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venerdì 22 aprile 2016

Siria: un monastero di Trappiste per tenere desta la speranza

Intervista a suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir, che racconta la difficile situazione del paese e il senso della loro presenza orante in terra d'islam


Tempi, 22 aprile 2016
di Rodolfo Casadei 

«Vescovi e sacerdoti dicono: “Non abbiamo notizie”, i cristiani comuni dicono: “Gli hanno fatto del male, non torneranno più”. Tutti sembrano avere perso la speranza di rivederli fra noi». 
 Sono passati tre anni dal sequestro di due vescovi metropoliti di Aleppo – il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi – e suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir di passaggio in Italia, riassume con queste poche parole lo stato d’animo dei cristiani siriani rispetto al destino dei due presuli rapiti.


Il 22 aprile 2013 stavano viaggiando nel nord della Siria, tornando ad Aleppo dal confine con la Turchia che avevano visitato – forse per motivi legati al rapimento di due sacerdoti pochi giorni prima, anch’essi spariti nel nulla – quando di loro si persero le tracce. Nessuno sforzo è stato sufficiente a chiarire cosa sia successo. Si ipotizza che siano stati intercettati da qualche gruppo ribelle minore, che non ha capito il valore delle “prede” e ha compiuto l’irreparabile. Nonostante la tregua di fine febbraio che ha portato un po’ di sollievo in tante (non tutte) regioni della Siria, le condizioni per celebrare nella sicurezza e nella dignità il triste anniversario con gesti pubblici ancora non esistono, e la principale iniziativa commemorativa si è tenuta a Beirut, nel Libano.

Intanto la vita lentamente riprende. «Il nostro monastero sorge nella zona di Homs, e nella città non ci sono più combattimenti. Gli ultimi ribelli hanno avuto il salvacondotto per andarsene, consegnando le armi pesanti e portandosi via solo quelle personali. La vita è ripresa, anche se si vedono scene surreali: una casa ristrutturata e imbiancata di fresco circondata da edifici diroccati e disabitati, una via piena di gente che va per botteghe e se butti l’occhio a destra al primo incrocio vedi un intero quartiere ridotto a cumuli di rovine». 

C’è l’armistizio ma un po’ in tutta la Siria non c’è un gran via vai di persone fra i quartieri sotto controllo governativo e quelli sotto controllo ribelle. La diffidenza è grande. «Ogni tanto nei quartieri sotto controllo governativo si vede una donna velata da sola accompagnata da un bambino, oppure da una persona molto anziana. Sono i familiari dei ribelli mandati in avanscoperta, a fare la spesa e a vedere che aria tira».

Ad Azeir, dove sorge il monastero non lontano dal confine col Libano, le armi avevano cessato di far sentire la loro voce già da tempo.  «Le forze governative hanno riconquistato il Krak des Chevaliers già nella primavera di due anni fa, da allora non sentiamo più esplosioni e raffiche di armi automatiche. I passaggi notturni di ribelli e armi attraverso la frontiera libanese, che sfioravano il recinto del monastero, sono quasi cessati. Adesso il vero pericolo sono le gang criminali, che grazie alla crisi dell’ordine pubblico conseguenza della guerra sono cresciute in numero di banditi e in armi. Si sono moltiplicati i rapimenti di persone della zona. Basta che giri la voce che qualcuno ha fatto qualche buon affare, e dopo un po’ viene sequestrato. Chiedono riscatti anche di 20 milioni di lire siriane ».

Il monastero non ha mai chiuso i battenti nemmeno nei momenti più difficili. 
Avviato nel settembre 2010, pochi mesi prima che scoppiassero le proteste che poi sarebbero sfociate nella guerra civile, aveva dovuto ridurre il ritmo dei lavori di edificazione al culmine degli scontri militari. 
Le quattro monache italiane presenti però non si sono mai date per vinte e sono rimaste sul posto per testimoniare la loro fedeltà al popolo siriano, cristiani e musulmani, e soprattutto alla decisione di mettere la loro vita nelle mani di Cristo dopo avergliela interamente consegnata al momento della professione dei voti perpetui. 
Presto sono diventate cinque e da qualche tempo a loro si è unita una postulante siriana – la prima -, una giovane cristiana di confessione greco ortodossa. 
Ora i lavori di allestimento sono ripresi, 15 operai lavorano con una certa continuità e il monastero diventa sempre più accogliente: «Viviamo e preghiamo ancora nell’edificio che un giorno diventerà la foresteria, ma intanto abbiamo tirato su un certo numero di stanze per gli ospiti in pietra grezza locale, un edificio su due piani che ospiterà un laboratorio e il noviziato, la cisterna per l’acqua che ci risolverà tanti problemi, e stiamo pavimentando la strada interna alla proprietà».

La ripresa dei lavori significa il rinnovarsi del monastero come segno di pace e di riconciliazione nella regione, perché operai e manovali che realizzano i lavori sono cristiani, musulmani sunniti e alawiti che provengono dai villaggi vicini. La regione è un mosaico dal punto di vista religioso. 

Dall’estate scorsa il monastero è tornato ad essere centro per ritiri di gruppi: i salesiani da Damasco, i gesuiti da Aleppo hanno ricominciato a mandare giovani e meno giovani. 

«Per la gente il momento più duro è stato l’estate scorsa, quando in tivù e sui siti internet vedevano gli sbarchi di massa e i treni pieni di profughi in Europa. “Allora non ha senso resistere, dobbiamo andarcene tutti”, ci dicevano. Chi arrivava in Europa chiamava quelli che erano qui per convincerli a partire. Adesso la pressione non è più così forte. Sentiamo la gente di Aleppo. Ci dicono: “Non è vero che non si spara più, ma adesso almeno abbiamo l’acqua tutti i giorni!”. Prima, i ribelli sospendevano l’erogazione quando erano ai ferri corti coi governativi». 


Quella Aleppo alla quale non sono più tornati Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, pastori separati dal loro gregge.



http://www.tempi.it/a-tre-anni-dal-rapimento-dei-vescovi-di-aleppo-tutti-hanno-perso-la-speranza-di-rivederli#.VxowbvmLSM8

mercoledì 20 aprile 2016

“Noi non dimentichiamo”. Per ricordare i due Vescovi di Aleppo, e i sacerdoti rapiti tre anni fa


Agenzia Fides 19/4/2016

Nella giornata di oggi, martedì 19 aprile, militanti di associazioni e organizzazioni libanesi si ritrovano nella sede municipale di Sin el Fil, sobborgo orientale della capitale libanese, per ricordare la vicenda dei due Vescovi Metropoliti di Aleppo - il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi - di cui non si hanno notizie certe dal giorno del loro rapimento, avvenuto il 22 aprile del 2013. 
L'incontro, organizzato da sigle legate alla Chiesa siro-ortodossa e alla Chiesa greco ortodossa a tre anni dal rapimento, punta a impedire che sulla vicenda dei due Vescovi cali l'oblio, e a riattivare canali e iniziative per rompere la totale mancanza di informazioni intorno alla loro sorte. La riunione, intitolata “Noi non dimentichiamo”, prevede anche la presenza di Abib Afram (Presidente della Lega siriaca del Libano, che rappresenta 60mila cristiani siriaci), e gli interventi di alcuni oratori, come l'ex ministro sunnita Faisal Karami, il membro di Hezbollah Ali Fayyad Hezbollah e il deputato cristiano ortodosso Marwan Abu Fadel. 
I due Vescovi metropoliti di Aleppo – il greco ortodosso Boulos al-Yazigi e il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim - erano stati rapiti nell'area compresa tra la metropoli siriana e il confine con la Turchia. Da allora, nessun gruppo ha rivendicato il sequestro. Intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni e annunci di novità che poi si sono rivelati poco fondati. Sei mesi dopo il sequestro  il generale Abbas Ibrahim, capo della Sicurezza Generale libanese, si era spinto a rivelare che il luogo in cui erano detenuti i due Vescovi rapiti era stato individuato, e erano iniziati “contatti indiretti” con i sequestratori per ottenerne la liberazione. Rivelazioni a cui poi non sono seguiti riscontri concreti.

http://www.fides.org/it/news/59858-ASIA_LIBANO_Noi_non_dimentichiamo_Una_manifestazione_per_ricordare_i_due_Vescovi_di_Aleppo_rapiti_tre_anni_fa#.VxaZivmLSM8

 Ugualmente avvolta nel totale silenzio è  la sorte dei due sacerdoti Michel Kayyal (armeno cattolico) e Maher Mahfouz (greco ortodosso) rapiti il 9 febbraio 2013 sulla strada da Aleppo a Beirut, per la cui liberazione si mossero i due Vescovi di Aleppo, a loro volta subito sequestrati:  
"Ci rivolgiamo quindi ai cristiani di tutto il mondo: pregate per padre Michael; pregate per la Siria, una terra insanguinata devastata da un'inesorabile ondata di male; pregate per gli uomini torturati e mutilati, per le donne e le ragazze violentate, per i cristiani perseguitati; pregate per quanti commettono queste indicibili atrocità, e soprattutto pregate che il mondo esca da questa insopportabile spirale di silenzio e accorra in aiuto dei suoi fratelli e delle sue sorelle."
http://oraprosiria.blogspot.it/2013/04/rapito-dai-banditi-e-dimenticato-dal.html

domenica 17 aprile 2016

Lesbo: il realismo della DICHIARAZIONE CONGIUNTA ... e qualche sbavatura nella organizzazione


"Noi, Papa Francesco, Patriarca Ecumenico Bartolomeo e Arcivescovo di Atene e di Tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce quotidiane alla loro sopravvivenza. L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo.

La tragedia della migrazione e del dislocamento forzati si ripercuote su milioni di persone ed è fondamentalmente una crisi di umanità, che richiede una risposta di solidarietà, compassione, generosità e un immediato ed effettivo impegno di risorse. Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa.
Come capi delle nostre rispettive Chiese, siamo uniti nel desiderio della pace e nella sollecitudine per promuovere la risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo e la riconciliazione. Mentre riconosciamo gli sforzi già compiuti per fornire aiuto e assistenza ai rifugiati, ai migranti e a quanti cercano asilo, ci appelliamo a tutti i responsabili politici affinché sia impiegato ogni mezzo per assicurare che gli individui e le comunità, compresi i cristiani, possano rimanere nelle loro terre natie e godano del diritto fondamentale di vivere in pace e sicurezza. Sono urgentemente necessari un più ampio consenso internazionale e un programma di assistenza per affermare lo stato di diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento. In questo modo si potrà essere in grado di assistere quei Paesi direttamente impegnati nell’andare incontro alle necessità di così tanti nostri fratelli e sorelle che soffrono. In particolare, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo greco che, nonostante le proprie difficoltà economiche, ha risposto con generosità a questa crisi.

Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Chiediamo alle comunità religiose di aumentare gli sforzi per accogliere, assistere e proteggere i rifugiati di tutte le fedi e affinché i servizi di soccorso, religiosi e civili, operino per coordinare le loro iniziative. Esortiamo tutti i Paesi, finché perdura la situazione di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine sollecita dei conflitti in corso.
L’Europa oggi si trova di fronte a una delle più serie crisi umanitarie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per affrontare questa grave sfida, facciamo appello a tutti i discepoli di Cristo, perché si ricordino delle parole del Signore, sulle quali un giorno saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. […] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40). 

Da parte nostra, in obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, decidiamo con fermezza e in modo accorato di intensificare i nostri sforzi per promuovere la piena unità di tutti i cristiani. Riaffermiamo con convinzione che «riconciliazione [per i cristiani] significa promuovere la giustizia sociale all’interno di un popolo e tra tutti i popoli […]. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un’accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa» (Charta Oecumenica, 2001). Difendendo i diritti umani fondamentali dei rifugiati, di coloro che cercano asilo, dei migranti e di molte persone che vivono ai margini nelle nostre società, intendiamo compiere la missione di servizio delle Chiese nel mondo.
Il nostro incontrarci oggi si propone di contribuire a infondere coraggio e speranza a coloro che cercano rifugio e a tutti coloro che li accolgono e li assistono. Esortiamo la comunità internazionale a fare della protezione delle vite umane una priorità e a sostenere, ad ogni livello, politiche inclusive che si estendano a tutte le comunità religiose. La terribile situazione di tutti coloro che sono colpiti dall’attuale crisi umanitaria, compresi tantissimi nostri fratelli e sorelle cristiani, richiede la nostra costante preghiera.
Lesbo, 16 aprile 2016
Ieronymos II   Francesco  Bartolomeo I




La 'negligenza' degli organizzatori ha consentito una gravissima falla nella sicurezza e un reale attentato alla libertà di culto dei cristiani e delle minoranze in Siria e in Iraq , in quella che doveva essere una visita « di natura umanitaria ed ecumenica ».
Chi gli ha messo in fila quei 150 ragazzi inquadrati con l'opposizione ? 
Nella penosa parata   qualcuno saluta il Papa addirittura militarmente . Eppure quella bandiera 'simbolo dei ribelli' rappresenta anche persone che si sono macchiate del sangue dei cristiani.  A queste persone si dà perfino l'opportunità di usare come passerella l'incontro con il Papa ?

giovedì 14 aprile 2016

Io, profugo siriano in Italia , vi chiedo:


Ormai parlare della questione dei rifugiati mi pare la moda del nostro periodo attuale.
Tanti vogliono strumentalizzare le nostre ferite aperte, i media italiani e internazionali non fanno che parlare dei profughi . … Giusto che tutti parlino, ma giusto pure trovare una soluzione a questa grave ferita, perchè non serve parlare solo di buoni sentimenti e di accoglienza verso questi profughi, senza dire come possiamo realmente aiutarli.

Vorrei dire: Basta guerre, basta buonismo banale, basta sfruttare i poveri rifugiati che scappano dalla morte, che scappano dai campi dei profughi in Turchia.
Qualcuno si è chiesto come un siriano vive nei campi dei profughi in Turchia? O come viene trattato un cristiano?
Allora perchè l'Europa dona tutti questi miliardi al governo di Erdogan?
Nonostante i grossi rischi che affrontano i profughi lungo il loro viaggio, la politica europea è servita a bloccare il loro arrivo?

Ringrazio il Signore che sono riuscito ad andare via della Siria con la mia famiglia con visto regolare, e sono venuto in Italia, e tutto questo grazie a un gruppo di amici che mi hanno aiutato ed accolto con amore ed amicizia, e ci hanno fatto sentire che siamo importanti e siamo degli esseri umani.
Io quindi non vi posso raccontare che sentimenti prova il siriano cristiano quando si butta nel mare, sperando di arrivare alla meta sicura .
Non posso raccontarvi i sentimenti di un profugo che vive ora dentro una tenda in Grecia o in Macedonia, in attesa di raggiungere il nord dell'Europa, ma io posso capire la sua angoscia, la sua rabbia perchè sicuramente aveva detto a se stesso prima di intraprendere questa avventura: "In Europa troverò il rispetto, troverò una buona vita", ma lui poverino non ha capito che l'Europa non lo vuole e sarà usato, come gli stessi europei sono usati dai politici.
A me pare disumano sfruttare i sentimenti del popolo europeo ed i sentimenti dei profughi a favore di scopi politici.

 Se si vuole risolvere veramente il problema dei profughi occorre
1- sbloccare l'embargo sulla Siria perchè ha fatto solo impoverire il popolo siriano.
2- se l'Europa non può accogliere questi numeri di profughi, allora si impegni a migliorare la vita nei campi dei rifugiati vicini alla patria.
3- lavorare seriamente con gli altri Paesi regionali (Iran- Turchia ) ed internazionali (Russia, USA) a spingere i gruppi che combattono in Siria a negoziare, ed usare un linguaggio lontano dalle armi.
4- chiedere ai loro amici Sauditi di bloccare l'insegnamento radicale, perchè il fanatismo ed il radicalismo fanno crescere solamente l'odio.
5- aiutare il popolo siriano, senza ficcare il naso, a scegliere e decidere la sua strada, perchè la democrazia la fa il popolo.
6- aiutare i siriani a ricostruire il loro paese.  

Samaan Daoud , siriano cristiano temporaneamente esule) in Italia

Quello che succede a Lesbo in queste ore... :

lunedì 11 aprile 2016

La visita di Papa Francesco sull’isola di Lesbo per interpellare il mondo e la coscienza globale, chiamandola a fare qualcosa per evitare tutto questo

E’ quanto sostiene il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero “Giustizia e Pace” :


La visita del Santo Padre sull’isola di Lesbo ricorda in un certo senso quella che fece sull’isola di Lampedusa. È un’altra isola che riceve persone costrette a fuggire dalla loro terra. Quindi, la visita sarà di nuovo un tentativo per mettere sullo schermo globale la situazione di queste persone e al tempo stesso le sue cause, per interpellare il mondo e la coscienza globale, chiamandola a fare qualcosa per evitare tutto questo. C’è una situazione di violenza, ora in questo caso da parte dell'Is, ma prima ancora con la guerra in Siria. È necessario invece che ci sia la pace, una pace che non deve essere soltanto il frutto della diplomazia ma che si basi in gran parte sull’amicizia, l’amore e la fraternità che si possono mostrare nei riguardi di queste persone.

D. – Questa visita di Papa Francesco sull’isola di Lesbo è anche per vincere quell’indifferenza che tante volte il Papa denuncia. Certe guerre, a volte, si ricordano solo quando bussano alla porta di casa nostra…
R. – Sì, l’indifferenza. Ma forse la domanda da porsi riguarda le cause di questa indifferenza! Ossia, perché questa indifferenza? La Grecia non può certamente essere indifferente, perché è il Paese dove ora si trovano queste persone. Ma le misure attuate dell’Europa... dare una grande somma di denaro alla Turchia affinché quest’ultima fermi l’arrivo di queste persone – non so – servono l’interesse di chi? Forse l’Europa ora sarà un po’ più tranquilla, ma quanto tempo durerà questa tranquillità? Perché se queste persone non riescono ad arrivare via mare, potranno trovare altre maniere. Per giungere ad una soluzione di lungo termine, invece, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per creare una situazione di pace in questa zona. Sembra che l’Is sia potente, ma in realtà è sempre sostenuto dai soldi, ha accesso ancora al denaro, alle armi, ecc. Queste cose vengono sempre importate, comprate… Perché non chiudiamo tutto questo? Perché non poniamo fine all’interesse per comprare il petrolio ad un prezzo basso? Ci vuole un po’ di impegno, che poi è anche sacrificio. Credo che in questa visita a Lesbo tutte le telecamere del mondo seguiranno il Papa. E l’obiettivo non dovrebbe essere soltanto quello di riprendere le persone che soffrono, ma di farci pensare un po’ a quale potrebbe essere una soluzione a lungo termine, valida per porre fine a questa situazione.


Un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza verso tanti disperati in fuga da guerra e miseria. È questo, per il cardinale Antonio Maria Vegliò, il significato della visita che Papa Francesco compirà sabato 16 aprile nell’isola di Lesbo.


Quali sono le condizioni dei profughi sull’isola? 
A Lesbo, come spesso accade nei luoghi di sbarco, le condizioni per un’accoglienza adeguata sono insufficienti e gli arrivi sono continui, soprattutto da Siria, Iraq, Afghanistan e Somalia. Proprio sul dovere di offrire accoglienza e sul rispetto e la tutela della dignità di chi è costretto a partire, Francesco vuole attirare l’attenzione del mondo intero. La visita del Pontefice, assieme al patriarca Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Hieronymos II, è un gesto ecumenico cristiano concreto; un cuor solo e un’anima sola per affrontare il dramma della migrazione forzata e per ribadire insieme, nel nome di Cristo, l’importanza della responsabilità fraterna, guardando negli occhi le persone in fuga per le quali la sorte viene spesso decisa con accordi cinici e ignorando le vere ragioni alla base della loro tragedia. 
La visita del Papa arriva in un momento critico per l’Unione europea. 
È un momento in cui l’Europa , con il recente accordo con la Turchia, continua ad alzare barriere, a chiudere i confini e a ledere i diritti fondamentali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Siamo di fronte a un accordo miope che non consente una gestione dei flussi migratori nel rispetto della persona. La politica migratoria dei Governi ha bisogno di lungimiranza e coesione attraverso azioni mirate per porre fine alle cause dei “viaggi della speranza” di milioni di persone che troppo spesso si trasformano in “viaggi della morte”.  È necessario dare vita a canali umanitari sicuri per permettere un controllo dei flussi migratori e per vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali della persona; questo il Papa lo dice chiaramente con il suo viaggio apostolico e con la volontà di incontrare personalmente chi è sbarcato sulle coste di Lesbo carico di dolore e di fiducia. 

venerdì 8 aprile 2016

Il ricatto islamista: di Samir Khalil Samir S.I.

da IL FOGLIO del 6 aprile 2016 riprendiamo la riflessione di padre Samir Khalil Samir "L’Europa è stata troppo tollerante con la radicalizzazione che cresceva nelle sue città. E’ banale dire che il fondamentalismo è causato dalla disoccupazione...."



Vorrei partire da un dato di fatto, come premessa. Siamo in presenza di un fenomeno sociologico “normale”: le città sono già occupate. Trovare un posto nel cuore dei grandi agglomerati urbani è difficile per chiunque, se non è già installato lì. Man mano che arrivano, gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati: cercano una casa dove hanno un parente, un amico, una persona del proprio luogo. Così si costituiscono, ovunque nel mondo, dei quartieri che sono contraddistinti da una certa prevalenza culturale. Può essere un quartiere di spagnoli, di italiani. Negli ultimi tempi, l’emigrazione massiccia – e la più diffusa – è quella che ha come luogo d’origine i paesi musulmani. Il problema è che questi sono oggi più di 16 milioni nell’Unione europea, secondo l’Istituto centrale tedesco degli archivi sull’islam (Zentralinstitut Islam Archiv Deutschland). Ecco perché esistono molti quartieri massicciamente musulmani. Ecco perché dico che è un fenomeno culturale. Questo è un primo fatto, sociologico.

Poi però, c’è un secondo problema. Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto.

Dunque è normale che, trovandosi tutti assieme, man mano la libertà personale venga a essere limitata, perché ci saranno sempre persone – diciamo “specialisti” (imam o semplicemente persone che pretendono di aver studiato l’islam) – che verranno a dire  “tu ti comporti male, devi agire così”. C’è una propaganda che porta a dire che un determinato quartiere deve essere gestito in modo islamico. Si pensi, poi, che c’è anche un modo “islamico” di vendere e comprare le cose. La conseguenza di questo sistema è che, con l’andare del tempo, si creano delle unità a se stanti, isole dove è più facile indottrinare la gente.
Inoltre, negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.
 Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. 
Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica. Questo è il sistema stabilito e chi lo pratica fa bene, è un buon musulmano e un buon imam.

La Francia “laicarda”
In Francia, i comuni hanno il diritto di concedere un terreno o una costruzione per 99 anni in cambio di 1 euro simbolico: è ciò che si chiama un bail emphytéotique. Questo sistema risale a una decisione di secoli fa, ma ora è divenuto il metodo più diffuso in Francia per dare ai musulmani un terreno per costruire una moschea. E questo perché il diritto che lo permette risale al diritto romano, benché esso sia molto cambiato nel frattempo. Le comunità si presentano dicendo: noi siamo poveri, non abbiamo luoghi decenti per pregare, mentre i cristiani hanno da secoli delle chiese, e noi non abbiamo niente. Allora dateci questo, visto che la legge vi autorizza a farlo. La conseguenza? I comuni e i governi si lasciano convincere da tali motivazioni e regalano il terreno. Solo dopo, quando ormai è troppo tardi, si scopre che lì si fa  propaganda islamista, jihadista, e si crea così un quartiere islamico, dove la polizia non ha sempre la possibilità di accedere.
La Francia è sempre più non solo laica, ma (come si dice in francese) laicarda. Ha cioè un progetto laico, che è in realtà anti religioso e anti cristiano. Anzi, essenzialmente anti cattolico. Basta vedere l’atteggiamento dell’attuale Primo ministro Manuel Valls, e quello di Vincent Peillon (ex ministro dell’Istruzione) che diceva in televisione “dobbiamo uccidere la chiesa cattolica”. Per lui, “non si potrà mai creare un paese di libertà con la chiesa cattolica” . Ma la chiesa non ha mai usato, nella nostra epoca, mezzi politici e illegali. La chiesa dice la sua, come ogni uomo ha il diritto di fare. Non ha possibilità concrete di fare pressione sulla gente. La prova è che ogni anno ci sono sempre meno persone che si dichiarano cristiane. Ma Valls e Peillon ritengono che il cristianesimo ha un influsso troppo forte. Al contempo, il governo francese ha bisogno di voti e cerca i musulmani, dando loro piccoli o grandi vantaggi in cambio di consenso.
Penso alla preghiera musulmana del venerdì, fatta per strada: è inammissibile, qualunque sia il motivo. Se voglio utilizzare il luogo pubblico (la strada) per un atto religioso, anche io cattolico devo chiedere il permesso. Penso a un caso eccezionale, la processione per la festa del Corpus Domini: non si può fare senza prima ottenere il via libera dlle autorità, non si può decidere di scendere liberamente in strada. Se non c’è il permesso, lo Stato ha il diritto di impedire che si blocchi la strada. Invece, ogni settimana, ogni venerdì, lo si fa. Con il pretesto che – dicono – non hanno moschee o che le moschee sono troppo piccole. Io l’ho visto a Parigi: fanno venire i musulmani dalle periferie nel centro della città per dire “vedete, le moschee sono troppo anguste”. C’è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici. Ed è per questo che l’islam si “arrangia” bene con lo stato.
Anche a Milano, in viale Jenner, lo rivendicavano come diritto. La verità è che siamo incoscienti: se si impedisce di occupare le strade, passa l’idea che si sia anti musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi. Poniamoci per un attimo su un piano più profondo, andiamo a vedere come un quartiere si trasforma in un quartiere più islamista (non dico islamico). I gruppi radicali hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell’islam, perché per loro è quello l’autentico islam, il più veritiero, e quindi va imposto a tutti i musulmani. Di conseguenza, questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali, dove i non musulmani – oppure i musulmani moderati – se ne vanno. Così il quartiere non è più integrato nella città.

Accoglienza e falsa tolleranza
Spesso si critica lo stato accogliente. A mio giudizio, dobbiamo accogliere lo straniero che si trova in estrema difficoltà (come spesso accade di questi tempi). Ma dobbiamo anche aiutarlo a integrarsi realmente. Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche in secondo le norme e le usanze delle nostre società.  Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa tolleranza e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”. E’ un compito molto delicato e impegnativo. Ma si deve aggiungere che, se i flussi migratori rappresentano un peso per lo stato e per le comunità, si deve riconoscere anche che l’Europa, con la sua demografia estremamente bassa, ha bisogno anche di loro, persone dal valore umano indispensabile a questo continente.
E’ banale ricondurre l’ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati. L’ho notato in Francia: i ragazzi di questi quartieri, anziché studiare, facevano chiasso per le strade, andando in giro per gruppi alla sera, anzichè studiare. La gente, anche musulmana, aveva paura. Invece le ragazze erano a casa, facendo i compiti, lavorando. Personalmente l’ho constatato nella banlieue di Parigi, dove andavo ogni sabato sera a riflettere con una ventina di giovani musulmani: che tutte le ragazze avevano un lavoro. I ragazzi invece molto di meno, con anche poche possibilità di avere un buon lavoro. Perché non erano stati seri a scuola. Perché il ragazzo è libero, mentre la ragazza è controllata, e questo è un principio islamico. C’è la volontà di marginalizzarsi.
Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l’europeo (generalmente di tradizione, se non di fede, cristiana) è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo Stato: la causa sono io, giovane musulmano che rifiuta l’integrazione in nome della fede. Ecco perché le famiglie dovrebbero aiutare in questo senso, favorendo l’integrazione; dire “voi siete responsabili di voi stessi, ma per questo dovete integrarvi a tutti i livelli”, non andando a intaccare la fede musulmana, ben radicata nel profondo del cuore e nei comportamenti.

Molenbeek spiega le bombe di Bruxelles
Quanto avvenuto a Bruxelles non è una sorpresa. Nel quartiere di Molenbeek, ma non solo in questo, io ho visto scene con uomini che dicevano alla polizia: “Che venite a fare qui? Questo non è campo vostro”. E la polizia, trovandosi in tali situazioni, preferivano andarsene. Uomini che, pure non intenzionati a fare uso della forza, avevano un aspetto intimidatorio. Non si deve accettare nessuna eccezione, mai:  sia italiano da mille anni o da un anno. Ci sono delle norme, e devono essere rispettate. I tedeschi hanno un’espressione molto bella e sempre applicata: Ordnung muss sein!, cioè “l’ordine deve esistere, tutto deve essere fatto secondo l’ordine previsto!”. Per questo sono più avanzati in questo campo. In Germania non ho mai visto, in trent’anni, un gruppo di musulmani come ho visto a Birmingham o a Parigi, che vanno in giro a fare pressione sulla popolazione musulmana. In Germania hanno infatti imparato che ognuno può ottenere diritti solo se rispetta le norme comuni del paese dove vive e che ha scelto per se stesso.

Samir Khalil Samir S.I. è un islamologo gesuita, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Già Pro rettore dell’istituto, è stato anche consigliere di Benedetto XVI riguardo i rapporti con l’islam.

giovedì 7 aprile 2016

'Frans tu sei una palma per la Siria, tu sei un vero agnello per la pace in Siria'

Ricorre il 7 aprile il secondo anniversario dell'assassinio del padre gesuita Frans van der Lugt a Homs


Tu sei il vero testimone della risurrezione
Questa è la tua PASQUA
Con pazienza ... tu hai rotolato la pietra... Con la tua umanità hai rotolato la pietra .. Con la tua fede hai rotolato la pietra..
Sei testimonianza alla verità. Tu ci dici oggi e domani: "Non abbiate paura voi che state cercando Gesù di Nazareth .. , di Homs, di Siria, del mondo intero, il Crocifisso , perché egli è risorto, Egli è accanto a me, un giovane uomo vestito di bianco che vi ama ... ".

Sì, per favore, Frans: dì al giovane uomo vestito di bianco accanto a te : i siriani e le persone di tutto il mondo, di ogni razza e colore hanno bisogno di lui per la pace. Amen

La testimonianza di  padre Nouras Sammour:
 http://oraprosiria.blogspot.it/2015/11/viaggio-in-siria-2-homs-ya-rabb.html

martedì 5 aprile 2016

Qaryatayn: 'Intorno alla memoria dei santi fiorirà di nuovo la vita di grazia'


Agenzia Fides 
5/4/2016

 A Qaryatayn, la città siriana da poco tornata sotto controllo dell'esercito siriano, i jihadisti dello Stato Islamico (Daesh) se ne sono andati lasciando macerie e devastazione nel santuario di Mar Elian, dove fin dai primi giorni di occupazione, nell'agosto 2015, avevano profanato brutalmente la tomba del Santo, per cancellare quello che anche ai loro occhi rappresentava il cuore del complesso monastico. Ma le reliquie di Mar Elian, sparse intorno al sepolcro del Santo, non sono andate perdute: potranno essere raccolte e ricomposte, e intorno a esse potrà di nuovo raccogliersi la vita e la devozione dei cristiani della regione. 

Sulle mura del monastero di Qaryatayn hanno scritto:
'I leoni del califfato sono venuti a divorarvi'
All'Agenzia Fides la notizia del ritrovamento viene confermata con commosso entusiasmo da padre Jacques Murad, il Priore della comunità monastica - affiliata al monastero di Deir Mar Musa al Abashi - che negli ultimi anni aveva fatto rifiorire l'antico Santuario del V secolo, collocato alla periferia di Qaryatayn. Padre Jacques Murad era stato lui stesso preso prigioniero da un commando di jihadisti che il 21 maggio 2015 aveva fatto irruzione nel santuario e lo aveva sequestrato, e ha potuto ritrovare la piena libertà soltanto lo scorso 11 ottobre. 

“Davanti a tutto quello che è successo e che sta succedendo” rimarca padre Murad “preferisco stare in silenzio, perchè oggi proprio il silenzio mi appare come la parola più giusta e adeguata”. Poi, con poche parole semplici, esprime il consolante sguardo di fede con cui lui e i suoi compagni hanno vissuto anche questo tempo travagliato. “Che le reliquie di Mar Elian non siano andate perdute” confida a Fides padre Jacques “è per me un segno grande: vuol dire che lui non ha voluto lasciare quel monastero e quella terra santa. Sappiamo che i santi sono in cielo, e noi possiamo sempre invocarli e chiedere il loro aiuto. Ricordo che il 9 settembre, nel giorno della memoria liturgica di Mar Elian, avevo celebrato la Messa con gli altri cristiani a Qaryatayn, mentre eravamo sotto il dominio del Daesh. Avevo detto loro: non è importante che il monastero sia distrutto, non è importante nemmeno che la tomba sia stata distrutta. L'importante è che portiate Mar Elian nel vostro cuore, dovunque andrete, anche in Canada, o in Europa, perchè lui vuole rimanere nel cuore dei suoi fedeli”. 

Adesso, la speranza cristiana di padre Jacques già assapora di veder rifiorire la carità di Cristo anche nel luogo da dove lui stesso e i suoi amici monaci erano stati strappati a forza: “ieri” racconta padre Murad all'Agenzia Fides “mi hanno mandato le foto delle ossa che hanno trovato intorno alla tomba devastata di Mar Elian. Negli anni passati, io stesso avevo fatto delle ricognizioni su quelle reliquie, così ho potuto riconoscerle subito da dei segni inconfondibili, come le parti di pelle mummificata che ancora rivestono una mano e i piedi”. 
Nella giornata di domani, un sacerdote della arcieparchia siro-cattolica di Homs, insieme a alcuni monaci di Dei Mar Musa, andranno a Mar Elian per verificare le condizioni in cui versa il santuario. “Ho chiesto loro” riferisce ancora a Fides padre Jacques “di raccogliere le reliquie e di portarle a Homs per custodirle. Sappiamo che il vecchio santuario è stato raso al suolo, che il sito archeologico è stato devastato, mentre la chiesa nuova e il monastero sono state incendiate e in parte bombardate. Quando, in futuro, torneremo a lavorare a Mar Elian, rimetteremo anche le reliquie del Santo al lor posto. Intorno alla memoria dei santi fiorirà di nuovo la vita di grazia. E sarà un grande segno di benedizione, per tutta la nostra Chiesa”.

http://www.fides.org/it/news/59755-ASIA_SIRIA_Nel_santuario_devastato_dai_jihadisti_ritrovate_le_reliquie_di_Mar_Elian_Padre_Jacques_Murad_cosi_il_monastero_rinascera#.VwPz7fmLSM8

domenica 3 aprile 2016

Perché diciamo NO alla partizione della Siria


 Piccole Note 
2 aprile 2016

Non esiste una «soluzione militare» alla questione dell’estremismo islamico, del quale l’Isis è la rappresentazione più mostruosa: è quanto si legge in un articolato editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 2 aprile. Che spiega come un’eventuale vittoria sul piano militare contro l’Isis non basterà a chiudere la partita: «Alla sconfitta militare dello Stato islamico dovrà accompagnarsi una conferenza di pace, presenti tutte le potenze interessate, che dia vita, sulle ceneri del vecchio Iraq e della vecchia Siria, a nuove organizzazioni statali (rispettivamente dei sunniti, degli sciiti e dei curdi) e a nuovi confini.
E sapendo comunque nella futura carta geopolitica del Medio Oriente, se si formeranno, come è probabile, Stati mono-religiosi o mono-etnici, non ci sarà spazio, purtroppo, per altre minoranze, cristiani in testa. L’Europa dovrà allora accoglierli con la necessaria generosità».

Nota a margine. Panebianco ha il dono di parlare chiaro. Quello della ripartizione di Iraq e Siria secondo confini etnici o religiosi è una vecchia idea dei neocon (ne abbiamo accennato più volte). Un progetto che avrebbe dovuto compiersi per via militare, tale il motivo del sostegno delle «potenze interessate» ai vari movimenti jihadisti che hanno portato l’orrore in Iraq e Siria (e in Europa). Si parla di Arabia Saudita, Turchia, ma anche di influenti ambiti interni a Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e altri.
 L’imprevisto intervento militare russo ha fatto fallire l’opzione militare. Ora sembra si voglia provare attraverso la via diplomatica: le stesse «potenze interessate» spingeranno in tal senso al tavolo dei negoziati, almeno questa è la tesi di Panebianco.
Invero non si capisce a cosa siano davvero «interessate» tali potenze: se al petrolio sul quale galleggiano i due Stati o all’influenza che potranno avere sui micro-stati che nasceranno da tale frammentazione. 

Ma al di là, si nota lo strano rovesciamento della dottrina neocon, un tempo basata sull’idea di esportare la democrazia a suon di bombe: nel caso specifico i principi fondanti della democrazia, ovvero il rispetto della sovranità e della volontà popolare, non sono neanche presi in considerazione.
 
Val la pena, infine, ricordare come nel dicembre del 2015, l’Onu ha votato una risoluzione  nella quale ribadiva «il suo forte impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale della Repubblica araba siriana». C’è un modo di arginare la follia del caos ed è quello di rispettare la legalità internazionale, della quale le Nazioni Unite dovrebbero rappresentare un punto di riferimento.

Diversa e altrettanto bizzarra la soluzione prospettata per le minoranze cristiane: si prevede una loro deportazione (soft) di massa, a prescindere dalla loro volontà e da quella delle popolazioni dei futuri (ed eventuali) micro-stati nati da tale frammentazione.
 
Tra le aspirazioni dei vari movimenti jihadisti, sostenuti, finanziati e armati dalle «potenze interessate», c’era anche questa: un Medio Oriente svuotato dalla presenza cristiana.
Tra l’altro restano fuori le altre minoranze – ad esempio agli yazidi massacrati dall’Isis – escluse dal “generoso” abbraccio europeo: le mandiamo al Polo?

http://piccolenote.ilgiornale.it/27996/quale-futuro-per-iraq-e-siria

Kerry’s Plan at Balkanising Syria

.....  Ma alcuni potrebbero non comprendere appieno le implicazioni del federalismo e di come è intrinsecamente legato alla balcanizzazione. Alcuni citano il fatto che la Russia e gli Stati Uniti sono federazioni riuscite, come prova del fatto che dalla federazione non c'è nulla da temere. Tuttavia, il punto che rende queste dichiarazioni sul federalismo così pericolose è che secondo il piano Yinon i confini di una Siria federale sarebbero tracciati lungo linee confessionali, non sul ​​fatto che uno stato possa sostenere la sua popolazione. Ciò significa che una piccola quantità di persone otterrà tutte le risorse, e il resto della popolazione della Siria sarà lasciato morire di fame. Inoltre, la Russia e gli Stati Uniti sono alcune delle più grandi nazioni del mondo così che il federalismo può avere senso per loro. In contrasto, la Siria è un piccolo Stato con risorse limitate. A differenza di Stati Uniti e Russia, la Siria si trova in Medio Oriente, il che significa che l'acqua è limitata. Nonostante il fatto che la Siria è nella cosiddetta mezzaluna fertile, la Siria ha subito massicce siccità da quando la Turchia ha prosciugato  i fiumi che scorrono in Siria e Iraq. Le risorse idriche della Siria devono essere razionate tra i suoi 23 milioni di persone. In Medio Oriente, le guerre sono anche lotte per l'acqua .  Le aree che il piano Yinon intende ritagliarsi della Siria, sono le zone costiere di Latakia e della regione di Al Hasake. Si tratta di aree in cui si trovano  notevoli quantità di risorse di acqua, agricoltura e olio. L'intenzione è quella di lasciare la maggioranza della popolazione siriana senza uno sbocco sul mare e creare una situazione in cui la guerra perpetua tra siriani divisi è inevitabile.  Ironicamente i promotori del Piano Yinon cercano di dipingere il federalismo come una strada per la pace. Tuttavia, l'Iraq che è stato spinto nel federalismo nel 2005 dall'occupazione degli Stati Uniti ora è tutt'altro che pacifico.     Molto semplicemente, 'divide et impera' è il piano.

.....  http://journal-neo.org/2016/03/29/kerry-s-plan-at-balkanising-syria/

giovedì 31 marzo 2016

L’attentato in Pakistan e la liberazione di Palmira

Piccole Note,
30 marzo 2016

Il feroce attentato in Pakistan, che ha causato 72 vittime innocenti, ha oscurato la notizia della conquista di Palmira ad opera delle forze di Damasco. È proprio quanto si riproponevano gli autori della strage di Pasqua, d’altronde le Agenzie del terrore conoscono a menadito le tecniche della propaganda e le sanno manipolare in maniera più che sofisticata, come hanno ampiamente dimostrato in questi anni.
Già, perché la conquista di Palmira è ormai derubricata a episodio secondario, mentre invece ha una rilevanza geopolitica di primaria importanza, sotto diversi profili.
Anzitutto strategici, perché ha dimostrato che nonostante la ritirata dei russi la controffensiva di Damasco contro le milizie jihadiste, e l’Isis in particolare, non si è affatto conclusa e anzi continua con efficacia (mentre in Iraq la fantomatica coalizione internazionale guidata dagli Usa continua a latitare).

Di immagine, perché ha strappato all’Isis una città che era diventata simbolo della barbarie identificativa di tale movimento terrorista, che attraverso l’odiosa quanto inutile distruzione delle antichità archeologiche amplificava nel mondo il suo messaggio apocalittico (altro esempio di propaganda sofisticata).

Infine, la riconquista di Palmira toglie all’Isis un ulteriore mezzo di finanziamento, dal momento che il business dei reperti archeologici, rivenduti in Occidente ha fatto entrare nelle casse dell’Agenzia del terrore e dei suoi capibastone milioni di euro (nessuno degli acquirenti di tali reperti è stato ancora identificato, nonostante le indagini in tal senso non siano affatto impossibili) .
Il fatto poi che Palmira sia stata riconquistata nel giorno di Pasqua non è affatto casuale: sarebbe potuta cadere il giorno prima o quello dopo. Invece si è scelto proprio questo giorno, per lanciare un messaggio di speranza al mondo. Da qui anche la pronta reazione delle forze del caos in Pakistan, che anzitutto vogliono annichilire la speranza.

Aver lasciato ad Assad il merito della liberazione della città è stato un capolavoro tattico di Putin: rafforza il presidente siriano sia in patria che all’estero, favorendo così la chiusura dei negoziati di Ginevra, Questi, infatti, potranno avere un esito positivo solo se i suoi avversari internazionali capiranno che lo spazio per un regime-change in Siria si è definitivamente chiuso.
Il fatto che la conquista di Palmira sia avvenuta poco dopo gli attentati di Bruxelles indica chi davvero sta contrastando l’Agenzia del terrore, nonostante tanta narrativa occidentale tesa a dipingere Assad e Putin come dittatori sanguinari, figure pericolose per la pace del mondo.

L’Isis, e chi lo supporta a livello internazionale, sa invece perfettamente chi sono i suoi veri avversari. Tanto che con la bomba in Pakistan ha inteso inviare un ulteriore segnale: il terrorismo può colpire in Asia e dilagare fino ai confini della Russia. Un progetto che le agenzie del terrore coltivano da tempo .

Non solo: il tentativo di far dilagare il caos in Pakistan punta anche a destabilizzare il governo di Nawaz Sharif, che sta tentando di chiudere il decennale contrasto con l’India attraverso la mediazione russa. Una riconciliazione necessaria per restringere gli spazi di manovra alle forze del caos nel cuore dell’Asia.
In tutto questo, e nonostante tutto questo, le cancellerie occidentali continuano a considerare Mosca un nemico più che un partner indispensabile per porre un argine al terrore globale. Una scelta folle, che condanna l’Europa a dispiegare un’azione di contrasto al terrorismo totalmente inadeguata.
Urgono correttivi, ma l’élite europea (culturale, economica e politica) da tempo ha dimostrato una scarsa propensione alla lungimiranza. 
Del simbolismo esoterico della strage di Pasqua  potete leggere  qui.

http://piccolenote.ilgiornale.it/27950/lattentato-in-pakistan-e-la-liberazione-di-palmira


PALMIRA LIBERATA MA NON È MERITO DELL’OCCIDENTE

Danni gravissimi con stime di almeno 5 anni per ristrutturare quanto è stato distrutto secondo Maamoun Abdelkarim, responsabile per le antichità e i musei siriani.

di Gianandrea Gaiani 
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La liberazione di Palmira rappresenta lo specchio più nitido dell’ambiguità dell’Occidente, incapace o privo della volontà di combattere davvero lo Stato Islamico e prono di fronte alle pretese dei regimi islamisti di Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti pretenderebbero di sostituire il regime di Assad con la dittatura della sharia.
Neppure i rapporti stilati negli ultimi dieci anni da diversi servizi d’intelligence (e resi noti da Wikileaks) che denunciano la massiccia infiltrazione di imam Salafiti in Europa ad opera dei sauditi (o dei Fratelli Musulmani finanziati da turchi e Qatar) ha indotto le cancellerie europee ad aprire gli occhi sulla natura di alcuni “alleati”.....

.... leggi l'articolo completo qui :