.
   Mi rivolgo a Lei come cittadino francese arrivato senza preconcetti in territorio siriano e vissuto in Aleppo ovest per quasi un anno, prima della riunificazione di questa città; operando come soccorritore umanitario politicamente neutrale. L'esercizio è difficile, sia perché essendo l’unico Francese residente sono nel mirino per la mia testimonianza contro corrente, sia per la difficoltà nel testimoniare le atrocità vissute insieme alla popolazione locale.
Sono infatti testimone di un massacro e di una situazione umanitaria catastrofica di cui il mio Paese è attore e sponsor, in quanto sostiene il terrorismo. Dedico, quindi, questo messaggio a Lei, Signor Presidente, e a chiunque possa considerare una priorità i provvedimenti in favore della pace e della popolazione civile.  
Come tutti gli abitanti di questa città, ho dovuto affrontare ogni giorno la morte e, per la missione che mi sono dato, ho visitato le famiglie che abitavano vicino a coloro che sono descritti come "oppositori" sin dall'inizio del conflitto. Personalmente, ho visto solo bandiere nere su tutta la linea del fronte, come dimostrano le fotografie: segno identificativo di gruppi contro cui noi in Francia combattiamo da molti anni.

  Oggi, la popolazione è unita non per combattere il governo, ma per combattere i gruppi terroristici, a prescindere dagli appellativi che gli si attribuiscono nel tentativo di fare apparire  "moderate" le loro azioni e la loro logica. Questi gruppi armati che si chiamano Al-Jaysh al-Hurr (Esercito libero siriano o ESL), Jabhat al-Nusra (detto anche Fatah al-Sham, un ramo di Al Qaeda) Jayish al-Islam, Harakat al-Nour Din al-Zenki, Brigata del sultano Mourad, etc. Certo, che esiste un'opposizione anti-governativa, come per qualsiasi governo, un'opposizione più o meno pacifica, che è in realtà una minoranza. Dall'inizio e fino ad oggi, quasi tutte le forze che continuano a bombardare Aleppo, sono formate da combattenti di gruppi armati pronti a tutto.  


  Uso il termine "terrorista" perché ad Aleppo non ci sono ribelli, o almeno non esiste alcun fondamento per considerarli tali, e si gioca irresponsabilmente con le parole continuando a definire ‘’ ribelli moderati’’ in Siria quelli che in Francia sono inseriti nelle lista delle organizzazioni terroristiche. Di comune accordo con il governo, i combattenti sono stati evacuati con le armi personali nella regione di Idleb, quasi interamente occupata da diversi gruppi armati e dalle loro famiglie. Purtroppo, molti sono tornati in prossimità di Aleppo ed hanno ripreso i bombardamenti di civili e gli attacchi suicidi, qui come ovunque in Siria.
Tutto ciò che affermo sono in grado di documentarlo. Lavoro ogni giorno da mesi, guerra permettendo, per raccogliere testimonianze filmate e scritte di civili, indipendentemente dalla confessione religiosa e dall’opinione politica e in assenza di personale militare o governativo. Testimonianze che pubblico e trasmetto puntualmente ad una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sugli attacchi e i crimini della "opposizione", cercando di mettere questa Commissione in contatto con i testimoni.

   L’attenzione dell’opinione pubblica è stata focalizzata sui bombardamenti di una piccola area con forte concentrazione jihadista, dove ‘’ogni giorno a morire erano civili’’, senza mai specificare che la maggior parte dei civili residenti nella parte orientale di Aleppo era in realtà prigioniera dei gruppi armati che ne impedivano l’allontanamento. È stato attraversando i recenti corridoi umanitari allestiti dai Russi e dai Siriani (fatti conoscere uno o due giorni prima, precisando gli orari di apertura, attraverso l’invio di messaggi telefonici sulle reti siriane MTN / SYRIATEL a tutti i possessori di telefoni mobili,  compreso il mio) che numerosi civili sono stati uccisi mentre tentavano di sfuggire ai gruppi armati che glielo impedivano. Per fortuna, molte migliaia di persone sono riuscite a fuggire al di fuori di tali corridoi, talvolta attraversando zone minate.
    Soltanto pochissimi media informavano che questi civili erano scudi umani, come poi confermato da testimoni. Spesso preferivano descriverli come intrappolati nel fuoco incrociato di una battaglia tra i combattenti rivoluzionari e il governo.  
   Mentre il governo difendeva il suo popolo da terroristi per lo più mercenari stranieri entrati in Siria e armati fino ai denti, fanatici per cui la vita umana ha ben poca importanza, che occuparono le periferie e il centro città bombardando quotidianamente la popolazione di Aleppo ovest e attribuendosi il diritto di assassinare per un sì o per un no i civili di Aleppo est.  
     I gruppi armati presenti sul terreno non hanno mai dato prove della loro «pretesa moderazione» verso la popolazione.  Ho potuto constatare direttamente che essi disponevano di armi e munizioni provenienti da diversi Paesi. Molte munizioni erano francesi, americane, inglesi, saudite etc. Armi impiegate quotidianamente contro la popolazione civile dell’est e dell’ovest sia da gruppi terroristici riconosciuti sia da gruppi schierati sotto la bandiera del cosiddetto Esercito Siriano Libero, in maggioranza costituito da jihadisti che i Francesi cercavano di far passare per combattenti della libertà.
    Sparavano verso ovest dalle zone più densamente popolate dell’est e talvolta dagli ospedali, per limitare gli spari di risposta. Naturalmente, avvenivano combattimenti tra l’Esercito siriano lealista ed i jihadisti. I miei testimoni sono civili dell’est sopravvissuti a questi combattimenti e di cui mi occupo come altre organizzazioni internazionali presenti qui in Aleppo-est. Centoventimila persone prese tra gli scontri (tra cui quindici-ventimila combattenti) corrispondenti anche in gran parte a numerose famiglie che si erano rifiutate di abbandonare le loro case per timore di una occupazione o del saccheggio.  In Siria ci sono pochi affittuari. Ci vuole tempo per diventare proprietario di una casa, ma è un fatto culturale: la casa è il simbolo della famiglia. Il punto essenziale è che abbiamo occultato una realtà: quella di un milione e trecentomila Siriani di ogni confessione abitanti di Aleppo-ovest che cercavano, malgrado la morte onnipresente, di far funzionare le istituzioni e di mandare i figli a scuola o all’Università, Noi li abbiamo cancellati per uno scopo politico, dato che vivevano nella zona controllata dal governo siriano, ma in questo modo abbiamo occultato dieci volte la popolazione di Aleppo-est e, in entrambi i casi, l’abbiamo fatto in nome di una minoranza che rappresenta solo se stessa.
  
 Siamo stati continuamente vittime di attacchi. Tiri di cecchini e attacchi di mortai, proiettili esplosivi, granate, bombole di gas e caldaie ad acqua montate su razzi etc. Non ne siamo stati risparmiati neppure per un giorno. Hanno continuato a cadere incessantemente su strade, edifici residenziali, ospedali, scuole. E neppure un giorno è trascorso senza l’uccisione e il ferimento grave di decine di civili inermi da trasportare in ospedali sovraffollati a causa degli attacchi incessanti, nonostante l’assenza dell’esercito all’interno della città, a parte qualche checkpoint. Esercito e miliziani proteggevano esclusivamente la linea del fronte. Ogni giorno, adulti, bambini, famiglie intere sono stati stritolati da ogni sorta di proiettili.  Mi sto esprimendo come un Siriano, perché anch’io ho vissuto come loro quotidianamente dentro questa guerra.  Sono fortunato ad essere ancora in vita, visto che in Aleppo, come nei veri e propri campi di battaglia, i razzi non prevenivano. Come soccorritore, ho cercato di salvare vite, ma non sempre ci sono riuscito. Persone con braccia, gambe, e altre parti dei corpi lacerate, disintegrate, bruciate. … Non riesco più a trovare le parole giuste per descrivere ciò che la popolazione ha vissuto qui. È stato molto duro da condividere. Ho visto troppa gente morire, e ci si chiedeva semplicemente ogni giorno se avremmo potuto sopravvivere.

    Ho costantemente incontrato profughi interni, e le loro testimonianze sono inoppugnabili. In Aleppo-est, le leggi della Chari ‘a erano applicate da sommari «tribunali islamici» costituiti da combattenti e da sheikh che si arrogavano il diritto, attraverso decreti religiosi ad hoc (fatwa), di imprigionare, torturare, sposare bambini e uccidere a volontà. Dopo la liberazione di Aleppo-est, si è scoperto che i jihadisti disponevano anche di enormi riserve di cibo.

  Ho visto cumuli di pacchi umanitari sufficienti per un anno di assedio, mentre le famiglie testimoniano sull’impossibilità di accedervi e sulla inedia sofferta a causa dell’assedio dell’esercito, ma soprattutto per il monopolio dei prezzi esosi imposti dai gruppi armati, anche cinquanta volte un costo normale. Mentre chi accettava di combattere con loro beneficiava di un trattamento speciale. Alcuni loro simpatizzanti rimasti nella zona est mi hanno raccontato recentemente: «Non amiamo questo governo, ma se qualcuno critica i combattenti dell’ASL o di altri gruppi, lo uccidono. Dov’è dunque la libertà?».
    Infrastrutture, ospedali, scuole erano in parte utilizzati da questi gruppi come quartier generale, prigioni e depositi di armi. Ho potuto constatare che in una di queste scuole si fabbricavano armi chimiche con prodotti importati da diversi Paesi e, durante gli ultimi mesi, dopo gli scontri più duri ho assistito all’arrivo di persone con la pelle completamente bruciata dal cloro. Ad est, si curavano negli ospedali i combattenti ed i loro familiari o coloro che potevano pagare.  Anche in questo caso, dopo la liberazione di Aleppo, ho potuto verificare personalmente sulle tonnellate di medicinali e sui due ospedali funzionanti nonostante i danneggiamenti alle facciate e ad altre parti: gli stessi ospedali che erano stati dichiarati più volte ‘interamente distrutti’.
   I «Caschi bianchi», che il governo francese, con altri governi, ha finanziato e che sono stati ricevuti all’Eliseo, fanno in gran parte i soccorritori di giorno e i terroristi la notte o viceversa. Essi hanno giurato fedeltà a Jabhat al-Nusra (Al-Qaïda), come provano i documenti ritrovati dopo il loro allontanamento e le testimonianze degli abitanti.
   La maggioranza dei loro gruppi prestavano soccorso prima ai combattenti, poi, eventualmente, ai civili e, poiché ogni gruppo aveva un cameraman, aiutavano i civili soltanto a telecamere accese. Molti civili mi hanno detto che sono stati in tanti a restare sotto le macerie mentre i Caschi Bianchi rifiutavano di andare a soccorrerli. Altri mi hanno assicurato che sceneggiavano attacchi di falsi bombardamenti con feriti finti e finti interventi. Il nostro governo finanzia anche associazioni quali «Syria Charity», portante la bandiera a tre stelle e inizialmente detta «lega per una Siria libera», appellativo che figura ancora nei resoconti. Una associazione che offre aiuto umanitario, ma ha oltrepassato la linea rossa partecipando ad una vera e propria guerra di opinione per giustificare il rovesciamento del governo, nascondendo la realtà sul terreno, la loro vicinanza ai gruppi armati (ed anche la loro presenza, accuratamente cancellata da tutti i video) e offrendo un aiuto medico costante alle forze jihadiste.  

  Numerose associazioni e organizzazioni umanitarie francesi ed internazionali in zone controllate dai « ribelli » hanno causato più danni che benefici, strumentalizzando la sofferenza delle popolazioni, manipolando l’opinione pubblica nel nome di una causa e di donazioni dirette ed  hanno preso in ostaggio la popolazione civile, permettendo che questa guerra proseguisse, « legittimandola » in maniera disonesta, consentendo il protrarsi dei combattimenti e alla morte di divenire una ineluttabilità quotidiana.  
  D’altronde, abbiamo anche esposto all’Eliseo per qualche ora la bandiera a tre stelle, il tempo necessario per ricevere con tutti gli onori il (falso) sindaco di Aleppo, mai eletto dal popolo siriano, che non è di Aleppo ma è stato scelto dai leaders di gruppi jihadisti, da alcuni sostenitori e da stranieri. In Siria, questa bandiera non rappresenta la libertà. È un simbolo di morte quotidiana perché lo si associa ormai all’ ESL: un accozzaglia di gruppi jihadisti vicini ad Al-Qaïda, che proclamano la democrazia soltanto nei media e che noi sosteniamo. Non possiamo assolutamente confondere il movimento di base del 2011 con coloro che se ne sono serviti, qui ed ovunque nel mondo, per promuovere questa guerra.

   Si, molti sono morti. Nessuna guerra è giusta. Non nego né difendo la violenza estrema dei bombardamenti su Aleppo-est per permettere la sua liberazione non la caduta.  É un dato di fatto.
    Un altro dato di fatto è che, a parte alcuni bambini feriti, bombe o grida, abbiamo cancellato la presenza dei civili, la vita. Li abbiamo privati della voce permettendo che l’opinione pubblica si facesse un’idea del contesto seguendo le proprie emozioni in base ad una narrazione rappresentata incessantemente in modo catastrofico con l’utilizzo reiterato e strumentale dell’infanzia. Come mettere in dubbio ciò che accade qui, nonostante le prove e gli argomenti proposti, se vi rappresentano l’immagine di una Siria completamente messa a ferro e fuoco unilateralmente dal suo stesso governo? Che tutto quel che accade qui e che non corrisponde a quella immagine è propaganda mendace? Che la priorità era imporre delle «no-fly zone», grazie al cielo mai arrivate, che avrebbero radicalizzato il conflitto, aumentato il numero dei morti e consentito ai terroristi di prendere Aleppo e non di liberarla dalla guerra e dalla morte.  La maggior parte delle persone che sono fuggite dalla zona est, dove hanno conosciuto l’inferno, hanno vissuto il loro arrivo qui come una liberazione e non come una deportazione. Ora molti sono tornati nei loro quartieri.  Nessuno ha sottolineato che quasi l’85% dei civili si sono rifugiati liberamente ad ovest, nella zona governativa, mentre bus a noleggio conducevano a Idleb combattenti e volontari civili.
    La «legittimità» accordata dai media ai jihadisti ed alla loro causa e i sostegni esterni hanno permesso avanzate decisive intorno alla città, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le loro abitazioni. Ricordo che durante intere settimane dormivamo con gli abiti indosso, le borse pronte accanto al letto. I combattimenti erano tanto vicini che talvolta i proiettili attraversavano le strade. E più si avvicinavano più forte li sentivo urlare «Allah Akbar» prima e dopo il lancio di ogni colpo di mortaio sulla città.

  Quali che siano i Paesi in cui sono stati utilizzati, i video creati da jihadisti e loro sostenitori, talvolta  completamente falsi, sono stati diffusi dai nostri media nelle ore di maggior ascolto, strumentalizzando la morte e la sofferenza di chi viveva in mezzo ai combattimenti, ma anche l’amore e la compassione di chi guardava quelle immagini. Come i terroristi, anche noi abbiamo venduto così tanta paura che nessuno ha potuto rendersi conto di come i contenuti di quei video fossero stati realizzati per uno scopo ben preciso, senza mai dare voce a civili interessati che non fossero combattenti o loro fiancheggiatori. Preciso che i civili potevano difficilmente offrirsi del pane, figuriamoci una telecamera e soprattutto una rete internet 3G!  
   Non avendo combattenti per distruggere il governo, abbiamo integrato la nostra incidenza sul conflitto utilizzando le emozioni per influenzare l’opinione pubblica e ottenere il suo tacito consenso.
    Nella zona ovest, documentare in tempo reale la situazione non è mai stata una reazione istintiva per nessuno. Troppo pericoloso. Inoltre, le informazioni non uscivano dalla Siria.  Fare un «libro Facebook» o pubblicare un reportage con i luoghi degli attacchi gli permetteva di precisare, correggere il tiro e mirare alle aree densamente popolate. In un discorso duplice e sul loro canale televisivo, qui in Siria, la «Free Syrian Army ***», da una parte dicevano di liberare la popolazione e dall’altra presentavano questi attacchi come castigo per noi «infedeli abitanti nel lato di Bashar Al Assad». Questa emittente televisiva è accessibile a tutti in Siria.  Alla liberazione, i reportages dei Russi e le testimonianze dei Siriani sotto l’occupazione dei gruppi armati sono stati immediatamente qualificati come propaganda, per screditare tutto ciò che sarebbe potuto emergere dalla Siria, dai suoi abitanti o da chi si trovava sul terreno.

 L’anno scorso è stato quello della disinformazione.
   Una lotta per la «libertà» del popolo siriano. Utilizziamo questa parola che ingloba tutto senza mai averla argomentata o giustificata. Quale libertà? Quale popolo siriano? Distruggere il governo, soffocare il Paese sotto le sanzioni per ottenere cosa? Il nostro savoir-faire democratico? I Francesi hanno forse chiesto quale sarebbe stato il programma del «dopo»? No! Libertà e basta. Facile. I programmi politici e sociali di questi gruppi terroristici sono in contrasto con la libertà, la democrazia, i nostri valori o quelli della maggior parte dei Paesi del mondo. È in nome dei nostri interessi e non in nome della libertà che strumentalizziamo questi gruppi che invocano la creazione di uno Stato-islamico in Siria. Non chiedete dunque che cosa pensano di offrire al popolo siriano. Chiedetevi piuttosto di cosa vogliono privarlo e cosa vogliono imporgli. Tutti i civili che ho incontrato nella vita quotidiana rifiutano di immaginare anche per un solo istante questa opzione e chi l’ha vissuta cerca di dimenticarla.

  Noi, Signor Presidente, come tanti altri Paesi, abbiamo una gravissima responsabilità in questa guerra che si è cercato di portare a termine rovesciando il governo siriano a qualunque costo, naturalmente. In questi ultimi anni, a fianco di numerosi Paesi abbiamo partecipato alla distruzione della Siria, un Paese in gran parte francofono e che ama la Francia. Per quanto il suo governo sia imperfetto e quali che siano i suoi errori, e i nostri nel corso del tempo, noi sosteniamo attualmente l’instaurazione di una vera dittatura in un Paese dove esiste una vera opposizione, mentre i gruppi armati sono spinti soltanto dal settarismo, dalla frustrazione, dal rancore e dall’odio. Servirci di questi gruppi per realizzare obiettivi geopolitici o economici non ha niente di democratico, serve solo a sacrificare i Siriani. Ho attraversato il Paese ed ho potuto constatare che, malgrado certe critiche e qualunque cosa se ne dica, la stragrande maggioranza dei Siriani sostiene onestamente e sinceramente il proprio governo e colui che essi chiamano il loro presidente e non dittatore, Bashar Al-Assad.

  Per me, questo messaggio è un dovere. Sono un operatore umanitario ed ho creato la mia associazione senza fini politici o confessionali e autogestita. Vivo in zona di guerra, ne pago il prezzo e assumo i rischi necessari per aiutare con i miei mezzi modesti i civili. Raccontare quel che accade realmente mi attira gli attacchi dei media mainstream e dei loro sostenitori, che cercano di farmi tacere anche fino a indicarmi come bersaglio. Rischio ancora di più assumendomi la responsabilità di scrivere questa lettera per denunciare una situazione osservata quotidianamente e con sempre maggiori approfondimenti. Non sono spinto da alcun interesse personale né ho niente da guadagnare. Rischio da molti mesi per combattere il terrorismo trasmettendo la verità, ciò che affrontano i Siriani, le loro testimonianze, denunciando gruppi terroristici e la manipolazione mediatica che strappano tutti i giorni alla gente la vita.

  Chiediamo al popolo siriano cosa desidera per il proprio Paese invece di parlare in suo nome, di rubargli la voce, la libertà, il presente e il futuro. Spetta al popolo siriano decidere il proprio futuro e non a noi di arrogarcene il diritto come abbiamo fatto finora con la nostra ingerenza illegittima, che si è tradotta in una forma di dittatura peggiore. Che la democrazia inizi da noi stessi. A prescindere dalla nostra responsabilità nei confronti dei Siria, sarebbe quindi tempo di consultare il popolo francese sulla sua volontà di essere coinvolto in questo conflitto, considerato il pericolo che esso rappresenta per la nostra sicurezza presente e futura.
   Io chiedo alla mia Francia, Paese che amo e in cui sono cresciuto, di cessare nel frattempo la condanna di una popolazione e cessare di incoraggiare gruppi terroristici che già colpiscono le nostre famiglie, i nostri figli e le nostre popolazioni, quali che siano gli interessi economici o geopolitici in campo. Non possiamo prendere le parti né sostenere gruppi armati che fanno una rivoluzione per riportarci all’età delle tenebre.  

  Signor Presidente,  faccio appello a Lei e scongiuro la Francia, per i valori con cui sono cresciuto e che mi spingono a perseverare nella mia azione quotidiana qui, di levare le sanzioni contro la Siria. Esse penalizzano soprattutto la popolazione non il governo, di trovare soluzioni diplomatiche alternative a questa guerra in favore della pace, sia per il popolo siriano sia per il popolo francese che rischia di subire le ripercussioni per il nostro impegno a favore di gruppi che seminano il terrore e le cui ambizioni sono chiaramente internazionali. 
   Augurando molto coraggio a Lei, Signor Presidente, ed a colui che Le succederà, colgo l’occasione per porgerLe i miei più distinti saluti.

Pierre le Corf,
Immigrato ad Aleppo, Siria / lecorfpierre@gmail.com
 We Are Superheroes
Traduzione Maria Antonietta Carta

lunedì 23 gennaio 2017

Terra Santa: Cinquanta anni di occupazione esigono azione

Coordinamento Terra Santa 2017

"Per cinquant’anni la Cisgiordania, Gerusalemme-Est e Gaza hanno languito sotto l’occupazione, violando la dignità umana sia dei palestinesi che degli israeliani. Questo è uno scandalo a cui non dobbiamo mai abituarci.
Il nostro Coordinamento ha rivolto un appello per la giustizia e la pace ogni anno a partire dal 1998, ma la sofferenza continua. Quindi questo appello deve farsi sentire più forte. Come vescovi imploriamo i cristiani nei nostri paesi d'origine a riconoscere la nostra responsabilità in termini di preghiera, consapevolezza e azione.
Tantissime persone nella Terra Santa hanno trascorso tutta la loro vita sotto l'occupazione, con la sua segregazione sociale polarizzante, ma ancora professano la speranza e la lotta per la riconciliazione. Ora più che mai, costoro meritano la nostra solidarietà.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di opporci alla costruzione degli insediamenti. Questa annessione de facto di terre non solo mina i diritti dei palestinesi in aree come Hebron e Gerusalemme Est, ma, come ha recentemente riconosciuto l'ONU, mette in pericolo anche le possibilità di pace.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di fornire assistenza alla popolazione di Gaza, che continua a vivere in mezzo a una catastrofe umanitaria generata dall'uomo stesso. Ormai hanno trascorso un intero decennio sotto assedio, aggravato da uno stallo politico causato da una mancanza di buona volontà di tutte le parti in causa.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di incoraggiare la resistenza non violenta che, come ci ricorda Papa Francesco, ha ottenuto grandi cambiamenti in tutto il mondo. Ciò è particolarmente necessario di fronte a ingiustizie quali l’incessante costruzione del muro di separazione in terra palestinese, inclusa la Valle di Cremisan.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di promuovere la soluzione dei due Stati. La Santa Sede ha sottolineato che "se Israele e Palestina non accettano di coesistere gomito a gomito, riconciliati e sovrani all'interno di confini concordati e internazionalmente riconosciuti, la pace rimarrà un sogno lontano e la sicurezza un'illusione".
Tutti noi abbiamo la responsabilità di aiutare la Chiesa locale, le sue agenzie, i volontari e le ONG. Nelle circostanze più difficili mostrano una grande resilienza e svolgono un lavoro che cambia la vita. È la nostra fede in Dio che ci dà speranza. È la testimonianza dei cristiani in Terra Santa che abbiamo incontrato, soprattutto quella dei giovani, che ci ispira.
La Bibbia ci dice: "Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti" [Levitico 25,10]. Nel corso di questo cinquantesimo anno di occupazione dobbiamo pregare per la libertà di ognuno in Terra Santa e sostenere in modo concreto tutti coloro che lavorano per costruire una pace giusta."
Vescovo Declan Lang, Inghilterra e Galles (Presidente del Coordinamento Terra Santa)
Arcivescovo Riccardo Fontana, Italia
Vescovo Stephen Ackermann, Germania
Vescovo Peter Burcher, Conferenza episcopale dei Paesi Nordici
Vescovo Oscar Cantú, Stati Uniti d'America
Vescovo Christopher Chessun, Chiesa d'Inghilterra
Vescovo Michel Dubost, Francia
Vescovo Lionel Gendron, Canada
Vescovo Felix Gmür, Svizzera
Vescovo Nicholas Hudson, Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea
Vescovo William Kenney, Inghilterra e Galles
Vescovo William Nolan, Scozia
Con il sostegno di:
Mons. Duarte da Cunha, Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa
P. Peter-John Pearson, Conferenza episcopale Sudafricana
  Il comunicato finale è disponibile anche in ArabicDeutschEnglishFrançais 

domenica 22 gennaio 2017

Salesiani: Il compito educativo, cambiare la vendetta in amore


Anche se piovono bombe e missili, serviamo i cristiani in Siria, dice il sacerdote salesiano padre Alejandro León 
Padre Alejandro Leon è un missionario salesiano che da oltre 13 anni vive in Medio Oriente e dal 2011 in Siria, per la precisione proprio da quando è iniziata la guerra. Ci assicura che se rimane in quel paese in guerra è per "essere segno della misericordia e dell'amore di Dio" anche se questo implica rischiare la propria vita e trovarsi, in troppe occasioni, vicino alla morte.
Questo sacerdote nato in Venezuela nel 1979 assicura che è stato testimone di vari miracoli: lavora con i giovani affinché non vivano per la vendetta ma lascino crescere dentro di loro l'amore per la riconciliazione, e questo li ha portati ad assistere anche familiari di estremisti musulmani.
"Fare questo passo è stato difficile, ma è stato molto liberatorio" e "si sono resi conto che quelle donne e quei bambini non hanno colpe e che, alla fine, sono anche i nostri fratelli", ha commentato il sacerdote nell'intervista concessa a Madrid a Aci Stampa.
Fin dal suo ingresso nella congregazione di Don Bosco, questo prete sapeva che voleva "offrire ai giovani l'istruzione e la generosità che aveva ricevuto". Per questo nel 2003, all'età di 24 anni, si è offerto di andare "dove c'era più bisogno" e i suoi superiori glielo hanno indicato: il Medio Oriente.
Dopo aver studiato in Egitto e in Italia, Padre Leon, che era appena stato ordinato sacerdote, fu inviato in Siria. "La guerra era all'inizio e io ho accettato".
Come lui dice, accettare di andare in un paese in guerra in sé lo spaventava, ma ricorda che infine vi ha capito una cosa fondamentale: "Ho avuto una vita molto felice grazie alla mia famiglia e ai Salesiani e mi dispiace molto che ci siano così tanti bambini che non possono avere la stessa opportunità. " "Il rischio vale la pena, e se finisce male e mi succede qualcosa, penso che avrò vissuto abbastanza a lungo per aver trovato il senso della vita che è riconoscere di essere profondamente amato da Dio."
"Anche se come Salesiani ci siamo impegnati all'obbedienza verso i nostri superiori, questi ci hanno dato molta libertà, in modo che rimanesse in Siria solo chi lo desiderava. Credo che ognuno di noi, dei 7 che siamo nelle tre comunità siriane, abbia vissuto momenti di forte abbandono, per consegnarci poi con decisione con tutto il cuore al Signore e dirgli che qualunque cosa accada siamo nelle Sue mani finché Lui lo vorrà ", confida il giovane missionario.
I Salesiani sono presenti in tre città della Siria: ad Aleppo dal 1958, a Damasco dal 1990 e a Kafroun dall'anno 2000. In queste comunità vivono in totale 7 sacerdoti aiutati da molti laici e giovani impegnati. Le loro case sono conosciute in Siria come "Oasi di pace", perché cercano di unire nell'abbraccio al Vangelo e alla sequela di Gesù Cristo, tutti i cristiani della zona.
Padre Leon spiega che in Siria "ci sono momenti in cui bisogna curare i malati, o i moribondi o celebrare funerali, sapendo che sulla strada stanno cadendo missili e bombe, e queste sono quelle situazioni in cui uno decide se starci interamente o solo a metà. Perché se restiamo in Siria non è per prenderci cura delle pareti, ma per servire e essere segno della misericordia e dell'amore di Dio in mezzo alla gente, e ciò comporta anche di rischiare". " rischiare a volte la nostra vita anche se cerchiamo di essere il più possibile prudenti. Ma non può essere che per proteggere noi stessi diamo un servizio a metà: restiamo qui per servire e abbiamo deciso che finché ci sono cristiani che ne hanno bisogno, noi saremo con loro in Siria ".
Quel senso di fedeltà e di servizio ai cristiani è basato, come spiega Padre Alejandro , "nel sentimento di appartenere alla famiglia che è così importante per i Salesiani". " E' la fedeltà a Dio, alla gente e lo spirito di famiglia dei Salesiani: se in tutta la mia vita ho parlato della famiglia, quando nella realtà concreta quella famiglia ha bisogno del mio sostegno e della mia presenza, anche se abbiamo un passaporto straniero che ci permette di andare via, io non posso chiudere gli occhi e voltar loro le spalle, abbandonarli ". "Io non giudico se qualcuno ha paura e decide di andarsene, questa è la libertà ed è bene usarla, ma nel mio caso non potevo fare diversamente", afferma.
Cambiare la vendetta in amore.
Nel suo lavoro con i giovani, come direttore e coordinatore generale delle attività svolte in Siria dai salesiani, Padre Leon sottolinea che la più grande sfida è formarli in modo che siano pronti per ricostruire il loro paese quando la guerra sarà finita.
" Ci saranno aziende e Paesi, disposti a costruire di nuovo i muri delle città, ma ci sarà bisogno di persone, giovani molto preparati, per ricostruire i cuori, le anime e lo spirito di quella società, e questo lo possono fare solo persone dello stesso popolo, e questa sarà la principale missione dei giovani siriani ".
Un'altra grande difficoltà è " l' idea culturale della vendetta, che è profondamente radicata che non nasce dall'odio, ma a motivo dell'amore per quel caro che è morto e che bisogna vendicare per amore ". "in Siria tutti hanno qualcuno da vendicare", deplora il prete e riferisce che il suo lavoro cerca di promuovere la riconciliazione e non la vendetta. E sembra che ci stiano riuscendo! :  "I nostri giovani siriani vanno ai centri di raccolta dei profughi, dove, oltre a molte persone abbandonate, ci sono anche le donne e i bambini degli estremisti musulmani che parteciparono agli attacchi", spiega.
"Bisognerebbe mettersi nei panni di quei ragazzi e pensare a come sono riusciti a superarsi, per aiutare e curare, per esempio, il figlio di colui che ha mandato la bomba che ha ucciso il cugino o il fratello". " Fare questo passo per molti è stato difficile ma è stato anche molto liberatorio. Si sono resi conto che alla fine, i figli di questi estremisti non hanno colpe, sono solo bambini e alla fine sono anche i nostri fratelli ".
Secondo il racconto di Padre Alejandro, la guerra e "il mistero del dolore" han fatto sì che molti dei giovani adolescenti con cui trattano i Salesiani in Siria abbiano seri problemi riguardo alla loro fede.
"II problema del male ha generato crisi di fede, ma con la testimonianza e la vicinanza, molti giovani hanno superato le loro crisi e in seguito, hanno potuto avere un'esperienza di Cristo molto più autentica", riferisce ad Aci Stampa.
In realtà, questo Paese "è stato quello che ha dato più vocazioni alla famiglia salesiana, anche da prima della guerra. Inoltre, coloro che durante la guerra hanno superato i propri dubbi hanno raggiunto una profonda vita spirituale che li spinge a chiedersi cosa Dio vuole da loro. E questo è qualcosa di prezioso ".
"Sono stato testimone di miracoli, ma tutto quel bene che siamo riusciti a fare è stato grazie alla generosità di tante persone, in particolare le missioni salesiane, perché senza il vostro aiuto sarebbe stato impossibile".

giovedì 19 gennaio 2017

In piazza per i cristiani perseguitati


Sarà Philip Astephan  a portare dalla Siria la sua personale testimonianza al Rosario in piazza per i cristiani perseguitati, domani sera a Rimini.
Siriano di Aleppo, appartenente alla parrocchia dei francescani di padre Ibrahim, 39 anni, studi in psicologia, Philip Astephan è attualmente rifugiato e vive a Roma, dopo una serie di peripezie seguite a quella che in Occidente viene chiamata “primavera araba”, “ed io invece - dice Astephan - chiamo l’autunno arabo”.

Com’è la situazione oggi ad Aleppo?
E’ migliorata per l’intervento russo e dell’esercito siriano, che hanno liberato Aleppo dall’Isis, ma ancora non si può dire che ci sia la pace. Ci sono ancora esplosioni di bombe fuori città, nel territorio attorno ad Aleppo. Spesso non c’è acqua né elettricità, è difficile trovare le medicine e molte cose hanno prezzi alti”.

La situazione per i cristiani in Siria è migliorata?
Certo, perché con il regime ed anche con l’esercito siriano noi stavamo e stiamo bene. La maggior parte dei cristiani siriani è a favore del cambiamento, ma sia chiaro che il cambiamento è andare avanti, e non tornare indietro. Sapevamo dall’inizio che la guerra era un gioco che veniva da fuori, da conflitti di interessi fra Russia ed America. Tornando al tema del cambiamento, non è logico che venga favorito dai soldi dell’Arabia Saudita, che non ha la democrazia… Se pensiamo a queste cose, allora capiamo meglio la situazione”.

Per voi cristiani siriani, che cosa è utile che facciano i cristiani occidentali?
La nostra gente ha certo bisogno di medicinali e altri generi di necessità, quindi un aiuto economico è utile. Ma i cristiani siriani vogliono soprattutto che il mondo occidentale sappia la verità. Almeno un po’ di verità… Vogliamo che la verità diventi un po’ più chiara”.

Intende circa l’atteggiamento verso l’Islam?
Io ho tanti amici musulmani buoni, ma bisogna capire con chi parliamo.. Ad esempio, vengono chiamati «ribelli» quelli che dall’Occidente vanno in Siria a combattere. Ma quali ribelli… Sono stranieri andati a pagamento in Siria, sono strumentalizzati per fare un gioco politico, perché la Siria è importante geopoliticamente”.

Quello del 20 gennaio 2017 è il trentesimo Rosario in piazza. L’“Appello all’umano” del Comitato Nazarat si tiene ogni 20 del mese, ininterrottamente dall’agosto 2014, quando un gruppo di riminesi - fra loro anche alcuni laici - diede vita all’iniziativa di preghiera e di testimonianza a favore dei cristiani e delle altre minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente, Africa e Asia. Nel corso dell’estate le milizie agli ordini dell’autoproclamato Califfato erano dilagate nella piana di Ninive, nord dell’Iraq, ed in Siria. Popolazioni cristiane fra quelle di più antica data, erano state costrette a lasciare case, terre, villaggi e città dove si erano stabilite da quasi due millenni: si ricorderanno le cronache di esodi forzati a piedi, minacce, violenze, stupri, massacri e distruzioni di chiese. Anche gli Yazidi fecero le spese dell’avanzata dell’Isis, e particolarmente le donne.

La lettera “nun”, iniziale di Nazarat (o Nassarah), veniva dipinta dagli invasori sugli stipiti delle porte o sui muri delle case dei cristiani: nata come marchio spregiativo, la lettera è divenuta un simbolo distintivo dell’identità cristiana che tenta, malgrado mille difficoltà, di rimanere in vita, per il bene stesso delle società siriana e irachena.
Questa stessa lettera contraddistingue il Comitato Nazarat e il manifesto di invito al rosario in piazza, tanto a Rimini quanto nelle altre 15 città. In contemporanea con l’iniziativa in pubblico, 26 comunità religiose femminili e maschili - in Italia, altri paesi europei, Medio Oriente e Africa - tengono la preghiera dentro i rispettivi conventi e monasteri.

GLI APPUNTAMENTI 
19 gennaio (solo questo mese) Bologna, ore 19,30 Piazza S. Stefano

20 gennaio
  • Rimini ore 21 Piazza Tre Martiri
  • Cremona ore 21,00 Piazza Cittanova
  • Andora (SV) ore 21,00 Piazza Santa Maria
  • Loreto ore 21,30 Piazza della Madonna
  • Cesena ore 19,00 Piazza Giovanni Paolo II
  • Milano ore 19,00 piazza della Scala
  • Busca (CN) ore 19,00 Piazza della Rossa
  • Prato ore 21,15 Piazza Santa Maria della Pietà
  • Portomaggiore (FE) ore 20,20 Piazza Giovanni XXIII
  • Cattolica (RN) ore 21,00 Piazza Roosevelt
  • Lugano (CH) ore 20,00 Piazza San Rocco
  • Siena ore 18,00 Piazza Tolomei
  • Perugia ore 21,00 Chiesa di San Costanzo
  • Damasco (Siria) ore 20 Casa Sant’Anania
  • Erbil (Iraq) ore 20,00 Campo Profughi

martedì 17 gennaio 2017

Il futuro della Siria passa per Astana

 Piccole Note, 17 gennaio 2017

Il futuro della Siria passa per l’incontro che si terrà il 23 gennaio ad Astana, capitale del Kazakistan. Qui si sono dati convegno russi, iraniani e turchi per dare avvio ai negoziati tra il governo di Damasco e i suoi oppositori, assenti ovviamente i gruppi terroristi Isis e al Nusra, mentre non è ancora del tutto chiaro se parteciperanno i curdi, che i turchi non vogliono.

Significativo che sia stato scelto un giorno successivo all’insediamento di Donald Trump, che diventerà formalmente presidente il 20, a rimarcare l’importanza che ha per Mosca l’inizio di una nuova fase della politica estera americana.
Trump dovrebbe mollare la presa sulla Siria, questo almeno nei suoi propositi elettorali, lasciando maggior libertà di azione ai russi e abbandonando al loro destino i cosiddetti ribelli siriani (ovvero le bande dei jihadisti ivi scatenate).
Questi ultimi ne sono consapevoli, ed è il motivo per cui si sono convinti ad accettare l’invito al tavolo di Astana, che comporta un’accettazione previa della sussistenza di Assad al potere, cosa prima inaccettabile (anche se forti saranno ancora le resistenze sul punto).
Negoziati senza Stati Uniti, a indicare il nuovo ruolo russo nella regione e la parallela perdita di influenza di Washington. Ma Putin ha tentato la mossa del cavallo, facendo filtrare la notizia di un possibile invito indirizzato agli americani. Ipotesi che non ha trovato risposta nella controparte e che ha pure incontrato la netta e pubblica opposizione iraniana.
Tra Iran e Stati Uniti pesa la controversia legata all’accordo sul nucleare stipulato tra Teheran e l’amministrazione Obama, accordo che Trump ha detto di voler denunciare. Una controversia esplosiva, che evidentemente non poteva che essere motivo di scandalo anche ad Astana.
Con gli americani l’appuntamento è rimandato ai primi di febbraio, a Ginevra, dove si valuterà in chiave più globale quanto emergerà in Kazakistan.

Detto questo, è probabile che Trump dia il suo placet alle iniziative patrocinate dalla Russia di comune accordo con la Turchia, che da tempo ha legato il suo destino a Mosca.
Trump troverebbe in questa disposizione un certo consenso nell’apparato militare americano che, nel segreto, da tempo valuta positivamente il ruolo di Mosca nella crisi siriana, al contrario dei suoi dirigenti, come aveva rivelato in un ponderato articolo il premio pulitzer Seymour Hersh.
Ma avrebbe contro tutta quella parte di America che ha puntato tante delle sue fiches sul regime-change siriano, in particolare i neocon, gran parte dell’apparato militare industriale (che ha fatto buoni affari con questa guerra) e parte degli apparati di sicurezza.
Per Trump, quindi, si tratterà di far fronte a non poche resistenze interne, che però non dovrebbero influire sull’esito finale della trattativa, che nel medio periodo dovrebbe chiudersi positivamente (almeno in certa misura ché ri-stabilizzare la regione sarà durissima).
Questo perché Trump non può rischiare di rimanere impantanato nel conflitto siriano: si è ripromesso di fare una vera e propria rivoluzione in America e la Siria è l’ultimo dei suoi problemi. Cosa che dovrebbe facilitare l’iniziativa dei russi e dei suoi alleati.

Resta appunto l’opposizione sorda degli apparati americani, ma anche quella aperta delle Monarchie del Golfo, anzitutto l’Arabia Saudita, che rischia di essere l’unica sconfitta di questa partita di giro. Tenterà di vender cara la pelle attraverso un rinnovato attivismo delle sue pedine locali, leggi milizie jihadiste.
Favorite da queste resistenze pubbliche e meno pubbliche, anche le formazioni dichiaratamente terroriste sono tornate all’offensiva, cercando di sfruttare al massimo le opportunità loro spalancate negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama.
Oltre a perseverare nei consueti crimini contro la popolazione civile, i terroristi di stanza in Siria hanno inquinato l’acqua di Damasco, avvelenando le risorse idriche di milioni di persone…
Ma la situazione che li vede più attivi è presso la città chiave di Deir Ezzor, contro la quale l’Isis ha scagliato una massiccia offensiva. Da tempo la città è sotto assedio, e la sua resistenza è diventata una sorta di leggenda del conflitto. Ma stavolta sembra sul punto di cadere, attaccata da circa 14mila attivisti del terrore.

Val la pena, en passant, ricordare che sulle postazioni difensive della città aveva infierito proditoriamente l’aviazione americana, uccidendo oltre sessanta militari e consentendo all’Isis un attacco che ne aveva minato nel profondo le difese, oggi messe nuovamente a durissima prova.
Se capitolerà, l’Isis riuscirebbe ad aprirsi un corridoio strategico per congiungere i suoi domini siriani con quelli in Iraq, nella speranza di ritagliarsi il sedicente Califfato la cui nascita, bizzarria del destino, coinciderebbe con la realizzazione di quel sunnistan tanto agognato dai profeti neocon (basterà in futuro cambiare nome alla gang criminale per tentare di rendere la nuova entità politica accetta al mondo, come ha fatto di recente al Nusra).

A complicare le cose il convitato di pietra di questo conflitto, Israele, la cui destra, e non solo quella, da tempo vede questa guerra come un’opportunità irripetibile per sbarazzarsi dell’odiato Assad, da sempre percepito come nemico esistenziale.
Non si rassegnerà facilmente al fallimento di tale prospettiva. Come ha dimostrato l’inspiegabile, o spiegabilissimo, attacco compiuto una settimana fa dalla sua aviazione contro una base aerea militare situata nei pressi di Damasco.
Segno di pervicacia nella sua posizione anti-Assad, ma anche di nervosismo per il cambiamento di scenario (val la pena accennare che si tratta di un atto di guerra, al quale per fortuna Damasco non ha reagito: si sarebbe incendiata la regione).
Sviluppi tutti da decifrare, dunque, e però, nonostante tutto, ad Astana si aprirà una nuova fase del conflitto, dove a dar le carte per la prima volta sarà Mosca.

Ad oggi quanti hanno sperato di rovesciare in maniera irrimediabile il tavolo dei negoziati sono andati delusi, al massimo hanno prolungato il conflitto. E la permanenza di Assad al potere rende tale prospettiva stabilizzante sempre più provvisoriamente definitiva.

sabato 14 gennaio 2017

I Cristiani d' Oriente: Affreschi e Icone.


Chi è Padre Abdo Badwi?
Introduzione e intervista a cura di Claude Zerez.
Grande conoscitore dell'arte Cristiana Orientale, Padre Abdo Badwi, nato in Libano nel 1948, è prima di tutto frate dell'ordine maronita libanese e sacerdote della sua congregazione.
Nel 1975, anno di transizione per il Libano, Padre Badwi fonda il dipartimento di Arte Sacra dell'Università di Santo Spirito a Kaslik, a motivo delle trasformazioni che colpiscono le università che creano nuove discipline, per far fronte all'isolamento che impone la guerra civile. Da allora egli "frequenta la bellezza" e vi giunge tramite la prima fonte del bello, l'Altissimo che glie ne fa Grazia e Dono.
Padre Abdo trascorre le sue giornate tra l'insegnamento, il restauro di reperti antichi e la creazione di nuovi lavori. A lui dobbiamo così la realizzazione di molte opere, tra cui la creazione di icone, affreschi, vetrate, mosaici, oggetti di ceramica e indumenti liturgici in broccato. Quasi nessuna tecnica dell'arte sacra ha segreti per lui. Molti Paesi hanno beneficiato dei suoi talenti. Inoltre, spesso è consulente importante dei congressi di arte sacra orientale. Prossimamente sarà presente a un congresso previsto a Doha in Qatar, sul tema: "Le tracce cristiane in Qatar".
Ma adesso lasciamo parlare Padre Abdo Badwi che ha accettato di rispondere alle nostre domande.
D: In Occidente l'icona è spesso considerata un' opera d'arte ma in Oriente è piuttosto un'opera di adorazione, di preghiera e anche una raffigurazione del dogma. Perché questa differenza?
R: L' immagine divina che noi portiamo, in tutta la sua bellezza, e che abbiamo deturpato e sfigurato col peccato, è stata restaurata e ristabilita, in noi, attraverso l'Incarnazione del Figlio di Dio.
Questa immagine, noi l'abbiamo deviata dalla sua finalità primaria: la costante ricerca della gloria di Dio e il superamento del mondo sensibile, con un'ascesi spirituale, per tendere verso il mondo precedente al peccato, al di fuori dei limiti dello spazio e del tempo; mondo della trasfigurazione delle creature rinnovate dall'Incarnazione di Cristo, che con la sua passione e con la sua morte ci ha riscattato per poi resuscitare.
Questo mondo dello Spirito, invisibile ai nostri occhi, resi ciechi dall'appagamento dei nostri interessi immediati, resta percepibile ai cuori che l'Amore divino infiamma e arricchisce; mondo propizio alla contemplazione che l'icona favorisce, oltre lo spazio e il tempo, per condurci verso la trasfigurazione. E' da una tecnica delle linee e dei colori, sempre fedele nella sua ispirazione sia all'antico che al moderno, che l'armonia dell'icona ci innalza verso il divino. Questo connubio tra la mente e lo spirito rinasce nella nostra memoria e nel nostro cuore, ogni volta che guardiamo e contempliamo l'icona.
D: Si sono avute nella storia diverse scuole iconografiche sul tipo della scuola bizantina. Ma nel suo approccio e nel suo lavoro, lei mette in risalto l'iconografia siriaca. Quali sono le caratteristiche e l'origine di questa iconografia propria delle chiese Siro-Mesopotamiche?
R: Secondo la tradizione, la sua origine è la più antica.
Ne abbiamo una testimonianza nella leggenda del Re di Edessa, Abgar II° Oukomo, attraverso il suo dialogo con il Signore Gesù Cristo. Il Re Abgar si ammala. Manda una delegazione portatrice di una lettera al Signore nella quale Lo invita a venire alla sua casa per curarlo. In risposta, il Signore invia due discepoli: Addai e Mari che sono considerati i due fondatori della Chiesa siriaca e della sua tradizione. Il Signore invia al Re Abgar II°, l'impronta del Suo viso, che diventerà più tardi, il prototipo del Cristo pantocratore diffuso nel mondo iconografico e nel cristianesimo. Questa sacra immagine fu venerata a Edessa e poi a Costantinopoli; varie fonti sostengono di possederla. Questa è l'origine "tradizionale" dell'iconografia siriaca; tuttavia, la sua origine "storiografica" è un po ' diversa.
L'arte della Chiesa Siriaca, erede dell'arte della civiltà Accadica trae la sua ispirazione da varie fonti:
1° - una fonte "Orientale", che tende a paganizzarsi si rivolge verso l'Asia. Ne troviamo degli esemplari pagani a Edessa stessa. Ha, come caratteristiche, il viso quadrato o circolare, la misura corta o media.
2° - una fonte "Ellenistica", dove si mescolano la tradizione orientale e la tradizione greca; la troviamo ad esempio a Doura-Europos in Siria.
3° - una fonte "Musulmana" non molto frequente. Si parla allora di influenza dell'Islam; ricordiamo la rappresentazione del Cristo-Adamo che si trova al museo di Hama, o i dipinti murali di Mar Moussa el-Habachi e Qara in Siria; il Cristo assomiglia in questi dipinti a un Califfo Abbaside o un Emiro Persiano o ancora Mongolo, mentre gli apostoli sono raffigurati come paggi di corte. Questa influenza si evince anche e soprattutto per la presenza di elementi decorativi di composizione geometrica, che ricordano gli "Arabeschi".

D: Il mondo siriaco si riferisce spesso al Vangelo di Rabboula. Lei che ne pensa?
R: Il manoscritto di Rabboula datato intorno al VI° secolo fu scritto e miniato nelle vicinanze della città di Antiochia. Esso ci presenta attraverso le sue miniature ai margini o sull' intera pagina, l'iconografia dell'anno liturgico Siro-Occidentale nel suo stato embrionale. Nel 1747 viene scoperto nella biblioteca dei Medici di Firenze. Questo scritto, che è il più antico che si conosca, rappresenta il periodo di transizione tra l'arte paleocristiana e l'arte iconografica. È un elemento di base dell'iconografia cristiana. Le sue caratteristiche sono:
· La popolarità e la semplicità.
· È lontano dalla ieraticità bizantina e dall'ingenuità dell'arte primitiva.
· I colori sono brillanti.
· La grafica è ben studiata.
· La composizione è monumentale, malgrado la sua esecuzione in miniatura.
· Il disegno viene eseguito da destra a sinistra come la scrittura siriaca...
D: E le icone siriache che lei ha creato?
R: Queste icone sono finalizzate a svolgere un ruolo unificante nel nostro patrimonio oggi disperso; esse hanno riferimenti differenti e il loro stile dà loro l'aspetto di una scuola nuova e antica contemporaneamente. Questa scuola presenta il nostro patrimonio all'epoca contemporanea con il suo stile e le sue tecniche, le sue radici popolari e il suo simbolismo profondo, senza mai cadere nell'arte banale e ben lontano dall'arte naif. In una parola, l'arte delle icone siriache costituisce un' arte che è patrimonio pienamente antiocheno, di origine siriaca e di ispirazione orientale.
Che il nostro sguardo su queste icone sia una lettura meditativa, che ci immerga nella preghiera e ci faccia entrare nel mondo infinito del Vangelo con le sue prospettive spirituali e il suo aspetto escatologico.