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mercoledì 12 agosto 2015

Dal fronte del martirio

  “Più volte ho voluto dare voce alle atroci, disumane e inspiegabili persecuzioni di chi in tante parti del mondo — e soprattutto tra i cristiani — è vittima del fanatismo e dell’intolleranza, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti. Sono i martiri di oggi, umiliati e discriminati per la loro fedeltà al Vangelo. Il mio ricordo, che si fa appello solidale, vuol essere il segno di una Chiesa che non dimentica e non abbandona i suoi figli esiliati a motivo della loro fede: sappiano che una preghiera quotidiana si innalza per loro, insieme alla riconoscenza per la testimonianza che ci offrono.
A sua volta possa l’opinione pubblica mondiale essere sempre più attenta, sensibile e partecipe davanti alle persecuzioni condotte nei confronti dei cristiani e, più in generale, delle minoranze religiose. Rinnovo l’auspicio che la Comunità Internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale inaccettabile crimine, che costituisce una preoccupante deriva dei diritti umani più essenziali e impedisce la ricchezza della convivenza tra i popoli, le culture e le fedi.”
Lettera del Papa Francesco per i martiri cristiani del Medio oriente , 06 agosto 2015


12 agosto 15: questa mattina sono caduti più di 30 missili sui quartieri residenziali di Damasco, Innumerevoli feriti

rilasciati ieri alcuni assiri che erano stati presi
in ostaggio  dai villaggi del fiume Khabour


L’agonia dei cristiani trucidati, l’Europa inebetita. 

Parla il capo della chiesa armeno-cattolica di Qamishli


di Matteo Matuzzi
Il Foglio, 8 luglio 2015

"Qui ora siamo al sicuro, grazie all’esercito siriano. Hassaké, attaccata nella notte tra il 24 e il 25 giugno dai miliziani dello Stato islamico, è ora quasi totalmente liberata. Solo le periferie sono ancora in mano loro, ma il peggio è passato”. Monsignor Antraning Ayvazian è il capo della eparchia cattolico-armena di Qamishli, e in una conversazione con il Foglio descrive la situazione sul terreno in quell’estremo lembo di Siria orientale non ancora toccato dall’orda nera delle truppe al soldo del califfo Abu Bakr al Baghdadi. Basta spostarsi d’una ottantina di chilometri più a sud, ad Hassaké, e il quadro cambia drasticamente. “Lì il novanta per cento dei cristiani se n’è andato, milleottocento sono arrivati qui, insieme a quattrocentocinquata famiglie musulmane”. 
Qamishli, più di centomila abitanti, è uno degli ultimi avamposti fedeli a Damasco prima del confine con la Turchia e non è troppo lontana da quello con l’Iraq, a est. Ed è proprio al dirimpettaio turco che mons. Ayvazian addebita gran parte delle colpe per il disastro in cui è precipitata la Siria: “Ci separano 998 chilometri di confine. Quasi mille chilometri da cui entra di tutto, a cominciare dai jihadisti. Li vediamo ogni giorno, passano a gruppi di trecento, anche cinquecento. E’ Ankara, insieme alla Georgia, a giocare un ruolo fondamentale nel caos che vediamo oggi. Un doppio gioco che l’occidente farebbe bene a troncare, prima che sia davvero troppo tardi. Un mio parrocchiano – racconta il sacerdote – è stato arrestato dalla polizia turca e gettato in carcere, in una cella di un metro per un metro. Vicino a lui, c’erano uomini con lunghe barbe pronti ad arruolarsi con lo Stato islamico. Per loro c’era ogni ben di dio, ogni richiesta veniva soddisfatta. Qualche agente li incitava a darsi da fare in Siria. Noi queste cose le sappiamo, perché le constatiamo con i nostri occhi e le nostre orecchie”.


Il capo dell’eparchia di Qamishli ricorda di aver anche incontrato un gruppo di miliziani nella città di Margada. Avevano occupato un ospedale, nella cui cappella sono conservate reliquie armene: “Mi hanno convocato e io sono partito, da solo, con la mia automobile. Erano tutti stranieri, tranne un siriano. Il loro capo era un qatariota, si chiamava Faisal. Erano forniti di mezzi ipertecnologici e sofisticati, cose che qua non si vedono spesso. Mi disse che avrebbero fatto saltare in aria tutto se lui e i suoi uomini non avessero ottenuto i resti dei loro martiri. Mi confessò con la massima tranquillità di non essere per nulla interessato a discettare di politica o dei destini del paese. Era in Siria solo per una banale questione di soldi, che gli sarebbero stati versati a patto di soddisfare due semplici condizioni: radere al suolo ogni costruzione in piedi e abbattere tutto ciò che si muove”. Per “tutto”, il miliziano “intedeva bambini, donne, vecchi e malati. Tutti”. Al termine del breve colloquio, “gli ho dato la mano. Lui è rimasto fermo. Me ne sono andato”.

La Siria, prima della guerra, era una oasi di tolleranza, dove l’uguaglianza tra cristiani, ebrei e musulmani era un fatto assodato, una certezza, ragiona Ayvazian. “Qui, nella terra di San Paolo, c’è sempre stata libertà di culto, i cristiani non dovevano pagare nemmeno un soldo in tasse per aprire un nuovo luogo di culto. Mai nessun divieto, siamo sempre stati liberi. Io servivo messa, da bambino, insieme ai miei amici ebrei e musulmani”, ricorda il nostro interlocutore. Non c’è mai stata la percezione di essere di culto diverso, per noi era un fatto normale”. Poi è arrivata la primavera araba, facciamo notare. “Poi sono arrivati i sauditi”, corregge lui: “E’ arrivato il cosiddetto ‘caos creativo’, e ancora mi chiedo come possa essere creativo il caos, il disordine più completo”. Fa la conta dei preti e laici rapiti in questi anni, uomini di cui non si sa più nulla: “Vivi o morti, chi lo sa. Solo silenzio”. 

Nessuno sembra interessarsi alla sorte dei cristiani, che lentamente stanno scomparendo da quella regione che vede chiese distrutte e croci divelte, case segnate con la “n” di nazareno e colonne interminabili di famiglie costrette all’esodo. Gli attacchi sono sempre più frequenti e non di tutti si ha notizia, come riferiscono i francescani attivi nel vicino oriente. Il 27 febbraio scorso, ad esempio, presso la chiesa di Azizieh, ad Aleppo, durante la messa serale una bomba di gas ha provocato la morte di due fedeli e il ferimento di tanti altri che si trovavano all’esterno dell’edificio di culto. La notte del venerdì santo ortodosso, tra il 10 e 11 aprile, diversi missili sono stati lanciati in zone abitate da cristiani armeni.

Dove sono le manifestazioni di piazza? Perché nessuno scende in strada, da voi, per protestare contro quel che accade qui?”, domanda mons. Ayvazian. “Quello dell’occidente è un silenzio complice. Non mi capacito di come sia possibile assistere inerti dinanzi al tramonto della civiltà cartesiana, quella fondata sulla logica. Dove è l’Europa? Mi auguro che presto l’occidente possa risvegliarsi, prima che sia troppo tardi. Prima che la distruzione arrivi anche a casa vostra”.
Le parole del sacerdote “armeno fino al midollo, ma orgogliosamente membro della nazione siriana” sono routine tra le gerarchie delle chiese cristiane d’oriente, costrette a far la conta quotidiana di quanti fedeli da accudire spiritualmente e materialmente siano rimasti. In qualche caso, come succede a Baghdad, il patriarca caldeo, mar Louis Raphael Sako, sfinito dal conflitto e dall’avanzata dei fondamentalisti, arriva a parlare della possibilità di unificare le chiese per far fronte al nemico comune. Altrove, poco oltre la piana di Ninive, in direzione del Kurdistan, vescovi con croce pettorale indosso passano in rassegna truppe volontarie e danno loro la benedizione. Youhanna Boutros Moshe, della chiesa siro-cattolica di Mosul, l’ha fatto lo scorso febbraio: “Andate avanti e ricordatevi che questa terra era vostra ancora prima della venuta di Cristo”, era il suo messaggio per i duemila ragazzi messi insieme da un deputato curdo, Jacob Yaco.

Vi è nella mentalità dell’uomo occidentale di oggi l’idea che, dopotutto, Siria e Iraq siano due realtà lontane che poco o nulla possano incidere sulle sue abitudini quotidiane.”Ve ne accorgerete presto, tra trenta o quarant’anni, quando a casa vostra ci sarà chi avrà la pretesa di definirsi vero credente e voi non saprete come comportarvi, non potrete fare nulla”, è il monito profetico del capo dell’eparchia di Qamishli, che prevede scenari foschi per chi volge la testa dall’altra parte. Monsignor Ayvazian ce l’ha con quello che definisce il “rilassamento” dell’Europa, l’inebetimento di un continente “che si richiama ai valori cristiani e poi accetta tutto questo”. “C’è da scandalizzarsi”, dice. Mentre l’antica perla Aleppo continua a vivere il suo assedio e le rovine di Palmira divengono il teatro per esecuzioni di massa tra lo sventolio dei vessilli neri del Califfato, i cristiani se ne vanno: “Già ora più della metà degli appartenenti alla comunità cristiana di questo paese ha attraversato il confine”, osserva il il capo dell’eparchia di Qamishli, che denuncia l’esistenza di un racket cui non è estranea la polizia turca: “Per un visto qui si pagano dai cinquemila ai settemila euro, e si è fuori. Intere famiglie si sono economicamente dissanguate pur di scappare in fretta”.

La conversazione, inevitabilmente, cade sulle prospettive dell’immediato futuro: fino a quando si potrà andare avanti così? La risposta che giunge da Qamishli è netta: “Questo paese non cadrà in mano straniera, noi non siamo la Tunisia. Qui è nato il concetto di civilizzazione, non è immaginabile arrendersi a chi di questa realtà non sa nulla”. L’appoggio delle comunità cristiane locali al rais Bashar el Assad è convinto. Il presidente asserragliato a Damasco è considerato dai siriani non musulmani come l’unico argine contro il dilagare del fondamentalismo islamico. Due anni fa, la grande veglia di preghiera in San Pietro organizzata dal Papa aveva contribuito a fermare i cacciabombardieri francesi e americani che già rullavano sulle piste, pronti a decollare verso la Siria. Oggi, sono ancora le chiese del luogo – attraverso le loro più alte gerarchie – a contrastare ogni ipotesi di abbandonare al suo destino il capo dello stato. “Se cade Assad, scorreranno fiumi di sangue tra i cristiani”, avverte mons. Ayvazian. “Hassaké, qui vicino, è salva solo grazie a lui e al suo esercito. La sua caduta propizierà la disintegrazione del paese, che si dividerebbe in una dozzina di microstati in guerra tra loro. Io – aggiunge – non sono arabo. Sono armeno. Ma allo stesso tempo faccio parte della nazione siriana, e l’unico legame è oggi rappresentato da Assad”.

Osserviamo che sul terreno, soprattutto nei primi tempi della crisi, era presente un’opposizione organizzata, che teneva periodici incontri all’estero e che godeva di un seguito tra le cancellerie internazionali. Un’alternativa moderata al regime al collasso. “Chi sono questi ribelli moderati?”, sbotta il nostro interlocutore: “Dove sono? Forse si saranno riuniti in Turchia, ma qui sul territorio, nelle nostre strade, non si sono visti. Qualcuno dovrebbe spiegare, poi, come si fa a essere moderati tenendo in pugno le armi più all’avanguardia messe a disposizione da qualche emirato del Golfo persico. E’ questa quella che voi chiamate moderazione?”. L’occidente che discetta su vie d’uscita democratiche al conflitto in corso, chiosa il prelato, dovrebbe spiegare “il senso di destituire Assad per mettere al suo posto qualche sceicco importato dalla penisola arabica, gente che magari non è neppure capace di leggere”. Per i cristiani, in quel caso, sarebbe la fine: “La prospettiva è quella già vista in Iraq ai tempi della Guerra del Golfo, lo svuotamento sistematico dei fedeli a Cristo da quel paese. Arrivarono in Siria quasi un milione e mezzo di profughi cristiani. Siriaci, caldei, armeni”
L’appello è ad agire, a fermare i tagliagole prima che l’infezione si propaghi all’Europa fino a oggi risparmiata dal contagio fondamentalista; prima che il cancro si diffonda anche al di fuori di quella regione dove “ormai vale soltanto la legge della foresta: ognuno mangia l’altro e nessuno ne parla. Le leggi umane, qui, non valgono più”.

martedì 11 agosto 2015

Qualcosa sta cambiando negli assetti geopolitici del Medio Oriente?


Piccole Note, 7 agosto

La scorsa settimana la Casa Bianca ha annunciato che l’esercito degli Stati Uniti è pronto difendere i cosiddetti ribelli siriani moderati, chiamati a presidiare un’area di sicurezza profonda cento chilometri al confine turco. Annuncio che è risuonato come una dichiarazione di guerra diretta al governo di Damasco. L’iniziativa, infatti, ricorda quel che successe al tempo della guerra libica, dove la no-fly zone servì appunto a garantire il successo della cosiddetta ribellione.
Un decisione senza alcuna base legale, come ha candidamente confessato il portavoce della Casa Bianca Mark Toner in una conferenza stampa. Ma d’altronde la legalità internazionale è diventata da tempo un optional.
La presa di posizione dell’amministrazione Usa è arrivata poco dopo l’annuncio dell’accordo Washington-Ankara per creare la “safe-zone” in Siria, stipulato in fretta e furia dopo la svolta della Turchia, che da Paese sostenitore dell’Isis è passato, almeno in apparenza, a suo acerrimo nemico. Una svolta più che ambigua perché Ankara sembra invero perseguire altri scopi, cioè impedire la nascita di una entità curda ai suoi confini e, all’interno, rimettere al centro della scena politica l’Akp, il cui ruolo è stato messo in crisi proprio dall’affermazione di un partito curdo nelle ultime elezioni.

E però, accanto e insieme a queste intenzioni più o meno occulte, scopo non dichiarato del primo ministro Tayyp Erdogan sembra essere quello di voler prevenire l’esclusione del suo Paese da una possibile risoluzione della crisi siriana, che dopo l’accordo Usa-Iran sul nucleare appare meno impossibile.
Tanto è vero che la nuova assertività turca inizia proprio dopo la sigla di tale accordo, che sdogana l’Iran e gli affida il ruolo di protagonista di una possibile risoluzione dell’annoso conflitto, come dimostra la visita del ministro degli Esteri siriano a Teheran di questi giorni, ai margini della quale sembra, il condizionale è d’obbligo, sia fiorita una nuova ipotesi di pacificazione della regione.

Che qualcosa sia nell’aria d’altronde lo dimostra la rinnovata azione dei russi, strenui sostenitori di Assad, che hanno moltiplicato gli sforzi diplomatici nell’area, in particolare tentando di mediare tra Siria e Arabia Saudita, nemici irriducibili di Assad insieme al Qatar. Significativa in questo senso la visita a Mosca del ministro degli Esteri saudita, Mohammad bin Salman, e del suo vice, Faisal al Mekdad, uno dei principi ereditari delle monarchia del Golfo, avvenuta a fine giugno,
Una visita alla quale avrebbe fatto seguito, secondo indiscrezioni rilanciate dal giornale siriano Al Akhbar, il viaggio del capo della sicurezza siriana Ali Mamluq a Ryad, dove avrebbe incontrato proprio Muhamad bin Salman. Evento che fino a un mese fa era semplicemente impensabile.
Non solo, il vice-ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov ha annunciato una prossima visita del ministro degli Esteri saudita a Mosca. Si tratta della prima visita di così alto livello di un esponente saudita in Russia e dovrebbe servire a preparare quella, ben più importante, dello stesso re, Salman bin Abdulaziz Al Saud, fissata per la fine di agosto.
A spingere l’Arabia Saudita a riposizionarsi sono tanti fattori: l’accordo sul nucleare iraniano di certo è stato subito da Ryad, dal momento che ha sdoganato un suo attuale nemico, ma anche i sauditi sanno bene che un confronto troppo aspro con l’Iran per loro oggi sarebbe devastante. La crisi siriana, quindi, può essere occasione per rilanciare quel dialogo con Teheran che comunque in questi ultimi anni, nonostante tutto, è proseguito sottotraccia.

Altro motivo sotteso alle iniziative saudite la strenua resistenza di Assad (che oltre al sostegno della Russia, gode dell’appoggio, sul campo di battaglia, dei miliziani iraniani, ma soprattutto di Hezbollah). Il presidente siriano, nonostante la masnada di tagliole mercenari che gli è stata scatenata contro, controlla ancora buona parte del Paese, cosa che tra i suoi avversari sta moltiplicando i dubbi sul tentativo di rovesciarlo per via terrorista.
Infine la strenua resistenza in Yemen degli sciiti houti legati a Teheran, i quali, rovesciato il precedente regime filo-saudita, si sono trovati a fronteggiare una coalizione internazionale guidata appunto da Ryad. La monarchia saudita pensava di spezzare in fretta le reni ai rivoltosi. Non è andata così e la sanguinosa campagna militare si sta rivelando un pantano che rischia di minare la credibilità internazionale di Ryad. Da qui la necessità di un dialogo con il vero avversario, ovvero l’ex impero persiano.

In questo scenario la politica di Washington appare contraddittoria: l’appoggio a Erdogan alimenta un fuoco che l’accordo con Teheran, fortemente voluto da Obama, tende invece a spegnare.
È la contraddizione insita nell’attuale presidenza degli Stati Uniti, stretta tra il realismo politico dei suoi grandi elettori e la follia bellicista dei neocon ai quali il presidente deve cedere più spesso di quanto voglia.
Una contraddizione che è insita anche nell’accordo stretto con Ankara, se è vero, tra l’altro, quel che riferiscono diverse fonti siriane interpellate da al Manar, media libanese vicino a Hezbollah, secondo il quale dagli Usa sarebbero giunte segrete rassicurazioni a Damasco sul fatto che gli aerei Usa eviteranno scontri con truppe e velivoli siriani. Rassicurazione che sarebbe stata raccolta da Damasco che, sempre secondo al Manar, cercherà a sua volta di evitare simili incidenti.
D’altronde i raid della cosiddetta coalizione internazionale anti-Isis messa su da Obama anche in precedenza presentavano rischi – limitatamente – analoghi, ma finora sono stati evitati.
Così anche l’accordo Washingoton-Ankara potrebbe essere meno di quel che appare: un modo per prendere tempo da spendere in mediazioni e per incanalare, e così attutire, la follia bellicista di Erdogan, nel tentativo di trovare una mediazione anche con l’unico protagonista del mattatoio mediorientale finora tenuto fuori dal dialogo (il Qatar, legato a doppio filo con Ankara, seguirà).
Ma l’accordo con la Turchia e una nuova e più assertiva presenza nell’area del conflitto, serve all’amministrazione Obama anche per dimostrare (all’interno e all’esterno) che un’eventuale soluzione globale non può che passare da Washington, che di certo sta lasciando libertà di manovra ai russi nella speranza di uscire dal pantano, ma non vuole abbandonare l’intera regione alla sua influenza.
L’ambiguità della strategia Usa riserva molte incognite: i nemici della pace – legati all’Isis o a essi (apparentemente) contrapposti – cercheranno di sfruttare la perigliosa situazione per provocare un’escalation ed incalzare ancora di più Assad.

Eppure nonostante le incognite, e le stragi quotidiane (di curdi e siriani soprattutto), qualcosa è cambiato nel funesto scenario che solo un mese fa sembrava senza uscita. Qualcosa che potrebbe portare a un vero e proprio dialogo ad alto livello.
Una prospettiva che ha reso ancor più nervosa la reazione di quanti hanno visto nell’Isis e affini un catalizzatore in grado di scatenare una reazione a catena capace di scardinare i vecchi assetti geopolitici del Medio Oriente (e dell’Asia) per determinarne altri, a loro più favorevoli. Di questo nervosismo è indice l’attentato targato Isis avvenuto ieri in una moschea di Abha, in Arabia Saudita, nel quale hanno perso la vita tredici poliziotti di Ryad.
La nuova fase del mattatoio mediorientale, che apre alla speranza ma conserva oscure incognite, è appena iniziata.
 
Nella foto il capo del Dipartimento di Stato Usa John Kerry, il ministro degli Esteri saudita Adil Al-Jubayr e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Doha.

domenica 9 agosto 2015

Il nostro dovere di proteggere i cristiani  perseguitati

La solidarietà è il minimo che si possa fare. 

È una domanda da porre anche in Italia



Anche i Cristiani di SADAD fuggono di nuovo, memori del massacro di ottobre 2013.

Andrea Riccardi su Corriere della Sera
8 agosto 2015


Siamo abituati alle cattive notizie dalla Siria. Tanto abituati da essere distratti, avendo quasi rinunciato alla soluzione di una guerra terribile, lunga ormai come la Prima Guerra Mondiale. Pochi giorni fa è avvenuto un altro rapimento di civili in Siria: circa 230 nel villaggio di Al Qaryatain nella provincia di Homs. È la provincia che le truppe di Assad, appoggiate dagli hezbollah, tentano di controllare, per bloccare il passaggio tra Siria e frontiera libanese. In questo villaggio, gli uomini del «califfato» hanno prelevato circa 6o cristiani, accusati di intelligenza con il regime di Assad.
Al Qaryatain è una cittadina, trovatasi a contatto con i territori dal sedicente califfato, dopo la presa di Palmira. Qui risiedeva una cospicua comunità cristiana di tutte le confessioni, ma soprattutto appartenenti alla Chiesa siriaca (del gruppo unito a Roma). In Siria, nonostante le differenze di tradizione e confessione, da secoli i cristiani non solo vivono tra loro, ma anche assieme ai musulmani negli stessi quartieri o villaggi. 
Il «califfato» ha cominciato a imporre la Sharia con durezza ai cristiani, discriminandoli e imponendo loro di pagare una tassa speciale. Anche la condizione di dhimmi, che riduce i cristiani a cittadini di serie B, non dà nessuna sicurezza di vita. Quindi, con l`estendersi della guerra, i cristiani sono assediati nelle città come Aleppo e hanno cominciato a muoversi dai villaggi. Non è facile orientarsi nell`intrico della guerra, tra mutevoli organizzazioni, nello spostamento delle aree di controllo, in un quadro di estrema violenza. Chi poteva ha abbandonato la Siria. Oggi però il Libano (che ha chiuso le frontiere ai profughi) smantella vari campi, lasciando all`aperto i rifugiati, musulmani o cristiani. Chi fugge non sa più dove andare.
I cristiani sono considerati «nemici» dagli estremisti islamici. E` chiaro anche nel caso di Al Qaryatain. Gli uomini del «califfato» li hanno ricercati, casa per casa, seguendo una lista, come complici del regime alauita di Assad. Di fronte al caos della guerra, le autorità cristiane hanno guardato al regime come l`unica protezione possibile, criticando l`ostilità occidentale ad esso. Del resto, anche una personalità cristiana di altro sentire, come il gesuita Paolo Dall`Oglio, ostile al regime, è stata rapita dagli oppositori. Un altro sacerdote legato a Dall`Oglio, Jacques Murad, che risiedeva in un monastero vicino a Al Qaryatain (e lavorava per aiutare gli sfollati da Palmira), è stato rapito tre mesi fa. Da più di due anni non si hanno più notizie dei vescovi Mar Gregorios Ibrahim e Bulos Yazigi, che guidavano i cristiani siriaci e ortodossi ad Aleppo. Erano rispettati dal governo e avevano un`autorità morale nella regione. Sono scomparsi nel nulla. Altri religiosi, rimasti tra la gente, sono stati rapiti o uccisi.
Sembra ormai impossibile o molto difficile per i cristiani vivere in larga parte della Siria. La loro condizione (e quella del Paese) pone alla comunità internazionale il problema della pacificazione, come un obiettivo prioritario su cui concentrare l`attenzione, al di là della ritualità degli incontri internazionali e delle azioni dell`Onu.

Esiste una seconda questione che i Paesi europei devono affrontare nel caso che la guerra si protragga: il futuro dei cristiani. Dove possono andare? Non riescono a sopravvivere nelle regioni controllate dalle organizzazioni islamiste. Ieri papa Francesco, in un messaggio ai cristiani del Medio Oriente, ha avuto parole forti: «La comunità internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale inaccettabile crimine». Non c`è un dovere verso di loro? E` vero: molti musulmani siriani e iracheni soffrono. Ma, per i cristiani, c`è una vera impossibilità a sopravvivere in terra islamista. La Francia ha accolto, lo scorso anno, alcuni cristiani iracheni. Il Belgio, recentemente, ha ricevuto 244 cristiani, trasferendoli da Aleppo. La solidarietà ai rifugiati cristiani è il minimo che si possa fare. E' una domanda anche all'Italia.


http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_08/siria-proteggere-cristiani-perseguitati-riccardi-c9ca95ec-3d8d-11e5-9df9-e4a39ac26db0.shtml?refresh_ce-cp

Il comunicato della chiesa syro-ortodossa di Antiochia e di tutto l'Oriente chiama al soccorso e alla preghiera per la liberazione dei 227 cristiani agli arresti domiciliari e che saranno utilizzati come scudi umani da Daesh in caso di risposta dell'esercito siriano...
Chiedono a tutte le chiese, ai responsabili nel mondo e tutte le coscienze di manifestare pacificamente il loro sostegno e di interagire per la liberazione di questi civili innocenti che vivevano pacificamente e in spirito fraterno con le altre comunità...

giovedì 6 agosto 2015

ISIS attacca l'antica città cristiana Al-Qaryatayn, da cui fu prelevato padre Jacques Murad 2 mesi fa: 150 ostaggi


Mercoledì mattina, lo Stato Islamico dell'Iraq e al-Sham (ISIS) ha lanciato un'offensiva su vasta scala nella campagna orientale del Governatorato di Homs, dove attualmente sta prendendo di mira l'antica città siriaca cristiana di Qurayteen e l'importante Aeroporto Militare Tiyas che si situano al ovest di Palmira.
Il gruppo terroristico ha iniziato l'assalto all'alba di mercoledì, tentando di utilizzare un veicolo improvvisato imbottito di ordigno esplosivo (VBIED) per rompere le difese della prima linea delle Forze armate siriane 'al perimetro sud-est dell'aeroporto militare Tiyas;  tuttavia, questo tentato attacco suicida è stato respinto dalle guardie dell'esercito siriano prima che potesse raggiungere la destinazione.


Dopo il tentato attacco kamikaze, ISIS ha preso d'assalto il posto di blocco del Airbase Militare Tiyas, dove ha trovato forte resistenza da parte dell'esercito siriano e le Forze di Difesa Nazionale (NDF), riuscendo però a infiltrarsi oltre le difese della prima linea delle Forze Armate Siriane.
Nel frattempo, a sud-ovest dell' Aeroporto Militare, ISIS ha lanciato un assalto potente sulla città di Qurayteen, prendendo di mira i checkpoint alla periferia sud-est.
ISIS è riuscito a catturare due posti di blocco al di fuori di Qurayteen, il che gli ha consentito finalmente di entrare in città e trincerarsi lungo la strada che porta al quartiere est.
Scontri a fuoco tra il gruppo terroristico e le Forze armate siriane sono ancora in corso all'interno della città di Qurayteen, nonostante le recenti affermazioni di cattura da parte di attivisti dei social media pro ISIS.
Secondo una fonte militare di Homs est, le relazioni all'interno della città di Qurayteen hanno confermato la morte di 5 civili per mano di ISIS ed altri sono stati catturati dal gruppo terroristico nel distretto est della città.
foto di 'Chrétiens de Syrie pour la Paix'

Oltre ai numerosi profughi fuggiti precipitosamente dalla città, ISIS detiene 150 ostaggi.
E' lo stesso villaggio in cui viveva padre Jacques Mourad, qui rapito il 21 maggio dagli islamisti e di cui non si ha alcuna notizia.

 http://aramictv.com/isis-conducts-major-offensive-to-capture-an-ancient-christian-town-in-the-west-countryside-of-palmyra/


Aggiornamento da Radio Vaticana 7 agosto:

Testimonianza del patriarca della Chiesa siro-cattolica Ignace Youssif III Younan:

R. – Era previsto l’arrivo di questa gente: queste bande di terrore religioso hanno avuto dei complici nella città di Qaryatain … Adesso parlavo con il nostro amministratore patriarcale, che mi diceva che non si sa cosa potrà accadere alla nostra comunità e come andrà a finire. Dopo il rapimento del padre Jacques Murad, erano rimaste ancora circa 120 famiglie in Siria: alcune di loro sono riuscite a fuggire nei campi due giorni fa, ma non sono ancora arrivate… Non si sa cosa sarà di loro.
D. – Questi terroristi compiono una vera e propria pulizia etnica: vogliono cancellare il cristianesimo e i cristiani dalla Siria, come dall’Iraq…

R. – Noi non parliamo di etnie, perché noi siamo della stessa etnia di coloro che sono musulmani in Siria. E’ una pulizia religiosa! Quella che i vostri governanti non vogliono vedere: non ne vogliono sapere niente! A loro importa poco delle libertà religiosa di queste comunità, che sono riuscire a sopravvivere per centinaia di anni proprio perché attaccate al loro Salvatore e al Vangelo. E’ una pulizia religiosa! Non ci vogliono! Tutto questo è colpa di quei governanti machiavellici, che pensano solamente a cercare le opportunità economiche e che pensano che se quella gente - senza alcuna difesa, innocente - può rimanere che rimanga; se non può rimanere, che allora prenda il mare.
D. – Papa Francesco ha inviato una lettera al vicario apostolico di Giordania per sottolineare, appunto, quanto ci sia un’accoglienza dei popoli in questa vostra terra e invece un silenzio assordante della cosiddetta Comunità internazionale…

R. – Siamo sempre grati a Sua Santità Papa Francesco. Lui ci ricorda sempre nelle sue preghiere e sta cercando di fare qualcosa. Purtroppo, però, la ragione è sempre del più forte! Anche ai nostri giorni in cui ci dicono che ci sono delle istituzioni internazionali per la difesa dei diritti umani e della libertà religiosa… Ma dove? E’ una bugia! Il fatto è qui: a Qaryatain, fino a due mesi fa, c’erano circa 300 famiglie, che erano rimaste lì. Erano veramente degli eroi! Come il  loro parroco, il parroco siro-cattolico, padre Jacques Murad, che è stato rapito: era nel convento di Mar Elian a ricevere tanti musulmani, ad aiutarli… Che possiamo fare? Come è riuscito lo Stato Islamico ad arrivare lì, come è riuscito ad entrare e penetrare a Qaryatain, dove c’era l’esercito? Gli stessi abitanti, i sunniti, che sono pro questi terroristi, aspettavano solo il momento per attaccare i soldati…

mercoledì 5 agosto 2015

Gli Usa colpiscono Assad oltre che i jihadisti


 di Gianandrea Gaiani
 LA BUSSOLA, 05-08-2015

L’ambiguità dilaga nella guerra, sempre più da barzelletta, della Coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. A dieci giorni dall’intervento militare turco contro lo Stato Islamico ma soprattutto contro i curdi che dei jihadisti sono acerrimi nemici, anche gli Stati Uniti avviano una nuova campagna aerea che non può non suscitare perplessità.

Dopo i reiterati attacchi condotti dai miliziani qaedisti del Fronte al-Nusra (un tempo rivali dell’Isis ma che oggi collaborano in diverse zone del fronte con gli uomini del Califfo) contro i miliziani siriani “moderati” del movimento “Nuova Siria”  addestrati dai consiglieri militari americani in Turchia, il Pentagono ha minacciato di attaccare i qaedisti ma pure i reparti governativi siriani che combattono accanitamente contro al-Nusra e le altre milizie islamiste. Il 31 luglio sarebbe stata lanciata quella che il portavoce Bill Urban ha definito  “la prima di una serie di incursioni” contro i qaedisti. L’amministrazione Obama ha annunciato “misure addizionali” per difendere le forze filo-americane sul terreno e ha lanciato un monito al regime di Assad affinché “non interferisca”. 

Di recente gli Stati Uniti hanno addestrato ed equipaggiato un gruppo di poche decine di miliziani (dovevano essere 3/5mila quest’anno ma non hanno trovato molti volontari) per combattere le milizie jihadiste dello Stato islamico ma pure il governo del presidente Bashar al Assad. Come le residue forze laiche rimaste nel conflitto civile siriano, anche la “Nuova Siria” non ha alcun peso militare né nelle operazioni contro l’Isis né in quelle contro Damasco. Del resto è difficile comprendere come poche decine di uomini  appena addestrasti possano combattere al tempo stesso contro l’Isis e contro i suoi nemici. Paradossale poi che ad attaccare i miliziani “moderati” non siano le forze dello Stato Islamico ma i qaedisti di al-Nusra ormai “sdoganati” nell’alleanza Esercito della Conquista  che riunisce anche salafiti e fratelli musulmani. Movimento molto forte nell’area settentrionale di Idlib che gode dell’appoggio finanziario e militare di Arabia Saudita, Qatar e Turchia, cioè degli alleati degli USA.

Una conferma ulteriore di come l’ampio fronte di movimenti che combatte Assad sia composto ormai esclusivamente da milizie jihadiste che non tollerano la presenza di forze laiche. E se oggi l’Esercito della Conquista non si mischia con l’ISIS è solo per una questione di opportunità anche se l’intesa con il Califfato contro il regime di Damasco sembra essere ben oliata. Il 2 agosto il Fronte al-Nusra ha pubblicato un video in cui appaiono alcuni membri delle milizie ribelli siriane addestrati dagli Stati Uniti catturati nei pressi di Aleppo. Nel filmato, pubblicato ieri su Youtube, il gruppo terrorista che rappresenta al Qaeda in Siria, ha precisato che i guerriglieri sono stati catturati per la loro collaborazione con le forze della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato islamico responsabile di diversi attacchi anche contro il Fronte al Nusra.

Vale la pena ricordare infatti che all’avvio delle operazioni aeree della Coalizione in Siria, il 23 settembre scorso, i primi raid aerei statunitensi presero di mira anche il Fronte al-Nusra uccidendo, a quanto risultò all’epoca, una cinquantina di miliziani inclusi alcuni comandanti. Nel video compaiono cinque uomini in piedi con la mani dietro la testa e sorvegliati da due uomini armati. Uno dei prigionieri afferma di essere stato arruolato dagli Stati Uniti e di essere stato addestrato in Turchia. Uno degli uomini di al-Nusra dichiara nel video che la cattura dei guerriglieri è un modo “per indebolire la mano dell’Occidente e degli Stati Uniti in Siria”, sottolineando la loro provata cooperazione con le forze della coalizione per individuare le posizioni e movimenti del Fronte al Nusra.

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, aveva diffuso il 30 luglio un comunicato secondo cui il Fronte al Nusra aveva sequestrato nella campagna a nord di Aleppo il colonnello Nadimal Hassan, leader del “Gruppo 30” dell’esercito libero, a capo della prima unità di combattenti addestrati ed equipaggiati dagli Stati Uniti composta da appena 54 uomini. Il Pentagono ha dapprima negato la cattura di elementi ribelli addestrati in Turchia ma ieri al Nusra ha annunciato la  cattura di altri cinque guerriglieri siriani addestrati dagli Stati Uniti. Secondo l’osservatorio siriano per i diritti umani (Ong vicina ai ribelli e con sede a Londra) negli scontri tra “Nuova Siria” e al Nusra i filo-americani avrebbero registrato almeno un caduto (dieci secondo altre fonti) mentre i prigionieri in mano ai qaedisti sarebbero 13, in parte catturati nel campo profughi di Qah, a ridosso del confine turco dove i filo-americani si sarebbero rifugiati.

Di fatto solo i raid aerei Usa hanno impedito che il “Gruppo 30” venisse annientato dai qaedisti, valutazione che da sola dovrebbe sconsigliare Washington dall’allargare la minaccia di attacchi alle forze di Damasco, le uniche in grado di sconfiggere al-Nusra e le altre milizie jihadiste. Lunedì infatti le forze speciali di Assad  hanno riconquistato la località strategica di Tal Hamki, situata a nord-est della pianura di al-Ghaab, vicino al governatorato nord occidentale di Latakia sconfiggendo le forze di al-Nusra. Invece di aiutare le truppe di Damasco, gli Stati Uniti minacciano di prenderle di mira continuando a perseguire una strategia che sarebbe folle se l’obiettivo fosse distruggere i jihadisti ma che al contrario risulta ”lungimirante” se lo scopo reale è seminare caos e destabilizzazione in tutta la regione. Non a caso la Russia, alleata di Damasco, preme invece per allargare la Coalizione internazionale anti-Isis anche al governo siriano con una proposta formale presentata a sauditi e statunitensi che non sembrano però avere nessuna intenzione di accoglierla, perseguendo l’assurdo principio che lo Stato Islamico si sconfigge più facilmente se cade Bashar Assad.

Secondo il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, la nuova campagna aerea statunitense in appoggio ai ribelli cosiddetti "moderati" finirà per "complicare ancora di più la lotta al terrorismo". 
Del resto quale approccio abbiano gli anglo-americani rispetto al conflitto mediorientale è stato ben illustrato ieri dal ministro britannico della Difesa, Michael Fallon, che in visita in Iraq ha dichiarato che gli attacchi contro le milizie dell'Isis si protrarranno sino al 2017. Londra e Washington vogliono quindi tirarla per le lunghe favorendo l’allargamento del conflitto ma, ovviamente senza esporsi troppo. Fallon infatti ha precisato che si tratterà solo di raid aerei perché “non c'è bisogno dell'intervento delle forze di terra britanniche".


venerdì 31 luglio 2015

Petizione per la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Siria e abolire Embargo e Sanzioni sul popolo siriano

A questo link è possibile firmare la petizione proposta dal Coordinamento per la Pace in Siria:

https://www.change.org/p/presidente-della-repubblica-italiana-sergio-mattarella-presidente-del-consiglio-dei-ministri-matteo-renzi-ripresa-delle-relazioni-diplomatiche-con-la-siria-e-abolire-embargo-e-sanzioni-sul-popolo-siriano


Per favorire il processo di pace , per dare speranza al popolo siriano, per tutte le ragioni umanitarie che le Monache Trappiste hanno testimoniato,  Ora pro Siria aderisce e invita i lettori a sottoscrivere la petizione: 

Ripresa delle relazioni diplomatiche con la Siria. Abolire Embargo e Sanzioni sul popolo siriano

LETTERA INVIATA A
Presidente della Repubblica Italiana  Sergio Mattarella
Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi

Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria
http://www.siriapax.org/?p=15478   


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"L'Is è uno strumento nelle mani delle grandi potenze, da loro sono stati creati, armati e sostenuti. Invece di combatterli sul terreno comprano da loro il petrolio e i reperti archeologici rubati “ , dichiara il Vescovo latino di Aleppo


di MARCO TOSATTI
In un’interessante intervista a Tg2000 il vicario apostolico di Aleppo dei latini, mons. Georges Abou Khazen, ha espresso dubbi sulla reale volontà della Turchia – e degli Stati Uniti – di voler combattere l’Isis. 

Intanto l’organizzazione “Siriapax” ha lanciato una petizione al Presidente della Repubblica, Mattarella, e al Parlamento affinché vengano ristabiliti i rapporti con Damasco, e tolte le sanzioni contro il popolo siriano.

La gente teme che i turchi vogliano combattere i curdi sotto la scusa dell’Isis”. Lo ha detto il vicario apostolico di Aleppo dei latini, mons. Georges Abou Khazen, in un’intervista al Tg2000, il telegiornale di Tv2000, commentando le operazioni militari che la Turchia sta eseguendo contro l’Isis in Siria e contro i curdi del Pkk in Iraq. “Se è una lotta contro l’Isis va bene - ha aggiunto mons. Khazen - ma se è una scusa della Turchia per creare una zona indipendente dalla Siria, allora diventa un po’ pericoloso. Se è una scusa per combattere i curdi e aumentare la confusione e la violenza, allora non è un segnale positivo. Sappiamo bene che la Turchia ha permesso all’Isis di entrare, di armarsi e avere il loro addestramento”. 

Mons. Khazen ribadisce che “tutti noi siamo contro la civiltà della morte e della distruzione” ma “anche molti musulmani moderati che sono contro l’Isis si arruolano per combattere questa peste. A me dispiace che le luci si siano accese su qualche cristiano che si è alleato con i curdi contro l’Isis. Questo fa aumentare l’odio contro i cristiani. E’ naturale che in una guerra le persone si difendano. Ci sono persone che sono obbligate a fare il servizio militare”.  

E’ naturale che qualcuno si difenda – ha concluso il vicario di Aleppo - ci sono cittadini a cui si dice ‘invece di andare a fare la leva a Damasco, restate nei vostri paesi e difendeteli’”. 
“L’Isis è uno strumento nelle mani delle grandi potenze, da loro sono stati creati, armati e sostenuti. Invece di combatterli sul terreno comprano da loro il petrolio e i reperti archeologici rubati in queste terre”. Ha detto ancora mons. Georges Abou Khazen.  

Sappiamo bene chi sta comprando queste cose dall’Isis – ha aggiunto mons. Khazen - Non bisogna dare agli uomini dell’Isis le armi e non li devono addestrare. Nei paesi limitrofi della Siria, tra cui anche la Turchia, ci sono dei veri e propri campi d’addestramento”. “Gli uomini dell’Isis - ha aggiunto il vicario di Aleppo - hanno preso le zone dove c’è il petrolio, l’hanno cominciato a vendere a 10 dollari al barile e adesso a 30 dollari. E chi sta comprando petrolio e reperti archeologici? Sicuro non sono i somali o quelli della Mauritania”.  

Mons. Khazen ha inoltre sottolineato che “con l’Isis non trafficano solo le compagnie occidentali. E chi ci rimette la vita è questa povera gente. Noi in Siria abbiamo 23 gruppi religiosi-etnici diversi che costituivano un bel mosaico. E adesso cosa stanno diventando? E ci parlano di diritti dell’uomo”.  

mercoledì 29 luglio 2015

Turchia: bersaglio ISIS, curdi o Assad?


di G. Gaiani
La Bussola Quotidiana

Dopo anni di connivenze e aperte complicità con i movimenti jihadisti che combattono il regime siriano, il presidente turco Recep Tayyp, Erdogan scende in campo nel conflitto contro lo Stato Islamico, ma lo fa con l’ambiguità che caratterizza non solo la politica di Ankara ma ormai l’intera operazione condotta dalla Coalizione internazionale. 
Scattato il 24 luglio, l’intervento militare turco ha preso il via dopo la recrudescenza degli scontri con i miliziani curdi del Partito curdo dei Lavoratori (Pkk) che ha ridato vita a un conflitto interrottosi nel 2011 con una tregua in atto da 2 anni ma che in 30 anni ha provocato la morte di 40 mila turchi. I raid hanno preso il via soprattutto dopo la strage di Suruc dove un kamikaze ha ucciso 32 persone ferendone decine nel villaggio turco a pochi chilometri dal conflitto siriano.

L’attentato è stato attribuito allo Stato Islamico che però non sembrava avere molti interessi a colpire Ankara. Durante l’assedio degli uomini del Califfo alla città curda di Kobane vennero diffuse foto che mostravano guardie di frontiera curde e miliziani dell’Isis che fraternizzavano ed è noto che molte munizioni e armi sono giunte allo Stato Islamico (e ad altri movimenti jihadisti dalla Turchia) così come negli ospedali turchi sono stati curati molti combattenti del Califfato. La svolta di Ankara, sostenuta da Washington anche nel recente incontro tra Obama ed Erdogan, non sembra in realtà fornire un significativo supporto alla Coalizione contro l’Isis ed è abbinata a un giro di vite sulla sicurezza interna che ha già provocato oltre 600 arresti di esponenti di movimenti jihadisti, curdi, di sinistra, ma anche del Partito Democratico dei popoli (Hdp), filo curdo, che aveva avuto una buona affermazione alle ultime elezioni contribuendo a far perdere al partito di Erdogan, Akp, la maggioranza assoluta dei seggi.

Non è un caso che gli F-16 turchi decollati dalla base di Dyrbakir abbiano effettuato nelle prime 48 ore solo 9 incursioni contro 4 check-point dell’Isis nella zono di Kilis mentre contro le roccaforti irachene del Pkk e i loro alleati siriani delle milizie popolari curdi (Ypg), braccio armato del Partito Democratico Curdo siriano (Pdy), sono state effettuate una trentina di incursioni. Il governo turco ha smentito di aver colpito postazioni curde in territorio siriano negando che Ypg e Pdy siano bersagli dei velivoli e dell’artiglieria turca, ma ieri mattina erano stati denunciati bombardamenti contro postazioni curde a Zor Maghar, nella provincia di Aleppo. Il governo di Ankara ha riferito di aver avviato un'indagine, per appurare se nell'offensiva contro lo Stato Islamico siano state colpite anche postazioni curde in Siria. «Le operazioni militari in corso sono tese a neutralizzare l'imminente minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia e continuano ad avere come obiettivo lo Stato Islamico in Siria e il Pkk in Iraq», ha annunciato la fonte. Difficile però credere che i turchi non conoscano gli schieramenti militari dei gruppi armati presenti ai loro confini e inoltre la decisione di attivare una no fly-zone profonda 50 chilometri e lunga 90 in territorio siriano tra Marea e Jarabulus tradisce la volontà di Ankara di liberarsi dell’Isis ai suoi confini, ma anche di impedire ai curdi siriani di estendere l’area sotto il loro controllo lunga la frontiera.

La guerra allo Stato Islamico ha consentito ai curdi di Iraq e Siria di istituire un’area sotto il loro controllo e contigua territorialmente che si estende dal nord della Siria al nord dell’Iraq. Il presupposto ideale, specie in caso di sfaldamento dell’Iraq, per istituire l’agognato Stato curdo. Un’opzione inaccettabile da Ankara perché rivitalizzerebbe l’autonomismo dei curdi turchi. Non è forse un caso che l’intervento turco si verifichi dopo i vasti successi conseguiti dai curdi contro l’Isis. L’Ypg ieri ha liberato la cittadina di Sarrin, dopo tre settimane di scontri violentissimi. Sarrin si trova sull’autostrada tra Raqqa e Aleppo nel nord della Siria (e non lontano dal confine turco), contribuendo a isolare Raqqa, la capitale del Califfato da cui le avanguardie curde distano meno di 80 chilometri. 

Ankara sembra voler puntare a cacciare l’Isis dai confini, contenere i curdi e indebolire ulteriormente Bashar Assad con una no fly-zone aperta ai cacciabombardieri turchi e della Coalizione, ma da cui sono banditi i jet di Damasco (pena l’abbattimento) . Il tutto con il sostegno di Washington ma senza uno straccio di risoluzione dell’Onu che autorizzi la palese violazione del diritto internazionale e della sovranità siriana. Probabile (come sostiene il quotidiano turco Hurryet) che Washington abbia barattato il via libera all’utilizzo della base aerea di Incirlik (e di altre tre basi in caso di necessità) con il sostegno all’istituzione della no fly-zone, ma il supporto degli Usa non può sostituire l’avvallo dell’Onu anche se Erdogan ha invocato l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sul diritto all’autodifesa.

Certo, agli Stati Uniti l’ambiguo intervento militare turco consente di limitare la partecipazione al conflitto continuando a perseguire con successo la destabilizzazione della regione mediorientale accentuando caos e conflitti interni. Il paradosso di una Coalizione che conduce una guerra così blanda al Califfato da sembrare finta si aggiunge all’ambiguità delle monarchie sunnite (il cui impegno limitato è imposto dalla necessità di non favorire i governi sciiti di Iraq e Siria e di non irritare le loro opinioni pubbliche, sunnite e simpatizzanti per l’Isis) e di una Turchia che muove guerra all’Isis, ma al tempo stesso a curdi e governativi siriani, nemici giurati dello Stato Islamico.

Per lo Stato Islamico l’intervento turco rappresenta un’ulteriore complicazione e l’ennesimo atto di ostilità proveniente da Paesi che avevano contribuito alla nascita e al consolidamento del Califfato ma non possono venire messi in secondo piano gli aspetti di politica interna che possono avere indotto Erdogan all’azione. Lo Stato d’emergenza consentirà agli apparati giudiziari, militari e di polizia di sbarazzarsi di tanti oppositori interni  rovesciando lo stato di debolezza del governo e del partito Apk emerso dopo le ultime elezioni. Erdogan ha detto che la campagna militare durerà circa tre o quattro mesi: un periodo forse sufficiente a rovesciare gli equilibri e a mettere sotto scacco quanto resta della democrazia turca anche se questo significa riaprire il conflitto con il Pkk e rischiare la guerra civile. Per alimentare il clima di emergenza e di Stato d’assedio il governo ha annunciato che costruirà un muro prefabbricato con fossati, telecamere a infrarossi e sensori lungo gli oltre 600 chilometri il confine siriano al costo di oltre 1,5 miliardi di euro.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-erdogan-bombarda-lisis-ma-lobiettivo-e-la-siria-13373.htm




Piccole Note, 25 luglio 15

«Finora Ankara era stata di fatto uno sponsor del Califfato: attraverso la Turchia l’Is riceveva armi e medicine, e riusciva al tempo stesso a esportare il suo petrolio». Così Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum e una delle menti più lucide dei neocon Usa, intervistato da Arturo Zampiglione per la Repubblica del 24 luglio. Pipes dice qualcosa che sapevano tutti (e ai suoi ricordi andrebbe aggiunto anche altro, come il fatto che il territorio turco era luogo di reclutamento dei miliziani e via dicendo). Insomma uno sponsor del terrorismo internazionale, come spiega Pipes, che ha agito impunemente e liberamente per anni, nella piena consapevolezza dei Paesi Nato.
Ma questo è il passato. In questi giorni la Turchia ha cambiato strategia e ha dichiarato guerra all’Isis. A dimostrazione che fa sul serio, l’inizio di azioni militari in territorio siriano e l’arresto di alcuni terroristi in patria. Oltre a ciò ha concesso agli americani l’uso della base aerea di Incirlik, finora negata, che Washington considera strategica per un’efficace azione di contrasto al Califfato.
Molti analisti hanno individuato la genesi di questo cambio di strategia nell’attentato di Suruc, nel quale una kamikaze dell’Isis si è fatta esplodere uccidendo una trentina di giovani curdi che stavano organizzando una missione tesa alla ricostruzione di Kobane, la città siriana al confine turco simbolo della resistenza al Califfato. L’attentato ha creato un clima teso in Turchia: al governo è stata rimproverata l’acquiescenza verso i terroristi islamici e ha riaperto la frattura con i curdi, il cui successo elettorale nelle recenti elezioni (il loro partito ha tolto all’Akp, partito islamico al potere, la maggioranza assoluta) ha mandato all’aria i piani di Tayyp Erdogan di ridisegnare la Costituzione.
In realtà è più probabile che alla base di questo cambiamento di strategia di Ankara ci sia altro, ovvero l’accordo sul nucleare iraniano tra Usa e Iran, che sta determinando un terremoto geopolitico in tutto il Medio Oriente. Un accordo che ha rafforzato Assad, da sempre legato a Teheran, e ha aperto nuove possibilità di dialogo in vista di un accordo globale sulla Siria. Una prospettiva che potrebbe aver determinato la nuova assertività turca: ridimensionata, la speranza di un cambio di regime a Damasco per via terroristica, Ankara si riposiziona con una strategia che sviluppa due direttrici: da una parte potrebbe consentirgli di entrare finalmente con le sue truppe in territorio siriano (idea da tempo in cantiere) per prendere il controllo di un’area di confine che comprende la (ex) ricca città di Aleppo; dall’altra di entrare con forza nella partita negoziale che potrebbe aprirsi sul destino di Damasco.
Una strategia che conserva quindi tante ambiguità, anzi le moltiplica. Tra queste anche quella che vede innescarsi un confronto più serrato con i curdi, gettando alle ortiche il simulacro della trattativa con il Pkk, il partito dei lavoratori curdi, del recente passato. Il successo del partito curdo alle ultime elezioni e la prospettiva della nascita di uno Stato curdo ai suoi confini per Erdogan e i suoi sono un incubo. Anche per questo i bombardieri di Ankara hanno colpito obiettivi curdi in Iraq e Siria, nonostante questi siano stati finora gli unici veri oppositori, insieme al governo di Damasco, dell’Isis (la coalizione internazionale anti-Isis messa su dagli Stati Uniti finora ha fatto pochino, per usare un eufemismo).