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lunedì 11 marzo 2024

Intervista a Jean Francois Thiry ad Aleppo

Associazione Pro Terra Sancta

 “La situazione è difficile. Noi non risolviamo i problemi della Siria, ma stiamo accanto alle persone. E questo è un importante segno di speranza per tutti”. 

Jean Francois Thiry vive ad Aleppo da alcuni mesi per coordinare i progetti di Pro Terra Sancta. In occasione dell’anniversario della guerra che ha devastato la Siria, lo abbiamo intervistato per comprendere la situazione attuale in questa nazione spesso trascurata dai media.

Jean Francois, rispetto alla crisi umanitaria, c’è stata una ripresa nell’arco degli ultimi mesi da quando sei lì, o la situazione è peggiorata?

In questi mesi ho incontrato una sola persona che desidera rimanere qui e contribuire al suo paese. Si tratta di un individuo impegnato nell’ambito educativo che ha deciso di non abbandonare la sua terra. Tutti gli altri parlano solo di fuggire e lamentano il peggioramento delle condizioni economiche. Non credo di poter fornire segnali positivi. È vero che si notano alcune attività commerciali riaperte, ma ciò è dovuto principalmente agli sforzi delle chiese locali che si adoperano per sostenere i cristiani. Tuttavia, la situazione macroeconomica è tragicamente precaria, con l’aumento dei prezzi del gas e la mancanza dei servizi essenziali. Risulta estremamente difficile individuare segni di ripresa.

Qual è l’importanza del lavoro delle chiese se manca la speranza?

Prima di tutto, il ruolo della Chiesa consiste nel rimanere al fianco della popolazione, soprattutto dei cristiani locali, fornendo loro supporto e non abbandonandoli, soprattutto gli anziani che non possono lasciare il Paese. In secondo luogo, il lavoro delle chiese favorisce la coesione tra le varie comunità religiose. Sebbene si parli di un’ottima intesa tra cristiani e musulmani, bisogna comprendere che ci sono ancora profonde divisioni e risentimenti legati alla storia e alla guerra. Perciò, il nostro impegno rappresenta un gesto di carità che spezza il ciclo dell’odio e del male. Lavoriamo con entrambe le comunità, sia cristiane che musulmane, per promuovere l’apertura e la collaborazione reciproca.

Il lavoro di Pro Terra Sancta è un segno di speranza?

I nostri sforzi si concentrano su due fronti: da un lato, sosteniamo la sopravvivenza dei cristiani ad Aleppo, fornendo loro supporto materiale e riparando danni alle abitazioni. Dall’altro, promuoviamo l’interazione e la solidarietà tra le comunità cristiane e musulmane, cercando di superare le barriere culturali e di comprendere reciprocamente le difficoltà che ognuna affronta. È importante mostrare ai cristiani la situazione delle famiglie musulmane, anch’esse gravemente colpite dalla guerra. Questo ci aiuta a consolidare il senso di fratellanza e solidarietà tra le diverse fedi.

Qual è la percezione della popolazione riguardo a questa guerra interminabile?

Attualmente, molti ritengono che la guerra sia terminata, ma in realtà le sanzioni economiche impediscono la pace effettiva. Inoltre, vi è una diffusa corruzione interna che ostacola la ricostruzione e il progresso del Paese. La Siria è frammentata, con diverse aree sotto il controllo del governo di Assad, dei curdi o dei turchi. Questa situazione contribuisce ad alimentare l’instabilità e l’incertezza.

Cosa ti ha spinto ad andare lì e com’è vivere ad Aleppo?

Nel 2017 ho visitato Damasco e ho incontrato i cristiani siriani, rimanendo colpito dalla loro fede incondizionata. Ho visto persone disposte a sacrificare la propria vita per la loro fede. Da allora, ho nutrito il desiderio di fare qualcosa per sostenere questa comunità. Vivere ad Aleppo è un’esperienza intensa e impegnativa. Mi concentro sull’essere presente e condividere la vita con la popolazione locale. Nonostante le difficoltà, sono stato accolto con affetto e gratitudine, il che mi spinge a continuare il mio lavoro con rinnovato impegno e speranza. Sento una grossa responsabilità anche perché ci sono tante persone che donano per la Siria e vorrei che il loro aiuto arrivi e vada veramente a rispondere ai bisogni che ci sono. Sono veramente molto grato, perché penso che in Europa cominciamo a capire l’importanza che ci sia la comunità cristiana qui, proprio dove san Paolo si è convertito.

Un appello ad aiutare chi piange e chi muore per la follia della guerra

Lettera del Dicastero per le Chiese Orientali ai vescovi di tutto il mondo

L'annuale Colletta per la Terra Santa

Osservatore Romano,  8 marzo 2024

«Grazie a nome di chi piange e di chi muore per la follia della guerra. Grazie soprattutto a nome di chi ha perso i suoi bambini o li vede orribilmente mutilati. Aiutateci ad aiutarli!». Lo scrivono il cardinale Claudio Gugerotti e padre Michel Jalakh — dell’ordine antoniano maronita, proprio oggi nominato arcivescovo —, rispettivamente prefetto e segretario del Dicastero per le Chiese orientali, nella lettera inviata ai vescovi di tutto il mondo in occasione dell’annuale colletta del Venerdì santo per la Terra Santa. Eccone il testo.

«E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme». Come avremmo voluto che le parole del salmo 122 fossero la descrizione di ciò che accade ai nostri giorni! E invece tanti pellegrini restano lontani dalla città dei loro sogni, mentre gli abitanti della Terra Santa continuano a soffrire e a morire. In tutto il mondo risuona il rombo delle armi portatrici di morte. E non si vede tregua, anche se Dio ci ha assicurato che «Ogni calzatura di soldato nella mischia e ogni mantello macchiato di sangue sarà bruciato, sarà esca del fuoco». Questa è la profezia di Isaia (9, 4). Abbiamo visto e vediamo uomini in armi spargere sangue e uccidere la vita stessa. Eppure nel versetto successivo Isaia annunciava che «un bimbo ci è stato donato... il Principe della pace». Per noi Cristiani quel bimbo è Gesù, il Cristo, il Dio fatto uomo, il Dio con noi.

Papa Francesco non ha mai cessato di manifestare la propria vicinanza a tutti coloro che sono stati coinvolti nel conflitto in Terra Santa e di gridare, agli uomini e alle donne di buona volontà, la propria esortazione a operare per la pace e a rispettare la sacralità di ogni persona umana. Anche di recente così si è espresso: «Sono vicino a tutti coloro che soffrono, Palestinesi e Israeliani. Li abbraccio in questo momento buio. E prego tanto per loro. Le armi si fermino, non porteranno mai la pace, e il conflitto non si allarghi! Basta! Basta, fratelli, basta!» (Angelus, 12 novembre 2023).

Il pellegrinaggio a Gerusalemme ha una storia antica quanto il cristianesimo, e non solo per i Cattolici. Questo è reso ancora oggi possibile dall’opera generosa dei Francescani della Custodia di Terra Santa e dalle Chiese Orientali ivi presenti. Essi mantengono e animano i santuari, segni della memoria dei passi e delle azioni di Gesù, testimoni materiali di un Dio che assunse la materia per salvare noi, fango animato dal soffio dello Spirito. Per la loro dedizione in quei luoghi si continua a pregare incessantemente per il mondo intero.

Fin dalle sue origini la Chiesa ha coltivato ininterrottamente e con passione la solidarietà con la Chiesa di Gerusalemme. In epoca tardo-medievale e moderna, più volte i Sommi Pontefici intervennero per promuovere e regolamentare la colletta a favore del Luoghi Santi. L’ultima volta fu riformata dal santo Papa Paolo VI nel 1974 attraverso l'Esortazione Apostolica Nobis in Animo. Anche Papa Francesco ha spesso sottolineato l’importanza di questo gesto ecclesiale.

Cari fratelli e sorelle, non si tratta di una pia tradizione per pochi. Ovunque nella Chiesa Cattolica si fa obbligo ai fedeli di offrire il loro aiuto nella cosiddetta Colletta Pontificia per la Terra Santa che si raccoglie il Venerdì Santo o, per alcune aree, in un altro giorno dell’anno. Lo faremo anche quest’anno, sperando in una vostra particolare generosità.

E sapete perché? Perché, oltre alla custodia dei Luoghi Santi che hanno visto Gesù, ci sono, ancora viventi e operanti pur fra mille tragedie e difficoltà spesso causate dall’egoismo dei grandi della terra, i cristiani della Terra Santa. Molti nella storia sono morti martiri per non veder recise le radici della loro antichissima cristianità. Le loro Chiese sono parte integrante della storia e della cultura d’Oriente.

Ma oggi molti di loro non ce la fanno più e abbandonano i luoghi dove i loro padri e le loro madri hanno pregato e testimoniato il Vangelo. Lasciano tutto e fuggono perché non vedono speranza. E lupi rapaci si dividono le loro spoglie.

I cristiani di Iraq, Siria, Libano e di tante altre terre si rivolgono a noi e ci chiedono: «Aiutateci a diffondere ancora in Oriente il buon profumo di Cristo» (2 Cor 2, 15).

Io mi rivolgo a voi perché il loro grido non resti inascoltato e il Santo Padre possa sostenere le Chiese locali a trovare nuove vie, occasioni di abitazione, di lavoro, di formazione scolastica e professionale, perché rimangano e non si perdano nel mondo sconosciuto di un Occidente, così diverso dal loro sentire e dal loro modo di testimoniare la fede. Se partiranno, se a Gerusalemme e in Palestina lasceranno i loro piccoli commerci destinati ai pellegrini che non vi si recano più, l’Oriente perderà parte della sua anima, forse per sempre.

Fate che sentano il cuore solidale della Chiesa!

Alle Chiese locali, ai Francescani, ai tanti volontari della carità, veri figli della pace, testimoni del Principe della pace, esprimo il grazie di Papa Francesco, come pure a tutti voi, per la vostra preghiera e il vostro contributo per la Terra Santa e per tutti coloro che vi abitano.

Il Signore vi benedica e vi ricompensi. Grazie anche a ciascuno dei Vescovi che terranno a cuore questa santa iniziativa.

Grazie a nome di chi piange e di chi muore per la follia della guerra. Grazie soprattutto a nome di chi ha perso i suoi bambini o li vede orribilmente mutilati. Aiutateci ad aiutarli!

Il Signore vi benedica di una larga benedizione e consolazione.



Per mantenere un legame con i cristiani del Medio Oriente 

 Iniziativa voluta dai Pontefici

La “Colletta per la Terra Santa” nasce dalla volontà dei Pontefici di mantenere forte il legame tra tutti i Cristiani del mondo e i Luoghi Santi. È la fonte principale per il sostentamento della vita che si svolge intorno ai Luoghi Santi e lo strumento che la Chiesa si è data per mettersi a fianco delle comunità ecclesiali del Medio Oriente. Nei tempi più recenti, Papa Paolo vi, attraverso l’Esortazione apostolica Nobis in Animo (25 marzo 1974), diede una spinta decisiva in favore della Terra Santa, da Lui visitata nello storico pellegrinaggio del 1964. 

La Custodia Francescana attraverso la Colletta può sostenere e portare avanti l’importante missione a cui è chiamata: custodire i Luoghi Santi, le pietre della memoria, e favorire la presenza cristiana, le pietre vive di Terra Santa, attraverso tante attività di solidarietà, come ad esempio il mantenimento delle strutture pastorali, educative, assistenziali, sanitarie e sociali. 

I territori che beneficiano sotto diverse forme di un sostegno proveniente dalla Colletta sono: Gerusalemme, Palestina, Israele, Giordania, Cipro, Siria, Libano, Egitto, Etiopia, Eritrea, Turchia, Iran e Iraq.

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In Siria la situazione è molto più grave, vista la condizione precaria in cui versava il Paese già prima del terremoto. Il Dicastero, in collaborazione con la nunziatura apostolica in Siria, ha fatto un appello per sostenere la popolazione colpita dal terremoto. Il Comitato di Emergenza della Chiesa in Siria ha preparato un progetto a sostegno delle famiglie in difficoltà per affrontare l’inverno nel miglior modo possibile. Le regioni che ne beneficeranno sono quelle di Aleppo e Lattakia. I beneficiari totali del progetto sono circa 7.000 persone e il budget totale è di un milione di  us$  per una durata di 9-12 mesi. Il Dicastero, su richiesta del rappresentante pontificio in Siria, ha finora trasferito seicentomila us$ a questo scopo.  

Lo scoppio della guerra in Gaza, dopo gli avvenimenti del 7 ottobre scorso, ha paralizzato la Terra Santa. La mancanza di pellegrini e turisti ha messo in difficoltà migliaia di famiglie. Il Dicastero sta seguendo lo sviluppo della situazione, dimostrando la propria vicinanza attraverso la delegazione apostolica a Gerusalemme, il Patriarcato Latino e la Custodia di Terra Santa. Il Santo Padre ha l’intenzione di realizzare un progetto con finalità umanitarie in Gaza o Cisgiordania che possa aiutare la popolazione a riprendere una vita più dignitosa e che possa creare opportunità di lavoro, a guerra finita. Questo progetto potrebbe essere realizzato con le offerte dei fedeli di tutto il mondo che partecipano alla Colletta per la Terra Santa. 

COME DONARE: 

https://www.collettavenerdisanto.it/sostienici/

https://www.proterrasancta.org/it/come-sostenerci/#offline

giovedì 7 marzo 2024

Sulla via della Croce

 

OSSERVATORE ROMANO 

di padre Francesco Patton


La strada che a Gerusalemme sale dal Santuario della Flagellazione fino al Santo Sepolcro è chiamata la Via Dolorosa. È la strada che il Signore Gesù ha percorso dal luogo in cui è stato condannato a morte fino al luogo in cui è stato crocifisso, è morto, fu sepolto ed è risorto. Noi percorriamo questa stessa strada ogni venerdì dell’anno, ma in modo particolarmente solenne nei venerdì di Quaresima. Lo facciamo in mezzo al disinteresse dei passanti e alle grida dei venditori, passando in mezzo alle pattuglie che presidiano le vie della Città Vecchia e sfiorando chi forse nasconde, pronto a colpire, un coltello tra le pieghe della veste; fra lo strepito degli altoparlanti e gli sputi di chi crede di render gloria a Dio disprezzando i suoi simili: proprio come nell’unico Venerdì Santo della storia dell’umanità e di questa città. 

Qualche pio pellegrino si irrita per questo, qualcun altro si lamenta che è impossibile provare devozione. Eppure, questa è la Via Crucis più autentica e realistica che possiamo sperimentare: seguire Gesù Cristo non nel silenzio asettico di una chiesa ma in mezzo al rumore della vita quotidiana, non circondati da gente devota ma da persone che hanno ormai perso per strada la nozione del Dio misericordioso e fedele. Per me non c’è Via Crucis più bella e più autentica di questa, che mi educa a seguire le orme di Cristo nella vita di tutti i giorni, in mezzo alle distrazioni e alla confusione, tra l’indifferenza e il disprezzo, perché così è la vita di ogni cristiano gettato in questo mondo come testimone della luce che brilla nelle tenebre e dell’amore che prevale sul male.

Questa Via Crucis rumorosa e confusionaria è la metafora della vita cristiana e vorrei davvero riuscire in ogni occasione e ogni giorno a portare la mia croce e seguire Gesù Cristo sulla strada che sale fino al Calvario, e discende fino all’abisso della morte, per vedere spalancarsi, ma soltanto alla fine, le porte del Paradiso. 


Negli incontri fatti in questi anni con i giovani cristiani della Terra Santa è quasi sempre emersa una domanda: «Perché, anziché andarcene via, dovremmo rimanere qui in questa terra dove sembra che per noi non ci sia alcun futuro?». Mentre i pellegrini pensano che sia una grazia il poter venire in Terra Santa e il potersi fermare a lungo, magari per tutta la vita, per molti cristiani che ci vivono l’essere nati in Terra Santa sembra quasi una condanna, perché devono spesso sopportare una doppia discriminazione: quella di essere palestinesi e quella di essere cristiani. 

Negli ultimi cinquant’anni le comunità cristiane del Medio Oriente (i cui membri sono i discendenti delle prime comunità cristiane, quelle dalle quali anche noi abbiamo ricevuto il dono del Vangelo) hanno visto ridursi progressivamente il numero dei loro membri a causa di guerre che hanno condannato molti a lasciare il proprio paese per cercare un futuro altrove: è successo in Palestina, poi in Libano, in Iraq, in Siria, in Egitto e ora di nuovo in Israele e in Palestina.

Anche in questo caso, come nell’ora della condanna di Gesù, c’è chi se ne lava le mani. Non il povero Pilato trovatosi un giorno costretto a prendere una decisione e a emettere un giudizio che era al di là delle sue capacità. Oggi Pilato non è un individuo, ma un soggetto collettivo che ha il volto degli organismi internazionali paralizzati nella loro stessa struttura, dei potentati economici anonimi eppure capaci di condannare all’estinzione intere popolazioni in nome del profitto, di un sistema comunicativo che di nuovo si chiede con cinismo «Cos’è la verità?», senza però cercare la risposta a questa domanda decisiva.

Eppure anche oggi trovarsi al posto di Gesù nel subire un’ingiusta condanna non è una fatalità o una maledizione, è la chiamata a seguire le sue orme, a prolungare nella storia la sua testimonianza alla Verità, per la salvezza del mondo.

sabato 2 marzo 2024

I Patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme rilasciano una dichiarazione sui recenti attacchi contro la folla radunata per ricevere aiuti umanitari

 

Patriarcato Latino di Gerusalemme, 1 marzo 2024

Nelle prime ore del mattino di giovedì 29 febbraio, secondo testimonianze oculari, le forze israeliane nel sud-ovest della città di Gaza hanno aperto il fuoco su folle di civili che cercavano di ricevere sacchi di farina per sfamare le loro famiglie affamate. La carneficina che ne è seguita ha causato la morte di più di cento gazawi e altre centinaia di feriti gravi. I medici presenti sul posto e gli ospedali ricoveranti hanno riferito che la maggior parte di loro è stata uccisa o ferita da colpi di arma da fuoco, mentre alcuni sono stati vittime dopo essere stati calpestati dalla folla in preda al panico o colpiti dai camion dei soccorsi che fuggivano dalla orribile scena. 

Sebbene i portavoce del governo abbiano inizialmente cercato di negare il coinvolgimento dei soldati in questo incidente, il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano non solo ha elogiato i combattenti dell'IDF per aver agito in modo "eccellente", ma ha anche tentato di incolpare le vittime della loro stessa fine, accusandole di aver cercato di fare del male a soldati pesantemente armati. Ha poi attaccato la consegna di aiuti umanitari a Gaza, sostenendo che dovrebbe cessare. 

Questo desiderio dichiarato è già diventato una dura realtà per il mezzo milione di persone rimaste a Gaza Città, dove le consegne di aiuti si sono quasi fermate a causa delle pesanti restrizioni all'ingresso e della mancanza di scorta di sicurezza per i convogli.

I funzionari umanitari hanno avvertito così spesso della carestia indotta dall'assedio nel nord di Gaza che i governi stranieri di buona volontà sono stati costretti come ultima risorsa a condurre lanci aerei umanitari. Tuttavia, questi offrono solo una minima parte del soccorso necessario per una popolazione civile residua superiore a quella di Tel Aviv, la seconda più grande città di Israele. 

All'indomani degli orribili eventi di ieri e del loro crudele contesto, Noi, i Patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme, condanniamo questo attacco sconsiderato contro civili innocenti e chiediamo che le parti in guerra raggiungano un cessate il fuoco immediato e prolungato che consenta la rapida distribuzione dei soccorsi in tutta la Striscia di Gaza e l'attuazione di un rilascio negoziato di coloro che sono detenuti come prigionieri e prigioniere. 

Nell'esprimere queste suppliche a nome di tutti gli innocenti che soffrono a causa della guerra, noi trasmettiamo le nostre speciali preghiere di sostegno alle comunità cristiane di Gaza sotto la nostra cura pastorale. Tra queste, gli oltre 800 cristiani che si sono rifugiati nelle chiese di San Porfirio e della Sacra Famiglia a Gaza City da quasi cinque mesi. Allo stesso modo estendiamo le stesse espressioni di solidarietà all'intrepido personale e ai volontari dell'Ospedale Ahli, gestito dagli anglicani, e ai pazienti che servono. 

Nel lanciare questo appello, la nostra speranza finale è che la fine delle ostilità, il rilascio dei prigionieri e la cura degli oppressi aprano un orizzonte per serie discussioni diplomatiche che portino finalmente a una soluzione giusta e duratura qui nella terra in cui nostro Signore Gesù Cristo ha preso per primo la sua croce in nostro favore. Possa Dio concedere a tutti noi la sua grazia mentre cerchiamo di realizzare questa visione pasquale piena di speranza.

I Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme

https://lpj.org/en/news/hoc-statement-on-the-recent-attack-on-crowds-gathering-to-receive

giovedì 29 febbraio 2024

La regina siriana che sfidò Roma



"La regina Zenobia di Palmira (240-274 d.C. circa) si trovò ad affrontare un vuoto di potere dopo la morte del marito e la disintegrazione del potere romano nel Vicino Oriente. Per garantire la stabilità della regione, creò un impero palmireno che inglobò la maggior parte del Vicino Oriente romano, dall'Anatolia all'Egitto. Zenobia era una monarca colta che incoraggiava i movimenti intellettuali a corte e governava i sudditi multilingue e multietnici con equità e tolleranza. Tuttavia, dopo aver governato solo per un breve periodo, questa dinamica monarca femminile cadde di fronte a un impero romano risorgente."
Rovine di Palmira, Siria

Palmira era un'antica città semitica, la cui popolazione era composta da elementi amorrei, aramei e arabi. La lingua locale era un dialetto dell'aramaico, anche se il greco era ampiamente parlato. La cultura greco-romana esercitò una grande influenza, soprattutto nell'arte e nell'architettura, accanto alle influenze locali semitiche e mesopotamiche. Gran parte della ricchezza di Palmira, che era notoriamente ricca, derivava dalle carovane commerciali che si muovevano lungo la Via della Seta. Palmira controllava il percorso desertico della Via della Seta e i suoi mercanti erano attivi fino all'Afghanistan e al Golfo Persico.

Nel I secolo d.C., Palmira entrò a far parte della provincia romana di Siria, anche se ricevette una scarsa sorveglianza romana. Sotto la dinastia dei Severi (193-235 d.C.), Palmira passò da città-stato a monarchia. I Severi favorirono Palmira, concedendole privilegi, una guarnigione romana e persino visite imperiali. Allo stesso tempo, i conflitti tra Roma e le dinastie persiane dei Parti e dei Sassanidi costrinsero Palmira a investire nelle proprie difese e ad assumere un ruolo militare più attivo.
Rilievo funerario palmireno raffigurante un fratello e una sorella, 114 d.C.,  Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

Si sa poco della prima parte della vita di Zenobia e molto di ciò che è riportato nelle fonti è poco attendibile. Zenobia nacque da una nobile famiglia palmirena intorno al 240 d.C. e, come si addiceva al suo status, ricevette un'ampia istruzione che le permise di parlare correntemente non solo l'aramaico, ma anche l'egiziano, il greco e il latino. Poiché non era raro che le famiglie nobili di Palmira si sposassero tra loro, è probabile che fosse una lontana parente della famiglia regnante. Da giovane, secondo le fonti, il suo hobby preferito era la caccia.
Al di là di questo, molto di ciò che sappiamo sulle origini di Zenobia e sulla sua infanzia deriva da testimonianze linguistiche, numismatiche ed epigrafiche. Il nome Zenobia si traduce dal greco come "colei la cui vita deriva dal greco". Il suo nome nativo palmireno era Bat-Zabbai, ovvero "figlia di Zabbai", che potrebbe essere stato reso come Zenobia in ossequio ai suoi sudditi di lingua greca. Possedeva anche un gentilicium romano, o cognome, che era Septimia. Un'iscrizione si riferisce a lei come Septimia Bat-Zabbai, figlia di Antioco. Poiché Antioco non era un nome comune tra i palmireni, si è ipotizzato che si tratti di un riferimento ad antenati reali o immaginari appartenenti alle dinastie seleucide o tolemaica.
All'età di quattordici anni, Zenobia si sposò con Odaenato, signore di Palmira, e divenne la sua seconda moglie. Odaenato fu eletto signore dal consiglio cittadino per rafforzare l'esercito e difendere le rotte commerciali di Palmira dall'invasione persiana. Si ritiene che Zenobia abbia accompagnato Odaenato in molte delle sue campagne militari, il che avrebbe sollevato il morale delle truppe e le avrebbe permesso di acquisire sia influenza politica che esperienza militare. Entrambe le cose le sarebbero state utili in seguito nella sua carriera.
Non è chiaro quanti figli abbia avuto Odaenato dalla prima moglie; si conosce solo un figlio, Hairan I, che divenne co-regnante. Si sa invece che Zenobia e Odaenato ebbero almeno due figli: Vaballathus e Hairan II. È possibile che abbiano avuto altri due figli di nome Herennianus e Timolaus, ma è probabile che si tratti di confusioni o di vere e proprie invenzioni.

Odaenato era un fedele vassallo di Roma e, quando fu chiamato, mobilitò le sue forze per assistere l'imperatore romano Valeriano nel tentativo di contrastare l'invasione persiana sassanide di Shapur I nel 260 d.C.. La battaglia che ne risultò fu un disastro per i Romani e Valeriano fu catturato; sarebbe morto in prigionia. Odaenato ebbe un successo ben maggiore. Nel 260 d.C. espulse i Persiani dal territorio romano, sedò una ribellione in Oriente per conto dell'imperatore romano Gallieno nel 261 d.C. e lanciò un'invasione che lo portò alle mura della capitale persiana nel 262 d.C.. Per i suoi sforzi, Odaenato ottenne molti titoli e un'ampia autorità sulle province romane dell'est e si fece incoronare Re di Palmira e Re dei Re, un titolo tradizionale persiano.

Rilievo di Shapur I che riceve la resa di Filippo e la cattura di Valeriano, Naqš-e Rustam, 260-72 d.C.

Poiché Roma era squassata da guerre civili, usurpazioni, invasioni e declino economico, c'era poco da fare se non cercare di gestire Odaenato e mantenere la sua posizione subordinata. Odaenato assicurò la pace e la stabilità in almeno una parte dell'impero, fino al 266 d.C.. Mentre tornava da una campagna in Anatolia, lui e Hairan I furono assassinati. Alcuni hanno ipotizzato il coinvolgimento di Zenobia, ma molte erano le motivazioni per assassinare Odaenato, sia da Romani che da Persiani.

Zenobia conquista l'Oriente
Con l'assassinio di Odaenato, Zenobia divenne reggente di Palmira per conto del figlio Vaballathus. Zenobia si mosse rapidamente per consolidare il potere in tutto l'Oriente, con grande disappunto dei funzionari romani. Con i Romani distratti da ulteriori invasioni in Europa, Zenobia, nel 270 d.C., si mosse per schiacciare i suoi rivali. La Siria fu facilmente sottomessa, insieme alla Mesopotamia settentrionale e alla Giudea. Il governatore romano dell'Arabia affrontò i palmireni, ma fu ucciso in battaglia. L'Egitto oppose maggiore resistenza, ma fu anch'esso conquistato; una campagna poco documentata portò l'Anatolia centrale sotto il controllo di Zenobia. 
Zenobia e i palmireni, tuttavia, si guardarono bene dal spingersi troppo oltre, continuando a presentare Vaballathus come un subordinato dell'imperatore romano. Il suo obiettivo era apparentemente quello di far riconoscere Vaballathus come partner imperiale nella metà orientale dell'impero. L'esistenza di un accordo formale tra Roma e Palmira non è chiara. È possibile che il successore di Gallieno, Claudio Gotico, abbia raggiunto una sorta di accordo, ma egli morì nel 270 d.C. e gli succedette Aureliano. Zenobia coniò monete con le immagini di Aureliano come imperatore e Vaballathus come re, il che suggerisce una sorta di accordo. Tuttavia, Aureliano aveva bisogno di spedizioni di grano dall'Egitto per far fronte alla crisi di Roma in Europa; quindi, da parte sua, qualsiasi accordo poteva essere solo un espediente per guadagnare tempo.


Zenobia governò l'Impero palmireno principalmente dalla città di Antiochia, dove si presentava come monarca siriana, regina ellenistica e imperatrice romana. Nonostante la natura multilingue, multietnica e multiculturale del suo impero, Zenobia fu in grado di ottenere un ampio sostegno. Zenobia lasciò in gran parte il sistema amministrativo romano, ma nominò i propri governatori, aprendo così il suo governo alla nobiltà orientale. 
In Egitto, Zenobia intraprese un programma di costruzione e restauro. I Colossi di Memnon, che nei secoli precedenti dovevano "cantare", furono messi a tacere quando Zenobia riparò le loro crepe. 
Aderente alle divinità semitiche di Palmira, Zenobia tollerava e accoglieva un'ampia varietà di minoranze religiose. Tra queste, i cristiani e gli ebrei, i cui diritti, luoghi di culto e clero erano trattati con rispetto. Poiché molte religioni minoritarie dovevano affrontare la persecuzione da parte dei Romani e dei Sassanidi, tali politiche contribuirono a far guadagnare a Zenobia un maggior numero di consensi. Inoltre, trasformò Palmira e la sua corte in un centro di studi che attirò molti studiosi di fama. In questo periodo, gli studiosi siriani sostenevano che la cultura greca ed ellenistica fosse stata adattata dall'Egitto e dal Vicino Oriente. La corte palmirena utilizzò questa interpretazione per presentare Odaenato e la sua famiglia come legittimi sovrani dell'Impero romano, facendo risalire la loro rivendicazione a Filippo l'Arabo, che era stato imperatore dal 244-49 d.C..
Triade palmirena: Baalshamin, signore dei cieli, accompagnato alla sua destra dal dio della Luna Aglibol e dal dio del Sole Malakbel (Yarhibol). Rilievo cultuale, in pietra calcarea, prima metà del I secolo d.C., rinvenuto nei pressi di Bir Wereb, nello Wadi Miyah, su una delle vie per Palmira. La stele reca iscrizioni religiose incise dai passanti.

Nel 272 d.C. Roma era sotto la guida di Aureliano, che si impegnò a riaffermare l'autorità romana. Zenobia, che aveva adottato sempre più titoli imperiali, per tutta risposta si staccò formalmente da Roma. La duplice invasione di Aureliano riconquistò rapidamente l'Anatolia centrale e l'Egitto, mentre i Palmireni si ritirarono in Siria. Dopo essere stata sconfitta in battaglia, Zenobia si rifugiò a Palmira, che Aureliano e i Romani assediarono. Zenobia tentò di uscire di nascosto dalla città e di fuggire in Persia, dove sperava di stringere un'alleanza e di costituire un nuovo esercito. Tuttavia, fu presto catturata e Palmira si arrese.

La morte di Zenobia
Zenobia, suo figlio Vaballathus e i suoi funzionari di corte furono portati nella città siriana di Emesa (oggi Homs) dove furono processati. Condannati per tradimento e vari altri crimini, la maggior parte dei sostenitori di Zenobia fu giustiziata. Lei e Vaballathus furono risparmiati perché Aureliano voleva esporli durante il suo trionfo a Roma. Durante il viaggio verso Roma, Aureliano la fece umiliare pubblicamente in tutto l'Oriente e, sebbene abbia partecipato al suo trionfo, il suo destino finale è incerto. Alcuni sostengono che morì di fame o che fu decapitata. L'ipotesi più probabile è che le sia stato concesso di ritirarsi in una villa italiana. I suoi discendenti sembrano essersi assimilati alla nobiltà romana e compaiono per tutto il IV e V secolo. 
Oggi Zenobia è un eroe nazionale della Siria e una figura popolare del cinema, della letteratura e dell'arte.


Per centinaia di anni, la ricchezza di Palmira è stata una testimonianza della sua grandezza e i suoi leader hanno dimostrato il loro acume politico facendo da intermediari tra i potenti imperi Romano e dei Parti. Di conseguenza, i palmireni costruirono una cultura eclettica e sofisticata come quella dei loro contemporanei, ma alla fine la leadership di Palmira sopravvalutò il proprio potere e la grandezza della città si sgretolò rapidamente.

Sebbene il mondo antico fosse per lo più un luogo patriarcale, non poche donne salirono alla ribalta e furono in grado di esercitare il potere politico. Hatshepsut (1479-1458 a.C.) fu sovrana del potente Nuovo Regno d'Egitto e quasi 1.500 anni dopo la più famosa Cleopatra VII (51-30 a.C.) fu la reggente della Valle del Nilo. Molte altre donne a Babilonia, in Assiria, in Grecia e a Roma svolsero ruoli importanti come reggenti per i loro giovani figli e, occasionalmente, come vero potere dietro il trono. 
Tra queste governanti, una delle donne più significative della tarda antichità fu Zenobia, che per pochi anni, alla fine del III secolo d.C., governò la ricca città mercantile di Palmira. Durante il suo periodo di governo, Zenobia estese i confini di Palmira dalla sua posizione molto circoscritta nel deserto siriano a un vero e proprio impero che comprendeva gran parte del Levante, l'Egitto e parte dell'Anatolia. Nonostante vivesse in un mondo di uomini, Zenobia riuscì a raggiungere il potere e a sfidare l'imperatore romano Aureliano (270-275) grazie a una combinazione di intelligenza, astuzia e fortuna.
L'impatto immediato di Zenobia fu la sua sfida diretta alle autorità politiche di Roma e della Persia. Prima di Zenobia, Palmira aveva un discreto grado di autonomia, ma era essenzialmente uno Stato cliente dei Romani. La stabilità e la ricchezza di Palmira dipendevano anche dalle varie dinastie che governavano la Persia: i Persiani potevano attaccare Palmira dal deserto a est oppure potevano semplicemente bloccare le rotte commerciali, distruggendo così la ricchezza della città-stato. Zenobia cercò di affermare Palmira come una potenza a sé stante, in modo da non essere più una pedina nelle continue guerre tra Roma e la Persia. Agli occhi di Zenobia, Palmira era un vero e proprio stato paritario dei Romani e dei Persiani e doveva avere un posto paritario al tavolo geopolitico quando si trattava di diplomazia e commercio. Palmira poteva essere solo una città-stato, ma la sua influenza era ben nota e superava di gran lunga le sue dimensioni fisiche. 

Zenobia imparò in fretta e, sebbene alla fine abbia perso nel suo tentativo di costruire un impero che rivaleggiasse con Roma in Occidente e con la Persia in Oriente, influenzò il corso della storia e lasciò un'eredità storica e letteraria su diverse culture per molti secoli. Anche dopo la sconfitta dei Romani, la sua influenza crebbe grazie alla sua personalità e alle sue gesta divenute leggendarie. Zenobia divenne un modello per scrittori e artisti islamici, ebrei e occidentali che trovarono ispirazione nel coraggio di una donna che sfidò la struttura del potere. Per questi uomini e donne successivi, Zenobia rappresentava qualcosa di innato e viscerale dentro tutte le persone, buone e cattive, e anche se questi scrittori e artisti non sempre ritraevano la leggendaria Zenobia in modo positivo, di solito portavano rispetto alla regina guerriera.

Ringraziamo l'amico Riad Matqualoon per la segnalazione dell'interessante articolo

martedì 27 febbraio 2024

I POVERI DEL LIBANO

 Notiziario di un gruppo di volontari di “Oui pour la vie”, un’associazione di volontariato con sede a Damour in Libano, legalmente riconosciuta impegnata in favore dei più poveri di ogni appartenenza religiosa e provenienza .

Da padre Damiano Puccini, marzo 2024

L’escalation della guerra in Medio Oriente già ha contagiato il Libano, causando vittime e feriti tra gli abitanti della regione, compresi i bambini, nonché distruzioni massicce in diverse località. La guerra in corso alla frontiera ha fatto salire la tensione con il rischio di un nuovo conflitto, che nessuno vuole, perché il rischio è di diventare come Gaza. Sono circa 120.000 i libanesi del Sud costretti per questo a lasciare le loro case. A Damour li aiutiamo con cucina e medicine.
Tutti preghiamo insieme per la PACE!
La popolazione ha paura per il proprio futuro. Il Libano è segnato da una gravissima crisi politica, sociale ed economica con le famiglie sul lastrico, la guerra tra poveri, i rifugiati siriani e la nascita di nuovi bisognosi, quel ceto abbiente che ha perso tutto.
Una delle priorità per i libanesi è curarsi. Oggi, in Libano, si muore per non poter andare in ospedale. La svalutazione della lira libanese e l’inflazione hanno ridotto il potere di acquisto delle famiglie che, con i salari attuali, non riescono più a fare fronte ai loro bisogni primari. Tanti studenti hanno smesso di studiare. I loro genitori non riescono a pagare le rette, nemmeno quelle delle scuole pubbliche.
La nostra associazione “Oui pour la Vie” continua ancora con la “cucina” di Damour, l’ambulatorio per i test sanitari e per AIDS – droga e alcool, il centro di ascolto per le medicine e la scuola per bisognosi di ogni appartenenza religiosa e provenienza.
Abbiamo ricevuto in donazione nel mese di gennaio ’24 un appartamento nella periferia di Beirut da adibire a succursale “Oui pour la Vie” rispetto alla sede principale di Damour, dove poter distribuire il cibo, proporre assistenza sanitaria realizzando un centro di screening, che faccia test gratuiti per le malattie sessualmente trasmissibili (come l'AIDS, la sifilide, la gonorrea, la clamidia), e prevenire l’aborto volontario, favorendo una cultura di rispetto della vita. Tutto questo sarà proposto sia a livello personale che di gruppo, grazie alla collaborazione con professionisti, per coloro che sono affetti da queste malattie.
Questa è un’attività che svolgiamo fin dagli inizi e per la quale “Oui pour la Vie” è stata riconosciuta legalmente e si impegna in collaborazione con altre associazioni anche al di fuori del Libano.
I nostri volontari hanno tutte le autorizzazioni per occuparsi legalmente di questi malati, che sono veramente considerati “gli ultimi degli ultimi” anche per i mille pregiudizi che subiscono, a partire dalle loro famiglie. In queste aree il target sono generalmente ragazzi e ragazze di età inferiore ai 18 anni.
Ringraziamo di cuore la famiglia che si è resa strumento della Provvidenza, in questo momento difficile per il Libano. Sono a carico nostro le spese legali per il passaggio di proprietà e l’aggiunta di una toilette, imbiancatura: totale 20.000 euro.
Festeggiamo inoltre, a febbraio, 9 anni di apertura della nostra cucina di Damour. Ancora grazie alla Provvidenza di Dio e a tutti coloro che ne sono strumenti.
Per testimonianze in Italia tel 333/5473721 pdamianolibano@gmail.com
Per inviare offerte: Bonifico sul conto: Oui pour la Vie, presso Unicredit Cascina (PI). IBAN: IT94Q0200870951000105404518; (BIC-Swift: UNCRITM1G05 se richiesto). Indicate nella causale del bonifico il vostro email / telefono cell e avvisateci dell’offerta scrivendo a info@ouipourlavielb.com. Grazie.
P. Damiano Puccini.

martedì 20 febbraio 2024

Ricordi: Latakia 1981


 Una pagina del mio diario scritta quando in Siria era in atto la sedizione dei Fratelli Musulmani, ovvero l’intento imperiale della sporca guerra per procura che, purtroppo, si sarebbe concretizzata pienamente a partire dal 2011.

di Maria Antonietta Carta

Sono le due o le tre dopo la mezzanotte. In soggiorno regna un silenzio deserto e io sul divano guardo, inerte, un’altra delle mie notti senza sonno. Notti insopportabili in cui si sta conficcando, infida, la rassegnazione. Non voglio che la mia anima si raggeli. Mi alzo. Metto sul piatto del giradischi la sinfonia Jupiter. Torno al divano. Le terzine in do maggiore cominciano a disperdere il silenzio. Creature fantastiche riempiono lo spazio intorno a me. Arrivano gli archi e mi scuotono la mente. Adesso la musica si fa serena di una serenità a tratti malinconica. Un racconto leggero, suasivo, carezzevole. Ma ecco spirali e spirali di suoni solenni. Il racconto diventa mito, e mi rapisce. Il ritorno del do maggiore mi sorprende. La musica finisce, riappare il silenzio e mi trova colma di stupore. La mia famiglia dorme oltre la parete.

Odo degli spari. “Qualcuno sta colorando l’asfalto col suo sangue” penso.

La sublime musica di Mozart è svanita lasciandomi ancora più sola e inerme. Vorrei dissolvermi nel pulviscolo che copre le cose trascorse. Il canto dei muezzin inonda la città. Nell’oscurità della notte si sta insinuando la luce del giorno nascente.

Le salmodie che riempiono quest’alba ancora deserta mi riconducono al mio primo risveglio in Siria. A Damasco. Ripenso a quella mia prima alba damascena, anch’essa salutata dalle salmodie che si spandevano nell'aria dai minareti della città.

Il brusco risveglio, un sussulto e le orecchie e la mente invase da una preghiera corale allora a me ignota. Durante il viaggio da Damasco a Latakia, nel pomeriggio di quello stesso giorno, avevo visto un numero incredibile di carri armati tutti in fila uno dietro l’altro sulla sottile striscia di asfalto che taglia la steppa alle spalle del riarso Anti-Libano. Ne contai a decine e decine e mi era difficile crederli veri. Non mi sentivo particolarmente turbata o spaventata.

Forse li percepivo, ancora straniera inconsapevole o già misteriosamente disillusa, come il destino ineluttabile di questa terra martoriata. “Arrivano dalla Russia. Sono sbarcati al porto di Latakia” disse l’autista del taxi. Ciò che mi fece capire di essere arrivata davvero in un altro mondo furono invece i bordi della strada vergini di cartelloni pubblicitari. È trascorso un anno da allora.

Una vita. Ieri, mentre preparavo il pranzo, due aerei hanno volato ringhiosi-minacciosi sopra il tetto. Sopra la mia testa. Pochi attimi dopo un’esplosione fortissima. Il palazzo ha tremato. “La guerra” ho pensato. Poi un urlo fuori dalla porta. Sono andata a vedere e c’era la mia dirimpettaia, incinta di otto mesi, che correva verso le scale con le braccia attorno al figlio dentro la pancia. Sul pianerottolo stava rigido l’altro figlio di tre anni, come la mia bambina, abbandonato dalla disperazione della madre. Gli ho preso la mano e tutti e tre siamo scesi in cantina.

‘’Non avere paura, madame, erano aerei spia israeliani, uno è caduto qui vicino abbattuto dalla contraerea.” mi ha detto un uomo. Con gentilezza. Ho ritrovato la vicina all’entrata del palazzo e insieme siamo risalite fino al quinto piano. Abbiamo bevuto un caffè nella mia cucina mentre i due piccoli giocavano - Tu non hai mai vissuto nella guerra. - mi ha detto.

- No, sono nata nel 1948. La guerra in Europa era già finita. Faccio un altro caffè?

- Si grazie. Io sono nata nel 1949. E c’era la guerra. Finita una ne è nata un’altra. Qui la guerra non va mai via. Ogni tanto si nasconde dentro il ventre della terra e quando meno te lo aspetti riappare a tradimento.

È spuntata l’alba, ma il sole appena sorto illumina e accende già il crepuscolo mattutino. Ripenso alle albe primaverili in Sardegna. Con il sole sopra l’orizzonte e qualche ombra notturna ancora intorno al suo alone rosato, esse indugiavano a lungo sull'orlo del mare prima di cedere il posto al giorno. La città si risveglia. Fra poco si sveglierà anche mio marito e mi dirà: ‘’Già alzata? Hai fatto il caffè?’’

Suo padre, Abdallah, quando era giovane, aveva un piccolo battello e commerciava tra la Siria e la Palestina. Poi il battello, che si chiamava Farah (Letizia), fu distrutto da una tempesta. Come la Palestina.

Mi affaccio al balcone e saluto il sole, che ha già inondato la città.

Il sole insostenibile sulla mia vita nuova. Dovrò abituarmi a vivere in questo Paese così pieno di luce, ma rabbuiato dalla guerra. Costretto dalla guerra ad affamarsi per comprare bombe e cannoni. Mi torna in mente la Guerra dei Sei Giorni. Anche allora l’estate stava rinascendo. Il tempo era ancora fresco, ma già pieno di fragranze e colori nel mio paese di montagna con gli orti di ciliegie, albicocche, gelsi e pesche che cominciavano a maturare e il rigoglioso sottobosco dei castagneti e il mare azzurro azzurro in lontananza che si mischiava con il cielo. Vicino alla stazione ferroviaria, i prati ancora teneri ci invitavano a marinare la scuola. Frequentavo il liceo allora.

Mi torna in mente la mattina del 5 Giugno 1967. L’ora di greco. Con i miei compagni le avevamo tentate tutte per evitare l’interrogazione.  Invano. La professoressa, inesorabile, puntava i nostri nomi nel registro spalancato sulla cattedra quando la preside entrò in classe e disse: ‘’Ragazzi, è successa una cosa gravissima. In Medio Oriente è scoppiata la guerra.’’  Si parlò del Medio Oriente e alcuni di noi scamparono l’interrogazione. Com’era lontano allora il Medio Oriente! Sono soltanto le sette di un mattino di prima estate. Non un mattino fresco e soave come quelli della mia giovinezza ma un mattino troppo intenso.

Forse, il ricordo di quei mattini lontani se ne andrà col prossimo scirocco.

mercoledì 14 febbraio 2024

La Quaresima nello sguardo dei patriarchi del Medio Oriente


 In un mondo sempre più “avvolto nelle tenebre” della guerra, delle violenze confessionali, dell’egoismo il tempo di digiuno e preghiera che precede la Pasqua indica alle nostre vite “un nuovo orizzonte” ed invita a “lasciare che lo Spirito Santo ci cambi dall’interno”. È il monito lanciato dal card. Louis Raphael Sako, patriarca di Baghdad dei caldei, in occasione della lettera pastorale per il tempo di Quaresima che inizia oggi e inviata per conoscenza ad AsiaNews. Il porporato sottolinea come oggi, dalla Terra Santa all’Ucraina, la situazione sembra essere “eccezionalmente più complicata” e in peggioramento “soprattutto nella nostra regione. A causa dell’abbandono dei valori umani e religiosi, il nostro mondo - avverte - è in uno stato di caos, squilibrio, instabilità”. Sono “divisioni interne per potere e denaro” accompagnate da “interventi esterni per interessi politici ed economici” che finiscono per alimentare “guerre devastanti”.

Di fronte a una escalation che colpisce cuori e menti, crea turbamento e alimenta ansia e paura, che rischia di trasformarsi in conflitto globale, il periodo di Quaresima diventa occasione di preghiera e di riflessione: “Il digiuno - ricorda il card. Sako - non è solo digiuno dal cibo, ma anche dal peccato. È un tempo di conversione e pentimento” ed è “tempo dell’applicazione pratica del comandamento dell’amore e della misericordia”. “Dobbiamo tornare alla nostra autenticità, dare un esempio meraviglioso alle nostre parrocchie, famiglie e società, convertendoci e affrontando con decisione - conclude - i comportamenti malvagi, prima che avvenga il disastro” per “raggiungere la pace” in un “mondo avvolto nelle tenebre”. 

 Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen), sottolinea come la Quaresima sia “un cammino di speranza perché Dio vuole la nostra salvezza e ci offre il suo abbondante perdono e la sua misericordia”. Nel messaggio ai fedeli il prelato richiama quello di papa Francesco, con la riflessione sul “deserto” attraverso il quale “Dio ci conduce alla libertà”. “Vi invito a meditarlo” esorta mons. Martinelli, perché “l’immagine del deserto ci è familiare. Siamo chiamati a passare dalla schiavitù del peccato alla Libertà di essere figli di Dio: alla conversione, a un profondo cambiamento di vita”. Infine, il prelato invita a vivere questo tempo di preparazione alla Pasqua “dedicando più tempo alla preghiera, al digiuno e all’elemosina. Il digiuno (non solo dal cibo ma da tante cose inutili che ci rendono vittime del consumismo) ci aiuta a liberarci dai vizi e dagli idoli. L’elemosina ci spinge alla carità e all’amore verso gli altri. Troviamo occasioni - conclude - per aiutare qualcuno in difficoltà. Dio ama chi dona con gioia” e che “il cammino quaresimale vi porti frutti di gioia e di autentica Libertà”.

 Un invito al digiuno e alla riconciliazione è espresso dal patriarca maronita Beshara Raï: nel messaggio per la Quaresima ispirato alle parole del profeta Gioele e intitolato “Ritornate a Dio con tutto il cuore” egli invita a tendere “una mano in aiuto fisico, spirituale e morale” attraverso uno “spirito di pentimento e di austerità”. Per il porporato il dovere più importante della Chiesa, dei suoi pastori, figli e figlie, è quello di “dare l’esempio nel vivere la riconciliazione” tra loro e con le persone che formano la comunità “soprattutto nei casi di abuso e di male”. “La riconciliazione nasce - spiega - dalla misericordia che impariamo da Dio” il quale è “ricco di misericordia”.
A seguire, il patriarca Raï richiama la situazione della società libanese in generale e quella politica del Paese dei cedri che soffre “di divisioni, conflitti, odio e malizia” il cui prezzo è pagato “dal popolo libanese a tutti i livelli: sociale, politico, costituzionale, finanziario e di riforma”. Per questo è “dovere di tutti noi, insieme a tutte le persone di buona volontà, lavorare per porre fine alle differenze, rimuoverne le cause, rafforzare il rispetto reciproco e ripristinare la fiducia perduta tra le componenti della nazione”. “Viviamo così il tempo della Grande Quaresima, conosciuto come tempo della riconciliazione, a partire dalla famiglia, passando per la società, fino ad arrivare ai partiti e ai gruppi politici. Una volta raggiunte la riconciliazione e la fiducia, potremo cooperare - conclude il porporato - per ricostruire lo Stato e le sue istituzioni, rilanciare la sua economia, stimolare il suo commercio e rilanciare le sue banche e l’attività finanziaria”.

 Per il patriarca siro-cattolico di Antiochia Ignatius Joseph III Younan, il tempo di digiuno diventa “un processo di pentimento attraverso lo Spirito Santo”. Il tempo della Quaresima, spiega il primate nel suo messaggio, è “un cammino di pentimento, cioè un ritorno spirituale pieno di rimorso a Dio, attraverso lo Spirito Santo” durante il quale “ascoltiamo le sue parole vivificanti” perché “la sua luce risplenda nella nostra vita”. Intitolato “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” con riferimento all’evangelista Luca, il testo richiama lo Spirito Santo che ha condotto Gesù “nel deserto perché digiunasse 40 giorni tentato dal diavolo” finendo “con la meravigliosa vittoria sul tentatore”. “Lo Spirito guida la Chiesa nel tempo, ci accompagna e guida i nostri passi nel deserto di questo mondo, soprattutto nel tempo della Quaresima, affinché possiamo sperimentare - conclude il patriarca - con Cristo la nostra carenza e debolezza, e il nostro bisogno di pentimento e di rinnovamento”.

FONTE: asianews.it

lunedì 12 febbraio 2024

Medio oriente: chi viola il diritto internazionale?

di Alessandro Orsini

.......  Una delle questioni più importanti della politica internazionale, mai dibattute in Italia, è la presenza di una base americana in Siria, la base di al-Tanf, governatorato di Homs, sull’autostrada strategica M2 Damasco-Baghdad, dove tre soldati americani sono stati uccisi alcuni giorni fa scatenando i bombardamenti di Biden contro vari Paesi mediorientali. 

La base di al-Tanf è illegale. Il governo siriano ha chiesto infinite volte alla Casa Bianca di abbandonare quel territorio. Anche Russia, Cina e Iran hanno denunciato che al-Tanf viola il diritto internazionale. La Casa Bianca ha risposto che serve a combattere contro l’Isis. In realtà la base è stata utilizzata soprattutto per sostenere i ribelli che cercano di rovesciare il presidente siriano per sostituirlo con un presidente filo-americano. Si chiama regime change ed è un’azione illegale.

 “Timber Sycamore” è il nome dell’operazione segreta della Cia per rovesciare il regime siriano con la forza e sostituirlo con un regime filo-americano. “Timber Sycamore”, lanciata nel 2012, è stata rivelata dalla stampa americana nel 2016. Una delle ragioni principali per cui l’immane tragedia della guerra civile in Siria non ha fine è che è alimentata illegalmente dagli Stati Uniti. La base di al-Tanf svolge svariate funzioni illegali, tra cui quella di bombardare illegalmente il territorio siriano.

 La Casa Bianca ha cambiato molte volte la giustificazione della sua presenza illegale in Siria. Nel 2019, John Bolton, l’allora National Security Advisor di Trump, disse che la base di al-Tanf serviva a contrastare l’Iran, ovvero a promuovere la politica di potenza degli Stati Uniti in Medio Oriente. La Casa Bianca ha giustificato la base di al-Tanf, cioè la violazione del diritto internazionale, prima con l’Isis, poi con l’Iran, infine con il petrolio. 

 Le dichiarazioni più imbarazzanti su al-Tanf sono state infatti rilasciate da Trump, il quale dichiarò che i soldati americani sono in Siria soltanto per sfruttare il petrolio di quel Paese. La notizia fu riportata dal Guardian in un articolo intitolato: “Trump contraddice i propri consiglieri e dice che le truppe americane sono in Siria solo per il petrolio” (13 novembre 2019). Pochi giorni prima, il Washington Post, commentando la dichiarazione di Trump, aveva spiegato che la presenza americana in Siria era illegale in un articolo intitolato: “Trump continua a parlare di prendere il petrolio del Medio Oriente. Sarebbe illegale”. 

Il Washington Post parlava di “furto” e di “crimine di guerra” da parte della Casa Bianca in questo brano adamantino: “Prendere il petrolio siriano potrebbe costituire un saccheggio – un furto durante la guerra – vietato dall’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra e dalle leggi e consuetudini della guerra terrestre dell’Aia del 1907. […]. Il divieto ha solide basi nelle leggi di guerra e nella giustizia penale internazionale, nonché nel codice federale degli Stati Uniti, anche come sanzione per lo sfruttamento illegale di risorse naturali come il petrolio proveniente da zone di guerra” (5 novembre 2019).

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mercoledì 7 febbraio 2024

Non cali il silenzio

 

Un anno fa il terribile terremoto che rase al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria, con un bilancio di quasi 60.000 vittime.


L'Osservatore Romano, 6 febbraio 2024

«È importante che non cali il silenzio sulla tragedia». È l’appello del vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente di Caritas Turchia, a un anno esatto dal terremoto che il 6 febbraio 2023 rase praticamente al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria. Attraverso Caritas internationalis, in una nota, monsignor Bizzeti parla delle «conseguenze» che ancora oggi la popolazione vive: «Purtroppo non siamo fuori dall’emergenza: il numero degli sfollati è alto e la ricostruzione richiederà del tempo e l’aiuto di tutti», dice.

Nello spazio di sessantacinque secondi, 53.537 vite — secondo gli ultimi dati pubblicati dalle autorità di Ankara — vennero inghiottite dai cumuli di cemento degli edifici crollati su sé stessi, accartocciati, polverizzati. Ad esse vanno aggiunti i 6.000 morti registrati nella vicina Siria, Paese già insanguinato da oltre un decennio di guerra, dove una stima precisa dei danni è difficile da concretizzare ancora oggi. Un’unica certezza: quasi 60.000 vittime totali.

La «peggiore catastrofe della storia moderna», titolarono allora i giornali turchi. Undici province della Turchia vennero colpite. Più di 100.000 edifici crollati, 2,3 milioni danneggiati, 700.000 persone vivono tutt’oggi nei container, gente di Antakya, Gaziantep, Kahramanmaraş, solo per citare alcune delle città maggiormente danneggiate.

Secondo Save the Children, in Turchia un bambino su tre di quelli che hanno perso la casa per la violenza delle scosse — dopo la prima di magnitudo 7.8 del 6 febbraio, ne seguirono centinaia di altre — vive ancora in rifugi temporanei. Con essi, le loro famiglie. Per tutti i terremotati, la risposta all’emergenza della rete Caritas si è inizialmente concentrata sulla distribuzione di aiuti alimentari e kit igienici e sulla fornitura di alloggi. Si è poi estesa — spiega il comunicato di Caritas internationalis — al miglioramento delle condizioni di vita degli sfollati e ad attrezzature per gli alloggi temporanei, come ventilatori, frigoriferi, stufe. Stessa sollecitudine anche in Siria.

Lì, in base a dati dell’Onu, circa 265.000 persone sono state private delle loro case dal terremoto: 43.000 vivono ancora in rifugi. Centinaia i bambini rimasti orfani. Tra loro anche la piccola Aya, nata proprio il 6 febbraio e trovata viva tra i resti di un palazzo a nord-ovest di Aleppo, ancora attaccata al cordone ombelicale della mamma, morta per il crollo. Lo zio Khalil al-Sawadi, che ne è il tutore e la chiama Aafraa in memoria della madre scomparsa, in questi giorni ha mostrato alla stampa internazionale la foto che lo ritrae mentre, un anno fa, portava in salvo la piccola. Oggi Aya-Aafraa compie un anno. Di vita e, nonostante tutto, di speranza. (giada aquilino)

Siria, un anno dopo il terremoto: ad Aleppo la gente ha ancora paura

La testimonianza del religioso marista Georges Sabé, che lancia un appello alla comunità internazionale: siamo un popolo ridotto alla miseria, ci aiuti a ritrovare la dignità

VATICAN NEWS , 6 febbraio 2024

Era la notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023 quando un violento terremoto di magnitudo 7,5 devastava la Turchia sudorientale e la Siria nordoccidentale. Numerose le scosse nei giorni successivi, che hanno causato, in totale, quasi 60 mila morti. Si è trattato del peggior disastro naturale per la regione dal sisma del 1999 a Izmit. In Siria, Paese già provato da tredici anni di guerra, dove hanno perso la vita 6 mila persone, a un anno di distanza il timore per l’arrivo di nuove devastanti scosse non abbandona gli abitanti delle regioni colpite, ora alle prese con una crisi economica senza precedenti che ha generato tanta povertà. A tutto ciò si aggiunge lo stop, dall’1 gennaio, dell’invio degli aiuti alimentari del Programma alimentare delle Nazioni Unite, che ha sfamato quasi 5,6 milioni di siriani.

Ai media vaticani il religioso marista Georges Sabé, che vive ad Aleppo, una delle città del nordovest della Siria più colpite dal terremoto, racconta il suo sforzo quotidiano per ridare speranza alla gente e nell'intervista rilasciata chiede alle organizzazioni internazionali di non “abbandonare una popolazione sofferente”.

Che aspetto ha Aleppo oggi?

Ogni giorno vedo edifici in parte distrutti, in totale insicurezza, eppure, se un piano non è in rovina, spesso è abitato. In linea di principio, la gente non dovrebbe risiedere lì. Ma c'è chi, a causa della povertà, della miseria, perché quella era la propria casa, decide di viverci. Ci sono state persone che si sono spostate, tra le 500 e le 600 famiglie hanno dovuto cambiare luogo di residenza. La città non è ancora stata ricostruita, né la parte più colpita dalla guerra, né quella distrutta dal terremoto.

Al di là dei danni materiali, a un anno dal terremoto si notano conseguenze psicologiche tra i residenti ?

La parte peggiore di tutto questo è la paura. La paura si è insinuata in tante persone, sia tra i bambini, sia tra gli adulti, tra i giovani, tra i meno giovani... C'è gente che ha dormito per un po' vestita perché aveva paura. Ci sono bambini che fino a ora hanno avuto grandi difficoltà a separarsi dai genitori, sia di notte, ma per alcuni anche di giorno. C’è molto da fare: dobbiamo ricostruire gli edifici ma anche il sentimento di sicurezza di molte persone. Non dobbiamo dimenticare inoltre che questo trauma si fonde con l’esperienza della guerra, con tutte le sue conseguenze.

E tra le conseguenze della guerra c’è pure la crisi economica che ha colpito la Siria. Che ricadute ha nella sua vita quotidiana?

Ultimamente abbiamo, in parte, dimenticato il sisma, perché stiamo vivendo un terribile terremoto economico. Siamo ancora soggetti a sanzioni (internazionali, ndr). Queste sanzioni, anche se si sostiene che non colpiscono la popolazione, si riflettono nella nostra vita quotidiana. Ad esempio, siamo in pieno inverno e abbiamo solo due ore di elettricità al giorno. Ciò significa che siamo costantemente alla ricerca di modi per riscaldarci.

Al momento del terremoto avete ricevuto aiuto da alcune Ong e organizzazioni internazionali, in particolare dalle Nazioni Unite. Oggi com'è la situazione?

L'aiuto che è arrivato è stato molto limitato e da allora si è interrotto. La Siria, prima del 6 febbraio 2023, era già stata dimenticata dalle Ong, ma gli aiuti continuavano comunque. Dall’1 gennaio 2024, l’Agenzia per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, il Programma alimentare mondiale, ha sospeso tutti gli aiuti. Il motivo è che ci sono altri luoghi di intervento. Personalmente, credo che, sotto questo profilo, non abbiamo il diritto di abbandonare una popolazione che soffre. Che diritto abbiamo oggi di accettare che una popolazione viva nella povertà e nella miseria? Faccio un appello: occorre vivere con dignità. Non siamo mendicanti, ma abbiamo sofferto tante difficoltà, tanti problemi, tante disgrazie e l’umanità deve aiutarci a rimetterci in piedi, non ridurci all’accattonaggio.

Lei parlava di ricostruzione di un senso di sicurezza per gli abitanti di Aleppo. Come si può ritrovare la speranza in questa situazione?

Dobbiamo credere che la speranza è possibile. Nonostante un orizzonte chiuso, dobbiamo credere personalmente, comunitariamente, a livello di Chiesa, che la speranza è possibile e che il Signore non ci abbandona. Da questa speranza dobbiamo andare incontro agli altri, per servirli il più possibile e per fornire loro, sempre per quanto possibile, l'aiuto di cui hanno bisogno. La nostra fede ci aiuta ad andare avanti. Il Signore ha promesso di non dimenticarci, nemmeno in mezzo alla tempesta, come i discepoli sorpresi da una tempesta in mare aperto. Il Signore sembra dormire, ma è lì per calmare i nostri cuori e calmare le nostre menti. Questo è il principio su cui, attualmente, come maristi e maristi blu, stiamo lavorando per continuare a seminare speranza nel concreto, nel reale: con cesti alimentari, con sostegno psicologico, con l'educazione, con lo sviluppo umano, con gli aiuti per agli affitti.