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lunedì 7 settembre 2015

A due anni dalla Giornata di Preghiera per la Siria ... Fermiamo questa guerra!


Benvenuti rifugiati siriani. Ma è ora di fermare i tagliagole dell'ISIS


Dopo che ci siamo entusiasmati per le automobili in colonna sulle autostrade europee, abbiamo pubblicato sui social network l’immagine del piccolo Aylan, abbiamo cantato l’Inno alla gioia ai siriani in arrivo nella stazione di Monaco, è ora che tiriamo qualche riga. Perché i profughi mediorientali  non sono sbucati dal nulla: arrivano dai paesi dove imperversano i tagliagole dell’Isis. 
La verità che pochi vogliono sentirsi dire l’ha pronunciata davanti alle telecamere  un ragazzino siriano di tredici anni, Kinan Masalmeh, rifugiato nella stazione di Budapest: «Fermate la guerra in Siria, per favore. Fermatela adesso e noi non verremo in Europa».  
È ciò che ripete ormai da qualche anno qualsiasi vescovo o prete di parrocchia siriano o iracheno. Sono tutti guerrafondai? No, ma hanno a che fare con l’Isis tutti giorni. E quel che chiedono è un aiuto vero e intelligente, diverso da quello messo in campo dall’Occidente con le sanzioni o da Barack Obama che col suo sostegno ai “ribelli moderati” (ipocrita eufemismo) ha finito per aggravare la situazione. 
Come ha detto il patriarca cattolico greco-melkita Gregorio III Laham: «Ai governi occidentali dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace. Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza».

      Tempi, 7 settembre 2015


venerdì 4 settembre 2015

Gregorio III Laham: "Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza. Mai più la guerra”.


Asianews , 04-09-15
“Tutto il mondo ha visto la foto del bambino curdo siriano” morto sulle spiagge della città turca di Bodrum, e “a questo proposito voglio lanciare un appello: per evitare simili tragedie il punto è fare la pace, garantire la salvezza e il futuro del Medio oriente”. 
È un appello accorato e lucido quello che il Patriarca melchita Gregorio III Laham consegna ad AsiaNews, mentre il mondo guarda ancora con dolore e commozione alla foto del piccolo Aylan, simbolo di questo terribile conflitto che da quattro anni insanguina il Paese.
Ai governi occidentali e all’Europa, prosegue, “dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma è fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’Occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace… Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza. Mai più la guerra”.

In questi giorni il patriarca melchita ha inviato una lettera ai giovani cristiani, chiedendo loro di fermare lo “tsunami” dell’emigrazione, che rischia di svuotare il Paese della presenza cristiana. Una ondata migratoria che investe la Siria, come il Libano e l’Iraq e che la guerra e le violenze dei movimenti jihadisti - fra cui lo Stato islamico - hanno contribuito ad accelerare. 
Secondo le ultime informazioni, dal 2011 almeno 450mila degli 1,7 milioni di cristiani siriani hanno abbandonato le loro zone di origine. Ora vivono all’estero o sono considerati rifugiati interni al loro stesso Paese. Nel vicino Iraq la popolazione è scesa da un milione a meno di 300mila nell’ultimo decennio, e continua a scendere. 

Ad AsiaNews il patriarca melchita racconta di aver scritto la lettera per dire ai giovani siriani “che siamo interessati a loro, siamo interessati alla loro fede, alla loro vita, alla loro educazione, alle loro tradizioni e al loro futuro”. “Noi vogliamo che rimangano - aggiunge - e prenderci cura di loro, ma al tempo stesso vogliamo star loro vicino anche se decidono di andarsene. E fondare nuove parrocchie nei luoghi della diaspora, dove questi giovani trovano rifugio”. 
Gregorio III Laham parla di “pena spirituale e affetto” verso le nuove generazioni, il futuro della Chiesa perché “una Chiesa senza gioventù non è viva”. Egli chiarisce che “non vogliamo proibire loro di andare via, ma diciamo anche di avere pazienza e fiducia, e se partite noi vi siamo vicini”. 
I terroristi distruggono ogni germoglio della società civile, partendo dalle scuole e dagli istituti educativi. “Solo qui, in Siria - conferma il patriarca - sono state distrutte almeno 20mila scuole. E senza istruzione, questi bambini la cui infanzia è stata negata saranno i futuri terroristi, i nuovi membri di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico]… Questo è il dramma più grande”. Per questo la sfida di noi cristiani, avverte, è quella di “continuare a essere presenti nella regione, anche se il cristianesimo è un bersaglio, per proseguire l’opera di dialogo con i musulmani. Senza i cristiani ci sarebbe un vero e proprio shock di civiltà”. 

Per garantire la vita e il futuro della comunità, la Chiesa siriana si è attivata per sostenere piccole iniziative con la modalità del microcredito. Vi sono a disposizione circa 50mila dollari, che vengono suddivisi in piccole somme a sostegno di progetti mirati. “Realizzare candele, preparare il cibo in casa, costruire un forno per la produzione di pane - conclude il patriarca melchita - sono alcune fra le varie proposte. E poi vogliamo aiutare le famiglie che tornano nei villaggi un tempo distrutti e ora in pace, dando loro almeno una stanza in cui ricominciare a vivere, riprendere a poco a poco il percorso dove era stato interrotto”. 


tweet da @Pontifex: “La guerra è madre di tutte le povertà, una grande predatrice di vite e di anime”


Il piccolo siriano alla polizia ungherese:
 "Fermate la guerra adesso. Semplicemente fermate la guerra. Solo questo"

martedì 1 settembre 2015

Culla del Cristianesimo culla del martirio

Intervista a mons. Georges Noradounguian Dankaye : 
Obiettivo (purtroppo) raggiunto 



RADICI CRISTIANE N°105 - GIUGNO 2015
Secondo mons. Georges Noradounguian Dankaye, rettore del Pontificio Collegio Armeno di Roma, il vero obiettivo della guerra in Siria è già stato conseguito: mandare in frantumi l’equilibrio qui un tempo maturato che spingeva cristiani e musulmani a collaborare. Il proposito di eliminare Assad ha piegato il Paese agli interessi della comunità internazionale. Ma frustrare il più debole può renderlo Caino…


Al quarto anno di guerra in Siria il Paese è ormai allo stremo, senza una prospettiva concreta di pace per il futuro e con il rischio di veder scomparire per sempre l’importante comunità cristiana, da secoli presente sul territorio. Quale scenario e quali dolori devono affrontare i fedeli? Ne abbiamo parlato con mons. Georges Dankaye Noradounguian, Rettore del Pontificio Collegio Armeno di Roma ed Amministratore Apostolico dell’Esarcato Patriarcale armeno cattolico di Gerusalemme ed Amman.


Ci può descrivere l’attuale situazione in Siria ed in particolare della Chiesa Cattolica in Siria?
Le dichiarazioni del Papa sul genocidio armeno hanno provocato un accanimento dei bombardamenti nelle zone a maggior presenza armena, quasi si trattasse di una rappresaglia alle parole del Pontefice. La Chiesa Cattolica ha sempre incoraggiato la popolazione a pazientare ed a resistere nella speranza di una conclusione veloce del conflitto, purtroppo invece si è arrivati ad un punto in cui anche il clero comprende ed accetta il desiderio di molti di andare lontano da questa terra martoriata; una scelta dolorosa con l’auspicio di trovare un luogo di pace e di libertà. Certamente la guerra ha sempre le sue conseguenze, ma in Siria tali conseguenze hanno avuto un effetto maggiore. La Siria negli ultimi decenni ha avuto una certa stabilità economica, politica e finanziaria e si è distinta da altri Paesi per il livello di istruzione offerta ed i servizi nel campo della sanità. Con la guerra tutto ciò è svanito determinando una situazione tragica più di quanto si possa immaginare. I motivi che hanno scatenato la guerra sono essenzialmente politici, è una guerra nella guerra, ma quella più falsa è quella mediatica. All’inizio si è fatto credere nel bisogno di libertà e democrazia del popolo siriano e mi chiedo come si possa concepire un intervento di circa 80 Nazioni per liberare un popolo dal suo dittatore, laddove vi sono Paesi al mondo con dittatori ben più feroci di Assad e le cui genti sono ben più oppresse, per i quali però la comunità internazionale non riesce a coordinare due Stati per organizzare un intervento. Per quanto riguarda le minoranze poi, gli effetti della guerra sono uguali per tutti coloro che condividono la sorte del dolore, ancor più accentuati dalla disgregazione di famiglie, separate o spezzate nei loro legami affettivi.

Secondo Lei, come dovrebbe agire la comunità internazionale?
La comunità internazionale ha sbagliato i suoi calcoli a livello geopolitico e solo adesso lo sta ammettendo in maniera discreta, anche se il silenzio della comunità internazionale è complice per quanto sta accadendo in Siria così come in Egitto, Libia ed altri Paesi. Innanzi tutto, sarebbe necessario fermare l’afflusso di combattenti provenienti da altri Stati, che non c’entrano nulla con la Siria; la politica non ha una religione, ma ha i suoi interessi, vi sono Nazioni, che inviano combattenti per sostenere le proprie motivazioni. I Paesi del Golfo non si esprimono mai ma ritengono di essere esportatori di democrazia, anche se al loro interno vi sono evidenti limitazioni, ad esempio per quanto concerne i diritti delle donne.

Non sarebbe stato più opportuno, per aiutare la popolazione siriana, favorire le purtroppo poche organizzazioni o i tanti istituti missionari da sempre presenti sul posto, anche ad Aleppo, impegnati a distribuire aiuti in modo competente e imparziale alla popolazione?
La cosa migliore sarebbe stata certamente quella di evitare la guerra: è uno scandalo prima vender le armi e poi pensare di inviare aiuti umanitari. Il popolo siriano non aveva bisogno di aiuto, ma si è dovuto sottomettere agli interessi della politica internazionale. Se fosse stato speso per esso solo il 20% di quanto investito in armi, lo si sarebbe potuto aiutare a fare passi da gigante in molti campi, compiendo notevoli passi in avanti. Ma questo, evidentemente, alla politica internazionale non interessava…

Come in Libia, anche in Siria, le potenze occidentali hanno sostenuto le cause dei cosiddetti ribelli con il risultato di generare un caos politico e sociale. Quale soluzione potrebbe portare finalmente ad un cessate il fuoco e ad un minimo di stabilità?
Gli obiettivi di questa guerra sono già stati raggiunti, la laicità siriana è andata a pezzi e ci vorranno decenni per riportare la situazione ad un livello di normalità, in grado cioè di porre un cristiano ed un musulmano sullo stesso livello. Quello che mi domando è: è mai possibile punire una Nazione per un’antipatia verso una sola persona?

Ritiene verosimile la possibilità della definitiva scomparsa dei cristiani dalla Siria e dall’Iraq?
Se la guerra continuerà, certamente non rimarranno molti cristiani, anche se bisogna distinguere fra giovani e anziani: i primi sono demotivati e dunque più facilmente disposti ad andare altrove, mentre i secondi sono ormai legati affettivamente e troverebbero difficile l’idea di spostarsi in un altro Paese.
La comunità cristiana è molto attiva, ma dover ricominciare da zero dopo ogni guerra ha determinato una frustrazione che li ha spinti ad emigrare all’estero. La Chiesa continua la sua opera ove possibile ossia lì ove il governo garantisca il proprio controllo.

Cosa pensa dei giovani provenienti dall’Europa, che si arruolano nell’ISIS ? 
 Purtroppo anche noi, come comunità internazionale, ci siamo lasciati sopraffare dalla nostra presunzione di onnipotenza, lamentandoci della dittatura degli altri senza vedere quella che noi cerchiamo di imporre con le nostre risorse finanziarie. Frustrare il più debole, frustrare una popolazione per molti anni, un giorno potrebbe risvegliare il Caino che ha in sé e spingerla a compiere del male inimmaginabile. Tanti kamikaze sono nati per questo motivo e sono disposti in un certo senso a compiere, dal loro punto di vista, un martirio per vendicarsi della frustrazione subita per tutto questo tempo. 

domenica 30 agosto 2015

Neppure la Madonna è al sicuro a Damasco

Rinviato il pellegrinaggio della Madonna di Fatima in Siria



Il Sismografo- Luis Badilla

Il rettore del Santuario di Fatima ha annunciato che il pellegrinaggio della statua della Madonna di Fatima in Siria, in programma per settembre, è stato rinviato per motivi di sicurezza.
P. Carlos Cabecinhas ha spiegato in un comunicato stampa di aver ricevuto dal Patriarca Gregorio III Laham un messaggio nel quale afferma che a causa di una situazione a Damasco, che si è molto aggravata negli ultimi giorni, "di non ritenere appropriato che abbia luogo la visita di Nostra Signora di Fatima alla diocesi in questo momento". Gregorio III Laham, chiede infine il rinvio a una data successiva "più favorevole". 


P. Carlos Cabecinhas conclude il suo comunicato annunciando che la visita prevista a Damasco dal 7 al 9 settembre sarà quindi rinviata come auspicato dal Patriarca  di Antiochia, di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme dei Melchiti.


L'obbiettivo della visita che era stata annunciata il 12 agosto scorso era di manifestare solidarietà e vicinanza ai cristiani in Medio Oriente, uccisi o costretti a fuggire dai militanti del così detto Stato Islamico.
Il vescovo di Leiria-Fatima, mons. António Augusto dos Santos Marto aveva dichiarato che “in questo modo  – vogliamo rispondere all’appello dei vescovi della regione mediorientale, testimoni dello sterminio dei cristiani di fronte all’indifferenza della comunità internazionale”. Ricordando i numerosi appelli lanciati anche da Papa Francesco contro la persecuzione dei cristiani in Iraq ed in Siria, mons. dos Santos Marto aveva invitato a non dimenticare le vittime “dell’intolleranza e del fondamentalismo”. 

“La Siria vive un dramma che reclama una solidarietà urgente, concreta, efficace a livello internazionale”.

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/08/portogallo-rinviato-il-pellegrinaggio.html#more

http://www.agencia.ecclesia.pt/noticias/nacional/fatima-visita-da-imagem-peregrina-a-siria-foi-adiada/

venerdì 28 agosto 2015

Se non si fermano le guerre non si fermano neppure i rifugiati.

Sono tanti i cristiani siriani che trovano la morte nel Mediterraneo


Aiuto alla Chiesa che Soffre, 28 agosto 2015

«Molti cristiani hanno cercato un futuro migliore in Europa attraversando il Mar Mediterraneo. Alcuni ce l’hanno fatta, altri hanno trovato la morte in mare. Ma la disperazione continua a spingere i nostri fratelli nella fede a far salire i propri figli su quei barconi».

Al telefono da Damasco, Samaan Daoud racconta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre il dramma dei tanti cristiani di Siria che in oltre quattro anni di crisi sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese, soprattutto a causa della loro fede. Secondo quanto riferito ad Aiuto alla Chiesa che Soffre dall’agenzia Habeshia, tra i tanti profughi che approdano sulle coste italiane, i siriani rappresentano il gruppo maggiormente numeroso. E tra loro è alto il numero di cristiani. La stessa agenzia ha rivelato come negli ultimi anni, la percentuale dei cristiani tra i naufraghi che giungono sulle nostre coste sarebbe aumentata di circa il 30%.

 «Almeno tre volte a settimana un pullman parte da Duelha e Tabbale, due dei principali quartieri cristiani di Damasco, con a bordo venti o trenta ragazzi giovanissimi in cerca di un futuro migliore. Un mio amico ha da poco fatto partire suo figlio, di appena 16 anni». Il viaggio costa almeno 2500 dollari. Dalla capitale siriana si arriva a Beirut, da dove i profughi si imbarcano per raggiungere la Turchia e poi l’Europa. «Chi può permettersi di pagare di più, può viaggiare in navi sicure. Gli altri devono rischiare la vita sui gommoni».

In questi anni, molte famiglie siriane hanno trovato la morte in mare. Un cristiano è naufragato appena due settimane fa assieme alla sua famiglia al largo delle coste turche. L’uomo è stato seppellito in Turchia, mentre i corpi della moglie e dei suoi due figli non sono mai stati ritrovati. «Lo conoscevo bene, viveva nel mio quartiere e frequentava la parrocchia delle suore del Buon Pastore non lontano da casa mia». Altre famiglie cristiane provenienti dal Nord della Siria sono morte nel Mediterraneo qualche mese fa.
«Sono tutti volti a noi cari e conosciuti, come un mio amico farmacista che un anno e mezzo fa è stato accoltellato su un barcone e poi gettato in mare».

Nonostante le molte tragedie, la tragica situazione siriana spinge sempre più cristiani a cercare un futuro migliore all’estero. «Un mio amico ha messo in vendita la sua casa per ottenere il denaro necessario a partire. Come lui molti altri che quasi sicuramente non torneranno più in Siria. E questo è il grande pericolo che affrontiamo tutti noi cristiani d’Oriente».



 di Patrizio Ricci

Sono le notizie più diffuse quotidianamente: quelle sui migranti. Come sempre, ci descrivono tutti i particolari. Cosa indossano, in quanti arrivano, le loro condizioni, i salvataggi in mare. Ci tengono aggiornati delle drammatiche morti durante il tragitto. Ci raccontano le sofferenze, gli abusi subiti, le vessazioni e le percosse durante il viaggio… Ci parlano con disprezzo del governo ungherese che innalza muri, ed esaltano il nostro governo che invece – dicono –  è il migliore. Dicono che il trattato di Dublino va corretto e che gli altri paesi se ne lavano le mani.
Il messaggio si sussegue continuamente durante la giornata sui nostri schermi televisivi, viene ripetuto incessantemente. Lo ha detto l’on Boldrini, lo dicono tutti: «La Ue non sia indifferente, salvare vite è la priorità».  Dichiarazione sacrosanta. Ma solo apparentemente. Sì, perchè noi, proprio noi, europei, italiani, siamo causa del problema.  Ed è scomodo dirlo, perciò un’informazione omologata, cassa di risonanza del potere non può farlo.  Cosicchè nei bollettini di morte e nelle discussioni parlare delle cause di questo sconvolgimento non ha diritto di asilo.
Non ci dicono da cosa fuggono.  La ‘svista’ è troppo clamorosa per pensare che sia casuale e non premeditata. La risposta ci coinvolge come responsabilità di quel male. La principale causa dell’esodo in corso è il caos e la miseria che gli USA e l’Europa hanno portato con la guerra in Libia, Siria, Iraq, Yemen, Somalia.
Qualche accenno in verità c’è, ogni tanto, da parte di qualche politico che ammette laconicamente: ‘è stato un errore la guerra di Libia’ e ‘ si deve trovare una soluzione alla crisi siriana’.  Ma è evidente che è ipocrisia allo stato puro, indegna per un paese (che si dice) libero, democratico, civile.
L’Italia sta ancora contribuendo ad alimentare direttamente o indirettamente  quelle guerre con le sanzioni che affamano il popolo siriano cosicchè alle sofferenze subite da ISIS e fratellanza varia , si aggiungono quelle inflitte dall’occidente.
Per l’Italia i terroristi sono ancora  ‘gli unici rappresentanti del popolo siriano’.  La sua posizione è immutata nonostante la realtà sia cambiata velocemente. Ed allora con una mano si salvano i profughi e con l’altra si creano le condizioni degli esodi di massa dei popoli.

Erano “siriani” i migranti morti asfissiati nel camion in Austria


Il problema sono le guerre che assediano l’Europa non i profughi. Se non si fermano le guerre non si fermano neppure i rifugiati. Le migrazioni da fenomeno di natura essenzialmente economica e sociale sono diventate qualche cosa d’altro, il risvolto inevitabile di questioni irrisolte e che si sono aggravate: dalla Siria all’Iraq e alla Libia, dallo Yemen all’Afghanistan, dal fallimento di Stati come la Somalia a dittature africane come quella in Eritrea.....
Alberto Negri, ilsole24ore:    http://www.siriapax.org/?p=20118

mercoledì 26 agosto 2015

Colpi di mortaio su due chiese di Damasco. Aleppo allo stremo.

L'Arcivescovo maronita: la nostra vita è come una roulette russa


Agenzia Fides 26/8/2015


Nella giornata di domenica 23 agosto, una pioggia di colpi di mortaio provenienti dalle aree in mano alle milizie anti-Assad è caduta nell'area della città di Damasco dove si trova la chiesa maronita. Lo riferisce l'Arcivescovo maronita Samir Nassar, in un appello-comunicato pervenuto all'Agenzia Fides, specificando che i colpi d'artiglieria hanno provocato la morte di nove civili e il ferimento di quasi cinquanta persone, oltre a danneggiare la sua chiesa e una vicina parrocchia cattolica di rito latino. 
"Fa parte della guerra di Siria” aggiunge l'Arcivescovo Nassar nel suo appello “il fatto di vivere sotto bombardamenti indiscriminati, come in una sorta di roulette russa, che è sempre imprevedibile... Di coloro che sono morti” aggiunge l'Arcivescovo, con considerazioni amare “i sopravvissuti dicono: 'Almeno non dovrete più vedere e vivere questa crudele tragedia senza fine. Non vedrete i vostri figli, i vostri amici e i vostri vicini soffrire e morire per la violenza cieca e il fanatismo sanguinario, incapaci di salvarli o di aiutarli, senza capire perché'. I sopravvissuti seppelliscono i morti, senza aver potuto curare i feriti, dal momento che mancano gli strumenti e le competenze necessarie. Essi si immergono in silenziosa preghiera davanti alle reliquie dei martiri, che sono i semi della fede”.

http://www.fides.org/it/news/58241-ASIA_SIRIA_Colpi_di_mortaio_su_due_chiese_di_Damasco_L_Arcivescovo_maronita_la_nostra_vita_e_come_una_roulette_russa#.Vd4rL_ntmko




Padre Alsabagh (Aleppo): vi racconto 

come si vive con i terroristi alle porte


La mancanza di elettricità, gli uomini mutilati, le case distrutte, la gente che vive per strada, i giovani senza un futuro. E soprattutto una città rimasta senz’acqua per un mese e mezzo in un luogo dove d’estate le temperature raggiungono i 50 gradi. Padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, francescano e da nove mesi parroco della comunità latina ad Aleppo in Siria, racconta la dura realtà quotidiana che sta vivendo. Fatta di bombe che piovono dal cielo, ma anche di studenti che si presentano in parrocchia per chiedergli una stanza dove studiare, perché anche se c’è la guerra non vogliono rinunciare a dare gli esami all’università. Oggi, sabato 22 agosto, padre Alsabagh interverrà al Meeting di Rimini, dove porterà la sua testimonianza nel corso dell’incontro “Una ragione per vivere e per morire: martiri di oggi”.

Il Sussidiario, 23 agosto
Perché ha accettato una missione così difficile come quella ad Aleppo?
Prima di essere chiamato vivevo a Roma. Ho accettato perché dietro l’amico che ha bisogno c’è il Signore. Ciò che mi è chiesto è il servizio a un popolo sofferente, e nei momenti più bui e difficili della storia bisogna intensificare il proprio lavoro. Appena ho saputo delle difficoltà e dei bisogni della gente di Aleppo, non ho potuto fare altro che dire: “Eccomi, sono pronto per andare all’istante”.
Che esperienza si vive a essere catapultati da Roma a una zona di guerra?
Ciò cui purtroppo assisto ogni giorno è che la guerra deruba l’uomo della sua dignità. E’ ciò che mi addolora di più, in quanto l’uomo diventa sempre più sofferente e miserabile. Giovanni Paolo II diceva: “La guerra è il male più grande che l’uomo e il mondo abbiano conosciuto”. E’ ciò cui assistiamo ogni giorno ad Aleppo.
Tra i tanti drammi cui assiste quale è più doloroso?
Ultimamente lottiamo ogni giorno con la piaga della mancanza dell’acqua, in una città dove ieri la temperatura è arrivata a 50 gradi. Da un mese e mezzo ad Aleppo manca l’acqua corrente, e si assiste a scene strazianti come l’anziana di 90 anni che ogni mattina viene a rifornirsi al nostro pozzo con un grande secchio. In questo periodo quando al mattino aprivo gli occhi nella mia mente c’era una sola parola: “acqua”.
I cristiani di Aleppo subiscono anche violenze e minacce?
Nelle aree sotto la protezione dell’esercito di Assad esiste piena libertà di culto. Viviamo però nella paura terribile delle bombe che arrivano anche per strada e sopra agli edifici civili. E’ la principale minaccia alla nostra presenza, anche perché i siriani preferirebbero buttarsi a mare piuttosto che continuare a vivere così. Le bombe sono “regali di morte” che arrivano dal cielo e che distruggono tutto, lanciati intenzionalmente contro le zone abitate per terrorizzare la gente e farla evacuare.
Le è capitato anche di assistere a segni di speranza?
Quest’inverno ad Aleppo c’era molto freddo e mancava l’elettricità. Siccome è una città quasi desertica infatti c’è una forte escursione termica. Un giorno mi arriva un giovane e mi dice: “Padre, forse lei ha un angolo nella chiesa dove posso studiare al riparo dal freddo”. Per me le parole di quel giovane sono state come un’illuminazione divina. Subito mi sono deciso a fare qualcosa per lui e per le altre centinaia di studenti che stavano preparando gli esami universitari. Abbiamo attrezzato una sala parrocchiale con i banchi e le sedie e messo una stufa a gasolio. Con sorpresa, il giorno dopo sono arrivati fino a 100 ragazzi per studiare.
L’Isis ha distrutto il monastero di Mar Elian. E’ un segno di quello che accadrà ai cristiani se i fondamentalisti si diffonderanno?
Lo abbiamo visto nella distruzione di tantissime chiese, luoghi di culto anche musulmani e centri artistici. Parliamo di Maaloula ma anche di Palmira, di una cultura antica 5mila anni che purtroppo il fondamentalismo non risparmia. Distruggendo questi luoghi simbolo i terroristi intendono mandarci un messaggio: “Dovunque arriveremo, faremo tornare il mondo allo stato primitivo”. E’ questo il pericolo che corriamo, un pericolo che ogni giorno diventa sempre più imminente. I gruppi jihadisti ad Aleppo sono molto vicini a dove ci troviamo. La nostra paura è che entrino dove siamo noi, perché in quel caso ucciderebbero o rapirebbero centinaia di persone.
Tutto era iniziato con un anelito di libertà e si è arrivati alla violenza. Secondo lei perché?
Tanti sacerdoti sono stati i primi a dire che in Siria c’era bisogno di un vero rinnovamento. La Chiesa però ha sempre insistito sulla necessità di un cambiamento pacifico. Purtroppo queste parole non sono state accettate perché qualcuno voleva fare piazza pulita. Il vero motivo dietro alla Primavera araba era la volontà di distruggere un Paese. L’arrivo di tanti stranieri a combattere animati da un pensiero fondamentalista ha reso impossibile qualsiasi riconciliazione e cambiamento pacifico.

lunedì 24 agosto 2015

L'archeologo Buccellati: "Daesh distrugge perchè i valori rappresentati nel passato sono le radici del presente. Ma non esiste una volontà effettiva di bloccare il Califfato"

ISIS ha distrutto a Palmyra il tempio di Baal


S.I.R. 24 agosto 2015

Daniele Rocchi


“Conoscevo da circa 50 anni Asaad. Abbiamo iniziato la nostra carriera insieme. Khaled aveva appena assunto la direzione delle Antichità di Palmira e insieme avevamo iniziato una ricognizione del sito. Da allora siamo rimasti sempre in contatto. Rappresentava il meglio della tradizione siriana. Un collega serio e preparato che si faceva in quattro per risolvere ogni problema che si poteva presentare sul piano professionale”. 
Giorgio Buccellati, archeologo e professore emerito di Storia e Archeologia del Vicino Oriente Antico alla Ucla (University of California, Los Angeles) ricorda così l’archeologo siriano, il “collega e amico” Kahled Asaad, direttore del sito archeologico di Palmira, torturato e decapitato nei giorni scorsi dai terroristi del Califfato. Una vita dedicata alla scoperta, alla valorizzazione e alla difesa della storia e dell’arte oggi minacciate sempre più dalla furia iconoclasta dello Stato Islamico(Isis). La lista dei siti archeologici, in Siria e Iraq (Mosul, Ninive, Hatka, Nirmud, Homs, Palmira), distrutti dai miliziani del Califfato si allunga ogni giorno di più. L’ultimo della serie è stato il monastero cattolico di Mar Elian a Qaryqatayn, vicino a Homs , costruito nel V secolo d.C e raso al suolo nei giorni scorsi dai bulldozer del Califfo. 

Professore Buccellati, perché tutta questa furia rivolta dall’Isis contro archeologi, siti antichi e reperti storici? 
“Questa furia mostra la capacità dei terroristi di focalizzare l’attenzione su cose che hanno un valore emblematico. Il fondamentalismo teme il lavoro degli archeologi perché i valori rappresentati nel passato sono le radici del presente e per questo devono essere sradicati. L’Isis intende così dimostrare che tutto il patrimonio culturale che apprezziamo non vale nulla. Radendo al suolo i monumenti essi distruggono anche il nostro modo di rapportarci alla cultura. Per questo credo che non basti più scavare per riportare alla luce dei reperti da mettere nei libri di testo ma bisogna consegnarli al senso di identità dei popoli coinvolti”.

Si può parlare di attacco alla modernità? 
“Questo dell’Isis è un modo superficiale e ipocrita di vedere le cose. La modernità è un valore sottoscritto - se vogliamo - anche dal Califfato. Basti pensare alla grande capacità mediatica che hanno e che è parte della modernità. La vittoria dell’Isis, in questo momento, sta proprio nel farci credere che non vale la pena difenderci sul piano dei valori ma solo su quello militare. Sarà questa la vittoria dello Stato Islamico, se glielo permetteremo”.

Come rispondere a questa strategia del terrore? 
“Sicuramente occorre proteggerci ma senza abdicare ai nostri valori. Dobbiamo porre maggiore attenzione ai valori profondi della cultura, ai suoi significati cercando di farli arrivare non tanto all’Isis, che non ha nessuna intenzione di dialogare, quanto a tutti quei giovani chi si uniscono al Califfato. È terribile pensare a quanti giovani occidentali vadano a cercare risposte a dei presunti ideali. Ciò accade perché non diamo, politici e intellettuali in testa, delle risposte. Dovremmo essere più attenti ai valori e meno consumisti e materialisti”.

Non crede che sia giunto anche il momento di porre fine al commercio di opere d’arte trafugate col quale i terroristi finanziano le loro attività criminali? 
“Resta difficile capire come l’Isis - isolato e circondato - possa avere dei canali di vendita di reperti e soprattutto di petrolio. Una statuetta, una tavoletta cuneiforme possono essere trasportate in una valigetta. Ma come si fa a esportare così tanti barili di greggio? C’è una forte ipocrisia nella nostra politica che non riesce, perché non vuole, fermare questo traffico, cosa che sarebbe assolutamente possibile. Lo stesso potrebbe dirsi sul piano militare: la Siria è un Paese completamente aperto, perché allora non vengono fermati i convogli dei quali si vedono facilmente foto.  Da dove arrivano le armi, i camion, i furgoni? Possibile che non si riesca a vedere l’origine di questo traffico? 
Non esiste una volontà effettiva di bloccare il Califfato ma solo una grande ipocrisia, una intenzionale volontà di frammentare la Siria per rendere possibile una vittoria temporanea dell’Isis che porterà di fatto a un stravolgimento della geografia del Paese”.


Una ragione per vivere e per morire: martiri oggi


Meeting 2015
Incontro con:  Douglas Al-Bazi, Parroco di Mar Eillia ad Erbil, Iraq; 
Ibrahim Alsabagh, Parroco della Comunità Latina di Aleppo, Siria.

domenica 23 agosto 2015

L'immagine pellegrina di Nostra Signora di Fatima visiterà Damasco nel 2° anniversario della preghiera del Papa per la pace in Siria


L'immagine pellegrina di nostra Signora di Fatima visiterà la città di Damasco in Siria, su richiesta del patriarca melchita greco cattolico Gregorio III, nel prossimo mese di settembre tra i giorni 7 e 9.
L'annuncio è stato dato dal rettore del santuario di Fatima, padre Carlos Cabecinhas , in una conferenza stampa nel giorno 12 agosto e nell'editoriale della rivista "Fátima, Luz e Paz" , pubblicazione ufficiale del Santuario edita in sette lingue e inviata a 172 paesi.

Sollecitando la visita dell'immagine pellegrina di Nostra Signora nel paese martoriato da un conflitto che dura ormai da più di quattro anni, nelle sue parole il Patriarca chiede che non dimentichiamo i cristiani siriani nella nostra preghiera, secondo i ripetuti appelli di Papa Francesco, ha riferito il padre Carlos Cabecinhas .

A proposito della situazione che si vive attualmente in Siria, il rettore del santuario di Fatima ha dedicato l'editoriale di agosto del bollettino internazionale intitolato “Pregare per la pace è qualcosa che tutti possiamo fare”, all'importanza della preghiera per la pace mondiale.

Ricordando la recente offerta di tre pallottole e un fazzoletto da parte di un gruppo di monache della Siria al vescovo di Fatima- che evocano il martirio di tre cristiani nel 2013 in quel paese- il padre Carlos ha sottolineato la terza parte del segreto di Fatima, che contiene l'annuncio del martirio dei cristiani. Ha ricordato le parole dell'allora cardinale Joseph Ratzinger, che sarebbe presto divenuto Papa Benedetto XVI, che affermò che “nessuna sofferenza è inutile” e che la terza parte del “ segreto, così angosciante all'inizio, termina in una immagine di speranza”.

Il rettore del santuario ha ricordato che “ il messaggio di Fatima è un messaggio di pace “ e ha chiesto ai fedeli di pregare e accompagnare il pellegrinaggio dell'immagine “perché il Signore conceda la pace alla Siria e fortifichi i cristiani che lì vivono”.

http://www.fatima.pt/portal/index.php?id=89349

La Madonna di Fatima arriverà il prossimo 7 settembre, giornata che coincide con la Giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria che papa Francesco realizzò in San Pietro due anni fa.




PAPA FRANCESCO
7  settembre, 2013
"Perdono, dialogo, riconciliazione sono le parole della pace: nell'amata nazione Siria, in Medio Oriente , in tutto il mondo”.

Monsignor António Marto, vescovo di Leiria – Fátima, ha detto che la questa visita servirá per opporsi al fanatismo e alla violenza in forma simbolica. Durante uno dei pellegrinaggi annuali che si fanno al santuario, denunció l' indifferenza degli organismi internazionali di fronte allo sterminio dei cristiani.  

sabato 22 agosto 2015

Monastero Mar Elian in Qaryatain raso al suolo,.. ma 'rendeteci in grado di rimanere' !


Padre Jihad : distruggono monasteri non la nostra fede




Radio Vaticana intervista padre Youssef Jihad della comunità di Deir Mar Musa
R. – Dal 4 di agosto, quando è entrato il sedicente Stato islamico e ha preso possesso della città di Qaryatayn, noi non abbiamo nessuna notizia diretta dal monastero. Sappiamo che c’era un gruppo di laici che lavorava lì – musulmani e cristiani insieme – e quando è entrato l’Is li hanno mandati via. Hanno dato loro un’ora prima di uccidere tutti, quindi sono scappati. Le foto riportano la distruzione dell’area archeologica, della croce e del campanile, il piccolo campanile: è un’opera sistematica la loro. L’Is, che non sa niente di islam, secondo me, vuole eliminare la storia del Paese. La sua missione è quella di distruggere tutto quello che potrebbe essere buono e significativo. Tuttavia, non ci tolgono la fede, non ci tolgono la speranza. Loro possono distruggere il monasteri, le croci, ma innanzitutto distruggono e deformano il volto dell’islam, che noi amiamo e sosteniamo: cerchiamo di vivere insieme in pace, anche se in questi giorni queste mie parole potrebbero risuonare impossibili. Ma noi abbiamo creduto nella Risurrezione, che era impossibile…
D. – Il monastero distrutto era comunque un’oasi vera e propria di carità e di accoglienza, anche per tanti profughi...  R. – Sì, soprattutto per i musulmani della zona, e poi c’erano circa 47-48 famiglie cristiane con oltre 100 bambini e noi, come monaci, organizzavamo programmi di intrattenimento per i piccoli…
D. – Era quindi un segno di speranza per tutta questa terra devastata?  R. – Sì. E secondo me è per questo che è stato tolto di mezzo padre Jacques, perché rappresentava un pericolo per la mente che vuole un conflitto perenne tra sunniti e sciiti e tra musulmani e cristiani.
D.- Di padre Jacques non sapete più nulla?   R.- Purtroppo, niente di sicuro...   
D. – Padre Jacques mi riporta alla mente anche padre Dall’Oglio, del monastero da dove lei mi sta parlando, la comunità di Deir Mar Moussa. Lì, ora, quanti siete? E come si vive anche questa assenza di fratelli che sono scomparsi da tanti anni?    R. – Siamo quattro monaci e due monache con un gruppo di due o tre operai, musulmani e cristiani che viene saltuariamente per dei lavori. Come viviamo? Viviamo con la speranza di ritrovarli e di riabbracciarli vivi un giorno, se non qui, sarà in Cielo.
D. – Ma non vi è rimasta anche un po’ di paura dopo questi episodi?    R. – La paura fa parte della vita.Noi siamo umani e dunque abbiamo le nostre paure, ma la nostra speranza è più forte, il nostro desiderio di vivere in pace è più forte. Chiediamo certo al Signore di fortificarci nella fede, ma voglio dire che non stiamo cercando di fare i martiri, stando qui; non aspettiamo che l'Is venga a sgozzarci, senza senso. Non siamo aggrappati al nostro monastero a tutti i costi.Il monastero è la nostra vita, la nostra vocazione che potremo vivere in ogni parte del mondo dove ci sono cristiani e musulmani insieme, perchè è questo è il carisma che Dio ci ha dato: amare tutti, specie i fratelli musulmani. Quindi continuiamo a sperare che il dialogo e la convivenza siano possibili.
D. – Ma lei ha mai avuto a che fare direttamente con questo, che è considerato, oggi,  il “nemico”, con l'Is?   R. – Quando ero a Qaryqatayn, tre mesi fa, lì ho visto qualche faccia del gruppo dell’Is, però era gente locale. Poi, piano piano con il passare dei giorni, si sono rafforzati e hanno portato anche altri elementi da fuori e hanno ribaltato la situazione.
D. – Che cos’è, però, che li rende così… lei ha usato il termine “cattivi”?   R. – Hanno una cattiva comprensione dell’islam e del nobile Corano e della vita del Profeta Maometto: loro vogliono un islam che controlli tutti, in primo luogo i musulmani stessi. Perciò, dico e sottolineo che le loro vittime più numerose e più dirette sono i musulmani stessi. Quando sono entrati in Palmira, hanno sgozzato tra 200 e 400 persone: tutti sunniti musulmani. Questo “nemico” è portato da una mente cattiva che non è necessariamente cristiana, nemmeno necessariamente orientale né araba: potrebbe essere anche internazionale, che vuole seminare terrore e odio e povertà in questa zona per ricontrollarla economicamente e politicamente. Poi, loro scavano sotto, trovano elementi adatti, gente che ha subito povertà, ignoranza e anche ingiustizia, allevati, educati all’odio verso gli altri e portano, creano, immaginano uno Stato islamico che non potrebbe mai stare in piedi.
D. – Ora lì, dove è lei, nella comunità di Deir Mar Musa, quali sono i segni di resurrezione, di fraternità, di amore?    R. – L’amicizia e l’amore che vediamo negli occhi dei nostri parrocchiani cristiani e dei nostri amici musulmani che chiedono sempre la luce e la benedizione di Dio per quello che stiamo facendo.  Però se la cosa rimane così, il Medio Oriente sarà svuotato piano piano dei cristiani, o saranno accantonati. Questo necessita di un grido, come fa il Santo Padre sempre. E io lo ringrazio personalmente, ma anche in nome di tutti i cristiani e di tutti i siriani. Bisogna però gridare al mondo ancora più forte e dire che chiedere ai cristiani di rimanere in questi Paesi, così, non ha senso. Per noi, il cristianesimo non è un’appartenenza vuota: il cristianesimo è una fede, un modo di vivere, è portare la croce, il sacrificio e l’amore per il prossimo, anche se è un nemico. Quindi, bisogna fare qualcosa di concreto per i cristiani che stanno in Medio Oriente: bisogna pensarci. Non basta dire a chi non può andar via, che rimanga. Bisogna renderlo capace di rimanere.

DICHIARAZIONE A L'OUVRE D'ORIENT DEL PATRIARCA SIRO-CATTOLICO YOUNAN CIRCA LA DISTRUZIONE DEL MONASTERO S.ELIAN E IL PRELEVAMENTO DI MOLTE DECINE DI CRISTIANI DA PARTE DI DAESH

Des horreurs à n’en plus finir..! comme les medias viennent de le rapporter e matin, les criminels de DAECH et compagnie, ont détruit notre monastère syriaque catholique de Mar Elian, Qaryatain, Syrie, vieux d’au moins 15 siècles. Le prêtre qui le desservait, le père Jacques Mourad est toujours enlevé depuis trois mois, sûrement par ces mêmes terroristes qui se réclament de la religion de la miséricorde et commettent toutes sortes d’absurdités, au nom de leur allah !
J’essaie de communiquer avec notre administrateur du diocèse de Homs, car nous craignons pour les dizaines de familles prises en otage, mais sans succès !
Jusqu’à quand le monde dit « civilisé » gardera-t-il un silence hypocrite,quand tout le monde est au courant des horreurs commises par ces barbares ? Comment un pays qui se dit défenseur des droits de l’homme ferme-t-il les yeux devant des aberrations telles que décapiter, confiner en esclavage et violer enfants et femmes ?.. Est-ce ça la démocratie ?
En somme, nous devons le crier à haute voix : nous craignons DAECH, parce que nous avons été abandonnés et nous n’avons pas les moyens de nous défendre comme c’est la cas au Liban.
Patriarche Ignace Y. III Younan

giovedì 20 agosto 2015

Maloula, perla cristiana della Siria, ancora ferita dall’invasione jihadista


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TEMPI, 22 luglio
reportage dell'inviato  Rodolfo Casadei

La rinascita di Maloula, la perla aramaica delle montagne del Qalamoun, è ancora lontana. Occupata dai jihadisti di Jabhat al Nusra e da elementi di altre brigate di ribelli inizialmente affiliati al Free Syrian Army fra il settembre 2013 e l’aprile 2014, quindici mesi dopo la liberazione per mano delle truppe governative è ancora semidisabitata e semidistrutta, a immagine dei suoi preziosi edifici storici cristiani.

Tutte le strutture presenti – otto chiese e due santuari – sono state saccheggiate e devastate durante l’occupazione ribelle e hanno subìto offese causate dai combattimenti. Attualmente solo tre di esse sono in via di restauro: la parrocchia greco cattolica di San Giorgio e i due storici monasteri del IV secolo, cioè quello greco ortodosso di Santa Tecla (le cui monache furono 
sequestrate per tre mesi) e quello greco cattolico dei Santi Sergio e Bacco.
Il paese, che si apre a semicerchio contro la parete di una montagna ed è sormontato dai due monasteri posti sulla sommità uno in faccia all’altro sull’asse nord-sud, è nelle stesse condizioni: delle 120 case distrutte o gravemente degradate durante l’occupazione, un terzo delle quali concentrate nel centro storico, solo 20 sono state restaurate. Alcune famiglie vivono ammassate in un singolo locale recuperato della propria casa per il resto inagibile. Le condizioni di sicurezza sono ottime (il fronte si è spostato al confine col Libano, a 30 chilometri da qui), ma l’economia è ancora azzoppata: Maloula viveva di turismo, agricoltura e allevamento.

La prima fonte di reddito è completamente disseccata per ovvie ragioni, e i residenti che sono tornati sono occupati nella ricostruzione delle proprie case, pertanto hanno poche risorse e forze da dedicare alla coltivazione dei campi e alla pastorizia come accadeva in passato. Prima della crisi, la cittadina contava 12 mila abitanti nella stagione estiva, cristiani per due terzi e musulmani per il restante terzo. Oggi risultano rientrati il 45 per cento degli abitanti cristiani e 15 famiglie appena fra quelle musulmane. «Non abbiamo preclusioni circa il loro ritorno, ma la questione riguarda in parte anche la magistratura e i servizi di sicurezza: gli omicidi, le razzie, il terrorismo di cui si sono macchiati un certo numero di appartenenti alla comunità musulmana sono materia giudiziaria». A parlare così è Naji Elian Wahbe, cristiano, da tre anni sindaco della località.

Nell’agosto di due anni fa questo giovane padre ha perso un figlioletto di 6 anni, falciato dalle schegge di un colpo di mortaio sparato dai ribelli sul quartiere cristiano di Baab el Touma a Damasco, dove il bambino era temporaneamente ospite dei nonni. «Non fraintendetemi: Maaloula non aveva nessuna importanza strategica per le forze ribelli, l’hanno attaccata e occupata nel settembre 2013 soltanto per sfregio al cristianesimo, e al Papa che stava 
pregando e digiunando perché la Siria non fosse bombardata dagli occidentali. Grazie a complicità interne».
L’attacco di Jabhat al Nusra all’abitato di Maloula, dopo che già in marzo le alture col monastero dei Santi Sergio e Bacco e un grande albergo nelle vicinanze erano state occupate dai ribelli, iniziò con l’attentato di un kamikaze palestinese di Giordania entrato dal Libano che fece esplodere un camion imbottito di quintali di esplosivo contro il posto di blocco all’ingresso della cittadina uccidendo molti militari.
Padre Tawfik, parroco melkita di San Giorgio che grazie all’aiuto di “SOS Chrètiens d’Orient” ha quasi finito di restaurare la sua chiesa e ora sta cominciando a riabilitare le altre strutture parrocchiali (1 milione e mezzo di dollari i danni stimati), non è meno amaro: «A parte la sofferenza per le distruzioni materiali, ciò che ci ha più rattristato è stato scoprire che persone che credevamo amiche si sono poi unite a coloro che hanno saccheggiato tutte le case della città, anche quelle che non sono state distrutte, e le nostre chiese, devastate dopo le razzie».

La vicenda è amaramente istruttiva. All’inizio delle proteste antigovernative, due terzi dei musulmani di Maloula hanno preso le parti del Free Syrian Army e si sono presentati come protettori dei residenti cristiani di fronte ai jihadisti di Jabhat al Nusra a condizione che i cristiani non si organizzassero in una milizia di difesa locale e facessero pressioni sui militari per rimuovere il posto di blocco che era stato istituito nei pressi del monastero dei Santi Sergio e Bacco. Cosa che poi è avvenuta, col risultato di consegnare alture e monastero a Jabhat al Nusra sin dal marzo 2013. In seguito i musulmani antigovernativi di Maloula hanno appoggiato le operazioni militari dei jihadisti o addirittura si sono uniti a loro. Su una parete del salone polifunzionale della parrocchia di San Giorgio, accuratamente razziato, si legge una grande scritta verniciata su di una parete: «Cristiani, alawiti, sciiti, drusi: siamo venuti per uccidervi».
E su al monastero di Santa Tecla, dove la splendida chiesa dedicata alla santa è stata derubata della dozzina di icone dell’iconostasi, privata dell’altare fatto saltare con una carica di esplosivo, martoriata nelle tavole lignee dipinte più grandi, fatte a pezzi o carbonizzate, sulle pareti si leggono i nomi di brigate ribelli che non coincidono con gli alqaedisti di Jabhat al Nusra, ma con formazioni formalmente affiliate al moderato Free Syrian Army, riconosciuto e appoggiato da Europa e Stati Uniti. Uno strato caliginoso copre le volte dipinte e un tempo luminose delle cupole sfuggite all’incendio, dietro all’altare figure di santi su tela incollata alla parete come una carta da parati sono state rozzamente asportate con un taglierino che non ha saputo seguire i contorni delle immagini. Sulla parte superiore di un frammento di tavola lignea ottocentesca di scuola russa è vergato un insulto in lingua araba subito sopra la testa di san Giorgio.

Non è andata meglio al monastero melkita dei Santi Sergio e Bacco: sparite l’icona dei due santi e quelle dipinte da Michele di Creta che ritraevano la Madre di Dio e un Cristo Pantocratore. Il trafugamento dell’altare del IV secolo, il più antico altare marmoreo cristiano di cui si abbia notizia, non è andato a buon fine: era troppo pesante, è caduto a terra e si è spezzato, e i jihadisti lo hanno abbandonato lì. 
È stato perfettamente restaurato e rimesso al suo posto, unica eredità sopravvissuta dentro alla chiesa del santuario.

Altra piccola rivincita: su tutte le chiese, in gran parte inagibili, è stata rimessa la croce che i jihadisti avevano rimosso, ed è stata innalzata una nuova statua della Vergine Maria bianca e azzurra che benedice Maloula dall’alto, dopo che quella originale è stata distrutta dai ribelli.

Costantin, il custode greco ortodosso di Santa Tecla, è scatenato: «Per quattro secoli gli ottomani hanno cercato di rimuovere quelle croci senza riuscirci, ma ci sono riusciti i ribelli che avete aiutato voi cristiani europei. Dopo che avranno finito con noi, toccherà a voi, statene certi». Anche Costantin era uno di quelli che all’inizio si erano fidati delle promesse dell’opposizione e si erano mantenuti neutrali. Nella sua invettiva e nel suo monito vibra anche un po’ di senso di colpa.