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lunedì 25 aprile 2016

Aleppo, è la fine? Incontri pubblici con i Pastori della Chiesa di Aleppo in Italia


“Quando ti viene a mancare quasi tutto, capisci di più cosa è l’essenziale, ciò che tiene in piedi l’esistenza”. 
Questa è la voce che ci giunge da Città come Aleppo, da sempre luogo di convivenza tra culture e fedi religiose differenti.
Come in tutta la Siria, la diversità non è mai stata un’obiezione o un ostacolo insormontabile, ma piuttosto una condizione con cui misurarsi per costruire una società plurale. Forse è questo che le nostre società hanno bisogno di conoscere e sapere.
Nella immane tragedia della Siria continuano i gesti di condivisione e aiuto reciproco spuntati come piccoli miracoli nella devastazione che ha colpito la città di Aleppo, come la mensa organizzata da alcune congregazioni religiose (gesuiti, maristi, suore di Madre Teresa e francescane) che ogni giorno procurano il pranzo a oltre diecimila persone, e che viene sostenuta anche con il contributo economico di benefattori musulmani. Un segno di fraternità che tiene accesa la speranza di poter continuare a vivere insieme.
Sono i semi di ricostruzione sotto la coltre di desolazione e ingiustizia che i potenti diffondono. Sono ponti col mondo umano ora distrutto che li precedeva. Sono anche ponti verso il futuro dove questo presente sofferente ma risorto potrà emergere”. (CMC di MI)
Incontro-testimonianza con mons Georges Abou Khazen, Vicario apostolico di Aleppo dei Latini:
* martedì 26 aprile 2016 ore 21.00 Auditorium Giorgio Gaber – Grattacielo Pirelli, Piazza Duca D’Aosta 3,  Milano
* mercoledì 27 aprile 2016, ore 19.30
Auditorium Pontificia Università Urbaniana,  Via Urbano VIII 16, Roma



Monsignor Antoine Audo vescovo di Aleppo,
mercoledi’ 27 aprile  sara’ a Carpi dove alle 16 parlera’ al clero, ai diaconi ed ai religiosi della diocesi nella chiesa di San Bernardino da Siena. 
Alle 17.30, il presule incontrerà le autorità cittadine e la stampa locale nella sala del Consiglio comunale. Alle 19 monsignor Audo celebrera’ la santa messa alle ore 19.00 nella parrocchia Quartirolo, cui seguira’ una cena di beneficenza a sostegno dei cristiani di Siria.
Nella mattinata di giovedi’ 28 febbraio, il vescovo siriano sara’ invece a Ferrara, ospite dell’arcivescovo monsignor Luigi Negri, dove incontrerà il clero diocesano nel seminario arcivescovile. 
Venerdi’ 29 monsignor Audo sara’ a Roma dove la sera alle ore 20 prendera’ parte all’evento organizzato da Acs, durante il quale la Fondazione pontificia illuminera’ di rosso Fontana di Trevi in ricordo del sangue versato dai martiri cristiani. Il vescovo caldeo di Aleppo offrira’ la sua testimonianza davanti alla fontana imporporata. 
Sabato 30 aprile alle 14.30 il presule partecipera’ ad un incontro organizzato da Acs e Regione Lombardia a Milano presso la Cripta del Santo Sepolcro. 
Alle 19 monsignor Audo si spostera’ poi a Bergamo, dove celebrera’ una messa nella chiesa giubilare di San Bartolomeo. La celebrazione sara’ preceduta dalla conferenza ‘Le persecuzioni dei cristiani nel mondo di oggi’, tenuta dal presidente di Acs-Italia Alfredo Mantovano. L’evento si terra’ nella Sala Conferenze del Centro culturale San Bartolomeo, in Largo Bortolo Belotti 1. 
Domenica Primo maggio il vescovo di Aleppo offrira’ la propria testimonianza nel santuario San Pietro Martire di Seveso, dove celebrera’ la messa in occasione della festa patronale dei SS. Gervasio e Protasio.  (DIRE

 25 aprile , giorno orribile di strage di civili in Aleppo per attacchi indiscriminati con missili e bombole di gas dei militanti islamisti.

La maggior parte delle vittime (18 MORTI , 106 FERITI)  si trovavano nel quartiere prevalentemente cristiano di Sulaimaniya. 
Nei giorni scorsi, i missili dei miliziani sono stati lanciati contro i distretti  governativi di Ashrafīyah, Nile Street, Mokambo e Al-Khalidiyah, con 17 civili morti e altri 97 feriti, oltre a danni immensi alle case. 

L'Agenzia Fides riferisce che ieri, durante la Messa per la celebrazione ortodossa delle Palme,  milizie islamiste legate al gruppo qaidista Jabhat al Nusra hanno sferrato un attacco a colpi di mortaio sulla città siriana a maggioranza cristiana di Sqelbiya, nella provincia centrale di Hama, provocando la morte di almeno quattro civili.  Alle vittime vanno aggiunti almeno quindici feriti, alcuni dei quali versano in gravi condizioni. L'attacco è avvenuto con il lancio fitto di colpi di mortaio, caduti a pioggia sui quartieri residenziali. La città, sotto il controllo dell'esercito governativo, già in passato aveva subito attacchi da parte dei miliziani jihadisti, che hanno provato più volte a prenderne il controllo, senza mai riuscirci.

domenica 24 aprile 2016

24 APRILE 1915: IL MARTIRIO DEI CRISTIANI ARMENI


 BREVE STORIA DEL GENOCIDIO ARMENO
L’impero ottomano alla fine del XIX secolo, è uno stato in disfacimento, la corruzione serpeggia in ogni angolo dell’impero che in breve tempo ha visto scomparire i suoi domini in Europa con la nascita, dopo secoli di barbara oppressione, degli stati nazionali balcanici. I turchi, che si erano installati nell’Anatolia  di millenaria cultura greco-armena, paventano la possibilità di rivendicazioni elleniche sulle coste dell’Asia Minore (Smirne e Costantinopoli) e soprattutto la nascita di una Nazione Armena.
Quando Abdul Hamid II sale al trono, nel 1876, l’impero ottomano conta una forte presenza cristiana. I turchi e le popolazioni assimilate in moltissime regioni non riescono a raggiungere neppure il 40% dell’intera popolazione. In Asia Minore le minoranze etniche sono costituite da greci, armeni ed assiri. Gli armeni sono concentrati nell’est dell’impero dove, già dall’indipendenza greca del 1821, la Sublime Porta (sultanato) ha fatto insediare tutti i musulmani dei territori ottomani che via via venivano persi. Gli armeni non richiedono l’indipendenza ma solo uguaglianza e libertà culturale. Abdul Hamid viene duramente sconfitto dai russi. Le conseguenze per l’impero non sono gravi poiché il primo ministro inglese Disraeli, spinto dalla tradizionale politica filo turca del suo paese, fa sì che non si venga a formare uno stato armeno libero ma solo che vengano garantiti i diritti personali dei singoli.  L’Inghilterra ottiene l’isola di Cipro. Il sultano, temendo una futura ingerenza europea nella questione armena e la ulteriore perdita di territori, dà inizio alle repressioni.
Tra il 1894 e il 1896 vengono uccisi dai due ai trecentomila armeni ad opera degli Hamidiés (battaglioni curdi appositamente costituiti dal sultano) senza contare conversioni forzate all’Islam che però non hanno seguito. A causa delle persecuzioni si assiste ad una forte ondata emigratoria.  E’ l’inizio di una serie di massacri che durerà, in maniera più o meno forte, per trent’anni sotto tre regimi turchi diversi. L’atteggiamento Europeo è d’immobilismo, poiché ogni nazione ha paura che un’altra assuma maggior rilevanza nello scacchiere caucasico e mediorientale.
Un nemico ancor più temibile del sultano si stava preparando, “i giovani turchi” ed il loro partito “Unione e Progresso” ( Ittihad ve Terakki). Questi, che avevano studiato in Europa, si erano imbevuti delle dottrine socialiste e marxiste che avevano adattato al sistema turco. La perdita dei possedimenti europei indicava loro – quale possibilità di espansione –  il ricongiungimento ai popoli di etnia turca che vivono nell’ Asia centrale: tartari, kazachi, uzbechi ecc. E’ principalmente da queste due matrici culturali che nascel’ideologia del panturchismo o panturanesimo (il Turan è il focolare della nazione turca da cui i turchi sono giunti, dopo una lunga marcia durata secoli, in Asia Minore).  Dal marxismo i “Giovani turchi” avevano ripreso l’idea di uguaglianza, ma concepita in guisa che, per essere tutti uguali, tutti devono essere ottomani e per essere tutti ottomani bisogna essere tutti turchi e musulmani. Dalla constatazione dell’impossibilità del mantenimento e dell’espansione dei domini europei, essi rivolgono la loro attenzione ai turchi delle steppe dell’Asia centrale e mirano al ricongiungimento con essi per dare vita ad un entità panturca che possa andare dal Bosforo alla Cina. Gli ostacoli, che si frappongono a queste mire di formazione di un blocco megalitico turco, panturanico, sono costituiti da armeni e curdi. I curdi però, pensano i Giovani Turchi, sono musulmani e non posseggono una forte cultura, possono essere quindi assimilati facilmente; gli eventi del nostro tempo mostrano tragicamente altro. Gli armeni, oltre a essere cristiani malgrado le molte e spietate persecuzioni, posseggono anche una cultura millenaria, professano un’altra religione, hanno una loro lingua ed un loro alfabeto, non possono essere assimilati ed inoltre la loro presenza impedisce l’unificazione con gli altri turchi. Vanno quindi eliminati.
Per portare avanti questo progetto non era pensabile appoggiarsi al “sultano rosso” (così era stato soprannominato Abdul Hamid dopo i massacri di fine Ottocento), poiché il suo governo era corrotto e debole mentre c’era invece bisogno di un governo forte e privo di remore. L’ironia della sorte vuole che proprio gli armeni diano una mano all’Ittihad per raggiungere il potere. I giovani turchi infatti, mentre segretamente tramavano l’omicidio di massa, apparentemente si mostravano liberali e laicisti. Gli armeni, pensando all’avvicinarsi di uno stato garante delle libertà fondamentali dell’uomo, appoggiano così i loro carnefici, i quali nel 1908 con un colpo di stato prendono il potere. In questo periodo gli armeni ottengono, solo teoricamente, uno status di cittadini a tutti gli effetti e nell’Armenia vengono formate sei entità vagamente autonome, chiamate villayet.  Ma in segreto, a Costantinopoli, l’annientamento era stato premeditato da lungo tempo.
I Giovani Turchi avviano una prova generale del genocidio nell’aprile del 1909, le vittime sono trentamila. Impongono la dittatura militare nel 1913, Djemal, Enver e Talaat  (il triumvirato della morte) sono i ministri della Marina, della Guerra e dell’Interno. Ormai hanno pieni poteri per dirigere lo stato, possono pianificare il genocidio perfetto. In riunioni segrete si organizza lo sterminio e viene delineato il principio di omogeneizzazione della Turchia tramite la forza delle armi.
In primo luogo intervengono nelle attività parlamentari facendo approvare una legge che permette lo spostamento di popolazioni in caso di guerra ed inoltre il ministro Enver dà vita ad un’organizzazione speciale (Teškilati Mahsusa), il cui scopo ufficiale è quello di   effettuare azioni di guerriglia in tempo di guerra; in verità  si tratta di una vera e propria macchina di sterminio . Enver assolda trentamila avanzi di galera. Viene messa in atto una rete segreta di comunicazione, che si avvale di un codice segreto, praticamente sarà articolata come segue: per impartire l’ordine di sterminio ad ogni comando della gendarmeria si manderà un messaggio ufficiale in cui si dirà di proteggere gli armeni, con la scusa ufficiale  del  trasferimento per motivi bellici, e contemporaneamente un messaggio cifrato che invece  ne disporrà la carneficina ( con la clausola di distruggere quest’ultimo messaggio in modo che non ne rimanga traccia). Poiché alcuni paesi europei minacciavano ritorsioni in caso di pericolo per gli armeni, alcuni di questi documenti si salvarono perché gli esecutori volevano avere qualcosa che provasse che avevano solo obbedito agli ordini. Questi documenti saranno usati nel processo di Costantinopoli.
I Giovani Turchi non potevano intraprendere la loro politica di annientamento, dovevano aspettare un’occasione favorevole. Tale occasione è la guerra, perché nessuna potenza sarebbe potuta intervenire a causa di questa. Talaaat Pascià, parlando al Dr. Mordtman in merito all’abolizione di ogni concessione a favore degli armeni, asserisce infatti: “C’est le seul moment propice”. All’entrata si oppongono i partiti armeni, ma ogni sforzo è vano. I Giovani Turchi iniziano la loro follia e per gli armeni inizia il METZ YEGHERN (IL GRANDE MALE). Con questo nome gli armeni chiamano il loro genocidio. In sei mesi i turchi uccideranno da un milione e mezzo a due milioni di armeni.
Tutta l’operazione viene mascherata come un’azione di spostamento di persone da ipotetiche zone di guerra. Tutto ciò perché i Giovani Turchi vorrebbero far credere che la sparizione di due milioni di persone sia dovuta al caso. Le modalità di sterminio sono:
1)    Eliminazione del cervello della nazione. Il 24 Aprile 1915 vengono arrestati gli esponenti dell’élite culturale armena. Intellettuali, deputati, prelati, commercianti, professionisti saranno deportati all’interno dell’Anatolia e massacrati. Ci vorranno cinquant’anni per ricostruire una classe pensante.
2)    Eliminazione della forza. Gli Armeni dai 18 ai 60 anni vengono chiamati alle armi a causa della guerra in atto. Questi, da bravi cittadini, si arruolano. Un decreto stabilisce il disarmo di tutti i militari armeni, che vengono costituiti in battaglioni del genio. A gruppi di 100 verranno isolati e massacrati. Di 350.000 soldati armeni nessuno si salverà.
3)   E’ il turno di donne vecchi e bambini. I medici Nazim e Behaeddin Chackir sguinzagliano la loro organizzazione segreta. Nei luoghi vicino al mare si procede all’annegamento. Lo sterminio diretto viene applicato anche nelle zone in cui incombeva l’avanzata russa per il timore che alcuni si potessero salvare.
4)  Deportazioni (tehcir ve taktil = deportazione e massacro) –  In primo luogo vengono eliminati i pochi uomini validi rimasti. Il capo della gendarmeria locale dà ordine ai maschi armeni di presentarsi al comune, appena arrivati vengono imprigionati ed eliminati fuori dal villaggio. Si incomincia la deportazione con la scusa dello spostamento da zona di operazioni belliche; moltissimi deportati vengono uccisi durante la marcia.
L’editto di trasferimento dovrebbe essere comunicato con cinque giorni d’anticipo, ma nella maggioranza dei casi viene dato molto meno tempo per non offrire alle vittime la possibilità di prepararsi. Fuori dal villaggio intanto aspettano curdi e turchi per impadronirsi della abitazioni. Con una legge del 10.6.1915 e altre che seguono, i beni della persone deportate vengono dichiarati “beni abbandonati (“emvali metruke“) quindi soggetti a confisca e riallocazione. Allontanatisi i convogli, questi sono privati dei carri (bisogna camminare) si possono così facilmente eliminare le persone per fatica senza dover usare proiettili.  Le donne hanno una possibilità di salvezza, convertirsi all’islam, sposando un turco ed affidando i propri figli allo Stato. Durante il viaggio questi convogli vengono attaccati e depredati, anche con l’aiuto dei militari di scorta. Il bottino viene spartito tra Stato ed esecutori materiali.
Dopo lunghe marce, durante le quali gli attacchi dei Ceccè (30000 assassini fatti uscire di galera ed incorporati nell’organizzazione segreta) e dei curdi Hamidiés, la fame, la sete e gli stenti decimano i convogli, si giunge ai campi di sterminio della Siria che non presentano reticolati: c’è il deserto. Nel luglio del 1916 Talaat dà l’ordine di eliminare i superstiti. Questi verranno stipati in caverne, cosparsi di petrolio e poi viene dato loro fuoco.
In tutta l’Armenia si può assistere al macabro spettacolo di corpi straziati e lasciati insepolti. In un rapporto del 1917 il medico militare tedesco, Stoffels, rivolgendosi al console austriaco dice di aver visto, nel 1915 durante il suo viaggio verso Mosul, un gran numero di località, precedentemente armene, nelle cui chiese e case giacevano corpi bruciati e decomposti di donne e bambini.  I corpi delle vittime non troveranno mai cristiana sepoltura.
Le carovane della morte vengono indirizzate verso Aleppo (in Siria) e di qui verso la località desertica di Deir el-Zor.  Qui, i superstiti vengono definitivamente annientati. Il mausoleo innalzato dagli armeni a Deir el-Zor a ricordo di tale olocausto è stato raso al suolo dai miliziani dell’Isis nell’autunno 2014. L’Auschwiz degli armeni non esiste più.

venerdì 22 aprile 2016

Siria: un monastero di Trappiste per tenere desta la speranza

Intervista a suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir, che racconta la difficile situazione del paese e il senso della loro presenza orante in terra d'islam


Tempi, 22 aprile 2016
di Rodolfo Casadei 

«Vescovi e sacerdoti dicono: “Non abbiamo notizie”, i cristiani comuni dicono: “Gli hanno fatto del male, non torneranno più”. Tutti sembrano avere perso la speranza di rivederli fra noi». 
 Sono passati tre anni dal sequestro di due vescovi metropoliti di Aleppo – il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi – e suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir di passaggio in Italia, riassume con queste poche parole lo stato d’animo dei cristiani siriani rispetto al destino dei due presuli rapiti.


Il 22 aprile 2013 stavano viaggiando nel nord della Siria, tornando ad Aleppo dal confine con la Turchia che avevano visitato – forse per motivi legati al rapimento di due sacerdoti pochi giorni prima, anch’essi spariti nel nulla – quando di loro si persero le tracce. Nessuno sforzo è stato sufficiente a chiarire cosa sia successo. Si ipotizza che siano stati intercettati da qualche gruppo ribelle minore, che non ha capito il valore delle “prede” e ha compiuto l’irreparabile. Nonostante la tregua di fine febbraio che ha portato un po’ di sollievo in tante (non tutte) regioni della Siria, le condizioni per celebrare nella sicurezza e nella dignità il triste anniversario con gesti pubblici ancora non esistono, e la principale iniziativa commemorativa si è tenuta a Beirut, nel Libano.

Intanto la vita lentamente riprende. «Il nostro monastero sorge nella zona di Homs, e nella città non ci sono più combattimenti. Gli ultimi ribelli hanno avuto il salvacondotto per andarsene, consegnando le armi pesanti e portandosi via solo quelle personali. La vita è ripresa, anche se si vedono scene surreali: una casa ristrutturata e imbiancata di fresco circondata da edifici diroccati e disabitati, una via piena di gente che va per botteghe e se butti l’occhio a destra al primo incrocio vedi un intero quartiere ridotto a cumuli di rovine». 

C’è l’armistizio ma un po’ in tutta la Siria non c’è un gran via vai di persone fra i quartieri sotto controllo governativo e quelli sotto controllo ribelle. La diffidenza è grande. «Ogni tanto nei quartieri sotto controllo governativo si vede una donna velata da sola accompagnata da un bambino, oppure da una persona molto anziana. Sono i familiari dei ribelli mandati in avanscoperta, a fare la spesa e a vedere che aria tira».

Ad Azeir, dove sorge il monastero non lontano dal confine col Libano, le armi avevano cessato di far sentire la loro voce già da tempo.  «Le forze governative hanno riconquistato il Krak des Chevaliers già nella primavera di due anni fa, da allora non sentiamo più esplosioni e raffiche di armi automatiche. I passaggi notturni di ribelli e armi attraverso la frontiera libanese, che sfioravano il recinto del monastero, sono quasi cessati. Adesso il vero pericolo sono le gang criminali, che grazie alla crisi dell’ordine pubblico conseguenza della guerra sono cresciute in numero di banditi e in armi. Si sono moltiplicati i rapimenti di persone della zona. Basta che giri la voce che qualcuno ha fatto qualche buon affare, e dopo un po’ viene sequestrato. Chiedono riscatti anche di 20 milioni di lire siriane ».

Il monastero non ha mai chiuso i battenti nemmeno nei momenti più difficili. 
Avviato nel settembre 2010, pochi mesi prima che scoppiassero le proteste che poi sarebbero sfociate nella guerra civile, aveva dovuto ridurre il ritmo dei lavori di edificazione al culmine degli scontri militari. 
Le quattro monache italiane presenti però non si sono mai date per vinte e sono rimaste sul posto per testimoniare la loro fedeltà al popolo siriano, cristiani e musulmani, e soprattutto alla decisione di mettere la loro vita nelle mani di Cristo dopo avergliela interamente consegnata al momento della professione dei voti perpetui. 
Presto sono diventate cinque e da qualche tempo a loro si è unita una postulante siriana – la prima -, una giovane cristiana di confessione greco ortodossa. 
Ora i lavori di allestimento sono ripresi, 15 operai lavorano con una certa continuità e il monastero diventa sempre più accogliente: «Viviamo e preghiamo ancora nell’edificio che un giorno diventerà la foresteria, ma intanto abbiamo tirato su un certo numero di stanze per gli ospiti in pietra grezza locale, un edificio su due piani che ospiterà un laboratorio e il noviziato, la cisterna per l’acqua che ci risolverà tanti problemi, e stiamo pavimentando la strada interna alla proprietà».

La ripresa dei lavori significa il rinnovarsi del monastero come segno di pace e di riconciliazione nella regione, perché operai e manovali che realizzano i lavori sono cristiani, musulmani sunniti e alawiti che provengono dai villaggi vicini. La regione è un mosaico dal punto di vista religioso. 

Dall’estate scorsa il monastero è tornato ad essere centro per ritiri di gruppi: i salesiani da Damasco, i gesuiti da Aleppo hanno ricominciato a mandare giovani e meno giovani. 

«Per la gente il momento più duro è stato l’estate scorsa, quando in tivù e sui siti internet vedevano gli sbarchi di massa e i treni pieni di profughi in Europa. “Allora non ha senso resistere, dobbiamo andarcene tutti”, ci dicevano. Chi arrivava in Europa chiamava quelli che erano qui per convincerli a partire. Adesso la pressione non è più così forte. Sentiamo la gente di Aleppo. Ci dicono: “Non è vero che non si spara più, ma adesso almeno abbiamo l’acqua tutti i giorni!”. Prima, i ribelli sospendevano l’erogazione quando erano ai ferri corti coi governativi». 


Quella Aleppo alla quale non sono più tornati Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, pastori separati dal loro gregge.



http://www.tempi.it/a-tre-anni-dal-rapimento-dei-vescovi-di-aleppo-tutti-hanno-perso-la-speranza-di-rivederli#.VxowbvmLSM8

mercoledì 20 aprile 2016

“Noi non dimentichiamo”. Per ricordare i due Vescovi di Aleppo, e i sacerdoti rapiti tre anni fa


Agenzia Fides 19/4/2016

Nella giornata di oggi, martedì 19 aprile, militanti di associazioni e organizzazioni libanesi si ritrovano nella sede municipale di Sin el Fil, sobborgo orientale della capitale libanese, per ricordare la vicenda dei due Vescovi Metropoliti di Aleppo - il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi - di cui non si hanno notizie certe dal giorno del loro rapimento, avvenuto il 22 aprile del 2013. 
L'incontro, organizzato da sigle legate alla Chiesa siro-ortodossa e alla Chiesa greco ortodossa a tre anni dal rapimento, punta a impedire che sulla vicenda dei due Vescovi cali l'oblio, e a riattivare canali e iniziative per rompere la totale mancanza di informazioni intorno alla loro sorte. La riunione, intitolata “Noi non dimentichiamo”, prevede anche la presenza di Abib Afram (Presidente della Lega siriaca del Libano, che rappresenta 60mila cristiani siriaci), e gli interventi di alcuni oratori, come l'ex ministro sunnita Faisal Karami, il membro di Hezbollah Ali Fayyad Hezbollah e il deputato cristiano ortodosso Marwan Abu Fadel. 
I due Vescovi metropoliti di Aleppo – il greco ortodosso Boulos al-Yazigi e il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim - erano stati rapiti nell'area compresa tra la metropoli siriana e il confine con la Turchia. Da allora, nessun gruppo ha rivendicato il sequestro. Intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni e annunci di novità che poi si sono rivelati poco fondati. Sei mesi dopo il sequestro  il generale Abbas Ibrahim, capo della Sicurezza Generale libanese, si era spinto a rivelare che il luogo in cui erano detenuti i due Vescovi rapiti era stato individuato, e erano iniziati “contatti indiretti” con i sequestratori per ottenerne la liberazione. Rivelazioni a cui poi non sono seguiti riscontri concreti.

http://www.fides.org/it/news/59858-ASIA_LIBANO_Noi_non_dimentichiamo_Una_manifestazione_per_ricordare_i_due_Vescovi_di_Aleppo_rapiti_tre_anni_fa#.VxaZivmLSM8

 Ugualmente avvolta nel totale silenzio è  la sorte dei due sacerdoti Michel Kayyal (armeno cattolico) e Maher Mahfouz (greco ortodosso) rapiti il 9 febbraio 2013 sulla strada da Aleppo a Beirut, per la cui liberazione si mossero i due Vescovi di Aleppo, a loro volta subito sequestrati:  
"Ci rivolgiamo quindi ai cristiani di tutto il mondo: pregate per padre Michael; pregate per la Siria, una terra insanguinata devastata da un'inesorabile ondata di male; pregate per gli uomini torturati e mutilati, per le donne e le ragazze violentate, per i cristiani perseguitati; pregate per quanti commettono queste indicibili atrocità, e soprattutto pregate che il mondo esca da questa insopportabile spirale di silenzio e accorra in aiuto dei suoi fratelli e delle sue sorelle."
http://oraprosiria.blogspot.it/2013/04/rapito-dai-banditi-e-dimenticato-dal.html

domenica 17 aprile 2016

Lesbo: il realismo della DICHIARAZIONE CONGIUNTA ... e qualche sbavatura nella organizzazione


"Noi, Papa Francesco, Patriarca Ecumenico Bartolomeo e Arcivescovo di Atene e di Tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce quotidiane alla loro sopravvivenza. L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo.

La tragedia della migrazione e del dislocamento forzati si ripercuote su milioni di persone ed è fondamentalmente una crisi di umanità, che richiede una risposta di solidarietà, compassione, generosità e un immediato ed effettivo impegno di risorse. Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa.
Come capi delle nostre rispettive Chiese, siamo uniti nel desiderio della pace e nella sollecitudine per promuovere la risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo e la riconciliazione. Mentre riconosciamo gli sforzi già compiuti per fornire aiuto e assistenza ai rifugiati, ai migranti e a quanti cercano asilo, ci appelliamo a tutti i responsabili politici affinché sia impiegato ogni mezzo per assicurare che gli individui e le comunità, compresi i cristiani, possano rimanere nelle loro terre natie e godano del diritto fondamentale di vivere in pace e sicurezza. Sono urgentemente necessari un più ampio consenso internazionale e un programma di assistenza per affermare lo stato di diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento. In questo modo si potrà essere in grado di assistere quei Paesi direttamente impegnati nell’andare incontro alle necessità di così tanti nostri fratelli e sorelle che soffrono. In particolare, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo greco che, nonostante le proprie difficoltà economiche, ha risposto con generosità a questa crisi.

Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Chiediamo alle comunità religiose di aumentare gli sforzi per accogliere, assistere e proteggere i rifugiati di tutte le fedi e affinché i servizi di soccorso, religiosi e civili, operino per coordinare le loro iniziative. Esortiamo tutti i Paesi, finché perdura la situazione di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine sollecita dei conflitti in corso.
L’Europa oggi si trova di fronte a una delle più serie crisi umanitarie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per affrontare questa grave sfida, facciamo appello a tutti i discepoli di Cristo, perché si ricordino delle parole del Signore, sulle quali un giorno saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. […] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40). 

Da parte nostra, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, decidiamo con fermezza e in modo accorato di intensificare i nostri sforzi per promuovere la piena unità di tutti i cristiani. Riaffermiamo con convinzione che «riconciliazione [per i cristiani] significa promuovere la giustizia sociale all’interno di un popolo e tra tutti i popoli […]. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa» (Charta Oecumenica, 2001). Difendendo i diritti umani fondamentali dei rifugiati, di coloro che cercano asilo, dei migranti e di molte persone che vivono ai margini nelle nostre società, intendiamo compiere la missione di servizio delle Chiese nel mondo.
Il nostro incontrarci oggi si propone di contribuire a infondere coraggio e speranza a coloro che cercano rifugio e a tutti coloro che li accolgono e li assistono. Esortiamo la comunità internazionale a fare della protezione delle vite umane una priorità e a sostenere, ad ogni livello, politiche inclusive che si estendano a tutte le comunità religiose. La terribile situazione di tutti coloro che sono colpiti dall’attuale crisi umanitaria, compresi tantissimi nostri fratelli e sorelle cristiani, richiede la nostra costante preghiera.
Lesbo, 16 aprile 2016
Ieronymos II   Francesco  Bartolomeo I




La 'negligenza' degli organizzatori ha consentito una gravissima falla nella sicurezza e un reale attentato alla libertà di culto dei cristiani e delle minoranze in Siria e in Iraq , in quella che doveva essere una visita « di natura umanitaria ed ecumenica ».
Chi gli ha messo in fila quei 150 ragazzi inquadrati con l'opposizione ? 
Nella penosa parata   qualcuno saluta il Papa addirittura militarmente . Eppure quella bandiera 'simbolo dei ribelli' rappresenta anche persone che si sono macchiate del sangue dei cristiani.  A queste persone si dà perfino l'opportunità di usare come passerella l'incontro con il Papa ?

giovedì 14 aprile 2016

Io, profugo siriano in Italia , vi chiedo:


Ormai parlare della questione dei rifugiati mi pare la moda del nostro periodo attuale.
Tanti vogliono strumentalizzare le nostre ferite aperte, i media italiani e internazionali non fanno che parlare dei profughi . … Giusto che tutti parlino, ma giusto pure trovare una soluzione a questa grave ferita, perchè non serve parlare solo di buoni sentimenti e di accoglienza verso questi profughi, senza dire come possiamo realmente aiutarli.

Vorrei dire: Basta guerre, basta buonismo banale, basta sfruttare i poveri rifugiati che scappano dalla morte, che scappano dai campi dei profughi in Turchia.
Qualcuno si è chiesto come un siriano vive nei campi dei profughi in Turchia? O come viene trattato un cristiano?
Allora perchè l'Europa dona tutti questi miliardi al governo di Erdogan?
Nonostante i grossi rischi che affrontano i profughi lungo il loro viaggio, la politica europea è servita a bloccare il loro arrivo?

Ringrazio il Signore che sono riuscito ad andare via della Siria con la mia famiglia con visto regolare, e sono venuto in Italia, e tutto questo grazie a un gruppo di amici che mi hanno aiutato ed accolto con amore ed amicizia, e ci hanno fatto sentire che siamo importanti e siamo degli esseri umani.
Io quindi non vi posso raccontare che sentimenti prova il siriano cristiano quando si butta nel mare, sperando di arrivare alla meta sicura .
Non posso raccontarvi i sentimenti di un profugo che vive ora dentro una tenda in Grecia o in Macedonia, in attesa di raggiungere il nord dell'Europa, ma io posso capire la sua angoscia, la sua rabbia perchè sicuramente aveva detto a se stesso prima di intraprendere questa avventura: "In Europa troverò il rispetto, troverò una buona vita", ma lui poverino non ha capito che l'Europa non lo vuole e sarà usato, come gli stessi europei sono usati dai politici.
A me pare disumano sfruttare i sentimenti del popolo europeo ed i sentimenti dei profughi a favore di scopi politici.

 Se si vuole risolvere veramente il problema dei profughi occorre
1- sbloccare l'embargo sulla Siria perchè ha fatto solo impoverire il popolo siriano.
2- se l'Europa non può accogliere questi numeri di profughi, allora si impegni a migliorare la vita nei campi dei rifugiati vicini alla patria.
3- lavorare seriamente con gli altri Paesi regionali (Iran- Turchia ) ed internazionali (Russia, USA) a spingere i gruppi che combattono in Siria a negoziare, ed usare un linguaggio lontano dalle armi.
4- chiedere ai loro amici Sauditi di bloccare l'insegnamento radicale, perchè il fanatismo ed il radicalismo fanno crescere solamente l'odio.
5- aiutare il popolo siriano, senza ficcare il naso, a scegliere e decidere la sua strada, perchè la democrazia la fa il popolo.
6- aiutare i siriani a ricostruire il loro paese.  

Samaan Daoud , siriano cristiano temporaneamente esule) in Italia

Quello che succede a Lesbo in queste ore... :

lunedì 11 aprile 2016

La visita di Papa Francesco sull’isola di Lesbo per interpellare il mondo e la coscienza globale, chiamandola a fare qualcosa per evitare tutto questo

E’ quanto sostiene il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero “Giustizia e Pace” :


La visita del Santo Padre sull’isola di Lesbo ricorda in un certo senso quella che fece sull’isola di Lampedusa. È un’altra isola che riceve persone costrette a fuggire dalla loro terra. Quindi, la visita sarà di nuovo un tentativo per mettere sullo schermo globale la situazione di queste persone e al tempo stesso le sue cause, per interpellare il mondo e la coscienza globale, chiamandola a fare qualcosa per evitare tutto questo. C’è una situazione di violenza, ora in questo caso da parte dell'Is, ma prima ancora con la guerra in Siria. È necessario invece che ci sia la pace, una pace che non deve essere soltanto il frutto della diplomazia ma che si basi in gran parte sull’amicizia, l’amore e la fraternità che si possono mostrare nei riguardi di queste persone.

D. – Questa visita di Papa Francesco sull’isola di Lesbo è anche per vincere quell’indifferenza che tante volte il Papa denuncia. Certe guerre, a volte, si ricordano solo quando bussano alla porta di casa nostra…
R. – Sì, l’indifferenza. Ma forse la domanda da porsi riguarda le cause di questa indifferenza! Ossia, perché questa indifferenza? La Grecia non può certamente essere indifferente, perché è il Paese dove ora si trovano queste persone. Ma le misure attuate dell’Europa... dare una grande somma di denaro alla Turchia affinché quest’ultima fermi l’arrivo di queste persone – non so – servono l’interesse di chi? Forse l’Europa ora sarà un po’ più tranquilla, ma quanto tempo durerà questa tranquillità? Perché se queste persone non riescono ad arrivare via mare, potranno trovare altre maniere. Per giungere ad una soluzione di lungo termine, invece, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per creare una situazione di pace in questa zona. Sembra che l’Is sia potente, ma in realtà è sempre sostenuto dai soldi, ha accesso ancora al denaro, alle armi, ecc. Queste cose vengono sempre importate, comprate… Perché non chiudiamo tutto questo? Perché non poniamo fine all’interesse per comprare il petrolio ad un prezzo basso? Ci vuole un po’ di impegno, che poi è anche sacrificio. Credo che in questa visita a Lesbo tutte le telecamere del mondo seguiranno il Papa. E l’obiettivo non dovrebbe essere soltanto quello di riprendere le persone che soffrono, ma di farci pensare un po’ a quale potrebbe essere una soluzione a lungo termine, valida per porre fine a questa situazione.


Un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza verso tanti disperati in fuga da guerra e miseria. È questo, per il cardinale Antonio Maria Vegliò, il significato della visita che Papa Francesco compirà sabato 16 aprile nell’isola di Lesbo.


Quali sono le condizioni dei profughi sull’isola? 
A Lesbo, come spesso accade nei luoghi di sbarco, le condizioni per un’accoglienza adeguata sono insufficienti e gli arrivi sono continui, soprattutto da Siria, Iraq, Afghanistan e Somalia. Proprio sul dovere di offrire accoglienza e sul rispetto e la tutela della dignità di chi è costretto a partire, Francesco vuole attirare l’attenzione del mondo intero. La visita del Pontefice, assieme al patriarca Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Hieronymos II, è un gesto ecumenico cristiano concreto; un cuor solo e un’anima sola per affrontare il dramma della migrazione forzata e per ribadire insieme, nel nome di Cristo, l’importanza della responsabilità fraterna, guardando negli occhi le persone in fuga per le quali la sorte viene spesso decisa con accordi cinici e ignorando le vere ragioni alla base della loro tragedia. 
La visita del Papa arriva in un momento critico per l’Unione europea. 
È un momento in cui l’Europa , con il recente accordo con la Turchia, continua ad alzare barriere, a chiudere i confini e a ledere i diritti fondamentali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Siamo di fronte a un accordo miope che non consente una gestione dei flussi migratori nel rispetto della persona. La politica migratoria dei Governi ha bisogno di lungimiranza e coesione attraverso azioni mirate per porre fine alle cause dei “viaggi della speranza” di milioni di persone che troppo spesso si trasformano in “viaggi della morte”.  È necessario dare vita a canali umanitari sicuri per permettere un controllo dei flussi migratori e per vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali della persona; questo il Papa lo dice chiaramente con il suo viaggio apostolico e con la volontà di incontrare personalmente chi è sbarcato sulle coste di Lesbo carico di dolore e di fiducia. 

venerdì 8 aprile 2016

Il ricatto islamista: di Samir Khalil Samir S.I.

da IL FOGLIO del 6 aprile 2016 riprendiamo la riflessione di padre Samir Khalil Samir "L’Europa è stata troppo tollerante con la radicalizzazione che cresceva nelle sue città. E’ banale dire che il fondamentalismo è causato dalla disoccupazione...."



Vorrei partire da un dato di fatto, come premessa. Siamo in presenza di un fenomeno sociologico “normale”: le città sono già occupate. Trovare un posto nel cuore dei grandi agglomerati urbani è difficile per chiunque, se non è già installato lì. Man mano che arrivano, gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati: cercano una casa dove hanno un parente, un amico, una persona del proprio luogo. Così si costituiscono, ovunque nel mondo, dei quartieri che sono contraddistinti da una certa prevalenza culturale. Può essere un quartiere di spagnoli, di italiani. Negli ultimi tempi, l’emigrazione massiccia – e la più diffusa – è quella che ha come luogo d’origine i paesi musulmani. Il problema è che questi sono oggi più di 16 milioni nell’Unione europea, secondo l’Istituto centrale tedesco degli archivi sull’islam (Zentralinstitut Islam Archiv Deutschland). Ecco perché esistono molti quartieri massicciamente musulmani. Ecco perché dico che è un fenomeno culturale. Questo è un primo fatto, sociologico.

Poi però, c’è un secondo problema. Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto.

Dunque è normale che, trovandosi tutti assieme, man mano la libertà personale venga a essere limitata, perché ci saranno sempre persone – diciamo “specialisti” (imam o semplicemente persone che pretendono di aver studiato l’islam) – che verranno a dire  “tu ti comporti male, devi agire così”. C’è una propaganda che porta a dire che un determinato quartiere deve essere gestito in modo islamico. Si pensi, poi, che c’è anche un modo “islamico” di vendere e comprare le cose. La conseguenza di questo sistema è che, con l’andare del tempo, si creano delle unità a se stanti, isole dove è più facile indottrinare la gente.
Inoltre, negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.
 Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. 
Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica. Questo è il sistema stabilito e chi lo pratica fa bene, è un buon musulmano e un buon imam.

La Francia “laicarda”
In Francia, i comuni hanno il diritto di concedere un terreno o una costruzione per 99 anni in cambio di 1 euro simbolico: è ciò che si chiama un bail emphytéotique. Questo sistema risale a una decisione di secoli fa, ma ora è divenuto il metodo più diffuso in Francia per dare ai musulmani un terreno per costruire una moschea. E questo perché il diritto che lo permette risale al diritto romano, benché esso sia molto cambiato nel frattempo. Le comunità si presentano dicendo: noi siamo poveri, non abbiamo luoghi decenti per pregare, mentre i cristiani hanno da secoli delle chiese, e noi non abbiamo niente. Allora dateci questo, visto che la legge vi autorizza a farlo. La conseguenza? I comuni e i governi si lasciano convincere da tali motivazioni e regalano il terreno. Solo dopo, quando ormai è troppo tardi, si scopre che lì si fa  propaganda islamista, jihadista, e si crea così un quartiere islamico, dove la polizia non ha sempre la possibilità di accedere.
La Francia è sempre più non solo laica, ma (come si dice in francese) laicarda. Ha cioè un progetto laico, che è in realtà anti religioso e anti cristiano. Anzi, essenzialmente anti cattolico. Basta vedere l’atteggiamento dell’attuale Primo ministro Manuel Valls, e quello di Vincent Peillon (ex ministro dell’Istruzione) che diceva in televisione “dobbiamo uccidere la chiesa cattolica”. Per lui, “non si potrà mai creare un paese di libertà con la chiesa cattolica” . Ma la chiesa non ha mai usato, nella nostra epoca, mezzi politici e illegali. La chiesa dice la sua, come ogni uomo ha il diritto di fare. Non ha possibilità concrete di fare pressione sulla gente. La prova è che ogni anno ci sono sempre meno persone che si dichiarano cristiane. Ma Valls e Peillon ritengono che il cristianesimo ha un influsso troppo forte. Al contempo, il governo francese ha bisogno di voti e cerca i musulmani, dando loro piccoli o grandi vantaggi in cambio di consenso.
Penso alla preghiera musulmana del venerdì, fatta per strada: è inammissibile, qualunque sia il motivo. Se voglio utilizzare il luogo pubblico (la strada) per un atto religioso, anche io cattolico devo chiedere il permesso. Penso a un caso eccezionale, la processione per la festa del Corpus Domini: non si può fare senza prima ottenere il via libera dlle autorità, non si può decidere di scendere liberamente in strada. Se non c’è il permesso, lo Stato ha il diritto di impedire che si blocchi la strada. Invece, ogni settimana, ogni venerdì, lo si fa. Con il pretesto che – dicono – non hanno moschee o che le moschee sono troppo piccole. Io l’ho visto a Parigi: fanno venire i musulmani dalle periferie nel centro della città per dire “vedete, le moschee sono troppo anguste”. C’è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici. Ed è per questo che l’islam si “arrangia” bene con lo stato.
Anche a Milano, in viale Jenner, lo rivendicavano come diritto. La verità è che siamo incoscienti: se si impedisce di occupare le strade, passa l’idea che si sia anti musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi. Poniamoci per un attimo su un piano più profondo, andiamo a vedere come un quartiere si trasforma in un quartiere più islamista (non dico islamico). I gruppi radicali hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell’islam, perché per loro è quello l’autentico islam, il più veritiero, e quindi va imposto a tutti i musulmani. Di conseguenza, questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali, dove i non musulmani – oppure i musulmani moderati – se ne vanno. Così il quartiere non è più integrato nella città.

Accoglienza e falsa tolleranza
Spesso si critica lo stato accogliente. A mio giudizio, dobbiamo accogliere lo straniero che si trova in estrema difficoltà (come spesso accade di questi tempi). Ma dobbiamo anche aiutarlo a integrarsi realmente. Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche in secondo le norme e le usanze delle nostre società.  Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa tolleranza e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”. E’ un compito molto delicato e impegnativo. Ma si deve aggiungere che, se i flussi migratori rappresentano un peso per lo stato e per le comunità, si deve riconoscere anche che l’Europa, con la sua demografia estremamente bassa, ha bisogno anche di loro, persone dal valore umano indispensabile a questo continente.
E’ banale ricondurre l’ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati. L’ho notato in Francia: i ragazzi di questi quartieri, anziché studiare, facevano chiasso per le strade, andando in giro per gruppi alla sera, anzichè studiare. La gente, anche musulmana, aveva paura. Invece le ragazze erano a casa, facendo i compiti, lavorando. Personalmente l’ho constatato nella banlieue di Parigi, dove andavo ogni sabato sera a riflettere con una ventina di giovani musulmani: che tutte le ragazze avevano un lavoro. I ragazzi invece molto di meno, con anche poche possibilità di avere un buon lavoro. Perché non erano stati seri a scuola. Perché il ragazzo è libero, mentre la ragazza è controllata, e questo è un principio islamico. C’è la volontà di marginalizzarsi.
Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l’europeo (generalmente di tradizione, se non di fede, cristiana) è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo Stato: la causa sono io, giovane musulmano che rifiuta l’integrazione in nome della fede. Ecco perché le famiglie dovrebbero aiutare in questo senso, favorendo l’integrazione; dire “voi siete responsabili di voi stessi, ma per questo dovete integrarvi a tutti i livelli”, non andando a intaccare la fede musulmana, ben radicata nel profondo del cuore e nei comportamenti.

Molenbeek spiega le bombe di Bruxelles
Quanto avvenuto a Bruxelles non è una sorpresa. Nel quartiere di Molenbeek, ma non solo in questo, io ho visto scene con uomini che dicevano alla polizia: “Che venite a fare qui? Questo non è campo vostro”. E la polizia, trovandosi in tali situazioni, preferivano andarsene. Uomini che, pure non intenzionati a fare uso della forza, avevano un aspetto intimidatorio. Non si deve accettare nessuna eccezione, mai:  sia italiano da mille anni o da un anno. Ci sono delle norme, e devono essere rispettate. I tedeschi hanno un’espressione molto bella e sempre applicata: Ordnung muss sein!, cioè “l’ordine deve esistere, tutto deve essere fatto secondo l’ordine previsto!”. Per questo sono più avanzati in questo campo. In Germania non ho mai visto, in trent’anni, un gruppo di musulmani come ho visto a Birmingham o a Parigi, che vanno in giro a fare pressione sulla popolazione musulmana. In Germania hanno infatti imparato che ognuno può ottenere diritti solo se rispetta le norme comuni del paese dove vive e che ha scelto per se stesso.

Samir Khalil Samir S.I. è un islamologo gesuita, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Già Pro rettore dell’istituto, è stato anche consigliere di Benedetto XVI riguardo i rapporti con l’islam.