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martedì 21 novembre 2023

Giornata Pro Orantibus, le trappiste in Siria: la vita è più forte di qualunque morte


 Vatican News, 21 novembre 2023

Hanno scelto di vivere ad Azeir, un piccolo villaggio rurale di circa 400 abitanti a due passi da Talkalakh, in Siria, per testimoniare che è possibile coltivare la speranza lì dove la guerra ha seminato morte e distruzione. Cinque monache trappiste hanno deciso di proseguire qui la missione che i loro “fratelli” cistercensi hanno iniziato in Algeria, a Tibhirine. Una presenza evangelica in terra musulmana pagata con il sangue, quella dei sette religiosi uccisi nel 1996. Ma un’eredità, la pacifica convivenza sperimentata con i fedeli dell’islam, che l’ordine contemplativo dei Cistercensi della Stretta Osservanza (OCSO) ha voluto far fruttificare. Per questo nel 2005, alcune claustrali del monastero di Nostra Signora di Valserena, in Toscana, hanno dato vita a una nuova comunità monastica nel Medio Oriente.

Quella delle trappiste italiane, che attualmente vivono nella foresteria del loro monastero ancora in costruzione, è una testimonianza preziosa che giunge nella Giornata Pro Orantibus, istituita da Pio XII nel 1953 e celebrata nella festa liturgica della Presentazione di Maria Vergine al Tempio. Una ricorrenza che invita a pregare per tutti i contemplativi e ai quali è dedicata la Messa che il cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, presiederà il 3 dicembre, a Roma, alle 11, nella Basilica dei Santi Quattro Coronati.

Suor Marta Luisa Fagnani, superiora del monastero Nostra Signora Fonte della Pace, racconta a Vatican News – Radio Vaticana del lavoro svolto nella piccola comunità siriana di Azeir, dove la gente – sia musulmana che cristiana – bussa per ricevere aiuti o semplicemente trovare “un posto sereno”. Lì, a due passi dal confine con il Libano, quello delle trappiste è un esempio di dialogo, di mutuo aiuto e di accoglienza.

Ascolta l'intervista a suor Marta Luisa Fagnani

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/11/20/18/137477908_F137477908.mp3

Suor Marta, come siete arrivate in Siria?

Il nostro arrivo in Siria ha origine dall’esperienza dei nostri fratelli in Algeria, i monaci di Tibhirine. Dopo la loro morte il nostro ordine si è interrogato su cosa raccogliere della loro testimonianza, fondamentalmente un’esperienza di vita monastica dentro un contesto di minoranza cristiana. Da lì è nata una riflessione in tutto l’ordine cistercense e anche il desiderio di monaci e monache di raccogliere questa eredità dentro un cammino, che è stato molto lungo. Poco a poco, la nostra comunità in Italia di Valserena ha capito che c’era una chiamata e abbiamo formato un primo gruppo. Abbiamo avuto dei contatti per la Siria, siamo venute a visitare il Paese e abbiamo trovato una grande accoglienza e apertura; alla fine, siamo arrivate a decidere di provare a iniziare una fondazione monastica. Così siamo partite nel 2005.

Qual è stato il primo impatto con il territorio?

Come dicevo, abbiamo trovato una grandissima accoglienza. La Siria, prima della guerra, era un Paese in crescita, molto aperto, dove da secoli convivono tradizioni religiose ed etnie diverse. Quindi un Paese ricco di storia, di cultura, molto accogliente ed ospitale. Questo ha incoraggiato l’idea di cominciare un’esperienza.

E adesso, a che punto è il monastero?

Abbiamo iniziato le prime costruzioni nel 2008, dopo aver vissuto cinque anni mezzo ad Aleppo, poi ci siamo trasferite ad Azer, in campagna, con l’idea di cominciare a edificare il monastero. Ma nel 2011 è scoppiata la guerra. Quindi stiamo ancora vivendo nella foresteria. In questi anni, con le pietre del terreno, abbiamo costruito una decina di piccole abitazioni con gli operai del posto per ospitare persone, ma il monastero vero e proprio abbiamo cominciato a costruirlo da un anno e mezzo.


Che tipo di relazioni sono nate con la gente del posto?

Direi molto buone. Abbiamo avuto prima l’esperienza della vita in città, vivendo in un appartamento vicino a delle scuole che ci hanno aiutato ad inserirci. Abbiamo, quindi, imparato a conoscere le comunità cristiane presenti, la vita della gente. Da subito ci siamo sentite a casa e abbiamo anche ritrovato la nostra storia e le nostre radici, perché la Siria è il luogo dove la vita monastica è nata. Ci siamo trasferite poi in campagna e anche qui le relazioni con la gente sono molto buone, sia con cristiani che con musulmani. Il fatto di essere potute rimanere nonostante la guerra sicuramente ha cementato ancora di più il rapporto con le persone, vivendo quello che loro stessi vivevano. In questi ultimi anni la situazione si è un po’ normalizzata e le persone cominciano a venire numerose per dei ritiri da noi. Abbiamo contatti con diversi gruppi cristiani da Aleppo, Damasco, Homs, e anche i nostri vicini musulmani vengono, perché il posto è bello. Cerchiamo di curare la natura, l’ambiente, qui c’è un clima di serenità.

E in particolare con i musulmani, come sono i vostri rapporti?

C’è molta naturalezza, molto rispetto. Siamo in un piccolo villaggio cristiano e intorno ci sono villaggi musulmani; anche durante la guerra, abbiamo cercato di dare lavoro ad operai cristiani e musulmani, sia sunniti che alawiti. Ci sono anche diversi musulmani che vengono da noi per un incontro personale, ma anche semplicemente per amicizia. È un ambiente misto e la vita quotidiana, i contatti per la spesa, le visite mediche, avvengono in un contesto in cui si vive insieme. Direi quindi che è un rapporto quotidiano basato non su grandi discorsi, ma su un rispetto reciproco. Certo, la guerra ha rotto un po’ questo equilibrio, perché certe situazioni sono state molto pesanti, ma di fondo, in Siria, c’è grande apertura verso l'altro. E noi lo sperimentiamo ancora oggi, nonostante le ferite.


Chi viene a bussare alla porta della vostra comunità?

Gente con tante situazioni di bisogno. Anche se noi vogliamo rimanere una comunità contemplativa, cerchiamo di aiutare come possiamo tutti, senza differenza, cristiani e musulmani. C’è gente che ha necessità di aiuti materiali o gente che ha bisogno di serenità, che viene semplicemente per trovare un ambiente bello; c’è chi ha bisogno di confrontarsi su domande circa la guerra, la distruzione, il senso di quello che sta attraversando la Chiesa in questo momento. Poco a poco sta crescendo anche un desiderio di una relazione con Cristo che dia veramente senso e risposta alle domande più difficili.

Quale testimonianza volete dare?

Innanzitutto vivere la vita monastica così com’è, ma soprattutto una testimonianza di speranza e prossimità. Stare semplicemente qui, con le nostre fragilità, con la nostra povertà in tante cose (la lingua, l’inculturazione, eccetera), significa scegliere di rimanere, invece in molti la tentazione di andare via è sempre più forte. Allora noi vogliamo rimanere con la speranza di costruire: dove tutto si distrugge vogliamo cercare di trovare un senso alle cose e testimoniare semplicemente la forza di una vita che comunque è più forte di qualunque situazione di morte che ci sia attorno. Tutto questo in nome di Cristo. È chiaro che possiamo vivere tutto questo perché il Signore è il primo che resta con noi. Quindi non ci basiamo sulle nostre forze umane, ma su una speranza che ha una radice più profonda, la fede.


Da quando siete arrivate, ci sono stati dei momenti particolarmente difficili che avete vissuto?

Sicuramente la guerra. Per almeno 3-4 anni, quello in cui ci troviamo è stato un territorio di passaggio di bande jihadiste, di ribelli contro il governo, di scontri fra l’esercito e i ribelli, quindi la popolazione ha vissuto questi combattimenti, e noi con loro. Non è stato facile, anche a causa di tutte le problematicità che si sono aggiunte: la difficoltà a procurarsi le cose necessarie, la corrente elettrica che manca, le insicurezze per il futuro. E anche l’essere pronte da un momento all’altro a lasciare tutto. Siamo rimaste tre anni con la valigia pronta e il passaporto. Ma era la stessa precarietà che vivevano tutti. Ringraziamo Dio di averla potuta vivere con la nostra gente. Allo stesso tempo, siamo state anche molto aiutate e protette. Adesso la fatica più grossa è quella di vedere la nostra gente partire, perché le condizioni di vita sono molto dure e questo rattrista, è pesante da vedere.

Quella della Siria viene definita una tragedia dimenticata, quali sono le necessità più grandi lì dove siete voi?

È vero che è una tragedia dimenticata: dieci/undici anni di guerra hanno distrutto il Paese, l’hanno impoverito. Dopo il terremoto - una tragedia nella tragedia - per assurdo qualcuno ha detto: “Meno male che c’è stato il terremoto perché ci sono accorti ancora di noi”. Gli aiuti sono stati infatti generosissimi e c’è stata grande vicinanza verso il Paese; allo stesso tempo c’è stata un’emorragia incredibile di persone. E molti continuano ancora a lasciare il Paese: professionisti, medici e ingegneri, tecnici, manodopera specializzata, giovani. La Siria oggi è un Paese che manca sempre di più di risorse, di potenziale umano, oltre a essere una nazione che ha una povertà strutturale. Si pensi pure alle sanzioni internazionali che non si è mai riusciti a mitigare nonostante i tantissimi appelli. Il bisogno fondamentale è di poter creare un minimo di vita, di commercio, di lavoro che permetta una vita sostenibile, che aiuti a non emigrare, che consenta alle persone di restare con una speranza di vita dignitosa.


Voi monache di cosa avete bisogno in particolare?

Noi possiamo solo ringraziare il Signore di tutto ciò che abbiamo, perché ogni giorno riceviamo qualcosa. Certo, vorremmo terminare il nostro monastero, perché pensiamo che sia un segno importante e abbiamo bisogno anche di essere sostenute per sostenere a nostra volta le persone attorno a noi. Abbiamo bisogno, soprattutto che la Siria non sia dimenticata. Vuol dire, prima di tutto, mantenere un’informazione corretta, quindi conoscere la realtà e non dimenticarla. Spero poi che con il tempo e con una situazione politica generale del Medio Oriente più favorevole si possono riprendere anche le visite, che sono anche un segno di speranza.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-11/giornata-orantibus-trappiste-siria-tibhirine-guerra-speranza.html

'Cuori e mani per la vita' : Ci sono donne del villaggio di Azer con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Hanno imparato il macramé e lavorando da casa e presso il monastero , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia : per sostenere il progetto delle Monache Trappiste a favore delle donne siriane rivolgersi alla mail: oraprosiria@gmail.com

sabato 18 novembre 2023

Lettera dalla Siria di padre Daniel

 

( Facendo seguito alle catechesi settimanali che padre Daniel invia agli amici dal monastero Mar Yakub nel deserto siriano a nord di Damasco)

Qara, 17 novembre 2023

Cari amici,

della dignità della nostra umanità abbiamo finora considerato due qualità importanti. Siamo creati a immagine di Dio e portiamo nel profondo di noi un desiderio insaziabile per la felicità perfetta che possiamo ottenere solo in Dio e quindi alla fine desideriamo Dio. Queste sono le due radici prime e vivificanti della nostra umanità, che possono ispirare anche tutta la nostra vita. Li abbiamo spiegati in dettaglio e fornito alcuni approfondimenti.

Prima di discutere la terza caratteristica, vorrei soffermarmi ancora. Sono gli avvenimenti attuali che mi costringono a farlo. A Gaza è in corso un massacro senza precedenti, con masse di uomini, donne e bambini uccisi, non accidentalmente ma deliberatamente. Bambini, ospedali, ambulanze vengono incessantemente bombardati. E questo orrore continua.

Alcuni ritengono che sia la guerra in Ucraina che questa follia in Israele-Palestina siano parte di un importante cambiamento negli eventi mondiali. Fino a poco tempo fa, il mondo era governato in modo “unipolare”. Un’unica potenza mondiale (USA, Israele, insieme all’Occidente collettivo) potrebbe dominare il mondo intero secondo le proprie regole, indipendenti dal diritto e dalla giustizia internazionali. Di conseguenza, gli altri paesi erano essenzialmente solo vassalli o colonie. Nel frattempo, però, sono emerse altre potenze mondiali, che hanno creato un mondo “multipolare” (Russia, Cina, India, mondo islamico, e forse africano, sudamericano). L'obiettivo è rispettare la sovranità degli altri paesi e concludere accordi per il benessere reciproco. La guerra in Ucraina contro la Russia e il tentativo di sterminio del popolo palestinese sarebbero allora un tentativo disperato, fallito in anticipo, del vecchio dominio mondiale “unipolare”, che vuole sopravvivere.

Comunque sia, diamo ora una considerazione religiosa all’evento israelo-palestinese.

Il popolo palestinese, la pupilla degli occhi di Dio

I leader politici ebrei di oggi vogliono giustificare la lotta in Israele da una prospettiva biblica. Il popolo ebraico è quindi la pupilla degli occhi di Dio che avrebbe il diritto di sterminare i propri nemici (Amalek nella Bibbia) fino all'ultimo uomo, donna e bambino. 

Tuttavia, i cristiani dovrebbero leggere l'Antico Testamento a partire dal Nuovo Testamento e comprendere il Nuovo Testamento sullo sfondo dell'Antico. Gesù Cristo ha portato un rinnovamento profondo e definitivo. Egli è il compimento, l'approfondimento, l'ampliamento della rivelazione di Dio. Egli stesso è la pienezza della Parola di Dio. Dalla sua morte e risurrezione, ogni luogo della terra è uguale a Betlemme, Nazareth, Golgota e Gerusalemme. Non c'è più differenza tra la chiamata di un ebreo o di un gentile. Ogni popolo è in Cristo "il popolo eletto di Dio" e la sua "pupilla degli occhi". Allo stesso modo, Gesù ha rivelato il giusto significato del matrimonio tra uomo e donna, adempiendo e trascendendo la Legge di Mosè. Ogni popolo della terra e ogni essere umano è invitato ad assumersi la propria responsabilità per essere salvato, cioè attraverso la fede in Gesù Cristo. 

Gesù pianse su Gerusalemme perché non riconosceva Lui, il suo Messia e la sua salvezza e perché i leader religiosi rifiutavano il loro compito di essere “ luce delle nazioni ” in Cristo. Predisse anche la rovina di questa onoratissima città e del suo santissimo tempio. I leader religiosi ebrei risposero con derisione. Erano sicuri della loro gloria divina e dell'inviolabilità dei loro luoghi santi. Tuttavia, Gerusalemme e il tempio furono terribilmente distrutti nell'anno 70 e la popolazione massacrata. Rimase un trauma per il popolo ebraico.  Gran parte del popolo ebraico non ha imparato la lezione da questo. 

Paolo, autentico ebreo circonciso, inveì contro coloro che ancora cercano la salvezza nella circoncisione invece che nella fede soltanto in Gesù.  Anche gli altri apostoli capirono che Dio ha scelto tutti i popoli, le razze e le lingue in Cristo perché fossero la pupilla dei Suoi occhi e popolo amato per condividere tutte le promesse una volta fatte al popolo ebraico. Per questo nel Primo Concilio di Gerusalemme si è deciso che la circoncisione e la Legge di Mosè non sono più necessarie. La fede in Gesù è necessaria e sufficiente per partecipare alla salvezza di Dio. Il popolo palestinese e tutte le altre nazioni sono in Cristo allo stesso modo del popolo ebraico, popolo eletto da Dio. 

Come finirà questa terribile guerra? Anche su questo Gesù ci dà un indizio: chiunque maneggia la spada, di spada morirà (Matteo 26:52). Ciò vale per tutti i partiti, ma ovviamente soprattutto per quelli la cui “spada” è una prepotente superpotenza militare dotata delle più sofisticate armi di distruzione e armi atomiche per sterminare deliberatamente uomini, donne e bambini con un orrore senza precedenti. Gli israeliani credono che ciò garantisca la loro sicurezza. Vediamo che in realtà è vero il contrario. Con la loro eccessiva violenza mettono se stessi e tutti i loro concittadini in tutto il mondo in grave pericolo. Israele può sopravvivere solo se rinuncia a ogni violenza, persegue la giustizia e riconosce Cristo. Nel 1948, i nuovi residenti ebrei furono accolti con ospitalità nei villaggi palestinesi, ma ne approfittarono per registrare meticolosamente tutti i dettagli importanti dei villaggi e successivamente per razziarli uno per uno. Israele può sopravvivere nella giustizia e nell'amore solo se riconosce anche il popolo palestinese come la pupilla degli occhi di Dio e vuole vivere insieme a lui in pace, come chiedono espressamente molti ebrei pii e ortodossi. La parola di Gesù vale ora in modo speciale per il popolo palestinese: “ Tutto ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me ” (Mt 25,40). 

Preghiamo per il popolo ebraico affinché riconosca Gesù Cristo, il suo più grande Rabbino, come il suo Messia, il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo. Preghiamo affinché i musulmani accettino Gesù, il Signore morto e risorto, come loro unico Salvatore. Preghiamo per tutti gli uomini, di qualunque fede, affinché, vivendo con coscienza sincera, scoprano e riconoscano Gesù Cristo come loro Salvatore. Preghiamo per i cristiani affinché diventiamo degni seguaci di Gesù Cristo e annunciatori della sua salvezza. 

In Siria oggi

Dodici anni fa siamo arrivati in Siria, un Paese di grande prosperità e sicurezza, con una popolazione che viveva in armonia. La vita era molto economica. La Siria produceva il 20% di cibo in più del necessario. Aveva abbondanza di gas e petrolio. Quasi nessuna porta d'ingresso di una casa era chiusa a chiave. Poi vennero gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo, che si autodefinirono “amici della Siria”. Hanno creato gruppi terroristici che hanno addestrato e pagato e hanno invaso la Siria, apparentemente per liberare la popolazione dai terroristi. Hanno rubato i raccolti, il petrolio e il gas. E continuano a farlo. Sempre più persone soffrono la fame e il freddo. Adesso non abbiamo più nemmeno il gas per preparare il pranzo. Ci accontentiamo di una stufa a legna. 

Tuttavia, non possiamo non condividere un'altra storia che scalda il cuore. Questa settimana, tre di noi si sono recati da un otorino. La sala d'attesa era affollata. I testi calligrafici del Corano erano incollati ovunque sul muro. Alla fine siamo riusciti a entrare. Quando ha saputo che eravamo di Mar Yakub, ha tirato fuori il suo smartphone e ci ha mostrato la linea su cui si trovano tutti i monasteri della Siria. Pieno di entusiasmo, ci ha raccontato dei monasteri che aveva già visitato. Poi ha iniziato l'esame, che ha svolto con molta attenzione. Dalle domande che poneva di volta in volta, abbiamo capito che sapeva esattamente cosa c'era di malato. È stata una lunga indagine. Tutti hanno ricevuto le prescrizioni o le diagnosi necessarie e uno è stato sollevato dalla sua sordità temporanea. Mentre volevamo pagare, ci ha raggiunto per salutarci, con un ampio sorriso. Ha detto di conoscere Madre Agnes-Mariam e ci ha detto chiaramente che non voleva soldi!

In verità, vi dico che questo musulmano è molto vicino al Regno di Dio.

P. Daniel, Monastero di San Giacomo in Siria, Qara, 17.11.2023

www.maryakub.net

lunedì 13 novembre 2023

Padre Karakash: Siria una tragedia dimenticata. La gente soffre fame e miseria

 


Alla XVI Giornata delle Associazioni di Terra Santa (Roma 11 novembre 2023), uno speciale focus sulla Siria con il parroco della parrocchia San Francesco di Aleppo


da Vatican News

  Le conseguenze della guerra sono peggiori della guerra stessa e la Siria oggi, dopo la guerra iniziata nel 2011 e il terremoto di quest’anno, è una tragedia dimenticata. C’è miseria, fame e soprattutto disperazione, perché all’orizzonte non si intravedono soluzioni politiche. Gli stipendi arrivano appena a 15 o 20 dollari al mese, ma in tanti non hanno entrate perché hanno perso il lavoro e per sopravvivere sono costretti a vendere tutto quello che hanno in casa: il frigo, la lavatrice, le sedie. A descrivere la drammatica realtà ad Aleppo è fra Bahjat Karakash, parroco della parrocchia San Francesco, intervenuto a Roma, all’Antonianum, alla XVI Giornata delle associazioni di volontariato che sostengono progetti in Terra Santa. “La carità più grande da fare è la carità politica, riuscire a trovare una soluzione significa ridare un po' di speranza. Questa è la sfida più grande”.

Ridare dignità alle persone
  Fra Bahjat, francescano della Custodia di Terra Santa, in Siria ci è nato, ha sognato, pensato e lavorato perché il suo Paese fosse risanato, poi ha cambiato prospettiva. “Ho capito che bisogna interessarsi delle persone e non delle soluzioni in modo globale e anonimo - racconta - occorre aiutare la gente a vivere meglio dal punto di vista materiale, ma soprattutto dignitosamente. Perché è molto facile aiutare materialmente, è molto più difficile, invece, ridare dignità alle persone”. Al fianco dei siriani oggi ci sono solo famiglie religiose ed organizzazioni non governative, si vive di carità. I frati minori ad Aleppo, alla Mensa dei poveri, sfamano ogni giorno 1300 persone, cristiani e musulmani, nei giorni del terremoto a sedersi a tavola erano in 6mila. Si dovrebbe investire per il futuro del Paese, sostenendo l’educazione dei bambini e dei giovani, afferma il parroco di San Francesco, per far fronte al lavoro minorile e allo sfruttamento dei bambini da parte di organizzazioni criminali. Andrebbero aiutati pure i giovani universitari, perché non riescono a pagarsi le rette, molti, inoltre, non hanno neppure i soldi per prendere i mezzi pubblici e andare a lezione. Sono tantissimi quelli che vogliono partire, lasciare la loro terra, alla ricerca di un futuro migliore.

Il supporto dei francescani

  I religiosi francescani si adoperano in vari modi per prestare aiuto. Offrono un supporto psicologico ai bambini, sia cristiani che musulmani, con l’ausilio di psicologi e psicoterapeuti, coinvolgono i più piccoli in varie attività. Al Centro Tau, nato per il catechismo e l’educazione cristiana, oggi si ritrovano circa 1200 bambini e giovani e per gli anziani c’è il Centro Simeone ed Anna. I cristiani oggi in Siria sono appena il 2% della popolazione, ma il Paese ha ancora “un bagaglio di valori cristiani e religiosi” e per fra Bahjat “far leva su questi valori aiuterebbe a risollevare il popolo e la nazione”. Tuttavia, la diminuzione dei cristiani, “che sono mediatori culturali tra l’occidente e l’oriente, presenza provocatoria di pace, dialogo ed educazione” mette a rischio un’intera società.




Intervista di Vatican News a fra Bahjat

Fra Bahjat Karakash, qual è la situazione adesso ad Aleppo?

La situazione è una tragedia purtroppo dimenticata, soprattutto dopo il terremoto. Molte persone hanno perso il lavoro, molte famiglie hanno avuto la casa danneggiata e questo si aggiunge a una tragedia previa, quella della guerra, della crisi economica, per cui è una situazione molto critica.

Quali sfide dovete affrontare voi religiosi?

La prima sfida da affrontare è quella di dare speranza. Non è facile, perché non c'è all'orizzonte una soluzione a livello politico. La nostra risposta è rimboccarci le maniche e aiutare la gente a vivere con dignità e dare anche un messaggio spirituale, cioè quello del Vangelo e della speranza.

Che cosa si può fare dall'estero?

Anzitutto informarsi sulla situazione siriana, sapere che è una tragedia ancora non finita, diffondere le notizie, interessarsi, cercare di venire, se è possibile, a vedere la situazione in Siria. Tutto ciò oltre all'aiuto materiale, alla carità e alla preghiera che sicuramente ci sostiene.

Quali sono le maggiori emergenze?

È molto difficile stabilire priorità, perché tutti i fronti sono un’emergenza, da quella educativa a quella sanitaria a quella economica. Davvero quella siriana è una realtà molto precaria, che avrebbe bisogno di sostegno su tutti i fronti.

Come vede il futuro della Siria?

Se dovessi contare su qualcosa conterei sulla società, sulla gente che ancora conserva valori spirituali e religiosi, valori umani capaci di rimettere in piedi queste forze per il futuro del Paese. Ma tutto questo sicuramente avrebbe bisogno di una cornice a livello istituzionale e questo non è possibile nella situazione attuale. Bisogna aiutare i siriani a sedersi a un tavolo, a dialogare e a trovare anche una forma di aiuto perché il Paese rinasca.

lunedì 6 novembre 2023

Il vicario apostolico di Aleppo mons Jallouf: "il dramma di Gaza ‘peggiore’ di Aleppo"

 Asia News

 Dalla prospettiva siriana la guerra fra Israele e Hamas a Gaza è fonte di profonda preoccupazione perché “può alimentare nuovi conflitti” ed è forte il rischio che contribuisca a “infiammare l’intera regione mediorientale”. È quanto spiega mons. Hanna Jallouf, francescano, dai primi di luglio vicario apostolico di Aleppo, secondo cui “in Siria e Libano si respira già un clima di forte paura”. Se l’esercito dello Stato ebraico attacca anche da nord “allora sarà elevata la possibilità di un allargamento del conflitto” che finirà per “incendiare tutto il Medio oriente”. E allora, confessa con timore ad AsiaNews, sarà “Terza guerra mondiale, ma speriamo davvero di no”. In questo quadro critico, “il governo di Damasco è ancora in balia delle sue miserie: vediamo di spegnere prima il fuoco dentro la nostra casa” evitando di farsi coinvolgere in altri conflitti perché sono ancora molti “i problemi interni”.

Il conflitto a Gaza è “un dramma che fa sanguinare il cuore” sottolinea il vicario, perché “vediamo gente che soffre e muore, anche sotto le macerie”. Per anni la metropoli del nord della Siria, un tempo capitale economica e commerciale del Paese, è stata epicentro della guerra e ha vissuto sulla propria pelle le devastazioni. Tuttavia “nemmeno noi abbiamo sperimentato un dramma simile o abbiamo assistito a omicidi così terribili, in special modo per i bambini e le donne”. “Quello che si vede a Gaza - prosegue - è peggio di quello che ha vissuto Aleppo, di ciò cui abbiamo assistito a Idlib: non siamo mai arrivati a questi livelli, soprattutto per le vittime civili”. 

In questi giorni il prelato ha contattato più volte, personalmente, una religiosa delle Suore del Rosario rimaste nella Striscia per servire i fedeli e collaborare all’accoglienza degli sfollati nella parrocchia cattolica della Sacra Famiglia. “Ho parlato con sr. Maria - racconta - che mi ha mostrato e raccontato gli orrori e l’enormità dell’emergenza, delle persone che stanno negli ospedali o hanno trovato rifugio in chiesa. Grazie a lei ho visto le persone al buio, senza nulla, chiuse dentro a un recinto come pecore, povera gente che vive in miseria, nella paura. Un qualcosa di veramente orribile, speriamo che il Signore dia loro un po’ di calore, di misericordia, di perdono e che possa infine arrivare una pace vera e giusta”. 

Su mille cristiani rimasti nella Striscia, almeno 5/600 sono ospitati dalla parrocchia dall’inizio dell’operazione miliare israeliana a Gaza, anche perché “è l’unico posto dove possono rimanere perché le loro case sono andate distrutte” riferisce il vicario di Aleppo. “Vi è poi la fatica quotidiana - prosegue - di trovare cibo, un po’ di pace per tutti. Per i fabbisogni di ogni giorno cercano di arrangiarsi alla meglio, ma i viveri si stanno esaurendo e gli aiuti non arrivano”. 

Il timore è che il conflitto possa incendiare la piazza musulmana e coinvolgere altri movimenti e gruppi oltre ad Hamas. E sempre in queste ore si registra la nota degli Emirati Arabi Uniti (Eau), che parlano di “rischio generale” di una “ricaduta” a livello “regionale” della guerra come già aveva paventato il vicario d’Arabia. Dall’osservatorio siriano, mons. Jallouf afferma che per ora il mondo islamico “si mantiene sotto controllo” anche se nel nord del Paese persistono scontri interni fra fazioni rivali e con l’esercito governativo. I riflettori sono puntati su Gaza, e il conflitto siriano come la guerra in Ucraina “sembrano dimenticati” anche se in più di una occasione caccia e droni israeliani hanno colpito di recente Aleppo e Damasco, in particolare aeroporti e centri dei miliziani, che hanno risposto agli attacchi.

Al dramma della guerra la Chiesa siriana risponde con la preghiera e il digiuno che “avevo proclamato per tre giorni prima ancora che lo facesse papa Francesco” racconta il vicario, “chiedendo al Signore di proteggere un popolo che soffre”. In Siria come in Libano, in Terra Santa “o in Iraq dove anche lì si sta consumando un disastro” contro i cristiani. Infine, il prelato [francescano e legato nel profondo alla Terra Santa] ricorda che “l’unica cosa che possiamo fare ora è fermare questa tragedia e vivere veramente il valore della pace che Dio ci ha donato, la pace per la quale san Francesco tanto ha fatto. Come il santo di Assisi ha saputo ammansire il lupo - conclude - speriamo che oggi si possano rendere mansueti i lupi che vogliono alimentare il conflitto”.