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sabato 30 gennaio 2021

Dieci anni dopo ... Non parlarmi più di gelsomino!

 

Di Michel Raimbaud

   traduzione Gb.P.  OraproSiria

A un decennio dagli eventi della cosiddetta "primavera araba" che hanno sconvolto diversi paesi del Maghreb, del Medio Oriente e della penisola arabica, l'ex diplomatico e saggista francese Michel Raimbaud ci dà la sua opinione sulle sue conseguenze.


Quando nel cuore dell'inverno 2010-2011 compaiono a Tunisi e poi al Cairo le prime "rivoluzioni arabe" che frettolosamente battezziamo "primavere", esse godono di un favorevole pregiudizio, foriere di libertà e rinnovamento. Rapidamente, destituiscono "tiranni" inestirpabili e fanno una forte impressione: la loro vittoria è inevitabile e l'epidemia sembra destinata a conquistare tutti i paesi arabi.

Tutti ? Non proprio. Gli Stati colpiti - Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e dal gennaio 2011 Algeria e Mauritania - hanno in comune l'essere repubbliche, moderni, sensibili al nazionalismo arabo, governi con una laicità tollerante e ciò fa porre una domanda: "Perché noi e non loro? ". Lo dirà il futuro, i "loro" sottintende i re, i reucci o gli emiri che sfuggono miracolosamente alla primavera e sembrano promessi a un'estate eterna ben condizionata: l'Arabia di Salman e Ben Salman, gli Emirati di Zayed e Ben Zayed, il Qatar dalla famiglia Al Thani, ecc. Mettiamoci pure il Marocco e la Giordania ed ecco tutte le monarchie, dall'Atlantico al Golfo, al riparo per predicare la "rivoluzione" ... In bocca a uno sceicco wahhabita o ad un emiro, la parola "rivoluzione" sembra buffa ma basta darle il suo significato etimologico (movimento astronomico che riporta al punto di partenza) per scoprire che ben si addice a un movimento guidato da fondamentalisti con l'appoggio dell'Occidente per rompere la retorica del movimento nazionale arabo: cosa che gli esperti delle "nostre grandi democrazie" auto strombazzate rifiuteranno di ammettere.

In compenso, nei paesi arabi e altrove, molti avranno capito ben presto che cosa queste primavere invernali non erano, cioè rivoluzioni "spontanee, pacifiche e popolari". Nonostante le promesse di un domani felice fioriscano, non ci vorrà molto per disilludersi: nel vuoto creato dalla liberazione dei "tiranni", è il disordine che si insedierà piuttosto che la democrazia che ci si aspettava. Lo stupore lascerà il posto alla disillusione, al "caos creativo" dei neoconservatori e alla barbarie degli estremisti che fanno un brutto servizio alla dolce musica delle promesse.

Il caso a volte fa le cose bene, la notizia di dicembre 2020 - gennaio 2021 ha registrato in prima pagina uno spettacolare flashback della "rivoluzione" tunisina, la prima della saga lanciata il 10 dicembre 2010 quando il giovane Bouazizi si dà fuoco per protestare contro la corruzione e la violenza della polizia. Dopo il disordine iniziale legato alla "liberazione" da Ben Ali, la patria di Bourguiba, patria del nazionalismo arabo, aveva conosciuto elezioni e fasi di stabilizzazione, anche progressi nella democratizzazione con il partito Nahda di Ghannouchi o suo malgrado, prima di degenerare in una guerriglia civile tra Fratelli Musulmani e riformisti laici. Dieci anni dopo, il caos prende il sopravvento. I progressi verranno sepolti?

In Egitto, la "primavera del papiro" non ha mantenuto le promesse dei suoi profeti. A parte lo "sfratto" del vecchio Mubarak, il suo processo e la morte in prigione, il successo (temporaneo) dei Fratelli Musulmani e la presidenza rustica di Mohammad Morsi, hanno prodotto una democrazia problematica e un potere autoritario sotto forte pressione. Il generale al-Sisi non sembra avere il controllo delle sue scelte. In un paese diviso dal prestigio offuscato, è combattuto tra le vestigia del nasserismo e la disperata ricerca di finanziamenti da parte dell'Arabia e dei ricchi emirati: l'Egitto ha superato il traguardo dei 100 milioni di abitanti e si sta sgretolando sotto i debiti, i problemi, le minacce (Etiopia, Sudan e acque del Nilo). Lo slogan "nessuna guerra in Medio Oriente senza l'Egitto" è di attualità, ma non si temono più i "Faraoni" del Cairo ...

Al termine di dieci anni di guerra contro aggressori a più facce (paesi atlantici, Israele, forze islamiste, Turchia, Qatar e Arabia in testa, terroristi da Daesh ad Al Qaida), la Siria si trova in una situazione tragica, pagando per la sua fermezza sui princìpi, la sua fedeltà alle alleanze e il carico simbolico che porta: non avrà avuto la primizia di una chiamata al Jihad? L'America ed i suoi alleati respingono "l'impensabile vittoria di Bashar al-Assad" e la loro "impensabile sconfitta". A causa delle sanzioni, delle misure punitive dell'Occidente, dell'occupazione americana o degli intrighi turchi, dei furti e dei saccheggi, la Siria non può essere ricostruita. La "strategia del caos" ha fatto il suo lavoro. È giunto il momento delle guerre invisibili e infinite sostenute da Obama. Tuttavia, il futuro del mondo arabo dipende da qualche parte, e in gran parte, dalla forza del suo "cuore pulsante". Con tutto il rispetto per chi finge di averla seppellita, anche evitando di menzionare il suo nome, la Siria è indispensabile al punto di cristallizzare le ossessioni : nessuna pace senza di essa in Medio Oriente.

Passato attraverso la Rivoluzione dei Cedri nel 2005, dopo aver sopportato la primavera autunnale del 2019, le tragedie del 2020 e il caos del 2021, il Libano avrà avuto la sua rivoluzione. Sanzionato, affamato, asfissiato, minacciato dai suoi "amici", condivide volente o nolente il destino del Paese fratello che è la Siria. Un terzo della sua popolazione è composto da rifugiati siriani e palestinesi. Sta cambiando il suo destino, dopo cento anni di "solitudine" nel Grande Libano dei francesi?

In Palestina è la "primavera" perpetua. "Transazione del secolo", tradimenti tra amici e Covid oblige, la questione palestinese sembra abbandonata, tranne che per la Siria che paga a caro prezzo il suo attaccamento alla "sacra causa". Martirizzati, rinchiusi a vita, umiliati e vittime dell'etnocidio, i palestinesi sapranno scegliere i propri alleati senza tradire chi non li ha traditi? Tra inglese e francese, fate attenzione ai falsi amici, ma a volte costoro parlano turco o arabo. Il Re del Marocco, Comandante dei Fedeli e discendente del Profeta, Presidente del Comitato al-Quds, si è appena normalizzato con Israele, consegnando l'Ordine di Maometto a Donald Trump. È il quarto ad entrare nel campo dei liquidatori, dopo gli ineffabili Emirati Arabi Uniti, il Bahrain sopravvissuto a una primavera straordinaria e l'ex Sudan. Quest'ultimo ha messo al fresco Omar al-Bashir, ma ha anche rinnegato i suoi principi, compreso quello dei "tre no a Israele". Fa amicizia con lo zio Sam e muore d'amore per Israele, ma i due non hanno amici, soprattutto non tra gli arabi.

L'Iraq non ha avuto bisogno di una "primavera araba" per scoprire cosa significassero "democratizzazione" in stile americano e pax americana. Il paese di Saddam, martirizzato per trent'anni e semispartito in tre entità, lotta per liberarsi dall'abbraccio degli Stati Uniti, di cui i suoi leader sono tuttavia l'emanazione. Per i neoconservatori di Washington e Tel Aviv è servito come test della "strategia del caos", e sta pagando per questo.

Invasa illegalmente dalla NATO nel marzo 2011 in nome della "Responsibility to Protect", la Libia ha pagato un prezzo pesante alle ambizioni occidentali. Gheddafi vi morì in un episodio di cui Hillary Clinton, l'arpìa del Potomac, ha esultato indecentemente. Sul fronte della democratizzazione, la Jamahiriya, i cui indici di sviluppo erano esemplari, aveva ereditato dall'estate del 2011 un caos che aveva suscitato l'ammirazione di Juppé. Dietro le rovine libiche e le macerie del Grande Fiume, ricordi dei bombardamenti umanitari della coalizione arabo-occidentale, giacevano le casse che l'Asse del Bene aveva alleggerito di centinaia di miliardi di dollari dalla Jamahiriya, non persi per tutti. Il sogno di Gheddafi - un'Africa con una sua moneta indipendente dall'euro e dal dollaro - è stato rubato. Chi amava troppo la Libia può gioire: ora ce ne sono diverse, da due a cinque a seconda degli episodi.

Potremmo appesantire il bilancio parlando della tenace Algeria, dello Yemen martirizzato dai Sauditi e dall'Occidente, dell'Iran, ecc ...: le "primavere" sono state la peggior catastrofe che gli arabi potessero conoscere. Eppure, benchè intrappolati tra l'Impero americano e il blocco eurasiatico russo-cinese, il mutato contesto geopolitico sta lavorando a loro favore.

Se non hanno nulla da aspettarsi dagli Stati Uniti, che, da Obama a Biden passando per Trump, vedono il mondo arabo solo con gli occhi di Israele e con il profumo di petrolio, farebbero bene a scommettere sul ritorno della Russia come riferimento politico e l'arrivo della Cina attraverso le Vie della Seta. Sta a loro scegliere tra le guerre senza fine offerte loro dalla "potenza indispensabile" o la via di rinascita che l'alternativa strategica aprirebbe loro. Niente è ancora giocato del tutto.

Michel Raimbaud

https://francais.rt.com/opinions/83279-printemps-arabes-dix-ans-apres-ne-me-parlez-plus-de-jasmin-michel-raimbaud