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martedì 26 gennaio 2016

“Io, esule di Aleppo con la forza del perdono” la testimonianza di Claude Zerez



Vatican Insider, 25 gennaio 2016
di Giorgio Bernardelli

«Quando accompagnavo i pellegrini era Pascale ad insegnare loro il Padre Nostro in aramaico». C’è tutta la vita di Claude Zerez, nell’immagine della ragazzina che proietta sullo schermo. L’amore profondo per le sue radici, il dolore per quella figlia portata via in modo brutale, ma anche lo sguardo di chi dentro la sua via crucis non è rimasto prigioniero dell’odio. 

Era il 9 ottobre 2012 quando la rapirono, mentre su un autobus da Homs stava tornando ad Aleppo. Erano milizie legate all’Esercito Siriano Libero, il fronte degli oppositori a Bashar al Assad. Aveva vent’anni, la ritrovarono cadavere. Fu allora che questo cristiano melchita di Aleppo - grande conoscitore dell’arte sacra dell’Oriente, guida di tanti gruppi di pellegrini in Siria - scrisse una lettera aperta a Francois Hollande, con parole molto forti sul sostegno politico offerto dalla Francia ai gruppi ribelli, sempre più infiltrati dai gruppi salafiti. «Avete visto come Aleppo, la città più antica è diventata una città fantasma? - scriveva nell’ottobre 2012 -. Potete immaginare Parigi come una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi si aggirano in cerca di ripari per evitare spari, bombe e atti di discriminazioni arbitrarie, di fanatismo e brutalità?». 
A distanza di tempo quelle parole si sono rivelate una drammatica profezia. «Ma a Parigi è successo un giorno solo. Invece ad Aleppo da cinque anni è una storia quotidiana». A raccontarlo è lui stesso, in un incontro organizzato a Bresso dal locale Centro Culturale Manzoni, tappa milanese di una serie di testimonianze che Claude Zerez sta tenendo in questi giorni in diverse città italiane. Non analisi geopolitiche, ma il racconto di una storia che porta dentro di sé anche mille altre ferite.  

Porta al collo il rosario di Pascale: l’ha accompagnato nel suo cammino da esule. Perché anche Claude Zerez è stato costretto a fuggire lontano dagli orrori della guerra; oggi vive proprio in Francia. «Ho perso tutto quello che avevo - racconta -. Ma la cosa peggiore è ovviamente perdere una persona cara. Come credente ho trascorso i primi sei mesi a lottare con Dio. Ma la rabbia per l’assenza fisica di mia figlia, a poco a poco, ha lasciato il posto a una presenza spirituale. Quando siamo scappati da Aleppo tutti ci dicevano che eravamo matti, era troppo pericoloso. Abbiamo dovuto attraversare un’infinità di posti di blocco, ogni volta avremmo potuto morire. Ma proprio lì ho sentito accanto la presenza di Pascale, come se avesse steso un velo per proteggerci». 
«Mi chiedono spesso se abbia perdonato gli assassini di mia figlia - continua Claude Zerez - Rispondo: perdono, ma non dimentico. Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Un musulmano me l’ha sentito dire e mi ha detto: “Lei mi ha spinto ad amare di più i cristiani”. Ecco: questo è l’inizio della riconciliazione». 

Li nomina spesso i musulmani Claude Zerez. Sottolinea che sono vittima anche loro delle bande jihadiste che imperversano nel suo Paese e le cui atrocità mostra senza sconti nelle immagini durante la sua testimonianza. «Non mi sarei mai aspettato che la Siria arrivasse a questo punto dopo secoli di convivenza - commenta -. Ma ancora adesso i rapporti tra cristiani e musulmani in tante situazioni sono buoni. Quando è stata uccisa mia figlia i nostri amici hanno pregato per lei in moschea. E 40 giorni dopo alla liturgia di suffragio in chiesa c’erano più musulmani che cristiani. Siamo tutti vittime della stessa oppressione». 
Gli chiediamo dei cristiani di Aleppo, quanti sono rimasti oggi? «In una città di quattro milioni di persone, come era Aleppo fino al 2011, i cristiani erano 300 mila - risponde -. Gli ultimi dati parlano di appena 22mila cristiani rimasti. Perché fuggono? Non c’è più luce, pane, acqua, possibilità di scaldarsi. Un litro di gasolio costava un euro, oggi ne costa quattro». Sull’embargo non ha dubbi: come avveniva in Iraq colpisce solo i più poveri, favorisce il mercato nero e aggrava le sofferenze.  

Che cosa si può fare per aiutare la Siria? Risponde che la prima cosa è pregare. Ma ce n’è anche una seconda: «Uscire dall’indifferenza - ammonisce -. Noi cristiani non possiamo accontentarci di vivere tranquillamente la nostra vita. Dobbiamo ascoltare la voce di Gesù che dice: avevo fame, avevo sete… Siamo chiamati a uscire dall’indifferenza per un nuovo Esodo. Uscire da sé per andare verso gli altri: la paura oggi è il peccato più grave». 

Non vorrebbe parlare di politica, ma è inevitabile arrivarci. «Che cosa servirebbe? Mettere fine alla guerra. Basterebbe una comunità internazionale con onestà e coscienza. Invece i cristiani d’Oriente valgono meno di un barile di petrolio oggi…», commenta con amarezza. «Bashar al Assad non è un angelo e anche Putin ha i suoi interessi - spiega Claude Zerez -. Ma l’Oriente è diverso dall’Occidente, il concetto di cittadinanza non c’è. Qui viene prima l’etnia, poi la religione e solo dopo la nazionalità. Ciò che oggi vogliono i siriani è uno Stato che li protegga e faccia valere la legge. Senza, faremmo la fine della Libia». 

Descrive nel dettaglio gli orrori che lo Stato islamico sta seminando in Siria. Parla della sfida più difficile: «Quale domani per i bambini che gli uomini con le bandiere nere oggi educano a uccidere?». Ma parla anche della vita che continua, delle associazioni caritative che nel momento della prova aiutano tutti senza fare distinzioni. Della tomba di padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese ucciso a Homs nell’aprile 2014, «veneratissima da tutti, cristiani e musulmani». 
Indica una strada. Alla politica il compito di raccoglierla.  

domenica 24 gennaio 2016

“Il dialogo tra cristiani e musulmani si può fare solo nella verità” Padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa

“Dire da dove nasce il fondamentalismo”. 
L’esempio dei cristiani “che resistono”
25 gennaio: conversione di S Paolo


Il Foglio, 21 gennaio 2016

Roma. “Il medio oriente come l’abbiamo conosciuto nel Novecento non esiste più, è saltato. Questa guerra, che definirà i nuovi assetti, non ha distrutto solo le infrastrutture e gli stati, ma anche la fiducia tra le diverse comunità, specie tra i cristiani e la maggioranza musulmana. Niente sarà più come prima”. 
A dirlo è stato padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervenendo all’incontro “Cristiani in medio oriente e migrazioni forzate. Dentro il cambiamento epocale”, promosso dalla Fondazione Avsi e Oasis, che si è tenuto nel tardo pomeriggio di martedì all’Università La Sapienza di Roma. Al tavolo dei conferenzieri sedevano anche Michele Valensise, segretario generale del ministero degli Esteri e Adnane Mokrani, docente all’Università Gregoriana e al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica. 
“Non si parla mai degli sfollati, di gente che ha perso la casa, il lavoro e non ha più soldi per ricominciare. Più di due terzi dei siriani non abita più dove si trovava prima del conflitto. La situazione è drammatica – ha osservato Pizzaballa – al punto che non diciamo nemmeno più quando i religiosi vengono rapiti. Lo facciamo solo se dopo una settimana non sono ancora tornati”.

Eppure, in tale disastro, “vi sono episodi di grande determinazione. Quanti sono rimasti sono per lo più poveri, non hanno mezzi per muoversi, non sanno dove andare. Ma quasi nessuno tra essi ha rinnegato la propria fede. Si fanno tagliare la testa ma non rinunciano a nulla”. Il francescano porta qualche testimonianza vista con i propri occhi, nel nord della Siria, nei territori “sotto il controllo di gruppi satelliti di al Qaeda. 
Questi, rispetto ai jihadisti dello Stato islamico – i cui miliziani, come testimoniano le foto satellitari diffuse ieri dalla Associated Press, hanno raso al suolo il monastero di Sant’Elia a Mosul, il più antico d’Iraq – sono sì moderati, ma è una ‘moderazione’ che consiste nel divieto per i non musulmani d’avere proprietà, di esibire simboli religiosi. Niente croci né statue. Di vino per celebrare la messa neanche a parlarne. Ma qui i cristiani non hanno ceduto: nessuno ha permesso che i loro simboli fossero toccati e sono arrivati a nascondere il vino per l’eucaristia in casa propria”. 
Il problema, ha aggiunto ancora il custode di Terra Santa, “è che il fondamentalismo di oggi non può nascere dal nulla. C’è sempre un background, ed è su questo che bisogna interrogarsi. Io sono convinto che si debba dialogare, sia perché senza dialogo siamo finiti sia perché il dialogo è incontro con l’altro e parte integrante della mia vita di fede. Ma deve essere fatto nella verità. Non so – ha proseguito – se si possa dialogare tra le fedi. Io penso di no. Però si può dialogare tra credenti e condividere le esperienze di fede. Questo si deve fare. Non posso credere che vi sia un miliardo e mezzo di persone con le quali non posso entrare in relazione. E’ una aberrazione pensare questo. Dobbiamo farlo, ma nel rispetto  reciproco, nella verità. Su questo non si può transigere”.

A margine dell’incontro, padre Pizzaballa – che si è chiesto “cosa sia e dove sia la comunità internazionale”, visto quel che sta accadendo “nell’indifferenza generale” – ha ammesso, conversando con il Foglio, che “le reazioni delle autorità musulmane riguardo le persecuzioni delle minoranze sono state molto timide”. Certamente non tutti, visto che ci sono state lodevoli eccezioni che danno speranza. Ma bisogna riconoscere che se è vero che le narrative sono diverse e ognuno legge gli eventi in maniera diversa, allo stesso tempo è oggettivo che i leader islamici del medio oriente sono stati molto timidi nel denunciare l’abominio che è in corso”. 
Sarà un’impresa ardua ricomporre la frattura che s’è venuta a creare tra musulmani e cristiani nel vicino e medio oriente: “Ci vorranno molto tempo e diverse generazioni per recuperare il tipo di coesistenza precedente la guerra”, ha chiosato.

giovedì 21 gennaio 2016

Aleppo muore di sete. Uccisa dai ribelli.

Mentre l’attenzione dei media occidentali è focalizzata – e forse non in maniera disinteressata – sulla situazione di Madaya, “Aiutiamo la Siria!”, una onlus italiana che si occupa di sostenere i civili siriani intrappolati nella guerra lancia un drammatico appello per Aleppo. 
Una nota triste per un amico aleppino che è scomparso.

di Marco Tosatti


“La situazione degli abitanti di Aleppo, è sempre più drammatica. Alle bombe che minacciano quotidianamente la città (ieri colpita la chiesa Armena Evangelica, per fortuna senza vittime), si aggiunge la mancanza di energia elettrica, l’interruzione dell’erogazione dell’acqua e infine il freddo intenso di questo periodo”, ci scrive il presidente della Onlus, Francesco Giovannelli.  
Le varie formazioni antigovernative – Isis, Jabhat al Nusrah e altri – interrompono da mesi il flusso idrico nella città, per fiaccare la resistenza degli aleppini che non vogliono andarsene. “Tra la popolazione debilitata si sta diffondendo in queste ultime settimane l’influenza H1N1 che ha costretto molte persone al ricovero in ospedale mentre la carenza di medicinali rende la situazione ancora più problematica”.  


E ieri Aleppo ha ricordato un’altra ferita provocata dalla guerra: ricorreva infatti il 1000° giorno dal rapimento dei due Arcivescovi ortodossi della città, Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, scomparsi il 22 aprile 2013, catturati dai ribelli antigovernativi, e dei quali non si sono mai più avute notizie.

Qui troverete i link che vi permettono di partecipare a dei progetti umanitari per aiutare la gente di Aleppo ad avere acqua, e riscaldamento.
Mentre ricordiamo che il quotidiano della CEI, Avvenire, chiede che l’Italia si dissoci dalle sanzioni anti Siria, che non colpiscono il governo, ma rendono la vita tragicamente più dura per la popolazione. 

E permettetemi di aggiungere un triste tocco personale a questo post. Nei giorni scorsi è morto ad Aleppo, Armen Mazloumian, il proprietario del Baron Hotel, la fonte primaria – e uno dei protagonisti – de “I Baroni di Aleppo” . I Baroni di Aleppo era una finestra sul Medio Oriente e un secolo di storia vista attraverso le finestre di quello che fu il più chic e famoso albergo della regione, l’hotel in cui soggiornarono Lawrence d’Arabia e Agatha Christie, nelle cui stanze furono venduti e comprati i documenti che diedero una delle prime prove testimoniali del Genocidio degli Armeni. Armen raccontò a Flavia Amabile e a me la storia dell’albergo, che non ha voluto abbandonare in questi anni di guerra, nonostante fosse malato seriamente, e curarsi diventasse sempre più difficile. Un’altra vittima “collaterale” di questa guerra assurda scatenata moyennant i fondamentalisti islamici dalle monarchie del Golfo e da alcune potenze occidentali.  


Quei bimbi siriani uccisi 
dall' embargo (2)
Avvenire, 20 gennaio 2016
«Ieri nel nostro quartiere un bambino è morto per il freddo. In casa sua da giorni non avevano di che scaldarsi, e lui non ce l’ha fatta. Non è il primo, sa? E non sarà l’ultimo, in questo gelido inverno di Aleppo». È rotta dalla commozione la voce di padre Ibrahim Alsabagh, francescano della Custodia di Terra Santa, che guida la parrocchia di San Francesco nella città martire del conflitto siriano, dove da mesi si consuma lo scontro più accanito tra l’esercito regolare e la miriade di gruppi armati che controllano molti quartieri. «Qui si muore per la guerra e per i frutti avvelenati che la guerra porta con sé – sospira il frate –. Ma c’è un nemico altrettanto insidioso, di cui si parla troppo poco, e di cui porta grande responsabilità l’Europa: è l’embargo decretato quattro anni fa nei confronti della Siria e più volte riconfermato, che sta silenziosamente strangolando il nostro Paese».

Pesantissime le conseguenze delle sanzioni sulla vita quotidiana: scarseggiano i generi alimentari di prima necessità – un fenomeno che alimenta le speculazioni e il mercato nero da parte di chi li possiede –, ogni giorno diventa più difficile procurarsi le materie prime per le fabbriche, la benzina per i trasporti, il gasolio per il riscaldamento nelle case (con l’aumento dei casi di anziani e bambini colpiti da malattie respiratorie, che in molti casi hanno portato alla morte), le medicine, i pezzi di ricambio per i macchinari. 

Negli ospedali l’attività viene rallentata dalla scarsità del materiale sanitario o dall’impossibilità di riparare le attrezzature medicali, senza contare le carenze nella qualità dell’assistenza conseguenti al massiccio esodo del personale sanitario (secondo alcune fonti avrebbe lasciato il Paese il 50 per cento dei medici). Un dramma nel dramma è rappresentato dalla scarsità di acqua, causata soprattutto dal taglio delle risorse idriche da parte delle milizie jihadiste che controllano l’acquedotto. Anche le poche merci che riescono ad arrivare in zona entrano con difficoltà nella città, circondata dalle postazioni delle formazioni jihadiste che presidiano molti punti di accesso. E spesso i convogli umanitari per poter passare devono sottostare al pagamento di mazzette ai vari gruppi di “combattenti”.

Le sanzioni rendono praticamente impossibile inviare denaro in maniera diretta tramite bonifici bancari, costringendo a triangolazioni finanziarie con il Libano o a fare i conti con pesanti commissioni bancarie. I canali regolari si sono fatti sempre più stretti, frenando di fatto anche gli slanci di solidarietà che in questi anni sono arrivati da molti Paesi, con l’Italia in prima fila. Il risultato finale – paradossale ma non troppo, se si pensa a quanto è già stato sperimentato in altri contesti – è un popolo che nei fatti viene colpito da provvedimenti messi in atto da chi a parole proclama di volerlo aiutare. Oggi, di fatto, milioni di siriani si trovano loro malgrado a combattere ogni giorno «un’altra guerra», quella contro malnutrizione e denutrizione per carenza di cibo, contro malattie, povertà e disoccupazione che sono le conseguenze indotte dallo strangolamento a cui il Paese è stato sottoposto a causa dell’embargo.

«Seguendo l’esempio di Gesù, siamo a fianco del popolo, di tutto il popolo, senza alcuna distinzione di fede religiosa – racconta padre Ibrahim Alsabagh –. Non ci hanno fatto cambiare idea neppure i missili caduti nei giorni scorsi sul nostro quartiere cristiano di Azizieh e lanciati da una zona controllata dai jihadisti. Ma l’aiuto che riusciamo a dare è una goccia nel mare di bisogno in cui siamo immersi. Togliere l’embargo è una necessità evidente per chi vive qui, altrimenti Aleppo come altre città morirà. E chi pensava di danneggiare il governo con le sanzioni – dimenticando gli esiti infausti di analoghe iniziative condotte negli anni scorsi contro altri Stati – porta sulle spalle la pesante responsabilità di condannare a morte una popolazione già sfiancata. Muovetevi anche voi italiani, vi scongiuriamo: se l’Unione Europea persevera nell’errore, abbiate il coraggio di uscire dal coro, di rompere il fronte dell’embargo. Prima che sia troppo tardi, e che non vi resti che piangere sulle nostre rovine».
http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/bimbi-siriani.aspx

Preghiamo per suor Margherita Slim, dell'ospedale francese di Aleppo
Da alcuni giorni, suor Margherita Slim, superiora delle suore di San Giuseppe dell'apparizione e direttrice dell'ospedale Saint Louis, a Aleppo, ha grossi problemi di salute e chiede le nostre preghiere. Le sorelle ci hanno inoltre fatto pervenire un messaggio sabato:
" tra le 15 e le 16, sette o otto bombe sono cadute... Pensavamo che fosse proprio vicino a noi ma era nel vicino quartiere Azizieh.  Avevamo in questo quartiere una scuola, che ora appartiene al governo dopo nazionalizzazioni del 1967. Ma abbiamo ancora una grande cappella e una casa che ormai è diventata foyer per giovani universitarie.  Una bomba è caduta sotto la cucina: una ventina di finestre sono andate in pezzi ma la bomba alla fine non ha esploso.... San Giuseppe le ha protette, davvero!
Vi prego, pregate anche per la pace! "  (SOS Chretiens d'Orient)

lunedì 18 gennaio 2016

SPEZZIAMO L'EMBARGO

L’Italia abbia coraggio, per i siriani



Avvenire, 17 gennaio 2016
di Giorgio Paolucci

«Aleppo sta morendo di sete. Aiutateci! ». È il grido di dolore lanciato in un drammatica testimonianza pubblicata da questo giornale alla vigilia di Natale da padre Ibrahim Asabagh, il francescano della Custodia di Terra Santa, giovane parroco della parrocchia latina di san Francesco, a servizio della comunità assieme ad altri quattro frati nella città di Aleppo.  Insieme ai suoi confratelli e a un pugno di volontari, cristiani e musulmani, da mesi si prodiga per aiutare come può gli abitanti della sua zona, costretti a fare i conti con le conseguenze devastanti del taglio delle forniture idriche deciso dalle milizie jihadiste che si sono impadronite dell’acquedotto e condizionano l’erogazione dell’acqua alla liberazione di un gruppo di 'combattenti' prigionieri dall’esercito siriano.
Per rendere più agevole la distribuzione dell’acqua messa a disposizione dai pozzi della parrocchia, Ibrahim ha acquistato alcuni serbatoi, ma tutto questo non basta per rispondere al bisogno sempre più pressante e drammatico della popolazione. Molti lettori in questi giorni hanno scritto per chiedere come aiutare. Uno per tutti: il sindaco di Pieve di Cadore (Belluno), Maria Antonia Ciotti, che vorrebbe lanciare una sottoscrizione per inviare a padre Ibrahim denaro utile ad acquistare serbatoi d’acqua. 
Operazione benemerita ma complicata, perché a causa dell’embargo decretato quattro anni fa dall’Unione Europea nei confronti della Siria e più volte riconfermato, è impossibile inviare denaro in maniera diretta tramite bonifico bancario.

Nonostante le difficoltà, la Custodia di Terra Santa è in grado di raccogliere aiuti e realizzare progetti grazie al supporto della Associazione pro Terra Sancta che opera al fianco dei frati in tutto il Medio Oriente e riesce a fare arrivare aiuti finanziari tempestivamente attraverso canali regolari, ma stretti. È insomma difficile, spesso impossibile, dare corso a 'normali' operazioni di solidarietà, in ragione delle sanzioni introdotte nel 2011 con l’intenzione di indebolire il regime di Assad e che hanno solo sortito l’effetto di peggiorare drammaticamente le condizioni di vita del popolo siriano.
Lo scrivevano a chiare lettere, nel luglio del 2015, le suore trappiste che vivono nel governatorato siriano di Homs, vicino al confine con il Libano, in un forte e coraggioso appello: «Queste misure non colpiscono affatto chi è al potere. Le sanzioni colpiscono la gente, e in modo durissimo... Niente materie prime per lavorare, niente medicinali, anche per le malattie gravi. Tutto carissimo, i prezzi degli alimenti sono arrivati a dieci volte tanto (...). Senza lavoro, in un Paese in guerra, dilagano la violenza, la delinquenza, il contrabbando, la corruzione, la speculazione, l’insicurezza. Questi, sono i frutti delle sanzioni (...). È possibile pensare di usare anni di sofferenza della gente per ottenere un risultato politico, mascherandolo poi come il bene vero della gente stessa? No, non è proprio possibile. E se non sappiamo trovare altri strumenti, allora siamo veramente indegni di chiamarci Paesi democratici». 

Oggi non è possibile far entrare legalmente in Siria carburante, olio da riscaldamento, impianti per la raffinazione del petrolio e per la produzione di gas liquido necessario alla produzione di energia elettrica. E la carenza di benzina ed energia elettrica paralizza di fatto l’agricoltura, l’industria, l’artigianato. La storia recente – dall’Iraq a Cuba – insegna che le sanzioni affamano, piagano e umiliano i popoli e non indeboliscono in maniera decisiva i governanti.
Di fronte a una situazione così tragica e paradossale, sarebbe importante se il Governo e il Parlamento italiano, senza più aspettare una decisione in sede europea, considerassero l’idea di abolire unilateralmente le sanzioni che stanno affamando quel che resta di un popolo  di profughi e di vittime di una guerra senza quartiere. 
Sì, sarebbe molto importante se l’Italia decidesse di 'rompere il fronte' con un gesto esemplare di realismo e di solidarietà capace di mettere l’Europa davanti alla responsabilità politica e morale di 'sanzionare' una iniziativa umanitaria oppure, finalmente, di capovolgere il proprio sguardo e il proprio atteggiamento al cospetto di una tragedia che alcune potenze occidentali hanno cinicamente contribuito a scatenare.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/spezziamo-embargo-siria.aspx

domenica 17 gennaio 2016

N. S. di Soufanieh di Damasco e la preghiera per l'Unità dei Cristiani


da: Piccole Note

di Pina Baglioni


Nell’inferno della guerra siriana ha trovato casa un pezzo di Paradiso.  Ormai dal 22 novembre del 1982. Precisamente a Soufanieh, un modesto quartiere a nord di Damasco, fuori dalle mura della città, presso la porta detta “di Tommaso”.
Qui, in una vecchia e umile abitazione, abita la famiglia Nazzour: Myrna, suo marito Nicolas e i loro due figli, Myriam e John-Emmanuel. E proprio nella loro casetta accadono, da trentatré anni, miracoli straordinari: una piccola icona con la cornicetta in plastica, copia dell’immagine di Nostra Signora di Kazan, veneratissima in Russia – dov’è custodita l’originale – e in tutto il mondo ortodosso, trasuda olio miracoloso che guarisce anime e corpi di ortodossi, cattolici e musulmani.
È ormai venerata in Siria e in tutto il mondo come la Madonna di Soufanieh. Nicolas Nazzour, di fede greco-ortodossa, aveva acquistato l’icona a Sofia nel 1980, che poi aveva conservato  amorevolmente su un piccolo mobile di casa, come accade per tante immagini sacre che i fedeli custodiscono nelle proprie dimore.
Una normalità che presto diventa qualcosa di straordinario: il miracolo dell’olio è solo uno dei mirabili segni di predilezione che il Signore ha accordato a questo angolo della periferia di Damasco: Myrna, la madre di famiglia, cattolica melchita, di media istruzione e di formazione religiosa elementare, è stata fatta oggetto di una serie di grazie che hanno reso la sua umile casa un santuario mariano incastonato in uno dei Paesi più martoriati del mondo.
Myrna aveva diciotto anni quando tutto ebbe inizio. E da trentatrè anni vive sempre alla stessa maniera, umilmente, ricevendo nella sua abitazione – conosciuta ormai come “la casa della Vergine Maria” – un flusso costante di fedeli provenienti da ogni dove: cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, senza distinzioni di sorta.
Da quel giorno le capita di essere invitata a raccontare quanto le accade anche in Paesi lontani, dove sono sorti gruppi di preghiera devoti alla Madonna di Soufanieh.
La vergine Maria trova casa a Soufanieh
Tutto comincia il 22 novembre del 1982, giorno in cui Myrna, sposata da poco, va a trovare, insieme con alcune amiche, sua cognata Laila, seriamente ammalata. Appena le ragazze cominciano a pregare, ecco che le sue mani si ricoprono di olio. Lo sconcerto è immaginabile. Istintivamente, le donne decidono di ungere con quell’olio il volto e le mani della malata. Che, dopo qualche giorno, guarisce.
Il 27 novembre accade dell’altro: anche dall’iconcina raffigurante Nostra Signora di Kazan conservata in casa di Myrna comincia a colare olio. Qualche giorno dopo, Myrna va dalla madre, malata anche lei. Quando cominciano a pregare, ecco che dalle mani della ragazza, esce altro olio. E la madre guarisce.
Paura, sconcerto, meraviglia. Stati d’animo opposti si affollano nelle menti e nei cuori della famiglia Nazzour. Ma non è finita: l’11 dicembre, Samir Hanna, un vicino di casa che soffre di continui attacchi di cuore, ha avuto da poco un’emorragia cerebrale che gli ha provocato una paralisi: appena lo ungono con un po’ di quell’olio, guarisce. E così accade a Ghalya Armouche la quale, paralizzata anche lei, guarisce.
A quel punto, Nicolas, il marito di Myrna, decide di informare il 
Patriarcato ortodosso. Anche perché ormai a Soufanieh s’è sparsa la voce e la gente comincia ad accalcarsi all’uscio di casa per vedere con i propri occhi quanto vi accade.
Da lì a poco si presenta in casa monsignor Boulos Pandéli, vicario patriarcale, accompagnato da due giovani sacerdoti. Tutti constatano la trasudazione di olio dall’icona e dalle mani di Myrna. E ne informano immediatamente il Patriarca, il quale ordina di far analizzare la sostanza. Cosa che accadrà tra il 1984 e il 1985, presso laboratori di Damasco, Germania, Francia e Italia. Alla fine, le analisi chimiche daranno risultato univoco: si tratta di semplice olio d’oliva.
Dopo la visita dei religiosi, si precipitano nella casa di Myrna due agenti dei servizi segreti siriani, che, avvertiti dei fatti, vogliono capire cosa stia avvenendo da quelle parti. I due esaminano accuratamente l’icona, che proprio in quel momento ricomincia a trasudare olio: la smontano, la rimontano. E alla fine, mentre se ne vanno, esclamano ad alta voce: «Dio è grande!» (“Allah Akbar”: il grido che suonerà poi come bestemmia sulla bocca dei terroristi che stanno insanguinando il Paese e il mondo).
Le apparizioni della Madonna, le stimmate e l’unità della Chiesa
Per Myrna, quanto accaduto è solo l’inizio. Nella notte del 15 dicembre dell’82, mentre se ne sta in terrazzo a riposare, vede una luce abbagliante provenire da una pianta di eucalipto vicino ad un piccolo ruscello che scorre proprio accanto alla sua casa. All’interno del globo di luce, ecco una sorta di mezzaluna blu che subito dopo scompare per lasciare spazio ad una donna bellissima che avanza verso di lei. È vestita di bianco, con una cintura blu in vita. In testa indossa un cappuccio e porta sulla spalla destra uno scialle, anche quello di colore blu. In mano tiene un rosario che sembra di cristallo. La signora dice qualcosa, ma Myrna non sente nulla: atterrita, scappa.
Quella sarà la prima di cinque apparizioni, che si protrarranno fino al 24 marzo del 1983. Myrna, intanto, si è resa conto dell’identità della donna che la viene a trovare: è la vergine Maria, che si rende visibile solo a lei. «Figli miei pensate a Dio»: sono le prime parole che Myrna riesce a sentire nel corso della seconda apparizione, il 18 dicembre 1982.
«Vi ho dato l’olio, e ve ne darò di più di quanto ne avete chiesto – aggiunge Maria – Annunciate mio Figlio, l’Emmanuele. Colui che lo annuncerà sarà salvato, colui che non lo annuncerà, la sua fede sarà vana… non sto chiedendo soldi da dare alla Chiesa. Non vi sto chiedendo di costruirmi una chiesa, ma un luogo di pellegrinaggio. Date con generosità. Non private nessuno di coloro che vi chiedono aiuto».
C’è un messaggio che la vergine ripeterà più di una volta a Myrna, sottolineato in modo particolare nell’ultima apparizione, avvenuta giovedì 24 marzo del 1983: «Il mio Dio l’ha detto: riunitevi in una sola Chiesa. La Chiesa che Gesù ha fondato è una, perché Gesù è uno. La Chiesa è il regno del cielo sulla terra. Colui che l’ha divisa ha peccato, e colui che gioisce della sua divisione, ha peccato lo stesso. Gesù la costruì: era molto piccola. E quando crebbe fu divisa. Colui che l’ha divisa non ha amore in Lui. Riunitevi. Io vi dico: pregate, pregate, pregate. Come sono belli i miei figli quando implorano inginocchiati. Non abbiate paura, io sono con voi. Non dividetevi come sono divisi i grandi. Pregate per gli abitanti del cielo e della terra».
Che l’unità della Chiesa fosse al centro dei messaggi sarà evidente in relazione a un altro segno divino che Myrna si troverà ad accogliere: le stimmate della passione di Gesù. La prima volta le vede comparire sul suo corpo venerdì 25 dicembre 1983: verso le 16 si aprono ferite sui suoi piedi, alle mani e al costato. I dolori sono lancinanti, ma non c’è effusione di sangue. Alle 23,00 le piaghe si cicatrizzano.
E come nel caso della manifestazione dell’olio, più di un medico e alcuni ufficiali dei servizi segreti vanno a vedere cosa sta succedendo. E anche stavolta non possono che constatare la buona fede di Myrna e l’autenticità di questi fenomeni. Ma c’è un aspetto stupefacente che li collega direttamente alla richiesta dell’unità della Chiesa: le stimmate compaiono esclusivamente quando la Pasqua  ortodossa coincide con la Pasqua cattolica. Accadrà infatti nell’84, nell’87, nel ’90, nel 2001. E il 20 aprile dello scorso anno.
Anche Gesù parla a Myrna
Alle apparizioni sono succedute le visioni di Gesù e della Madonna, che producono in Myrna stati di estasi, durante i quali si accascia priva di forze mentre il suo corpo trasuda olio. Estasi che possono durare cinque minuti come delle ore.
«Figli miei, pregate per la pace e soprattutto per la pace in Oriente», le dirà la Madonna durante una di queste nel giorno della festa dell’Assunzione del 1999, mentre si trova in Belgio.
A maggio del 1984, il Signore le insegna una preghiera: «Beneamato Gesù, accordami di riposarmi in Te, sopra ogni altra cosa, sopra ogni creatura, sopra tutti i tuoi angeli, sopra ogni elogio, sopra ogni gioia di esaltazione, sopra ogni gloria e dignità, sopra tutto l’esercito celeste, perché Tu solo sei l’Altissimo, Tu solo sei potente e buono al sommo grado. Vieni a me e consolami e slega le mie catene, e accordami la libertà. Perché senza di Te la mia gioia è incompleta. Senza di Te la mia tavola è vuota. Allora verrò per dire: “eccomi sono venuto perché mi hai invitato”».
E ancora, il 10 aprile 2004, Sabato santo: «Un comando per voi: tornate ciascuno a casa vostra, portate l’Oriente nei vostri cuori. Di qui una nuova luce ha brillato, voi ne siete i raggi in un mondo dove potere, lussuria e cose materiali attirano così tanto da mettere a rischio l’umanità intera. Quanto a voi, salvaguardate il vostro essere orientali. Non permettete, in Oriente, che vi sia tolta la vostra volontà, la vostra libertà, la vostra fede».
Ogni volta che Myrna vede il Signore ha bisogno di molto tempo per recuperare la vista. Come nella visione del novembre del 1984: ci vollero ben settantadue ore per riacquistarla. Numerosi test sono stati eseguiti sulla donna, soprattutto sulla vista, la sensibilità e i riflessi: esami risultati sempre negativi, come se nulla fosse accaduto.
Oggi, a Soufanieh, è rimasto tutto come quel 27 novembre del 1982 nella casa di Myrna. La gente, di ogni religione, arriva da ogni parte del mondo per implorare la Madonna e ricevere un po’ di quell’olio benedetto. Tra questi, numerosissimi sono i musulmani. Le grazie e le conversioni continuano, nonostante le tante difficoltà che tormentano la martoriata Siria.
L’unica differenza, è che la famiglia Nazzour ha dovuto fare qualche cambiamento per via di tutta la gente che si accalca senza sosta presso la loro casa. Il vecchio patio è stato ricoperto con un tetto, la terrazza rinforzata per evitare che venga giù per il peso delle persone. E nel mezzo del patio è stata messa l’iconcina della Madonna di Soufanieh che continua a donare olio, che viene costantemente raccolto in un piattino di alabastro.  «Scusateci, non accettiamo denaro», recita una scritta ben visibile posta presso l’icona.
Un testimone d’eccezione: padre René Laurentin
«Cos’è quest’olio? Probabilmente è un segno del potere divino. Ma perché avete scelto proprio me? Sono una qualunque, di scarsa istruzione. In migliaia avrebbero meritato tanto privilegio. In ogni caso, sia fatta la Tua volontà. Ti offro le mie azioni, la mia fatica, i miei dolori, la mia gioia. Ho messo tutta la mia speranza in te», sono stati questi i primi pensieri di Myrna nei giorni dei primi miracoli, come ha confidato nel 1987 a padre René Laurentin, forse la più alta autorità in materia di apparizioni mariane che la Chiesa abbia avuto in tempi recenti.
Padre Laurentin si è recato a Soufanieh nel 1982 per vedere con i propri occhi ciò di cui aveva tanto sentito parlare. Il 25 novembre si reca con Myrna, il marito e la piccola Myriam, una dei due figli della coppia, a far visita al nunzio apostolico a Damasco. E nel corso della conversazione, ecco che le mani di Myrna cominciano a coprirsi di olio, tra la meraviglia di tutti; il giorno dopo, la casa di Myrna e di Nicolas si riempie di gente.
Ma, improvvisamente, scatta un blackout, fatto abbastanza abituale in Siria. Quando la luce torna, Myrna è in uno stato di estasi: stesa sul letto, dalle sue mani scorre copiosamente olio benedetto. Ad assistere al fenomeno anche il medico della donna, Gamil Mergy, un ateo convertito grazie ai miracoli di Soufanieh, che prontamente tampona le mani di Myrna perché quella grazia di Dio non vada perduta.
Nei giorni successivi, il grande teologo avrà modo di parlare con i due coniugi e conoscerli meglio. Prima delle visite della vergine Maria e di Gesù erano entrambi fedeli normalissimi, dediti al minimo indispensabile per conservare la fede.
 Nicolas, per esempio, non andava neanche in chiesa. Alla domanda di come la loro vita fosse cambiata e quanto tempo dedicassero alla preghiera, Myrna aveva risposto: «La nostra vita è quella di sempre. È solo più vera, piena di gioia. Un po’ più faticosa, certo, vista tutta la gente che ospitiamo nella nostra casa. Poi, ci sono i tremendi dolori delle stimmate, ancora più intensi di quelli del parto. Ma li accolgo come un grande dono di Dio.
Le preghiere? «Recitiamo semplicemente il santo rosario e le preghiere ordinarie della Chiesa». Tutto semplice, come semplice è la grazia del Signore.

In Italia Claude Zerez, il siriano che scrisse a Hollande



In Italia Claude Zerez, il siriano che scrisse a Hollande

E' in Italia Claude Zerez. Nel 2012 scrisse ad Hollande: “Che si sente ad Aleppo?: Dopo la Siria, l’Europa.”
E’ in Italia il cristiano siriano Claude Zerez, padre di Pascale Zerez uccisa su un  bus pubblico di Homs il 9 ottobre 2012 da un attacco dell’ Esercito Libero Siriano, l’ opposizione armata al governo di Damasco sostenuta dall’ Occidente. Pascale aveva 20 anni ed era sposata da tre mesi. Pochi giorni dopo la tragica morte della figlia, Claude scrisse una lettera aperta ad Hollande e un appello al popolo francese che furono pubblicati da molti giornali francesi.
Claude Zerez terrà alcuni incontri in Lombardia e a Firenze su  “ La condizione dei cristiani perseguitati all’ interno del conflitto siriano”.
Il 14 ottobre 2012, pochi giorni dopo la tragica morte di Pascale, Claude Zerez scrisse una lettera aperta al Presidente della Repubblica Francese Hollande e al ministro degli Affari Esteri. La lettera fu pubblicata da molti giornali francesi.
Ai due importanti esponenti della Repubblica Francese, Claude spiegò che gli autori dell’ attacco mortale in cui aveva perso la vita sua figlia appartenevano ad un gruppo considerato parte dell’ Esercito Libero Siriano, gruppo armato sostenuto dall’ occidente e che il “..movimento porta con sé i semi di una nuova dittatura che sicuramente farà rimpiangere la precedente”.
“…Sotto lo slogan di libertà e di democrazia e di partecipazione al potere…., Lei con i suoi alleati, ha incoraggiato l’ introduzione nel nostro territorio di gruppi estremisti salafiti e altri elementi del movimento di Al Qaeda che vengono ad uccidere e ad essere uccisi qui da noi, distruggendo ciò che possono sulla loro strada; perchè dunque averceli inviati ?”
Continuava poi affermando che “in Siria la vostra politica …ha introdotto l’arbitrarietà, così si può riassumere in un altro slogan: libertà ed uguaglianza in Siria, mentre in Qatar oligarchia e privilegi…..Può essere certo che gli sconvolgimenti che viviamo noi, li verrete a vivere al più presto anche Voi.
Che cosa si sente echeggiare per le strade di Aleppo? Dopo la Siria, L’Europa.”
Invita quindi la Repubblica Francese a cessare il “ …sostegno agli elementi armati che non obbediscono a nessuna legge…”
Nello stesso giorno indirizza un appello al popolo di Francia introdotto da queste parole (traduzione del Cntro di Iniziativa per la Verità e la Giustizia, IVG)
“Colpito personalmente il 9 ottobre 2012 dalla morte di Pascale, mia figlia di 20 anni, mi rivolgo alle amate popolazioni della Francia, a nome mio ed a nome di tutti i miei fratelli e sorelle di Siria feriti dalla guerra.”
Nell’ appello al popolo francese invitava i “cari amici e fratelli” a valutare con attenzione le informazioni “ che Vi forniscono” e spiegava come il suo appello fosse una richiesta urgente di sostenere i cristiani siriani. “ Noi vogliamo continuare a vivere pacificamente con l’Islam, ma la guerra e i suoi ideatori stanno cercando di distruggere questo”. Chiede inoltre ai cristiani di Francia e a tutto il popolo francese: “…perchè l’avvio della solidarietà è così lento ? “.
Negli ultimi tempi Claude ha continuato il suo percorso di fede e perdono, che è indispensabile per una riconciliazione in Siria e in tutto il Medio Oriente. Ma porta sempre avanti anche una forte denuncia per la tragica situazione dei cristiani in tutto il Medio Oriente e chiede agli europei, soprattutto agli europei cristiani, solidarietà concreta per i credenti perseguitati.
I prossimi incontri di Claude Zerez in Italia
“La condizione dei cristiani perseguitati all’ interno del conflitto siriano”
 Testimonianza di Claude Zerez, ora rifugiato in Francia. Dal dramma dell’ uccisione della figlia Pascale ad Aleppo alla forza della fede.
-  Firenze, giovedì 21 gennaio 2016, ore 21.00
Convento della S.S. Annunziata di Firenze
Via Cesare Battisti, 6
- Bergamo, venerdì 22 gennaio 2016, ore 21.00
Casa del Giovane – Sala Nembrini
Via Gavazzeni, 13
- Voghera, sabato 23 gennaio 2016,
- Bresso (MI), domenica 24 gennaio 2016, ore 18.00
sala Ludovico Conti, c/o libreria Il Girasole
Centro Culturale Alessandro Manzoni
Via Roma, 66
Il testo integrale della lettera aperta ad Hollande lo trovate al link:
 E’ possibile leggere l’ appello al popolo francese al link:
Marco Palombo

giovedì 14 gennaio 2016

Padre Jacques Mourad ripercorre la sua esperienza: "Lui mi guardò rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…"

“La mia miracolosa  fuga dall’Isis”


Gian Micalessin

Gli Occhi della Guerra, 14 gennaio 2016

Padre Jacques Murad spezza il pane, recita il Padre Nostro in arabo, poi fissa la famiglia, gli amici riuniti intorno alla tavola imbandita. “Non speravo di sopravvivere, figuratevi rivedere Roma e i miei amici siriani. Me l’avessero detto mesi fa non ci avrei creduto”.  Padre Jacques Murad una volta era un prete. Oggi è l’incarnazione di un miracolo. Un’incarnazione ancora incredula di fronte alla propria sorte, alla propria sopravvivenza.
«Pochi sono riusciti a farsi liberare dallo Stato Islamico. Ancora meno a sfuggirgli vivi. Solo il Signore m’ha concesso entrambe le cose». Padre Jacques guarda Samaan, l’amico siriano, il confratello con moglie e figli ritrovato nella capitale italiana. Si conoscono da oltre 15 anni, da quando Samaan frequentava Mar Musa, il monastero messo in piedi da padre Jacques e padre Paolo Dall’Oglio. Così in questo pranzo a Roma  Padre Jacques dà fondo ai ricordi e alle riflessioni della prigionia. Le più travagliate riguardano Padre Dall’Oglio, l’amico comune di Jacques e Samaan, l’amico scomparso nel nulla il 29 luglio 2013, quando raggiunse Raqqa appena occupata per incontrare i capi dello Stato Islamico.   «Ci ho pensato da quando mi hanno chiuso in quel bagno di Raqqa dove sono rimasto per 83 giorni. Non una galera con altri prigionieri, ma un semplice bagno, dove incontravo solo i miei carcerieri. La mia impressione è che nessuno, oltre a loro, dovesse sapere di me. Per questo mi sono convinto che Dall’Oglio possa essere ancora vivo. Che per qualche imperscrutabile ragione, chiara solo a chi dirige quel mostro chiamato Daesh, Paolo sia un asso nella manica da tirare fuori al momento opportuno».
Prende fiato, si spiega meglio. «Dentro Daesh nulla succede per caso. Al Baghdadi, o chi per lui, decide anche il più banale dettaglio. E nessuno piglia iniziative senza sue disposizioni. Padre Dall’Oglio non può esser stato ucciso senza un suo ordine. E soprattutto senza un motivo. L’avessero ammazzato ne avrebbero spiegato la ragione. Lo fanno sempre. Io in Siria non sono un personaggio chiave, ma ogni fase del mio rapimento dalla preparazione al rilascio, è stata approvata ai massimi livelli. E per ragioni ben precise. Quando mi hanno preso il 21 maggio sapevano già a cosa gli servivo. Mi sorvegliavano da settimane, erano pronti a conquistare il villaggio. Dovevano solo eliminare chi come me parlava con i musulmani, chi mediava e impediva allo Stato Islamico di conquistarsi il consenso. Gli amici musulmani me l’avevano detto: Daesh è già dentro, vattene finché sei in tempo. Ma io non potevo abbandonare. Quando mi hanno rapito non è stata una sorpresa. La vera sorpresa a Raqqa è stato l’incontro con lo sceicco saudita che m’interrogava. Era gentile, beneducato. Spiegava con un sorriso le cose più terribili. Mi ordinò di convertirmi. Io dissi: Mai. Lui mi guardo rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…. Lo so bene, ma non mi convertirò mai. Lui sorrise. In fondo – disse – la capisco». 
Da quel momento padre Jacques è confuso. «Pensavo a quando mi avrebbero decapitato, ma capivo anche di non essere un semplice prigioniero. Ero una pedina in un gioco più grande di me e di chi m’interrogava. Ero uno strumento per l’occasione più opportuna». L’occasione arriva ad agosto, subito dopo la caduta di Qaryatayn e di 250 cristiani, nelle mani di Daesh. Padre Jacques non sa quel che succede, ma intuisce che per lui qualcosa sta cambiando. Ricorda la visita di un iracheno incappucciato che parla a nome di Al Baghdadi.
«Il Califfo ha considerato il suo caso e quello dei 250 cristiani catturati nel suo villaggio e ha deciso in base a quattro possibilità. Può farvi tutti schiavi, uccidere gli uomini e tenere schiave le donne, oppure farvi scegliere tra conversione e decapitazione. Ma la quarta possibilità, quella scelta dal Califfo, è di farvi dono della vita. In cambio dovrete pagare la jizya, la tassa che consente ai cristiani di vivere nelle terre del Califfato».   Così dopo tre mesi di prigionia a Raqqa, padre Jacques si ritrova scortato dai miliziani jihadisti in viaggio verso Qaryatayn
«Appena arrivati mi hanno portato dai miei fedeli. Ero felice, ma al tempo stesso ho capito perché mi avevano lasciato in vita. Mi avevano preso, tenuto vivo e riportato al villaggio per piegare non solo il Qaryatayn, ma tutti i cristiani di Siria alle loro regole». La consapevolezza di essere uno strumento nelle mani dei propri carcerieri diventa ancor più dolorosa quando Padre Jacques tenta inutilmente di fermare il ratto di alcune ragazze cristiane, strappate alle famiglie per venir date in sposa ai militanti di Daesh.
«In quel momento tutto mi diventa chiaro. Capisco che restando lì diventerei la giustificazione vivente delle loro nefandezze. Per questo comincio a pianificare la mia fuga e quella dei miei confratelli. La mia fortuna sono i miei vecchi amici musulmani e quelli beduini. Un musulmano viene a prendermi in moto e mi porta fuori travestito dal villaggio. Poi nei giorni successivi i beduini nascondono sui loro carri e sui camion più di duecento cristiani». Sono loro, i musulmani e i beduini, a portarli fuori dal villaggio, a farli passare sotto gli occhi dei miliziani e dei check point.  «Oggi in quel villaggio non ci sono più cristiani.  Sono tutti salvi.  Il vero miracolo del Signore non è stata la mia salvezza, ma quella di tutti i miei confratelli»

martedì 12 gennaio 2016

Arabia Saudita, perché il gigante è malato


AVVENIRE, 10 gennaio 2016
di Giorgio Ferrari

Da quando nel 1938 il pozzo Dammam numero 7 cominciò a pompare petrolio, l’Arabia dominata dalla famiglia Saud si trovò a possedere la più grande riserva mondiale di petrolio e una delle più vaste di gas naturale: sotto la sabbia del deserto, sotto le fondamenta dei faraonici palazzi del potere di Riad si nascondono riserve di greggio per almeno 267 miliardi di barili, solo recentemente superate nelle stime dai 297 miliardi del Venezuela. In realtà il petrolio, che rappresenta tuttora il 95% delle esportazioni e il 70% delle entrate del regno, si annida principalmente nella provincia orientale di Al-Sharqiyya, da cui si ricava quasi l’80% del greggio saudita. Un greggio a buonissimo mercato, visto che produrlo costa solo 2 dollari al barile. Cuore della provincia è la città di al-Qatif, il più grande crocevia di oleodotti del mondo, a due passi da Dhahran – sede della Aramco, la compagnia petrolifera nazionale – e dall’immenso terminal petrolifero di Ras Tanura.

Da qui parte ogni giorno per il mondo l’oro nero saudita. È importante porre l’attenzione su questo spicchio del regno di re Salman: i suoi quattro milioni di abitanti sono in prevalenza sciiti, come sciita di al-Qatif era l’imam Nimr al-Nimr, decapitato qualche giorno fa. Al-Nimr, considerato il meno radicale fra gli sciiti sauditi, aveva capeggiato le proteste del 2011, l’anno delle primavere arabe e della rivolta nel Bahrein, ma per Riad era soprattutto un leader ritenuto pericoloso per l’unità territoriale del regno: «Tutto quel petrolio, quel gas naturale, quella ricchezza, insomma su cui vive e prospera da decenni l’Arabia Saudita – dice Mansour Alnoigadan, direttore del Centro studi e ricerche al-Mesbar di Dubai – sta sotto le scarpe di una minoranza sciita. Una minoranza che comincia a far paura, perché tutti sanno che negli appetiti di Teheran c’è proprio la zona petrolifera delle province orientali. Chi avesse in mano quella, avrebbe in mano il mondo ». Ed è esorcizzando questo timore che Riad soffia sul settarismo sciita provocando la reazione di Teheran.

«A dangerous sectarian game» , un gioco settario pericoloso, come ha scritto il New York Times, ma è l’unico gioco che in questo momento l’Arabia Saudita, gigante malato del tormentato scacchiere mediorientale, è in grado di condurre. Perché quella che in questi giorni di altissima tensione fra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita culla dell’ortodossia sunnita appare come la fiammata estrema di una guerra di religione non è forse altro che una guerra combattuta con l’arma del petrolio. La coltre della diaspora millenaria fra le due anime dell’islam non basta infatti a celare il nocciolo duro dei veri interessi che da un anno a questa parte agitano i sonni dell’ottantenne Salman bin Abd al-Aziz Al Saud, salito sul trono esattamente un anno fa. Un anno vissuto pericolosamente e altrettanto pericolosamente scarno di successi: a picco le relazioni con lo storico alleato americano, in difficoltà nelle campagne militari contro gli Houti nello Yemen e contro gli sciiti hezbollah in Siria, e soprattutto con un’economia messa a dura prova dal crollo dei prezzi del petrolio, tanto da aver costretto il sovrano a tagliare sussidi, a imporre tasse e imposte un tempo sconosciute e a una stretta di cinghia assolutamente inedita nell’Arabia Felix.

Ma è soprattutto con il petrolio che Riad ha giocato duro, producendone in eccesso nonostante la contrarietà, le suppliche e perfino le minacce degli altri membri dell’Opec, tanto da far crollare le quotazioni fino a far giungere il barile sotto la soglia dei 30 dollari con un danno complessivo per i 13 Paesi del cartello attorno ai 500 miliardi di dollari e un previsto decremento del Pil nei prossimi due anni di 10 punti per l’Oman, 5 per gli Emirati e il Qatar e una cifra incalcolabile per il Venezuela. Il che non ha certo aumentato la simpatia dei produttori di petrolio per l’ingombrante leader saudita. In realtà però l’uso dell’arma del greggio aveva un duplice disegno. All’origine sembrava avere un scopo puramente commerciale: rendere troppo onerosa l’estrazione di shale gas, il gas di scisto argilloso di cui gli americani hanno incrementato la produzione raggiungendo così una sostanziale indipendenza energetica. Sul piano della concorrenza Riad si sentiva al sicuro: dei loro oltre 150 miliardi di barili di riserve gli iraniani potevano fare ben poco, dal momento che le sanzioni del 2012 gli impedivano di esportare greggio. Ma con gli accordi di Vienna fra Teheran e Washington sul nucleare e la revoca delle sanzioni l’Iran rischia di ritornare ad essere il peggior competitor di Riad, essendo di nuovo in grado di produrre 3–4 milioni di barili al giorno esportandone 2,5 milioni e il fatto non è più soltanto commerciale ma anche e soprattutto politico.

Ritorniamo dunque all’Arabia Saudita. La prova muscolare sul mercato del greggio, le guerre maldestre in Siria e Yemen, le esecuzioni capitali in massa non valgono a nascondere – come dice Bernard-Henri Lévy in un editoriale su Le Point – «un regime instaurato da un secolo ma che tutti gli osservatori sono concordi nel definire corrotto, guasto, in declino, sempre più evidentemente inadeguato ad assicurare la propria durata nel tempo». Il grande malato, insomma. Dal quale si comincia a prendere le distanze. E le contromisure.

http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/Arabia-Saudita-gigante-malato-.aspx