Traduci

venerdì 11 aprile 2014

Siria, dove la pietà è un grido


Damasco, 10 aprile 2014


In questi giorni  sono caduti tanti colpi di mortaio sulle nostre zone cristiane, al-Kassa, Jaramana, Bab Touma…, abbiamo avuto tanti morti...

Oggi sono caduti a Jaramana piu di 45 colpi. E’ morto per una scheggia di mortaio pure un giovane uomo cristiano lasciando un bimbo.  Si chiama George Abo Samra.

Ero a pochi metri dal primo colpo, dove ero andato a fare la spesa. Mentre la gente era nascosta all'angolo dell'ospedale francese è caduto  il secondo colpo proprio dove la gente si era radunata, causando la morte di altre due persone .

Sono  corso subito alla scuola dove c’è mio figlio Micheal , il piccolo. Ho visto la paura negli occhi dei genitori. Ho visto bimbi con un volto sconvolto. Mio figlio mi ha detto che ha visto dalla finestra della classe una colonna di fumo. Insomma sono caduti in pochi minuti 4 colpi di mortaio nella zona di al-Kassa all'ora di punta. Colpiscono  mentre la gente sta facendo le spese e i genitori stanno andando a prendere i loro figli dalle scuole. Sono rientrato alle ore 13:15 e squilla il telefono e mi dicono che un colpo di mortaio ha colpito il palazzo dove ho la casa mia a Jaramana causando danni alla mia cisterna d'acqua e creando un buco nel soffitto della casa del mio vicino.

Ma quali sono le fonti di Avvenire???
Mentre ti scrivo queste parole ho sentito passare sopra di me due colpi di mortaio. Non so dove andranno a finire.  Ma la gente qua è proprio stanca di Jobar e Mileha da dove i ribelli lanciano contro di noi centinaia di colpi. 

Le scuole a Jaramana sono chiuse per più di una settimana, dopo che erano stati ammazzati 4 bambini, e  pure qua al Kassa le scuole domani chiudono che sono state aperte solamente due giorni (mercoledi e giovedi).

E la settimana scorsa hanno colpito pure sulla Patriarcale Melkita...

E allora diciamo:  Fino a quando l'esercito deve rimanere cosi di fronte a quello che fanno i gruppi armati di Jobar? Fino a quando dobbiamo resistere?

 Chiediamo all'esercito siriano di farli finire!

Samaan



Siria: Cristiani come animali



 MARCO TOSATTI

L’arcivescovo metropolitano della Chiesa apostolica ortodossa di  Antiochia Antonio Chedraui Tannous, ha affermato oggi che i cristiani di Siria sono ammazzati come se si trattasse di animali, nel momento in cui la comunità internazionale “si è tappata gli occhi e non vuole sentire”.  
L’arcivescovo parlava a José Gálvez Krüger direttore dell’Enciclopedia Cattolica, che fa parte del gruppo ACI. E denuncia che “senza dubbio la chiesa ortodossa antiochena vive un martirio interminabile: sequestro dei due arcivescovi e di alcuni sacerdoti, mattanza di sacerdoti e fedeli innocenti che non hanno niente a che edere con ciò che sta accadendo. Persecuzioni, distruzione di chiese, assassini. E la cosa peggiore e più barbare e che si uccidono i cristiani come si ammazzano gli animali, e tutto questo, nel nome di Dio”. E continua il prelato: “Mi chiedo: che cosa ha a vedere questo con la lotta per la democrazia o la libertà in Siria? I criminali, nella loro maggioranza, sono stranieri, che vengono dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dalla Cecenia e da altri Paesi”. Se i ribelli lottassero per la democrazia “sarebbero stati siriani, e non mercenari stranieri”.  
“Se l’occidente con in testa gli Stati Uniti e altri Paesi come l’Arabia Saudita e la Turchia non fossero intervenuti mandando denaro e armi, non saremmo al punto in cui siamo in Medio Oriente; e le Nazioni Unite, che ricevono ordini dagli Stati Uniti, non si interessano dei diritti umani e ancor meno di quelli dei cristiani in Medio Oriente”. Obama, secondo il vescovo ha sviluppato una politica ancora più aggressiva e peggiore di quella di Bush nella zona.  

http://www.lastampa.it/Page/Id/2.0.589627549


Homs : 25 morti tutti civili e 107 feriti per un'autobomba in quartiere abitativo,
seguita da una seconda quando si era radunata la gente per i soccorsi...


Armeni siriani di Kessab deportati in territorio turco

Agenzia Fides 10/4/2014
Alcuni anziani di Kessab, la città nord-orientale siriana a maggioranza armena assalita nelle scorse settimane da milizie armate anti-Assad, sono stati trasferiti dagli stessi miliziani in territorio turco, senza essere stati informati prima della loro destinazione. É quanto emerge da fonti armene consultate dall'Agenzia Fides.
Nei giorni scorsi la stampa turca aveva dato risalto alla notizia che almeno 18 armeni fuggiti da Kessab dopo l'assalto dei ribelli avevano trovato asilo in alcuni villaggi turchi come Yayladagı e Vakif. La notizia era stata riportata con enfasi, mentre si avvicina il centenario del genocidio subito dagli armeni nella Turchia ottomana. Le indagini condotte da alcuni media armeni hanno rivelato dettagli eloquenti sul modo in cui è avvenuto il trasferimento degli armeni siriani in territorio turco. Secondo le testimonianze di alcune donne anziane accolte nel villaggio turco di Vakif, gli uomini armati che hanno assalito le loro case parlavano in turco e hanno scelto di trasferire in territorio turco i pochi anziani rimasti a Kessab dopo che la quasi totalità della popolazione armena della città era fuggita verso la zona costiera di Latakia, all'arrivo delle milizia anti-Assad. Il trasferimento forzoso in Turchia è avvenuto in condizioni proibitive per gli anziani armeni, che erano stati tenuti all'oscuro della reale destinazione. 



Nel 1915 si è consumato uno dei più efferati genocidi dello scorso secolo. In un impero ottomano ormai agonizzante e percorso da ventate di nazionalismo, di cui era interprete l'organizzazione conosciuta come “giovani turchi”, si scatenò la caccia agli esponenti della piccola, ma radicata minoranza armena. Gli Armeni sono cristiani, anzi furono una delle prime nazioni a diventare interamente cristiane, e per questo la loro vita non fu mai facile all'interno di un impero che innalzava la bandiera dell'Islam militante. Ma quello che avvenne nel 1915 superò per orrore ogni precedente persecuzione. Decine di migliaia di persone furono strappate dalle loro case e brutalmente massacrate sul posto o avviate, in lunghe colonne, verso le zone più inospitali dell'Anatolia dove vennero letteralmente lasciate morire di fame e di stenti. I villaggi armeni vennero distrutti e le chiese profanate e trasformate in moschee o locali pubblici. 
Molti Armeni fuggirono dalla Turchia per non essere vittime dei pogrom e trovarono rifugio e protezione nelle nazioni vicine tra cui Siria e Libano che, pur essendo formalmente parte dell'Impero Ottomano, non solo non si associarono ai massacri, ma anzi nascosero e protessero i fuggitivi. Fu così che in Siria e Libano nacquero grosse comunità armene e sopravvissero quelle più antiche che vi risiedevano già da molti secoli. Una di queste ultime vive (forse  meglio dire viveva fino al 21 marzo di quest'anno) nella piccola città di Kessab al confine tra Siria e Turchia ed a pochi chilometri dall'importante porto siriano di Latakia. Seimila persone, per oltre due terzi Armeni, che abitavano in sei piccole frazioni in una zona montuosa fino a pochi giorni fa risparmiata dalla guerra. IL 21 marzo però dal confine turco sono arrivate gli integralisti islamici dell'ISIL e del fronte Al Nusra che hanno prima bombardato e poi attaccato Kessab, costringendo l'intera popolazione a fuggire ed a cercare rifugio nella vicina Latakia. Fatto assolutamente nuovo, l'esercito turco, che presidia il confine a pochi chilometri da Kessab, non solo ha lasciato passare le bande armate, ma addirittura, secondo molti testimoni oculari, le ha appoggiate con l'artiglieria ed i blindati ed ha lanciato missili contro gli aerei siriani, uno dei quali è stato abbattuto. L'intenzione dei guerriglieri è sicuramente quella di minacciare Latakia per distogliere forze siriane dalla battaglia in corso nel Qalamoun. I Turchi invece sembrano cercare un casus belli per poter attaccare la Siria, come parrebbero confermare le intercettazioni dei discorsi tra esponenti del regime di Erdogan resi pubblici probabilmente da ambienti militari turchi ostili alla linea del premier. Non è sicuramente un caso per che, per dare il via a questa loro nuova linea, i Turchi abbiano scelto di attaccare un villaggio armeno, colpendo così oltre che la Siria, anche i loro tradizionali nemici. Probabilmente Erdogan contava sul fatto che la Russia -impegnata sul fronte ucraino- non si sarebbe esposta più di tanto in difesa dell'alleato siriano. Così ovviamente non è stato perchè immediatamente tre navi russe alla fonda nel porto di Tartous hanno fatto rotta verso quello di Latakia. Una presenza simbolica, ma sufficiente a far capire ad Ankara che la strada intrapresa avrebbe potuto portare a conseguenze pericolose. Vedremo gli sviluppi.

mercoledì 9 aprile 2014

Erdogan freme per attaccare la Siria

Foto da Repubblica , articolo http://www.repubblica.it/esteri/2014/04/09/news/hersh_non_fu_la_siria_a_usare_le_armi_chimiche-83106851





da Piccole Note, 9 aprile 2014
di Renato Piccolo

Pare che a Erdogan manchi solo un pretesto. Che il premier turco sia pronto a tutto pur di rovesciare il governo siriano di Bashar al Assad non è una novità. Negli ultimi tempi, però, sembra che i preparativi per un intervento militare della Turchia in Siria abbiano fatto un salto di qualità.

Il 30 marzo scorso, la sera stessa della sua impressionante vittoria nelle elezioni amministrative (col 44% dei consensi), Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla folla festante sotto la sede del suo partito che «oggi la Siria è in guerra contro di noi». Da Damasco, inutile dirlo, non è arrivata nessuna dichiarazione ufficiale di guerra. Al contrario, il governo di Assad non ha reagito all’abbattimento di un suo Mig da parte dell’aviazione turca. Era il 23 marzo, e secondo Ankara il caccia siriano aveva sconfinato di un chilometro all’interno dello spazio aereo turco. Una circostanza che Damasco nega categoricamente, forte anche del fatto che il jet è precipitato sul suolo siriano. Se c’è stato sconfinamento, ammettono anche gli osservatori turchi, non dev’essere durato più di qualche decina di secondi. Piuttosto è chiaro che Erdogan vuole tenere alta la tensione ai confini meridionali, fino a «mettere in piedi una crisi».


Un ruolo turco nell’attacco chimico di Damasco?
Questa strategia si sarebbe ormai consolidata da diversi mesi. Lo sostiene Seymour Hersh – tra le più autorevoli firme del giornalismo investigativo americano, dai tempi del Vietnam a oggi – in una lunga inchiesta apparsa il 4 aprile sulla London Review of Books. Grazie alle confidenze di un ex agente dei servizi di intelligence americani, Hersh è andato a scavare nella vicenda dell’attacco chimico dell’agosto 2013 a Ghouta, periferia di Damasco.

Secondo il giornalista, già nei giorni immediatamente successivi all’attentato l’intelligence britannica sarebbe entrata in possesso di un campione dell’agente nervino utilizzato a Ghouta: «Il campione non combaciava con le scorte note nell’arsenale chimico siriano». A partire da quella e da altre prove, spiega l’ex spia a Hersh, «ora sappiamo che l’attacco è stato un’operazione sotto copertura organizzata da quelli di Erdogan per spingere Obama oltre la sua “linea rossa”», cioè per spingerlo ad attaccare la Siria. «I vertici del nostro esercito sono stati informati dalla Dia (il servizio segreto militare) e da altre agenzie che il sarin è arrivato dallaTurchia, e che può esserci arrivato solo grazie al sostegno della Turchia».

Perché allora il governo americano non ha reso pubbliche queste informazioni? – chiede Hersh. «Da quando l’attacco alla Siria è stato annullato – risponde la fonte – la Casa Bianca non ha prodotto nessun documento sul coinvolgimento siriano nell’attacco col sarin. Ma visto che abbiamo dato la colpa ad Assad, ora non possiamo rimangiarci la parola e accusare Erdogan».


A caccia del casus belli
Sulla vicenda dell’attacco chimico a Damasco è stato scritto molto, a favore e contro la tesi della colpevolezza di Assad. Ma anche al di là dell’inchiesta di Hersh, ci sono prove in abbondanza sul fatto che il governo turco stia provando a legittimare un attacco alla Siria.

È una strategia che si è resa manifesta da almeno un anno. L’11 maggio 2013 due autobombe fecero 52 morti a Reyhanli, cittadina turca nella provincia dell’Hatay, al confine con la Siria. Erdogan annunciò di avere le prove che il mandante della strage era il governo siriano. Il 27 marzo scorso, però, l’ambasciatore turco all’Osce Tacan Ildem ha ammesso che dietroquell’attentato c’erano dei terroristi di al Qaeda, non il governo di Damasco.

Nel maggio del 2013 la Turchia non aveva ancora riconosciuto pubblicamente il pericolo per la stabilità regionale rappresentato da alcune delle forze anti-Assad. La situazione oggi è cambiata e anzi ad Ankara c’è chi pensa di giustificare un intervento militare proprio col pretesto del contenimento degli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (organizzazione nota con l’acronimo inglese Isis).

Lo stesso giorno in cui l’ambasciatore Ildem rievocava l’attentato di Reyhanli, su YouTube appariva la registrazione di una telefonata tra il premier Erdogan, Hakan Fidan, il potentissimo capo dei servizi segreti turchi (Mit), e Feridun Sinirlioglu, un sottosegretario al ministero degli esteri. L’autenticità del nastro non è stata messa in discussione dal governo, che al contrario, per evitarne la diffusione, ha bloccato per diverse ore l’accesso al sito.

Nel corso della telefonata Sinirlioglu spiega che «un’operazione contro l’Isis ha la legittimità internazionale. Diremo che è al Qaeda. Nessuno contesta lo schema su al Qaeda. E quando si tratta della tomba dello scià Solimano è una questione di difesa del territorio nazionale». La tomba cui fa riferimento il politico è un sacrario posto in territorio siriano, a una trentina di chilometri dalla frontiera, ma appartenente alla Turchia e difeso da una piccola pattuglia di soldati di Ankara: si tratta infatti della tomba di un avo del fondatore dell’impero ottomano.
Già alcune settimane fa il leader dell’opposizione turca, Kemal Kilicdaroglu, aveva accusato il governo di voler usare la tomba di Solimano come casus belli. La conferma arriva dalla voce di Hakan Fidan: «Se proprio ci deve essere una giustificazione (all’attacco) – dice il capo del Mit nella telefonata con Erdogan – mando quattro uomini dall’altro lato (del confine). Gli faccio sparare otto missili in un campo deserto. Non è un problema. La giustificazione può essere costruita».


Le resistenze
A guastare i piani di Fidan è arrivata la fuga di notizie a mezzo YouTube. E l’attacco è stato rinviato ancora, come era accaduto nel settembre del 2013, quando l’accordo tra l’amministrazione Usa e Vladimir Putin (e le preghiere della Chiesa) avevano fermato l’intervento occidentale contro Assad. In molti, in Turchia, hanno attribuito la diffusione della telefonata ai seguaci di Fetullah Gülen, il filosofo e finanziere già alleato di Erdogan, oggi suo principale oppositore. E il presidente della repubblica Abdullah Gül, considerato un alleato di Gülen, non ha nascosto le sue remore sul modo il cui il premier sta gestendo la vicenda siriana.


Ad agosto Erdogan punta a sostituire Gül alla presidenza della repubblica. Gül (che alcuni mesi fa aveva pubblicamente parlato della necessità di una pacificazione dell’area) potrebbe prendere il posto del primo ministro, ma solo dopo essersi fatto eleggere in parlamento (e potrebbero volerci alcuni mesi). Sarà una fase di transizione complicata, che Erdogan potrà gestire insieme a Gül o contro di lui. Anche da questo potrebbero dipendere le sorti della guerra in Siria.

http://www.piccolenote.it/18181/erdogan-freme-per-attaccare-la-siria


   Leggi anche:

Chiesta la libertà di informazione in Turchia

Il governo Erdogan ha oscurato tutti i principali social network, considerati veicoli di informazione contraria al potere

Pare che a Erdogan manchi solo un pretesto. Che il premier turco sia pronto a tutto pur di rovesciare il governo siriano di Bashar al Assad non è una novità. Negli ultimi tempi, però, sembra che i preparativi per un intervento militare della Turchia in Siria abbiano fatto un salto di qualità.
Il 30 marzo scorso, la sera stessa della sua impressionante vittoria nelle elezioni amministrative (col 44% dei consensi), Recep Tayyip Erdogan ha annunciato alla folla festante sotto la sede del suo partito che «oggi la Siria è in guerra contro di noi». Da Damasco, inutile dirlo, non è arrivata nessuna dichiarazione ufficiale di guerra. Al contrario, il governo di Assad non ha reagito all’abbattimento di un suo Mig da parte dell’aviazione turca. Era il 23 marzo, e secondo Ankara il caccia siriano aveva sconfinato di un chilometro all’interno dello spazio aereo turco. Una circostanza che Damasco nega categoricamente, forte anche del fatto che il jet è precipitato sul suolo siriano. Se c’è stato sconfinamento, ammettono anche gli osservatori turchi, non dev’essere durato più di qualche decina di secondi. Piuttosto è chiaro che Erdogan vuole tenere alta la tensione ai confini meridionali, fino a «mettere in piedi una crisi».

Un ruolo turco nell’attacco chimico di Damasco?
Questa strategia si sarebbe ormai consolidata da diversi mesi. Lo sostiene Seymour Hersh – tra le più autorevoli firme del giornalismo investigativo americano, dai tempi del Vietnam a oggi – in una lunga inchiesta apparsa il 4 aprile sulla London Review of Books. Grazie alle confidenze di un ex agente dei servizi di intelligence americani, Hersh è andato a scavare nella vicenda dell’attacco chimico dell’agosto 2013 a Ghouta, periferia di Damasco.
Secondo il giornalista, già nei giorni immediatamente successivi all’attentato l’intelligence britannica sarebbe entrata in possesso di un campione dell’agente nervino utilizzato a Ghouta: «Il campione non combaciava con le scorte note nell’arsenale chimico siriano». A partire da quella e da altre prove, spiega l’ex spia a Hersh, «ora sappiamo che l’attacco è stato un’operazione sotto copertura organizzata da quelli di Erdogan per spingere Obama oltre la sua “linea rossa”», cioè per spingerlo ad attaccare la Siria. «I vertici del nostro esercito sono stati informati dalla Dia (il servizio segreto militare) e da altre agenzie che il sarin è arrivato dalla Turchia, e che può esserci arrivato solo grazie al sostegno della Turchia».
Perché allora il governo americano non ha reso pubbliche queste informazioni? – chiede Hersh. «Da quando l’attacco alla Siria è stato annullato – risponde la fonte – la Casa Bianca non ha prodotto nessun documento sul coinvolgimento siriano nell’attacco col sarin. Ma visto che abbiamo dato la colpa ad Assad, ora non possiamo rimangiarci la parola e accusare Erdogan».

A caccia del casus belli
Sulla vicenda dell’attacco chimico a Damasco è stato scritto molto, a favore e contro la tesi della colpevolezza di Assad. Ma anche al di là dell’inchiesta di Hersh, ci sono prove in abbondanza sul fatto che il governo turco stia provando a legittimare un attacco alla Siria.
È una strategia che si è resa manifesta da almeno un anno. L’11 maggio 2013 due autobombe fecero 52 morti a Reyhanli, cittadina turca nella provincia dell’Hatay, al confine con la Siria. Erdogan annunciò di avere le prove che il mandante della strage era il governo siriano. Il 27 marzo scorso, però, l’ambasciatore turco all’Osce Tacan Ildem ha ammesso che dietro quell’attentato c’erano dei terroristi di al Qaeda, non il governo di Damasco.
Nel maggio del 2013 la Turchia non aveva ancora riconosciuto pubblicamente il pericolo per la stabilità regionale rappresentato da alcune delle forze anti-Assad. La situazione oggi è cambiata e anzi ad Ankara c’è chi pensa di giustificare un intervento militare proprio col pretesto del contenimento degli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (organizzazione nota con l’acronimo inglese Isis).
Lo stesso giorno in cui l’ambasciatore Ildem rievocava l’attentato di Reyhanli, su YouTube appariva la registrazione di una telefonata tra il premier Erdogan, Hakan Fidan, il potentissimo capo dei servizi segreti turchi (Mit), e Feridun Sinirlioglu, un sottosegretario al ministero degli esteri. L’autenticità del nastro non è stata messa in discussione dal governo, che al contrario, per evitarne la diffusione, ha bloccato per diverse ore l’accesso al sito.
Nel corso della telefonata Sinirlioglu spiega che «un’operazione contro l’Isis ha la legittimità internazionale. Diremo che è al Qaeda. Nessuno contesta lo schema su al Qaeda. E quando si tratta della tomba dello scià Solimano è una questione di difesa del territorio nazionale». La tomba cui fa riferimento il politico è un sacrario posto in territorio siriano, a una trentina di chilometri dalla frontiera, ma appartenente alla Turchia e difeso da una piccola pattuglia di soldati di Ankara: si tratta infatti della tomba di un avo del fondatore dell’impero ottomano.
Già alcune settimane fa il leader dell’opposizione turca, Kemal Kilicdaroglu, aveva accusato il governo di voler usare la tomba di Solimano come casus belli. La conferma arriva dalla voce di Hakan Fidan: «Se proprio ci deve essere una giustificazione (all’attacco) – dice il capo del Mit nella telefonata con Erdogan – mando quattro uomini dall’altro lato (del confine). Gli faccio sparare otto missili in un campo deserto. Non è un problema. La giustificazione può essere costruita».

Le resistenze
A guastare i piani di Fidan è arrivata la fuga di notizie a mezzo YouTube. E l’attacco è stato rinviato ancora, come era accaduto nel settembre del 2013, quando l’accordo tra l’amministrazione Usa e Vladimir Putin (e le preghiere della Chiesa) avevano fermato l’intervento occidentale contro Assad. In molti, in Turchia, hanno attribuito la diffusione della telefonata ai seguaci di Fetullah Gülen, il filosofo e finanziere già alleato di Erdogan, oggi suo principale oppositore. E il presidente della repubblica Abdullah Gül, considerato un alleato di Gülen, non ha nascosto le sue remore sul modo il cui il premier sta gestendo la vicenda siriana.
Ad agosto Erdogan punta a sostituire Gül alla presidenza della repubblica. Gül (che alcuni mesi fa aveva pubblicamente parlato della necessità di una pacificazione dell’area) potrebbe prendere il posto del primo ministro, ma solo dopo essersi fatto eleggere in parlamento (e potrebbero volerci alcuni mesi). Sarà una fase di transizione complicata, che Erdogan potrà gestire insieme a Gül o contro di lui. Anche da questo potrebbero dipendere le sorti della guerra in Siria.

Il dolore per il martirio di Padre Frans Van der Lught nelle parole del Papa e del Patriarca Laham

Oggi, 9 aprile, il Papa, al termine dell’udienza generale:


Lunedì scorso, ad Homs, in Siria, è stato assassinato il Rev.do P. Frans van der Lugt, un mio confratello gesuita olandese di 75 anni, arrivato in Siria circa 50 anni fa, che ha sempre fatto del bene a tutti, con gratuità e amore, e perciò era amato e stimato da cristiani e musulmani.
La sua brutale uccisione mi ha riempito di profondo dolore e mi ha fatto pensare ancora a tanta gente che soffre e muore in quel martoriato Paese, la mia amata Siria, già da troppo tempo preda di un sanguinoso conflitto, che continua a mietere morte e distruzione. Penso anche alle numerose persone rapite, cristiani e musulmani, siriani e di altri Paesi, tra le quali ci sono Vescovi e Sacerdoti. Chiediamo al Signore che possano presto tornare ai loro cari e alle loro famiglie e comunità.
Di cuore vi invito tutti ad unirvi alla mia preghiera per la pace in Siria e nella regione, e lancio un accorato appello ai responsabili siriani e alla comunità internazionale: per favore, tacciano le armi, si metta fine alla violenza! Non più guerra! Non più distruzione! Si rispetti il diritto umanitario, si abbia cura della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria e si giunga alla desiderata pace attraverso il dialogo e la riconciliazione. 
Alla nostra Madre, Maria Regina della pace, che ci dia questo dono per la Siria, preghiamo tutti insieme ...  Ave Maria ...


Comunicato del Patriarcato Melkita greco cattolico di condanna per il martirio di Padre Frans Van der Lught


Padre Francis riposa nel giardino della sua casa di Homs

Con cuore triste abbiamo appreso la notizia del martirio di nostro fratello Padre Frans Van der Lught. Era un padre per i poveri, misericordioso per i bisognosi sfollati e feriti, per i forestieri, e perfino per i criminali, partendo dalle sue convinzioni cristiane della fede.Questo è ciò in cui si è distinto dall'inizio della sanguinosa crisi siriana ed ecco che la mano del tradimento, del crimine e della barbarie lo elimina, consegnandogli la corona del martirio della fede, del suo amore, generosità e sacrificio.E ci chiediamo: fino a quando i paesi del mondo rifiuteranno di capire la realtà della situazione siriana, inneggiando alla democrazia, alle riforme e alla libertà e tanti altri slogan vuoti ed ingannevoli? fino a quando non si metterà il mondo, in una volontà e una voce sola, lavorando per fermare la guerra dichiarata sulla Siria, sul presidente, sul governo, sull'esercito, sulla popolazione, sulle istituzioni, conventi, chiese, moschee edifici religiosi cristiani e mussulmani, uomini, donne, bambini e anziani ...?A nome del patriarcato Melkita greco cattolico, essendo presidente del consiglio dei capi delle chiese cattoliche in Siria: condanniamo questo crimine barbaro, e porgiamo le nostre condoglianze ai Padri gesuiti in Siria e Libano, nella regione e in tutto il mondo, e al nostro Papa gesuita. Eleviamo le nostre preghiere per la pace dell'anima di questo prete martire, servo di Cristo, e dei figli di questa patria Siria e soprattutto dei figli della città ferita di Homs.E con le preghiere della Chiesa preghiamo: o Signore Cristo fa che l'anima del tuo servo nostro fratello Padre Frans riposi con i santi dove non c'è dolore, nè tristezza, nè lamento, ma una vita senza fine.Resti in pace 
Gregorios Lahham Patriarca dei Melkiti greco cattolici 
Damasco, 6 aprile:
Colpi di mortaio sul Patriarcato melchita.

lunedì 7 aprile 2014

R.I.P., padre Franz

Padre Francis assassinato da uomini armati all'interno 
del monastero gesuita in Homs



Padre Franz viveva nella zona di Homs controllata dai ribelli; gli era stata proposta 
l'evacuazione con gli altri civili, ma non aveva voluto lasciare il monastero gesuita, 
la piccola comunità di cristiani rimasti  e il patrimonio cristiano secolare da lui custoditi. 

http://www.papaboys.org/siria-assassinato-il-gesuita-van-der-lugt/




http://it.radiovaticana.va/news/2014/04/07/siria,_ucciso_padre_gesuita_a_homs._padre_lombardi:_dove_il_popolo/it1-788561

venerdì 4 aprile 2014

«1400 anni di islam non ci hanno potuto strappare dalle nostre terre e dalle nostre chiese, mentre oggi la politica occidentale ci ha disperso ai quattro angoli della terra.»

Le guerre in Iraq, Libia e Afghanistan hanno peggiorato la condizione dei popoli, in particolare le minoranze. Le politiche fallimentari promosse dall'Occidente. 
Cresce il fondamentalismo, la Primavera araba svuotata dagli estremismi. 
Il ruolo delle autorità musulmane nella tutela di diritti e libertà religiosa. 
La presenza dei cristiani in Medio oriente è fondamentale per i musulmani.



 Il Medio Oriente si sta svuotando dei cristiani. Ciò avviene a causa di fondamentalismi regionali, di impaccio delle autorità locali, di inerzia della comunità internazionale e dell'Occidente. La fuga dei cristiani causerà impoverimento sociale, economico e culturale alla regione e instabilità per il mondo intero. 
E' l'appello accorato che Mar Louis Raphael I Sako ha lanciato nei giorni scorsi in un seminario promosso dall'università cattolica di Lione, in Francia, sulla "Vocazione dei cristiani d'Oriente". Il Patriarca caldeo invita a "non considerare" i cristiani come una "minoranza, ma come cittadini a tutti gli effetti"
Nel suo lungo intervento Sua Beatitudine illustra la situazione generale dei cristiani in Medio oriente, sottolineando l'importanza della loro presenza, spiegando il ruolo delle autorità musulmane e delle Chiese orientali. Egli invita a esercitare pressioni sui governi perché siano riconosciuti e garantiti pari diritti, rilanciando ancora una volta la richiesta di fermare l'esodo dalle loro terre di origine. 
Ecco, di seguito, l'intervento integrale di Mar Sako (Corsivi e grassetti sono dell'originale. Traduzione a cura di AsiaNews).

Asia News,  03/04/2014 

di Mar Louis Raphael I Sako

I cambi di regime che hanno avuto luogo in diversi Paesi hanno aperto un abisso al loro interno; gli interventi in Afghanistan, in Iraq, in Libia non hanno affatto contribuito a risolvere il problema dei loro popoli ma, al contrario, hanno determinato situazioni caotiche e conflitti che non permettono affatto di immaginare un avvenire migliore, in particolare per i cristiani! Le divisioni confessionali divengono sempre più marcate e forti, soprattutto fra sciiti e sunniti. Diversi partiti politici di carattere settario si stanno organizzando e tutto viene a essere suddiviso in base alla confessione religiosa. Credo che in Iraq il cammino finirà con una divisione del Paese, perché il terreno è già preparato tanto dal punto di vista psicologico, quanto sotto il profilo geografico. La pulizia [etnico-religiosa] dei quartieri e delle città tra sunniti e sciiti va proprio in questa direzione.

1 - Situazione generale dei cristiani in Medio oriente
Fino a 50 anni fa i cristiani del Medio oriente rappresentavano il 20% del totale della popolazione. Oggi si parla di un misero 3%. Quando le potenze coloniali hanno dato vita a queste nazioni, non lo hanno fatto partendo da basi storiche, geografiche o etniche: in questo modo non vi è stata né omogeneità, né un vero progetto di cittadinanza in cui tutti possono essere integrati. L'accordo Sykes-Picot del 1916 non ha tenuto in considerazione l'emergenza delle frontiere di Paesi come il Libano, la Giordania, la Siria, l'Iraq e altri ancora. Le decisioni sono state prese in funzione degli interessi delle grandi potenze, e questo ha aperto la via a conflitti confessionali, religiosi, etnici con i quali abbiamo a che fare ancora oggi. Non vi è pace tra israeliani e palestinesi; il Libano è stato frantumato e resta sempre sotto la minaccia della guerra civile; la Siria è sul punto di crollare, con nove milioni di persone che hanno abbandonato le loro abitazioni, l'Iraq è devastato, l'Egitto esploso. Milioni di cristiani d'Oriente, rifugiati, fuggono da una regione all'altra.

Oggi si parla sempre più di un piano che intende dar vita a un nuovo Medio oriente. Per noi è fonte di preoccupazione e di paura. 1400 anni di islam non ci hanno potuto strappare dalle nostre terre e dalle nostre chiese, mentre oggi la politica occidentale ci ha disperso ai quattro angoli della terra.

I cristiani sono sempre più vittime: il loro esodo dai Paesi del Medio oriente è inarrestabile. Attualmente, secondo le stime sono - in tutto - tra i 10 e i 12 milioni su una popolazione complessiva di 550 milioni di abitanti, pari al 3% circa. La pressione esercitata contro i cristiani e le minoranze religiose in Medio oriente è aumentata nel corso degli ultimi decenni, alle volte in modo sommesso e, in altri momenti, in modo aperto, pubblico. Le discriminazioni, ingiustizie, sequestri, emarginazioni, intimidazioni in molte parti del mondo arabo-islamico danno loro l'impressione di essere destinati all'estinzione.

Tutto questo deriva dall'instabilità della maggior parte di questi Paesi e dalla crescita dell'islamismo radicale, sotto il manto di ciò che è conosciuto con il nome di "islam politico"; quanto alla "Primavera araba", essa è stata esautorata dagli estremismi. Il progetto "politico" dell'islam è di far rinascere il califfato tanto a Damasco quanto in Iraq! Il loro modo di pensare e di fare guerra è un ritorno al Medio Evo! I cristiani sono ammessi a restarvi come cittadini di seconda classe!

L'invasione americana dell'Iraq ha portato alla morte di un vescovo [mons. Paulos Faraj Rahho, morto nelle mani dei sequestratori nel marzo 2008, ndr], sei sacerdoti assieme a più di mille fedeli, 66 chiese sotto attacco e 200 casi di rapimento. Circa la metà dei cristiani irakeni, che in precedenza erano un milione e mezzo, hanno lasciato il Paese per il timore di violenze e la persecuzione religiosa, soprattutto dopo il massacro che ha avuto luogo a Baghdad nel 2010, nella chiesa di Nostra Signora del Perpetuo soccorso e l'attacco agli studenti cristiani di Qaraqosh, diretti all'università.
L'appropriazione dei beni appartenenti ai cristiani, considerati come privi di diritti perché non musulmani, le lettere di minaccia ricevute dai cristiani, così come da membri di altre minoranze non musulmane, spingono i cristiani a sentirsi come cittadini di serie B. Dunque, la domanda è questa: questi uomini e queste donne che hanno un passato grande e illustre alle spalle, sono destinati a scomparire dalla Mesopotamia e dalla terra dei loro avi?

In Siria, i cristiani sono esposti agli attacchi dei ribelli islamisti. Questi ultimi hanno spazzato via Maaloula, una storica città cristiana in cui gli abitanti parlano l'aramaico, la lingua di Gesù. Due vescovi, numerosi preti, dodici religiose sono stati rapiti e liberati di recente: 1200 cristiani sono stati uccisi, il 30% delle chiese sono state distrutte e 600mila cristiani hanno lasciato il Paese e quelli che sono rimasti vivono nell'inquietudine e nella paura!
Il pastore presbiteriano ed ex presidente del Consiglio delle Chiese del Medio oriente Riad Jarjour ha dichiarato: "Se la situazione continua in questo modo, verrà un momento in cui non ci saranno più cristiani in Siria".

I Copti in Egitto hanno subito i peggiori attacchi. I kamikaze musulmani hanno assassinato almeno 85 fedeli nella Chiesa di Tutti i Santi e un centinaio di chiese sono state oggetto di attacchi.
Il Libano è l'unico Paese della regione in cui i cristiani hanno ancora un peso politico e una certa libertà di azione, anche se il loro potere è parzialmente in declino a partire dall'accordo di Taëf, che rimane in bilico!

In poche parole, tutti i cristiani pensano all'emigrazione, almeno per un periodo di tempo determinato.


2 - L'importanza della presenza cristiana in Medio oriente
Il cristianesimo affonda le sue radici nel Medio oriente. In Palestina, Siria, Libano, Iraq ed Egitto i cristiani sono stati maggioranza ben prima dell'ingresso dell'islam. Erano ben organizzati e hanno contribuito alla costruzione della civiltà arabo-islamica accanto ai loro fratelli musulmani, ecco perché la loro presenza nel mondo arabo e musulmano è essenziale, anche per il solo stesso fatto della diversa religione, della loro apertura e delle loro competenze. In generale, i cristiani costituiscono una élite!
I cristiani non sono una minoranza e devono ricoprire a pieno titolo un posto e un ruolo nella vita pubblica, perché il venir meno di questo ruolo marcherebbe la fine della loro presenza. Il presidente libanese Michel Sleiman, inaugurando il primo Congresso generale dei cristiani d'Oriente, che si è tenuto a Raboué (Libano) il 28 e 29 ottobre 2013, ha affermato in proposito: "L'avvenire dei cristiani dipenderà dalla loro capacità di rafforzare la logica della moderazione, dell'apertura e del dialogo al loro interno, così come i loro sforzi per costruire uno Stato forte e inclusivo, che apre la via alla partecipazione di tutte le componenti della società nella vita politica e nell'amministrazione pubblica, senza tener conto del peso demografico delle comunità. Il ripiegamento verso se stessi e l'isolamento, così come il ricorso alla protezione militare straniera, diventa pericoloso".
Infine, Habib Ephram nel corso del medesimo congresso ha lanciato un appello commovente finalizzato a preservare l'identità dei cristiani d'Oriente nel rispetto della storia, del diritto e dell'umanità stessa.

C'è da sperare che questa lunga tradizione storica possa aiutare i cristiani della Siria e altri a preservare il loro ricco patrimonio e a continuare a offrire il loro prezioso contributo alle diverse culture esistenti.
I cristiani del Medio oriente possono giocare oggigiorno un ruolo essenziale nel dialogo tra l'Occidente e l'islam, possono essere un ponte che avvicina e unisce. Per questo l'Occidente è chiamato a mantenerli nei luoghi di origine. Robert Fisk in un articolo pubblicato sul quotidiano britannico "The Indipendent" descrive il fenomeno dell'emigrazione dei cristiani del Medio oriente, equiparandolo a un colpo per la civiltà arabo-islamica, e a una tragedia all'interno di un Paese considerato come un simbolo di pluralismo e coesistenza.


martedì 1 aprile 2014

« La nostra presenza dà a questa gente la forza di restare, e la loro permanenza qui rafforza la nostra decisione di restare. Siamo strette in questo abbraccio».


TEMPI , 1 aprile, 2014 
di Rodolfo Casadei

Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria. 





Reportage da Azeir, dove sorge il monastero di una piccola comunità di religiose italiane. «Più di tutto apprezzano il fatto che noi restiamo qui con loro, in un momento come questo, che sembra non finire mai»






AZEIR (confine settentrionale fra la Siria e il Libano). 
Stanno lì, fra l’arbusto delle rose tutto spinoso e ancora privo di boccioli, e un rosmarino verdeggiante. Modesti fiori color lilla, coi petali lunghi come quelli delle margherite che spuntano fuori da un centro nero e infossato. Si direbbero astri alpini. Dopo un inverno siccitoso, da due giorni la collina è spruzzata di pioggia e pettinata dal vento, e i colori si offrono freddi e introversi. «Forse ti stai chiedendo che senso ha coltivare fiori mentre intorno infuria la guerra. Ma è proprio adesso che c’è bisogno della bellezza. E anche per il futuro. Chi vivrà domani dovrà trovare qui la serenità che viene dalla bellezza».
Marta aggiusta la giacca a vento sull’abito trappista bianco e nero e guarda verso le colline più lontane, quelle dell’interno. L’ultimo profilo in fondo, azzurrino, meno arrotondato e più svettante di quelli intorno, è Krak des Chevaliers, l’antico castello crociato. Per due anni occupato dai jihadisti di Jabhat al Nusra, che vi sgozzavano i prigionieri nella piazza d’armi e poi collocavano le teste decapitate in cima alle torri.


Ventitré milioni di siriani cercano di immaginarsi la loro vita quando la guerra sarà finita. Molti cacciano via il pensiero come un’illusione molesta. Temono che non finirà mai o che loro non riusciranno a vedere i giorni della pace. Ma chi è che mette fra parentesi se stesso e col pensiero corre agli altri, ai siriani che sopravviveranno a questo olocausto che dura da tre anni e a quelli che nasceranno, quelli che saliranno su questa collina, dove oggi echeggiano le artiglierie, e cercheranno il Dio della pace negli spazi silenziosi di un monastero? Quattro monache cistercensi italiane: Marta, Marita, Adriana e Rosangela. Che qui ad Azeir, un piccolo villaggio maronita sul confine col Libano, a metà strada fra Homs e Tartus, hanno cominciato tre anni e mezzo fa a costruire il loro monastero.

In Siria le monache del monastero di Valserena, provincia di Pisa, sono arrivate nel 2005. Hanno vissuto per un certo tempo ad Aleppo, accolte dal vicario latino mons. Nazzaro, e intanto cercavano il luogo adatto per un insediamento. In Siria ci sono sempre stati monasteri ortodossi, soprattutto femminili, ma cattolici non ce n’erano più da parecchio tempo. Benché nei cattolici siriani fosse rimasto vivo il desiderio di esperienze di vita contemplativa. Ma la ragione per cui delle monache italiane hanno attraversato il mare e sono venute qui, e sono rimaste anche quando i tempi si sono fatti duri, è fondamentalmente un’altra.
Nel refettorio di quello che per ora è l’edificio principale del monastero (ma il progetto è di farne la foresteria e di costruire un altro fabbricato per il capitolo, il dormitorio, la biblioteca, la chiesa, ecc.) su un tavolo si scorge un libro: Christian de Chergé: une biographie spirituelle du prieur de Tibhirine. «Questa presenza monastica è il risultato della riflessione iniziata nel nostro ordine, nel ramo femminile come in quello maschile, sulla vicenda del monastero di Tibherine, in Algeria», commenta Marta, la priora.
Nel marzo del 1996 sette monaci trappisti cistercensi dell’abbazia di Nostra Signore dell’Atlante furono prelevati da presunti combattenti islamici e uccisi qualche tempo dopo. Un comunicato attribuito al Gia, il Gruppo islamico armato, quasi due mesi dopo il rapimento annunciò che erano stati sgozzati. I loro corpi non sono mai stati ritrovati: solo le teste decapitate.
Il loro priore era Christian de Chergé, nato in Alsazia quando questa era ancora governata dalla Germania e poi trasferitosi in tenera età in Algeria con la famiglia e col padre militare, comandante di un reggimento di artiglieria in Africa. Un paio di anni prima del rapimento che si sarebbe concluso con la morte, padre Christian aveva scritto una lettera d’addio che doveva rivelarsi profetica. Cominciava così: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese».  
le tombe dei  Trappisti di Tibhirine

 E concludeva: «Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo a-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! InshAllah».
«Per noi che eravamo lontane il significato della presenza dei nostri confratelli a Tibherine è diventato chiaro dopo la loro morte», spiega Marta. «Prima di allora, quel monastero era noto più che altro per i problemi che aveva avuto: era stato sul punto di essere chiuso, le autorità avevano limitato il numero dei monaci. Dopo il loro sacrificio, abbiamo sentito la chiamata che veniva dalla loro esperienza: quella di frati oranti che si erano dati in una gratuità totale. Tutto l’Ordine si è interrogato. Un primo gruppo di monache di tutto il mondo ha dato la sua disponibilità ad aprire un altro monastero in un paese islamico. Un tentativo in Tunisia due anni dopo è stato ben presto abbandonato. A Valserena io e suor Marita abbiamo sollevato la questione e manifestato la nostra disponibilità. La comunità ha deciso di assumere la fondazione di un monastero in un paese del Vicino Oriente, e insieme alla nostra superiora suor Monica abbiamo cercato. Abbiamo vissuto per alcuni anni in un appartamento ad Aleppo nel quartiere di Maidan, dove adesso c’è la guerra. Poi abbiamo cominciato a costruire qui, dove ci siamo trasferite nel settembre 2010».

monache-azeir-siria04Una presenza umile, «oranti fra gli oranti». «L’umiltà ti mette al posto giusto. Altrimenti perdi Cristo». In questa terra la preghiera della maggior parte degli oranti è quella islamica. Come vivere e comunicare la specificità cristiana con questi credenti? Come celebrare l’unità con loro senza scivolare nel relativismo o in un ecumenismo al ribasso? «Sì, quando si parla di dialogo fra persone di religione diversa si rischia sempre di scivolare nell’affermazione che una fede vale l’altra. Ma questo succede quando della fede non si fa esperienza, quando la si riduce a discorsi religiosi», spiega suor Marta.
«O la mia fede prende tutto, cioè è rapporto totale con Dio, oppure stiamo facendo solo discorsi religiosi. Questo è il tempo di manifestare la gioia del mio rapporto con Cristo, voglio fare conoscere a tutti questa gioia, qualunque sia il prezzo da pagare. Perciò non sarò mai d’accordo con chi dice “è tutto uguale, è tutto la stessa cosa”. La mia fede è l’anima della mia vita, e chiedo all’altro di parlarmi della sua. A partire da questo accolgo le parole semplici e sincere dei musulmani che mi dicono: “Abbiamo lo stesso Dio, siamo una cosa sola, preghiamo insieme”. Ma non sarà mai un sincretismo dottrinale: non posso rinunciare a Cristo».

C’è un dettaglio della vita del padre Christian de Chergé che solo i lettori della biografia conoscono: in gioventù aveva avuto la vita salvata da un amico musulmano algerino, Mohamed. Lo aveva difeso da un’aggressione di strada. Il giorno dopo Mohamed era stato trovato ucciso: aveva pagato con la vita il suo intervento in difesa di un infedele. Nel cuore di Christian erano riecheggiate le parole dell’amico, dopo che lui lo aveva ringraziato per il provvidenziale intervento e gli aveva promesso di pregare per lui: «Lo so che tu pregherai per me. Ma sai, i cristiani non sanno pregare!». E Christian era diventato un monaco trappista…




«C’è una bontà di fondo nei cristiani e nei musulmani di questo paese, che è la speranza della Siria», dice suor Marta. Fa effetto sentir dire queste parole dopo una notte percorsa dai tonfi sordi delle artiglierie, confusi coi rumori degli infissi scossi dal vento. I combattimenti attorno alla vicina Zara non hanno conosciuto requie: la pioggia notturna anziché spegnerli sembra averli eccitati. «È proprio quando c’è maltempo che i ribelli muovono le loro forze», aveva avvisato un ufficiale giù al posto di blocco a Talkalakh, sulla strada per venire qui, da poco tornata alla tranquillità. La cittadina al confine col Libano ha conosciuto assalti, battaglie, cambi di padrone sin dal maggio 2011. Da poco è in vigore un’altra tregua. Di notte ribelli arrivano dal Libano, scendono e poi risalgono la stretta vallata di confine, girano attorno alla collina di Azeir e del suo monastero, e si dirigono verso l’interno. Una mattina di due anni fa c’è stata una vera e propria battaglia coi soldati del vicino posto di blocco che è sconfinata nella proprietà del monastero, 300 metri da qui.

«Facciamo la spesa a Talkalakh, ci conoscono tutti e sanno che vogliamo bene a tutti. In corriera le donne, sunnite o alawite, cercano di parlare con noi. Ci confidano i loro problemi: senza conoscerci personalmente, solo sapendo che siamo venute fin qui e restiamo qui per pregare fra loro, si fidano di noi».
I lavori per l’allestimento del monastero sono quasi fermi a causa della situazione generale, ma quando erano in corso coinvolgevano persone di ogni estrazione religiosa. A curare gli alberi e l’orto erano un sunnita e un giovane alawita. «Sembravano proprio padre e figlio», ricorda con struggimento Marta.


 «È il rapporto personale con Dio che fa cambiare i rapporti fra le persone. È Dio che ci fa essere una cosa sola, ma occorre che ciascuno viva fino in fondo la sua fede. Noi preghiamo e lavoriamo i campi, abbiamo una vita semplice, e questo è un segno che la gente di qui, cristiani e musulmani, percepisce. In cuor loro, avrebbero preferito avere qui delle suore di vita attiva, che aprivano un asilo o un ambulatorio. Ma ammirano la preghiera e ne sentono il bisogno, sentono anche il bisogno di luoghi di preghiera come questo. E più di tutto apprezzano il fatto che noi restiamo qui con loro, in un momento come questo, che sembra non finire mai. La nostra presenza dà a questa gente la forza di restare, e la loro permanenza qui rafforza la nostra decisione di restare. Siamo strette in questo abbraccio».

http://www.tempi.it/un-giorno-nel-monastero-delle-suore-trappiste-italiane-in-siria-siamo-qui-per-far-conoscere-cristo-a-qualunque-prezzo#.Uzqw9EaKDwo

Per chi desiderasse sostenere la presenza delle Monache Trappiste in Siria:
http://www.valserena.it/associazione_nsdp_aiutosiria.html

domenica 30 marzo 2014

Lettere di fede da Aleppo in agonia

Lettera N. 16 -  dai  MARISTI di Aleppo 

23 marzo 2014

Salire verso la Pasqua



E' bello questa mattina ad Aleppo .
 Mi sono svegliato presto . Devo controllare i serbatoi d'acqua della comunità ... La situazione dell' acqua e dell' energia elettrica è notevolmente migliorata in questi giorni ... Resta il fatto che essi sono razionati : l'acqua  ci arriva ogni due giorni e l'elettricità per tratti di due o quattro ore. Non ce ne lamentiamo ... ci sono così tante miserie intorno a noi che il razionamento dell'acqua e dell'elettricità non è più un grosso problema ... Gli Aleppini hanno talmente resistito che ogni volta che un servizio pubblico migliora anche solo un po', gioiscono . Se gli si chiede: "come stai ? "La prima risposta è " NECHKOR ALLAH ! " Grazie a Dio !
 Da dove viene tutta questa forza di resistenza tra gli abitanti della città ? È questa una Fede così radicata nella loro vita quotidiana , o è lo spirito di solidarietà e di aiuto reciproco o è una generosità di spirito che fa loro vedere la miseria degli altri e perciò dicono che va bene ...

La città continua ad essere divisa , separata e recintata . Si tratta di una separazione completa tra le due parti . Per passare da una parte all'altra  a volte occorrono da 10 a 16 ore , un percorso che, in tempi normali , sarebbe durato un quarto d'ora ...
E all'interno della zona in cui viviamo  ci sono così tanti posti di blocco, controlli, che a volte spostarsi in auto richiede una pazienza infinita ... E' normale ! Devono essere controllati per evitare le autobombe , per prevenire infiltrazioni , per ... per ... Ci si abitua alla guerra . Essa diventa parte integrante della nostra vita, del nostro quotidiano .... Ma possiamo abituarci alle separazioni... ai colpi di arma da fuoco, ai bombardamenti, ai cecchini ... agli scoppi di granate... ai mortai , alle scene di distruzione e di morte ? Possiamo accettare che il nostro patrimonio sia azzerato ?

 Quando le suore di Maaloula sono state liberate , è stato, per un attimo, un segno di speranza : Il dialogo è possibile , i negoziati potrebbero riuscire... Ma a quale costo , e chi può contribuire a ristabilire la pace quando prevale il rifiuto dell' altro e la sua esclusione ?

 La questione dell'emigrazione resta la prima questione che si pongono molti giovani e genitori ... Cosa rispondere ? Chi osa dar consigli? Chi ha abbastanza informazioni per poter decidere? Nessuno , nessuno ... Restare quando si ha paura , quando si è disoccupati , quando si è perso un genitore, quando l'orizzonte sembra buio e soprattutto quando pesa sui cuori una minaccia ... O partire, per dove , come, perché ? Partire per vivere all'estero, lasciando alle spalle la propria terra , la propria cultura , le proprie radici ...
Milioni di persone hanno lasciato il Paese ... Si parla del più grande disastro umanitario nel mondo ... Tutto questo ha ricadute su tutti e in particolare sui bambini :
 Nel suo rapporto sulla situazione dei bambini in Siria , dal titolo " In uno stato di assedio - Tre anni di devastante conflitto per i bambini in Siria " , l'UNICEF condanna i notevoli danni causati a 5,5 milioni di bambini oggi colpiti dal conflitto e chiede l'immediata cessazione delle violenze e un aumento del sostegno per questi bambini colpiti .
 L'UNICEF stima che il numero di bambini che hanno bisogno di aiuto o trattamento psicologico sia 2 milioni .
"Per i bambini in Siria , gli ultimi tre anni sono stati i più lunghi della loro vita . Devono subire un altro anno di sofferenza? " chiede il direttore esecutivo dell'UNICEF , Anthony Lake .
 Il rapporto avverte che il futuro dei 5,5 milioni di bambini che si trovano in Siria o che vivono come rifugiati nei Paesi limitrofi è in gioco, mentre la violenza , il collasso dei sistemi sanitari e di istruzione , lo stress psicologico intenso e l'impatto del deterioramento dell'economia sulle famiglie si combinano,  devastando un'intera generazione .

 Se questo quadro appare troppo oscuro , è che dimentica che ci sono dei punti luminosi..
I Maristi continuano a credere , contro ogni previsione, che l'educazione è lo strumento principale per la costruzione dell'uomo e per fare di lui un attore di pace ...

Il nostro fondatore San Marcellino Champagnat diceva: " Educare i bambini a diventare cittadini virtuosi e buoni cristiani ... ". Adattandolo alla nostra situazione potrei dire "renderli cittadini virtuosi e buoni credenti ". Ispirati da questo, noi continuiamo con tanto coraggio e tanta fede ad offrire vari programmi educativi per bambini, adolescenti e adulti senza alcuna distinzione.


I Giovani del Progetto "Skill School " hanno celebrato la festa della mamma , festa celebrata in Oriente il 21 marzo, con questo tema: " Tendimi la tua mano " ... una mano tenera e accogliente , una mano che ama e perdona , che incoraggia e indica la strada ...
I bambini del Progetto " Imparo " hanno celebrato questa festa con le loro mamme , hanno espresso il loro amore verso l'essere a loro più caro.

 Nel mondo arabo , la festa della mamma coincide con l'inizio della primavera . Una parola che ha perso il suo colore e la sua speranza e che risuona così  nel cuore di milioni di persone : guerra , disoccupazione , distruzione , morte , sangue , destabilizzazione ...
Noi abbiamo scelto di utilizzare l'inizio della primavera per ancorare la nostra scelta di pace e di reciproco rispetto delle diverse culture . Questo è un valore essenziale .... Il Fratello Emili Turu , Superiore Generale, mi ha chiesto di condividere questa esperienza con voi ...
Porte aperte , andare incontro all'altro , invitarlo a casa,  stare intorno allo stesso tavolo , ascoltare , parlare con lui, condividere insieme i nostri valori comuni, accettare che la nostra fede in Dio è un percorso che ci unisce e non che ci separa, condividere lo stesso impegno a costruire un mondo più giusto, creare le basi per una pace che non esclude l'altro, creazione di reti di costruttori di pace ... Condividiamo con loro il nostro carisma come un percorso verso una umanità senza confini .
 I vari corsi di formazione della " MIT " vanno nella stessa linea . 3 sessioni di formazione sui seguenti argomenti : . " L'educazione, tesoro dell'umanità ", " Come risolvere i problemi e prendere decisioni " " Kaizen , o miglioramento continuo "  Inoltre tre conferenze hanno presentato  "la manipolazione positiva" e "l'amore in Dimensioni 3D " ...
Le 30 signore del " Tawasol " preparano per Pasqua la mostra dei loro lavori in vari temi artistici e manuali
 I giovani scouts hanno potuto godere di qualche giorno di vacanza per fare il loro campo invernale nei locali ... I campi terminano con una giornata di condivisione con i genitori.

Visto lo sviluppo nella distribuzione di cesti alimentari ( sempre più  siamo sollecitati dalle  famiglie per venire in loro aiuto ), abbiamo allestito un angolo per fare un ulteriore deposito in aggiunta ai diversi locali dove riponiamo cibo, vestiti, kit per l'igiene, materassi e coperte, e tutto ciò che può servire alle famiglie sfollate ). Una buona squadra è al loro servizio ...

Salendo verso la Pasqua , speriamo che la via della croce che stiamo vivendo sia completata dalla stazione XV : la Risurrezione ...
A tutti i nostri amici e benefattori , a tutto il mondo marista , auguriamo un buon viaggio verso la Pasqua ...

Aleppo 23 marzo 2014
Per i maristi blu,  F. Georges Sabe

Mons. Audo: Noi cristiani viviamo nella paura in Siria


La nostra fede è in pericolo mortale, in pericolo di essere condotta all' estinzione, lo stesso schema che abbiamo visto nel vicino Iraq

The Telegraph -  8 marzo 2014
di Mons. Antoine Audo

Oggi, la prima Domenica di Quaresima, si vedranno chiese affollate in tutto il mondo. Ma qui in Siria, dove San Paolo ha trovato la sua fede, molte chiese sono vuote, obiettivi per il bombardamento e la profanazione. Aleppo, dove sono stato vescovo per 25 anni, è devastata. Ci siamo abituati alla dose giornaliera di morte e distruzione, ma vivere in questa incertezza e paura esaurisce il corpo e la mente.

Sentiamo il tuono delle bombe e il crepitio degli spari, ma non sempre sappiamo cosa sta succedendo. E' difficile descrivere quanto è caotico, terrificante e psicologicamente difficile quando non avete idea di cosa succederà dopo, o dove il prossimo razzo cadrà. Molti cristiani fanno fronte alla tensione diventando fatalisti: che tutto ciò che accade è volontà di Dio.

Fino a quando è iniziata la guerra, la Siria è stata una delle ultime roccaforti rimaste per il cristianesimo in Medio Oriente. Abbiamo 45 chiese di Aleppo. Ma ora la nostra fede è in pericolo mortale, in pericolo di essere condotta all' estinzione, lo stesso schema che abbiamo visto nel vicino Iraq.
La maggior parte dei cristiani che potevano permettersi di lasciare Aleppo sono già fuggiti per il Libano, in modo da trovare scuole per i loro figli. Quelli che restano sono per lo più di famiglie povere. Molti non possono mettere il cibo sul tavolo. L'anno scorso, anche in mezzo a intensi combattimenti, si poteva vedere la gente per le strade che correva all'infinito cercando di trovare il pane in uno dei negozi.
Il sistema sanitario è anche andato a pezzi. Negli ospedali, molti medici sono stati minacciati e costretti a fuggire, così la gente ha paura che se resta colpita non ci sarà nessuno a curarla. Ringrazio Dio per i pochi medici coraggiosi che sono rimasti.
La maggior parte delle persone qui sono ora disoccupate, e - senza lavoro - la vita quotidiana manca di uno scopo. Le persone non hanno modo di lavare e i loro vestiti sono laceri. Non abbiamo quasi  elettricità, e la depressione regna nella notte. Ma quando arriva il buio, io prendo coraggio dal fatto che non è sempre stato così.

I Siriani hanno vissuto insieme per molti anni come un Paese, come una civiltà e una cultura senza odio o  violenza. La maggior parte delle persone non è interessata a divisioni settarie. Vogliamo solo lavorare e vivere come abbiamo fatto prima della guerra, quando la gente di tutte le fedi coesisteva pacificamente.

I cristiani siriani possono affrontare un grande pericolo, ma abbiamo un ruolo cruciale da svolgere nel ripristinare la pace. Non abbiamo alcun interesse al potere, nessuna partecipazione in bottini di guerra, nessun obiettivo se non  ricostruire la nostra società.

Come presidente della Caritas Cattolica (aiuti di carità) , sono impegnato nel coordinamento degli aiuti di emergenza  per decine di migliaia di persone di tutte le fedi, che disperatamente mancano di cibo, di cure mediche e riparo, lavoriamo in zone tenute sia dal governo che dai gruppi armati di opposizione. Abbiamo molti centri dove le persone vengono a ricevere aiuto, e i nostri volontari escono per trovare quelli troppo deboli, malati, vecchi o giovani per aiutare se stessi. Sosteniamo le persone di tutte le provenienze.
E' un lavoro pericoloso. Cinque mesi fa, due razzi hanno colpito i nostri uffici, ed è stato davvero un miracolo che nessuno è stato ucciso.

Quanto a me, devo stare attento ad andare in giro per la città a causa del rischio di cecchini e di sequestro di persona. Il destino di due sacerdoti rapiti sulla strada  da Aleppo a Damasco rimane sconosciuto. La gente ha paura per la mia sicurezza e mi dicono di disfarmi delle mie vesti di vescovo o nascondermi del tutto.
Ma non posso lavorare se non sono nelle strade per capire la situazione e la sofferenza del popolo. Sono sostenuto dai gesti quotidiani di solidarietà dai miei fratelli e sorelle di tutto il mondo - compresi quelli dalla Chiesa inglese e la sua agenzia di aiuti Cafod - con le loro preghiere e donazioni. E mentre cammino attraverso la polvere e le macerie, non ho paura.

Le virtù di San Paolo di fede, di speranza e di amore raramente  sono state più necessarie, o sotto una maggiore pressione, mentre affrontiamo il quarto anno di questa guerra. Ma ho fiducia nella protezione di Dio,  speranza per il nostro futuro, e il mio amore per questo paese e per tutti i suoi abitanti  supereranno questa guerra. Devo crederlo, e io prego che voi in Gran Bretagna starete con noi fino a quando le nostre lotte dureranno.

Mons. Antoine Audo SJ è il vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria
 (trad. FMG)
http://www.telegraph.co.uk/news/religion/10684366/We-Christians-live-in-fear-in-Syria.html






Il Vescovo Audo: la guerra devasta i cuori; e per l'azione della Caritas si aprono nuovi fronti

Aleppo (Agenzia Fides) – Il perdurare del conflitto sta annientando la popolazione siriana anche a livello psicologico, e ciò spinge la Caritas a farsi carico di nuove urgenze, come quelle del blocco delle attività lavorative e dell'assistenza psico-sociale. Lo riferisce all'Agenzia Fides il Vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo, Presidente di Caritas Siria, offrendo un resoconto della settimana di formazione degli operatori Caritas siriani svoltasi in Libano, ad Harissa, nella prima decade di marzo.
  continua a leggere qui 


Missile su una chiesa armena di Aleppo durante la messa

Chiesa armena Zvartnots Santa Trinità Aleppo

Agenzia Fides 28/3/2014

La chiesa armeno-cattolica della Santissima Trinità ad Aleppo è stata colpita da un razzo mentre all'interno i fedeli partecipavano alla messa quotidiana. L'attacco ha danneggiato la cupola e infranto le vetrate, ma non ha provocato danni a persone. Lo conferma all'Agenzia Fides il sacerdote armeno cattolico Joseph Bazuzu, parroco della chiesa colpita. “Lunedì pomeriggio” racconta padre Joseph, “numerosi missili sono caduti sul quartiere di al-Meydan. Uno ha colpito e danneggiato la cupola della nostra chiesa, mentre all'interno era in corso la liturgia eucaristica. Grazie a Dio nessuno si è fatto male. E il giorno dopo, a messa, i fedeli presenti erano ancora più numerosi. Dopo tanti anni di violenze, la paura, è diventata un sentimento che accompagna ogni giornata. Le persone convivono con la paura”.
Il lancio di missili ha devastato alcune case nell'area circostante la chiesa, abitata quasi esclusivamente da armeni. “Prima dell'inizio del conflitto” riferisce all'Agenzia Fides padre Joseph, “le famiglie armene cattoliche di Aleppo erano circa 250. Ma le liturgie in lingua armena erano frequentate anche dagli armeni ortodossi, per un totale di ottocento famiglie. Adesso almeno trecento di loro hanno dovuto abbandonare le proprie case, soprattutto quelle che abitavano le zone al limite con le aree occupate dalle milizie degli insorti”.
All'alba di venerdì 21 marzo la città a maggioranza armena di Kessab, al confine con la Turchia, è stata occupata dalle milizie anti-Assad nel corso dell'offensiva da loro avviata per raggiungere la città costiera di Latakia. Centinaia di famiglie armene sono state costrette a fuggire. Secondo fonti armene, le tre chiese di Kessab sarebbero state profanate da miliziani islamisti di al-Nusra.