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giovedì 7 settembre 2023

Eppure... anche in Siria 'la speranza è possibile, la salvezza è possibile, la vita è possibile'

 


Riprendiamo le parole pronunciate da padre Giuseppe Lepori nella presentazione della Mostra “Ciò che non muore mai. La vita di Takashi e Midori Nagai” Bruchsal, 8 gennaio 2023,

perchè ci sembra leggano la grandezza della testimonianza anche degli amici cristiani in Siria.



Incarnano la profezia di un “segno di contraddizione, che proprio in mezzo a tutti i motivi reali, inconfutabili, di rassegnazione al male, di disperazione, si erge e rende evidente, altrettanto inconfutabilmente, che la speranza è possibile, che la salvezza è possibile, che la vita è possibile, anzi: che ci sono, sono qui, sono già date! Un semplice “Eppure!”che in un istante arresta il declino della disperazione verso la morte. L’impossibile diventa possibile, contro ogni umana evidenza, contro ogni speranza. Quanto abbiamo bisogno nel mondo di oggi, proprio nei tempi che viviamo, di questo segno profetico, di questo“Eppure”!

Quanto abbiamo bisogno allora della profezia dell’ “Eppure!” che rinnova la vita, la gioia di vivere, che riapre davanti a noi il futuro come vita e non come morte! Ecco, le persone come Takashi Nagai e sua moglie incarnano questo “Eppure!” in modo particolarmente significativo, sia per la straordinarietà della loro vita, sia perché hanno espresso questo“Eppure!” in un momento particolarmente privo di speranza per la loro vita, per il loro popolo e l’intera umanità.

Questi testimoni dell’“Eppure!” della speranza sono luci apparentemente isolate, rare, ma che risplendono proprio per questo, e che per questo ci rendono attenti a tante luci che brillano attorno a noi, o in noi stessi, e che noi non vediamo. Soprattutto ci rendono attenti, a come è possibile anche a noi, dentro le nostre situazioni di prova e disperazione, di diventare un “Eppure!” profetico che trasmette a chi ci sta attorno la speranza che rinnova la vita. Questi testimoni attirano la nostra attenzione perché ci accorgiamo che guardare a loro ci aiuta a vivere, ridà senso e speranza alla nostra vita.”

Grazie dunque ai testimoni della pazienza e della speranza contro ogni speranza che qui riportiamo, Padre Hanna e i Salesiani di Aleppo.

Fra Hanna Jallouf: «Sarò vescovo per servire la mia gente nella Siria insanguinata»

Mentre era di passaggio a Roma per varie incombenze legate recente alla nomina a vicario apostolico di Aleppo dei Latini, Terrasanta.net ha intervistato fra Hanna Jallouf, per lunghi anni parroco di Knayeh, nel governatorato di Idlib, in Siria.

Il motto che ha scelto chiarisce subito lo stile che intende adottare nel suo nuovo ministero episcopale: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Vangelo di Luca 22,27). Un passo, quello dell’evangelista Luca scelto da fra Hanna Jallouf, che spiega più di molte parole. Soggiunge il frate siriano: «Nello mio stemma episcopale metterò la croce di Terra Santa e lo stemma francescano, ma anche la carta della Siria indivisa».

La sua nomina a vicario apostolico di Aleppo dei Latini è stata resa nota sabato primo luglio 2023 dalla Santa Sede. Il neo vescovo avrà giurisdizione sui cattolici di rito latino in tutta la Siria. Frate minore della Custodia di Terra Santa, il religioso è stato, fino ad oggi, parroco di Knayeh. La località, insieme ai vicini villaggi di Ghassanieh e Yacubiyeh, si trova nel nord-ovest della Siria, nella valle dell’Oronte. Vale a dire all’interno di quel governatorato di Idlib tuttora controllato da gruppi ribelli di matrice islamista che si oppongono al governo di Damasco e che hanno avuto negli anni appoggi dalla vicina Turchia.

Eccellenza, come ha accolto la nomina da parte di papa Francesco?
Ho avuto da una parte timore e preoccupazione, perché non mi sento degno di questa nomina. Ma poi anche gioia, perché ho capito che questo incarico non è per me, ma per la gente che sono chiamato a servire. Dopo tanti anni, passati tra molte sofferenze, il Signore mi ha dato una croce ancora più grande. Ma si vede che ha visto che ho le spalle grandi… Allora ho detto: sia fatta la tua volontà.

Come è la situazione oggi nella zona delle missioni dell’Oronte?
Lavoro da 22 anni in quella zona, dove ho realizzato molte opere…  Ma la guerra e poi il terremoto hanno distrutto quasi tutto e la gente è fuggita… Si vede che il Signore aveva altri piani. Ma noi francescani siamo rimasti e abbiamo scelto di metterci al servizio dei più poveri, dei disabili, delle vedove. Nei nostri conventi e case abbiamo accolto chi è rimasto senza abitazione a causa della guerra e, più recentemente, del terremoto… Senza distinzione di religione, abbiamo fatto entrare chi ha bussato alla nostra porta.

Quanti cristiani sono rimasti nella valle dell’Oronte?
Prima del 2011 eravamo circa 10 mila in tutta la provincia di Idlib. La maggior parte, però, è fuggita in questi dodici anni di guerra. Siamo rimasti in 600, cristiani di vari riti e confessioni. Tutti fanno riferimento a noi, perché i sacerdoti e i religiosi delle altre Chiese sono fuggiti.

Il governatorato di Idlib è noto per essere l’ultima roccaforte del sedicente Stato islamico in Siria…
Dalla mia zona sono passati tutte le fazioni, dall’Esercito libero siriano a Jabat al Nusra. Poi, negli ultimi anni, nella regione hanno trovato riparo molte formazioni ribelli cacciate da altri territori della Siria. La zona ha sofferto sia per l’occupazione dei guerriglieri, sia per i bombardamenti delle forze alleate di Damasco – specialmente russe – e non è mai tornata completamente sotto il controllo del governo centrale. Abbiamo vissuto momento davvero brutti. Penso all’uccisione di padre François Mourad nel 2013 a Ghassanieh; penso ai rapimenti di cristiani per costringerli ad abiurare la fede. Penso all’assassinio di una nostra maestra cristiana, massacrata e gettata in un fosso. Io stesso ho subito la detenzione nell’ottobre del 2014… Per anni i jihadisti ci hanno permesso di celebrare la liturgia solo al chiuso, e nessun simbolo religioso cristiano era ammesso negli spazi pubblici. In più occasioni le nostre chiese sono state attaccate e devastate… Con l’aiuto di Dio abbiamo resistito e siamo rimasti fedeli…
Oggi la situazione nel governatorato resta complicata, ma il clima è più sereno. Quando si è diffusa la notizia che ero stato nominato vescovo cattolico della Siria, lo 
sheikh e alcuni collaboratori sono venuti a porgermi le loro felicitazioni. 

Tra le emergenze che ogni tanto salgono alle cronache, c’è la situazione delle vedove dei jihadisti e dei tanti orfani…
È vero, è un’emergenza che tocca tutta la Siria. La realtà più nota è quella del campo di detenzione di al-Hol, con oltre 50 mila donne e moltissimi bambini. Ma anche nella mia zona esiste un campo dove vivono una settantina di queste vedove dell’Isis, molte con figli. Alcune sono state sposate per procura e non conoscevano neppure i mariti a cui sono state date in moglie. Ora i mariti sono morti e loro sono totalmente abbandonate, senza nessun sostegno… È una situazione disumana. Per non parlare dei minori, orfani di entrambe i genitori… Ad Aleppo di questa realtà si occupa il progetto Un nome un futuro, nato dalla collaborazione tra il mio predecessore mons. George Abu Khazen e il muftì della città (Mahmoud Akam – ndr), grazie all’impegno dei frati della Custodia di Terra Santa. 

Quanti sono i sacerdoti e le religiose che fanno parte oggi del vicariato di Aleppo?
Il vicariato latino non ha preti diocesani. La sua forza pastorale è formata dai religiosi francescani, presenti ad Aleppo, Lattakia, nell’Oronte e a Damasco. Poi c’è la presenza dei padri cappuccini, dei gesuiti, dei salesiani… Le congregazioni femminili sono almeno una quindicina, impegnate in vari campi… 

L’ordinazione episcopale avverrà ad Aleppo domenica 17 settembre 2023, che è anche festa liturgica delle stimmate di san Francesco d’Assisi…
Ho scelto questa data, per me francescano importantissima, perché la Siria è insanguinata. Le ferite di Francesco sono la partecipazione alle sofferenze di Cristo. La speranza è che queste ferite rimarginino presto e che il Paese possa presto risorgere ad un futuro di pace.

https://www.terrasanta.net/2023/07/fra-hanna-jallouf-saro-vescovo-per-servire-la-mia-gente-nella-siria-insanguinata/

.... questo è il momento!

di Padre Dave, prayersforsyria.com

Da questa distanza è spesso difficile vedere dove lo Spirito di Dio è all'opera in Siria. Il paese sembra barcollare da una crisi all'altra. Dopo una dozzina di anni di guerra, incendi, terremoti e tutte le privazioni causate dalle sanzioni provenienti dagli Stati Uniti, sono tornati gli incendi!  Hanno colpito di nuovo la provincia di Lattakia, una parte così bella della Siria, e la stessa regione che è stata al centro dei terremoti.

Ricordo amici in Siria che mi raccontavano di come, durante gli incendi dello scorso anno, le famiglie si accalcassero nell'unico veicolo che riuscivano a trovare che avesse carburante e cercassero disperatamente di attaccare un albero di ulivo al veicolo in modo da avere del cibo mentre fuggivano!

I disastri naturali sono stati terribili. I disastri provocati dall'uomo, causati soprattutto dalle sanzioni statunitensi, mi sembrano ancora più terribili. Trovo un po' di conforto nel resoconto che riporto qui di seguito sul buon lavoro svolto dalla  Don Bosco House  di Aleppo, che ricorda ciò che la Chiesa, e le altre organizzazioni religiose internazionali, possono ancora realizzare.

Mentre le sanzioni rendono ancora impossibile per la maggior parte di noi inviare denaro in Siria, la chiesa può ottenere denaro oltre confine per finanziare opere come questa. Se c'è mai stato un momento in cui la comunità cristiana in tutto il mondo si facesse avanti e facesse la differenza per le persone bisognose, questo è il momento!

https://prayersforsyria.com/its-time-for-the-church-to-stand-with-syria/

Subito dopo le devastanti scosse di febbraio, i Salesiani hanno aperto le porte della Casa Don Bosco, e centinaia di persone hanno trovato sicurezza, compagnia e sollievo.  A cinque mesi dal terremoto, padre Alejandro León, superiore dell'Ispettoria salesiana Gesù Adolescente del Medio Oriente, ha riflettuto su ciò che ha vissuto e su ciò di cui il Paese continua ad aver bisogno, oltre ad esprimere la sua gratitudine per tutti coloro che hanno fornito sostegno.

Fr. León ha detto: “Una frase che ho sentito mi ha fatto pensare. Sono entrato in un incontro di formazione con un gruppo di adolescenti di 15-16 anni. Non so quale argomento stessero discutendo, ma una ragazza ha detto: "Qui ci hanno insegnato a vedere il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che mezzo vuoto, ma il problema è che il nostro bicchiere non è solo vuoto, è davvero rotto".  La frase può sembrare un'esagerazione, o uno sfogo dopo l'esperienza del terremoto. Questo però non lo penso, ma c'è qualcosa in esso che mi fa riflettere ed entrare in empatia con la situazione esistenziale di questi giovani». 

Fr.  León ha notato tutto ciò che questi giovani hanno passato nelle loro giovani vite. “Sono giovani che non ricordano la vita senza guerra. Hanno vissuto per anni senza elettricità, senza acqua, con scarsità di cibo e carburante. Hanno vissuto in una città assediata e hanno temuto attacchi con armi chimiche o missili. Tutti piangono un familiare morto durante la guerra e vivono in una costante depressione economica. Hanno sperimentato epidemie di colera e l'epidemia di COVID-19. E adesso? Un grande terremoto e altri terremoti, almeno quattro, che hanno superato i 6 gradi della scala Richter”. 

Erano le 4:17 del 6 febbraio quando la terra tremò. Subito il cortile di Casa Don Bosco si è riempito di gente in cerca di salvezza. C'era ansia e incertezza. Don Mario Murru, rettore, ha assicurato fin dall'inizio che la casa salesiana sarebbe stata aperta per tutti coloro che ne avessero avuto bisogno.  All'ora di pranzo c'erano già 50 persone in casa e a cena erano 300. Questo numero è cresciuto costantemente nei giorni successivi fino a raggiungere le 500 persone. Il 21 febbraio un altro forte terremoto ha rinnovato la paura e 800 persone hanno trovato rifugio presso la Casa Don Bosco.

I giovani della regione frequentavano da anni i programmi della Don Bosco House. Erano coinvolti in campi giovanili e conoscevano i Salesiani. Attraverso la loro formazione, sono stati leader naturali nell'emergenza, aiutando le loro famiglie e i loro vicini.  Fr. Murru ha detto: “È stato commovente vedere il rispetto che gli adulti hanno mostrato ai giovani. Non perché fossero autorità designate, ma per l'autorità morale acquisita attraverso il loro generoso servizio».

Ha aggiunto: “L'amore ci ha fatto superare barriere che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Per amore dei figli, per amore dei genitori, per amore degli amici, per amore di Dio. In un momento in cui non c'era motivo di sperare in nulla, hanno trovato persone per cui lottare con speranza e tutti, ricchi e poveri, sono diventati bisognosi e hanno condiviso ciò che avevano». 

Quasi 2,4 milioni di euro sono stati raccolti dai Salesiani di tutto il mondo per i progetti di emergenza post-terremoto. A giugno si sono conclusi gran parte di quei progetti di emergenza per lasciare spazio alla ricostruzione, ai progetti educativi e ai campi estivi per i bambini e i giovani più grandi colpiti dal sisma. 

Reportage di Reliefweb – 30 luglio 2023

domenica 22 gennaio 2023

«Imparate a fare il bene, cercate la giustizia»

 

Di fra John Luke Gregory ofm, da Rodi, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 


«Apri la bocca in favore del muto, in difesa di tutti gli sventurati. Apri la bocca e giudica con equità, rendi giustizia all’infelice e al povero» (Pr 31,8-9). È così chiara e incisiva questa indicazione del Libro dei Proverbi, che, dopo averla ascoltata, non si può restare indifferenti e inermi.

In obbedienza alla Parola di Dio e secondo lo stile francescano, abbiamo cercato di metterci in ascolto dei tanti poveri che hanno lambito le coste della nostra isola e bussato alle porte del convento francescano. Il grido che sgorgava dalle loro labbra e ancor più dalla loro condizione miserevole chiedeva giustizia e anelava alla pace. Pace e Giustizia non sono concetti astratti, ma condizioni concrete di vita. Giustizia e Pace non sono lontani miraggi ma valori imprescindibili per una condizione di vita dignitosa e veramente umana. Pace e Giustizia sono due beni inseparabili: l’uno non può esistere senza l’altro.

E così, per non accontentarci di fare buone e lodevoli riflessioni, abbiamo cercato di rendere concreti l’esercizio della giustizia e la costruzione della pace, mettendoci al servizio dei fratelli e sorelle dai bisogni più essenziali. Ci siamo sforzati di servire le tante persone distrutte e sfollate che arrivano da noi ogni giorno, in cerca di una vita migliore o semplicemente desiderose di trovare un po’ di pace e di giustizia per se stesse, ma soprattutto per i loro figli. Mettendo il poco che abbiamo e le piccole energie della nostra parrocchia di Rodi a disposizione di coloro che non hanno nulla e che le sofferenze della vita ha sfiancato, siamo stati costretti a maturare atteggiamenti fondamentali: l’ascolto, l’accoglienza e il servizio, nella gratuità, senza pregiudizi o giudizi, lasciandoci sorprendere dal colorito splendore della diversità.

La guerra in Siria ha posto le questioni di giustizia sociale alla ribalta della coscienza globale e la pandemia di coronavirus ha evidenziato (e aggravato) le disuguaglianze. Sembra che in questi ultimi tempi, sollecitati anche dall’insistente magistero papale, il mondo si stia accorgendo di alcuni drammi e di alcune questioni sociali (l’abuso delle donne, i diritti degli immigrati, dei rifugiati e delle popolazioni indigene, la discriminazione razziale) ma c’è bisogno di un cambiamento sostanziale.

Non basta, però, fare una dettagliata analisi sociologica dei mali che affliggono il mondo: è urgente agire in modo concreto ed efficace, ascoltando e abbracciando i fratelli e le sorelle bisognosi. La rotta di tale cambiamento è segnalata molto chiaramente da papa Francesco nell’enciclica Fratelli Tutti: tutti figli e figlie dello stesso Padre celeste, siamo fratelli e sorelle! Lo stesso Padre si prende cura di tutti noi ed è attento al grido dei poveri, degli emarginati, di coloro che sono esclusi economicamente, socialmente e politicamente. Le sfide che sono davanti all’umanità sono enormi, come enorme era la quantità di miserie che si sono presentate al nostro sguardo in forma sempre crescente. Davvero sproporzionate, rispetto alle nostre povere possibilità. Da dove iniziare? Per noi è stato spontaneo iniziare il nostro servizio di carità e giustizia, piegando le ginocchia davanti al Santissimo Sacramento. Solo guardando Gesù, possiamo comprendere come servire veramente il fratello. Solo ascoltando Lui, possiamo conoscere la Verità e la Giustizia. Solo ricevendo da Lui la Grazia, abbiamo sorprendenti energie per affrontare sfide ardue e umanamente impossibili.

La nostra fraternità francescana è piccola e nascosta, la nostra parrocchia cattolica conta pochissimi fedeli, e le nostre bellissime isole sono per definizione “isolate” dai grandi circuiti. Eppure, la Provvidenza ci ha sorpresi. Grazie alla preziosa opera dei media della Custodia di Terra Santa e all’attenzione riservataci dagli amici dell’Osservatore Romano, in molti sono venuti a conoscenza delle nostre attività semplici, silenziose e nascoste. E così siamo stati beneficati da generose donazioni dalla Custodia stessa attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta e dalla collaborazione di volontari che ci permettono di servire i fratelli che il Signore ci manda. Una notorietà che non abbiamo cercato, ma che ci consente di portare all’attenzione del mondo le sofferenze che incontriamo e, al tempo stesso, ci aiuta a mostrare ai poveri che, attraverso di noi, è la Chiesa stessa che si china su di loro nel nome di Gesù.

Seguendo l’insegnamento del nostro Santo Padre Francesco d’Assisi, questo desideriamo: quanti trovano conforto nella nostra carità e nelle nostre parole possano «vedere» Gesù stesso che si prende cura di loro. Nel nome di Gesù e con la Sua Grazia, sostenuti dal Magistero e dalla fraternità della Chiesa, cerchiamo di dare forma concreta alla giustizia e alla pace. Giustizia che si declina nella promozione della dignità di ogni persona che arriva sull’isola, ma anche dei poveri che vivono accanto a noi. Giustizia che scaturisce da un ascolto vero e non semplicemente emotivo: non ci accontentiamo di riempire delle pance vuote o di vestire dei corpi nudi e infreddoliti. Cerchiamo, invece, di incontrare persone, che sono affamate anche di uno sguardo fraterno e benevolo, che attendono il calore anche di un abbraccio e di una carezza. La fatica più grande è dare continuità quotidiana a questo servizio, ma anche questo è giustizia! Non ci si può limitare a offrire una coperta e un pezzo di pane: il fratello va accolto, ascoltato, accompagnato perché ritrovi fiducia nella vita, si adoperi per costruire un futuro e rialzi lo sguardo alla speranza.

https://www.terrasanta.net/2023/01/in-aiuto-di-tutti-i-poveri-figli-dello-stesso-padre/

sabato 7 gennaio 2023

Natale ed Epifania tra Oriente ed Occidente

 di Edoardo Arborio Mella

Il ciclo liturgico di Natale ed Epifania muove essenzialmente da due tradizioni: quella occidentale che ha dato vita alla festa del Natale e quella orientale che si è sviluppata nella festa dell’Epifania. Le nostre informazioni al riguardo sono ovviamente frammentarie, spesso congetturali, basate su accenni negli scritti degli autori antichi e raramente su rubriche liturgiche non sempre facili da interpretare. Ma a partire da questi dati è possibile ricostruire una storia con molti «forse».

Occorre ricordare innanzitutto che l’epoca del grande sviluppo della liturgia cristiana inizia nel IV secolo, a seguito della cosiddetta pace costantiniana. È sostanzialmente in quel secolo, contraddistinto da una creatività liturgica definita da qualcuno «forsennata», che si forma il ciclo di Natale ed Epifania: fino ad allora tutto il culto era concentrato sul mistero pasquale.

In occidente i primi cenni della presenza di una festa del Natale del Signore celebrata il 25 dicembre risalgono alla prima metà del IV secolo. La festa veniva celebrata a Roma e passò subito nel resto d’Italia, forse in Spagna e nella provincia d’Africa (che non comprendeva l’Egitto), ove si ricordava pure, lo stesso giorno, l’adorazione dei magi con la strage degli innocenti. Forse una chiesa appena emersa da un’età di persecuzioni sentiva il bisogno di ricordare assieme la nascita di Gesù per il mondo e il suo immediato rifiuto. La data del 25 dicembre dipende probabilmente dalla festa pagana del solstizio d’inverno, che cominciava appunto nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. Da circa un secolo quest’ultima aveva acquistato risalto a Roma, a causa del diffondersi e talvolta dell’ufficializzarsi del culto persiano di Mitra, identificato con il sole, e del nascente culto della persona dell’imperatore: era la festa del Natale invitto, del sole che rinasceva ricominciando a crescere dopo la diminuzione invernale delle giornate. Cristo fu quindi annunciato come il vero sole di giustizia che nasceva nel mondo, in un simbolismo ben comprensibile a chi era plasmato da quella cultura.

Abbiamo notizia di un’altra data: il teologo e filosofo cristiano Clemente Alessandrino riferisce di una tradizione presente in Palestina e in Egitto durante la sua vita, all’inizio del III secolo, dunque circa un secolo prima delle prime attestazioni del 25 dicembre in Occidente. Essa datava la nascita di Gesù al 20 maggio; altre notizie di area palestinese o egiziana pongono attorno a questa data la memoria della fuga in Egitto e della strage degli innocenti. Ricordo biografico? Come che sia, due secoli dopo l’attestazione di Clemente Alessandrino ogni traccia della memoria del 20 maggio sembra sparita, benché rimangano talvolta in quel periodo le memorie connesse dette sopra. Il giorno della nascita di Gesù era ormai divenuto in tutto l’Oriente il 6 gennaio, la festa dell’Epifania.

Eccoci dunque alla seconda data-chiave di questo tempo liturgico, il 6 gennaio. Incerta è l’origine della data. Quanto al nome «epifania», esso indica un’origine orientale: è termine greco che significa «manifestazione». Manifestazione di che cosa? La festa è già nota in area siriaca nella seconda metà del III secolo, poi verso la fine del IV secolo in Palestina e in Egitto come celebrazione della manifestazione di Gesù nella carne, cioè della sua nascita e dell’adorazione dei magi. In Egitto e forse in Siria si ricordava anche, forse per trasposizione di un precedente rito pagano sulle acque, il battesimo di Gesù, e talvolta il miracolo di Cana.

Avvenne poi che in Siria e in area costantinopolitana verso la fine del IV secolo si introducesse il Natale occidentale del 25 dicembre. Ciò provocò un mutamento di significato nella festa del 6 gennaio, che divenne memoria del solo battesimo. Il termine venne così a significare la manifestazione alle folle del Giordano da parte della voce celeste della filiazione divina di Cristo. Lo stesso avvenne in Egitto nella prima metà del V secolo, e alla stessa epoca in Palestina, salvo che qui la festa occidentale durò poco (il che avrà una conseguenza, come si dirà più avanti) e vi rientrò più tardi, forse in conseguenza di un decreto imperiale della seconda metà del VI secolo. A questo punto dappertutto in oriente il 6 gennaio era divenuto la festa del battesimo di Gesù. Tale è a tutt’oggi il significato unico di questo giorno nel mondo ortodosso.

Curiosamente sembra che il 6 gennaio come memoria della Natività fosse presente nella seconda metà del IV secolo anche in Gallia (attuale Francia), unica regione occidentale. Ma già prima della metà del V secolo la nascita era celebrata in un giorno precedente (forse il 25 dicembre del resto dell’Occidente), il che mutò anche qui il carattere del 6 gennaio: ma non, come in Oriente, conferendogli il carattere di memoria del battesimo, bensì facendogli ricordare la visita dei magi, il battesimo e il miracolo di Cana: i «tre segni» che ancora oggi vengono cantati nelle antifone del Benedictus e del Magnificat durante la celebrazione dell’Epifania in Occidente.

Sì, perché come il Natale del 25 dicembre entrò in Oriente, così l’Epifania del 6 gennaio entrò in Occidente. Con questa particolarità: che l’evento centrale con essa celebrato in Occidente non divenne il battesimo, bensì la visita dei magi, talvolta con una menzione degli altri due eventi citati. In Italia alla metà del V secolo sono conosciuti i tre eventi; in Spagna alla fine del IV secolo si ricordano i magi e la strage degli innocenti; a Roma e in Africa nel V secolo solo i magi, ma più tardi anche gli altri due eventi.

Troppi dati ci sfuggono perché si possa dire qualcosa di preciso sui passaggi e sui mutamenti intervenuti. Forse quando l’Occidente, che già aveva il 25 dicembre, cominciò ad adottare l’altra festa, isolò quella parte, o quelle parti, presenti nelle primitive Epifanie orientali per la propria Epifania. O al contrario, una Chiesa occidentale che celebrava la Natività il 6 gennaio (come abbiamo visto accadere in Gallia) può aver adottato l’uso romano del 25 dicembre e lasciato la parte relativa ai magi all’antica festa; l’uso si sarebbe poi esteso al resto del mondo occidentale.

Il visitatore della Terra Santa può rendersi conto facilmente dell’importanza che queste ricorrenze hanno per le Chiese locali. Le liturgie cattoliche non riservano sorprese ai cattolici. Particolarmente nota è l’Eucaristia notturna del patriarca latino presso la chiesa dei francescani a Betlemme, che riveste un carattere di ufficialità. 

Quanto agli eventi delle Chiese orientali, per capirli occorre tener presenti due fatti. Il primo è che, in seguito alla mancata riforma del calendario giuliano da parte di quelle Chiese, il loro calendario liturgico è in ritardo di tredici giorni rispetto al nostro. Così il loro 25 dicembre corrisponde al nostro 7 gennaio. Essi dunque, solo per motivi calendaristici, celebrano il loro Natale quasi in concomitanza con la nostra Epifania. Il 6 gennaio (per loro il 24 dicembre) vi è a Betlemme la grande festa popolare dell’ingresso dei capi delle Chiese orientali nell’antica basilica della Natività. La massima solennità è riservata all’ingresso del patriarca e dei vescovi ortodossi, che avviene nella tarda mattinata con festoso accompagnamento di tamburi e cornamuse. Seguono, nella notte, le liturgie, celebrate da ogni chiesa al proprio altare. Il giorno dopo (il nostro 7 gennaio) ha luogo il ritorno a Gerusalemme. Poi, il 6 gennaio del calendario giuliano, corrispondente al 18 del nostro, vi è la celebrazione dell’Epifania, cioè del battesimo di Gesù: il giorno prima o il giorno stesso, ogni Chiesa si reca al Giordano, ciascuna al proprio luogo, passando attraverso i campi minati con il permesso, la sorveglianza e la protezione dei militari. Alla celebrazione ortodossa, in particolare, convergono diverse decine di pullman da ogni parte di Israele e della Cisgiordania. Si benedice l’acqua e se ne porta nelle proprie chiese e case.

l secondo fatto da tener presente è che nel quadro sopra accennato vi è un’eccezione: la Chiesa armena. Essa infatti, viva nella chiesa di Gerusalemme fin dall’inizio della propria esistenza e in essa radicata per la propria tradizione liturgica più antica, al pari di essa non accolse l’inserzione del 25 dicembre nel calendario; e quando poi le due Chiese si separarono definitivamente, mantenne, tranne che per un breve periodo nel VI secolo, il calendario di un tempo: conservò quindi all’Epifania l’antico significato di memoria della Natività, e in un desiderio di fedeltà alla propria tradizione monofisita valorizzò in essa la memoria del battesimo, già anticamente presente, lo si è accennato, in diverse Chiese orientali. Ribadì così liturgicamente, racchiudendola in un’unica festa, l’unica natura (perché questo significa il termine monofisismo) di Gesù uomo manifestato nella nascita a Betlemme e di Gesù Dio manifestato nella voce celeste durante il battesimo. A ulteriore legittimazione dell’usanza si aggiunse con il tempo una precisazione storica: il battesimo di Gesù avvenne il giorno stesso della sua nascita, esattamente trent’anni dopo. Ciò a partire da un’esegesi, ai nostri occhi certo un po’ forzata, di Luca 3,21-23. Conseguenza visibile di tutto ciò è che la Chiesa armena è del tutto assente dalla festa orientale del Natale a Betlemme, e che in occasione della festa dell’Epifania essa non si reca al Giordano bensì a Betlemme, ove fra la sera e la notte celebra nella basilica i due misteri sopra enunciati.

https://www.terrasanta.net/2011/11/natale-ed-epifania-tra-oriente-ed-occidente/

venerdì 14 ottobre 2022

Le reliquie di Mar Elian tornano nel monastero di Qaryatayn

 Sette anni dopo la sua distruzione da parte dell'Isis, il monastero di Mar Elian in Siria sta tornando in vita. Padre Mourad ha riferito dello stato di avanzamento dei lavori e annunciato il ritorno, lo scorso settembre, delle reliquie di san Giuliano.

da  Terrasanta.net

Si tratta di un monastero incendiato e ridotto in rovina il 21 agosto 2015 dai bulldozer dei militanti del cosiddetto Stato islamico. Questi avevano anche profanato la tomba di san Giuliano d’Emesa, custodita nel monastero. «Come se volessero cancellare quello che avevano riconosciuto come il cuore pulsante del complesso monastico», ha spiegato lo scorso 4 ottobre l’agenzia Fides, che ha riferito anche dello stato di avanzamento dei lavori di restauro di Deir Mar Elian el-Sheikh, il monastero di San Giuliano a Quaryatayn, in Siria, un centro quasi equidistante da Homs, Damasco e Palmira.

I lavori sono iniziati nel marzo 2022, come ha spiegato padre Jacques Mourad, fondatore di questo monastero di rito siro-cattolico e al quale è stato affidato il restauro.

Monaco e sacerdote, padre Mourad fa parte della comunità di Mar Musa, una comunità monastica molto attiva per il dialogo islamo-cristiano e fondata in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano scomparso dal 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, in quel periodo capitale siriana dell’Isis.

Padre Jacques Mourad era stato incaricato, a partire dagli anni 2000, di edificare un monastero e una cappella sulle rovine del monastero di Mar Elian costruito 1.500 anni fa. Circondato da ulivi e vigneti, l’attività agricola contribuiva alla sua sussistenza… fino al maggio 2015. Quando anche padre Jacques Mourad fu rapito da un commando di jihadisti proprio a Mar Elian, luogo che verrà distrutto tre mesi dopo il suo rapimento. Il monaco fu rilasciato il 10 ottobre successivo. 

Segni di resurrezione…

Oggi i lavori di restauro sono proseguiti bene nonostante «le difficoltà legate alla situazione economica del nostro Paese, per le sanzioni imposte», spiega padre Mourad. Negli ultimi otto mesi, però, il sito è stato ripulito e sono stati cotti mattoni di argilla per rialzare il muro perimetrale. Sono stati piantati duecentocinquanta ulivi perché erano stati sradicati gli alberi da frutto, ulivi e viti. Sono state ritrovate le pietre della porta d’ingresso e del battistero e sono state ricostruite le pareti e il tetto della cripta. Anche la chiesa, incendiata, è stata riparata e dotata di un nuovo altare.

Il restauro è stato eseguito senza ripulire completamente la fuliggine inglobata nelle murature in modo da preservare tracce visibili del conflitto recente. Inoltre, un archeologo di Homs ha restaurato la tomba di san Giuliano d’Emesa, martire guaritore, venerato da cristiani e musulmani, con i resti rinvenuti nel sito. Inoltre, sono state rifatte sette camere da letto. 

e di riconciliazione

L’obiettivo era celebrare la festa di Mar Elian presso il monastero lo scorso 9 settembre e riportare nel luogo le reliquie di san Giuliano, trovate da padre Jacques e portate in salvo a Homs. L’area intorno al monastero è stata strappata all’Isis dall’esercito siriano nell’aprile 2016. 

Per il giorno della festa di san Giuliano, più di 350 persone sono giunte da tutta la regione, oltre a tanti sacerdoti siro-cattolici da tutta la Siria e amici musulmani del monastero. La cerimonia di riconsacrazione è stata presieduta da monsignor Youhanna Jihad Battah, arcivescovo siro-cattolico di Damasco, e invitato speciale è stato l’arcivescovo siro-ortodosso di Homs, Mor Timotheos Matta al-Khoury.

I due vescovi hanno unto insieme, con olio santo, la cripta e la chiesa restaurate. La cerimonia si è quindi rivelata «una meravigliosa opportunità per vivere la comunione tra le due Chiese sorelle», che in passato avevano vissuto periodi di conflitto sulla proprietà del monastero. 

«Il momento più commovente – ha detto padre Jacques – è stato quando le reliquie di Mar Elian, san Giuliano, sono arrivate alle porte del monastero. Un cristiano e un musulmano le hanno portate e le hanno deposte davanti all’altare». Sono stati benedette e poste in un sarcofago. «Non era facile immaginare di poter vivere la gioia di un tale incontro – ha aggiunto –. Esiste certamente una forza che va oltre i nostri limiti umani».

Durante la celebrazione un professore di filosofia, in rappresentanza della comunità musulmana, ha invitato i cristiani a tornare nelle loro case a Quaryatayn, una città di 30mila abitanti, in prevalenza sunniti. Prima di cadere nelle mani dell’Isis, la città era un simbolo di convivenza tra cristiani e musulmani. Dal 2010 fino alla primavera del 2015, padre Mourad si è occupato anche della parrocchia cattolica della città.

domenica 14 novembre 2021

Il fiume Eufrate in secca, il disastro incombe sulla Siria

foto D Souleiman -AFP

L'accusa rivolta alla Turchia apparsa ieri su France Culture : “Per molti anni i turchi hanno costruito dighe che consentono loro di controllare il flusso che scorre a valle. Negli ultimi mesi hanno ridotto di circa l'80% il volume d'acqua che normalmente arriva in Siria e del 50% dalle stazioni di pompaggio di acqua dolce alla popolazione. "
 

di Elisa Pinna 

Per millenni l’Eufrate ha costituito l’arteria vitale per le popolazioni della Mesopotamia occidentale, ha dissetato, irrigato campi, contribuito a creare civiltà e imperi. Ora si sta prosciugando inesorabilmente in alcuni suoi tratti e milioni di persone in Siria e in Iraq non hanno più acqua per bere e mandare avanti l’agricoltura e l’allevamento di bestiame.

I cambiamenti climatici, il ciclo delle siccità, le temperature sempre più alte stanno portando via tutte le forze al «Grande Fiume» biblico. La sua portata è ai minimi storici – 150/200 metri cubi d’acqua al secondo contro i 600 metri cubi del secolo scorso – e, tra i contadini siriani e iracheni delle pianure che attraversa, vi è un senso di disperazione e disarmo. Senza l’Eufrate, anche per loro non c’è più vita.

Particolarmente grave è la situazione in Siria, dove cinque milioni di persone dipendono totalmente dalle acque del fiume e dei suoi affluenti. Sono concentrate nel Nord-Est del Paese, un tempo considerato il «granaio siriano», trasformatosi poi in un campo di mattanza della guerra civile: da queste parti i miliziani del sedicente Stato islamico (l’Isis) hanno conquistato Raqqa, per poi lanciarsi nella marcia attraverso l’Iraq fino a Mosul, proclamata nel 2014 capitale del Califfato nero e ripresa solo nel 2017 da soldati iracheni e miliziani filo-iraniani, sostenuti in quell’occasione, anche dagli Stati Uniti.

In Siria invece erano stati i curdi a guidare la controffensiva contro i seguaci dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi, tra un coro di elogi e incoraggiamenti da parte dell’Occidente, salvo poi essere dimenticati e lasciati in balia delle vendette dei turchi, pronti a tutto pur di evitare la nascita di un’entità curda saldata agli indipendentisti interni. Molti sono pronti a scommettere che vi è un filo che lega i fatti della guerra di allora – in realtà mai terminata – ai problemi di oggi dell’Eufrate, non afflitto soltanto dai cambiamenti climatici.

Il fiume nasce dalle montagne circostanti l’Ararat e la Turchia ne controlla il flusso iniziale, attraverso un sistema di dighe e laghi artificiali, prima che il corso d’acqua passi in Siria e poi in Iraq, dove si unisce al Tigri per sfociare infine nel Golfo Persico. Il sospetto che Ankara abbia un po’ chiuso i rubinetti per assetare i nemici curdi – magari in vista di qualche nuova offensiva militare – esiste ed è dichiarato apertamente. Ankara nega qualsiasi responsabilità ed anzi si lamenta di soffrire degli stessi problemi di siccità.

Sta di fatto che le immagini dell’Eufrate trasmesse in questi giorni sono sconvolgenti, sebbene l’allarme sulla lenta agonia del grande corso d’acqua siano state lanciate da tempo. Le riprese televisive girate dall’alto, in territorio siriano, dall’emittente televisiva asiatica Wion-News mostrano quello che era uno dei più possenti fiumi dell’Asia occidentale (ed anche il più lungo con i suoi quasi 2.800 chilometri di percorso) ridotto in alcuni tratti ad un piccolo torrente che si apre a fatica la strada tra lastre di fango indurito e corrugato. Le case che, prima si trovavano sulla riva, compaiono incongruamente a chilometri di distanza dall’acqua, nel mezzo del nulla, circondate da un deserto di polvere.

Secondo i funzionari locali della Fao (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) il 75 per cento dei raccolti del 2021 è andato distrutto in Siria, con punte del 90 per cento. Ora è il tempo dell’aratura della terra e della semina e i contadini rimasti non sanno cosa fare: se indebitarsi ulteriormente per comprare semenze e fertilizzanti, rischiando di trovarsi nell’estate del 2022 senza nulla in mano, ancora più poveri, affamati e assetati di prima, o se andarsene anche loro, aggiungendosi a quella metà della popolazione siriana già sfollata all’interno o all’esterno della patria. La maggior parte ha già deciso e abbandonato la propria casa.

I villaggi – sempre dalle riprese della Wion-News – appaiono vuoti, tranne qualche famiglia sparpagliata qua e là. Si tratta di una terra dove un tempo abitavano molti cristiani. A Um Gharqan vi era, fino a inizio secolo, una comunità prospera che viveva di agricoltura e allevamento grazie alle acque del fiume Khabour, un affluente dell’Eufrate, famoso nel XX secolo per le sue inondazioni, ed ora completamente essiccato. «Giuro su Dio che era il Paradiso ed ora è diventato sinonimo d’inferno», spiega, in un servizio televisivo, una signora assiro-cristiana mentre indica un canale – diventato uno scolo dove si accumula l’immondizia – che prima portava l’acqua a campi di grano, di cotone, di orzo, a frutteti lussureggianti, a pascoli per gli animali. La donna mostra sul suo cellulare una vecchia foto della chiesa del villaggio, avvolta dal verde di alberi imponenti: la chiesa è stata distrutta nel 2014 dai miliziani dell’Isis, ed attorno alle macerie vi è ora un paesaggio lunare che si estende per chilometri fino all’orizzonte.

https://www.terrasanta.net/2021/11/eufrate-in-secca-in-fuga-5-milioni-di-contadini-siriani/

venerdì 8 ottobre 2021

Escono nomi mediorientali dal vaso di Pandora

Premi Nobel e tanto scalpore per inchieste su corruzione e malversazioni-
 silenzio invece - e carcere - sul giornalismo investigativo dirompente di Assange...

Escono nomi mediorientali dal vaso di Pandora

Dall’enorme mole di documenti raccolti nell’inchiesta giornalistica chiamata «Pandora Papers», svelata il 3 ottobre, stanno emergendo i nomi di personaggi celebri che hanno collocato i propri patrimoni al riparo dal fisco, nei circuiti dell’economia offshore. L’inchiesta è stata realizzata da un consorzio investigativo di 600 giornalisti che hanno raccolto informazioni di diverse società di servizi finanziari con base nei paradisi fiscali e rivela nomi e operazioni di centinaia tra uomini di Stato e politici, personaggi sportivi e artisti di ogni parte del mondo. Compreso il Medio Oriente.

Spicca tra questi il nome del re di Giordania, Abdullah II. Dai documenti risulta che il sovrano hashemita ha creato una rete di società extraterritoriali, «nascondendo» un impero immobiliare che va dalla California a Washington, a Londra. Dato che la Giordania sta attraversando una fase economicamente molto difficile e riceve ingenti aiuti internazionali, anche a sostegno dei molti rifugiati presenti nel Paese e per attenuare l’impatto della pandemia, le rivelazioni sulle ricchezze di re Abdullah non sono passate inosservate. La casa reale ha dichiarato che le proprietà di lusso sono private e che non intaccano il bilancio pubblico del Paese. Negli elenchi dei Pandora Papers è in compagnia di altri regnanti del Golfo: dall’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, a Mohammed Al Maktoum, emiro di Dubai, oltre all’ex primo ministro del Bahrein, Khalifa Al Khalifa.

Più di 500 nomi israeliani

In Israele i riflettori sono puntati su Nir Barkat, il più ricco politico del parlamento israeliano (partito Likud), già sindaco per dieci anni di Gerusalemme fino al 2018. Dai documenti emerge che Barkat, una volta eletto membro della Knesset nel 2019, avrebbe dovuto vendere o cedere le proprietà a una persona estranea alla sua famiglia, secondo il codice etico del parlamento. Invece, i documenti rivelano che trasferì le azioni di diverse società al fratello Eli, oltre a svelare che è proprietario di azioni di una società non registrata in Israele, ma in un paradiso fiscale. Barkat ha dichiarato di essere vittima di attacchi politici e di avere sempre pagato le imposte dovute nel suo Paese.

Significativo il coinvolgimento nello scandalo anche di un’organizzazione dell’estrema destra religiosa, Ateret Cohanim, impegnata nella colonizzazione ebraica della parte orientale e palestinese di Gerusalemme. Risulta che, attraverso società di comodo registrate nelle Isole Vergini, ha acquistato proprietà immobiliari nei quartieri dove i palestinesi sotto occupazione non accettano quasi mai di trasferire ad israeliani le loro proprietà.

Scandalo libanese

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, globalmente la perdita fiscale causata da questi «paradisi» va dai 500 ai 600 miliardi di dollari all’anno. Una cifra enorme, sottratta ai sistemi fiscali di numerosi Paesi. Il caso più eclatante è quello del Libano, che, come Stato, sta affondando nei debiti, ha dichiarato default nel marzo 2020, ha visto crollare il valore della sua moneta e la maggior parte della popolazione finire sotto la soglia di povertà.

Risulta dai Pandora Papers che ben 346 società libanesi hanno occultato fondi su conti offshore, attraverso il Trident Trust, specializzato nelle domiciliazioni di società all’estero. Si tratta in assoluto del Paese al mondo con il maggior numero di imprese coinvolte. Sono perciò libanesi una parte considerevole degli 11 miliardi di dollari nascosti in paradisi fiscali come Cipro, le Seychelles e isole dei Caraibi.
Il neo primo ministro, Najib Mikati (musulmano sunnita), l’uomo più ricco del Libano grazie a società di telecomunicazioni, in carica da meno di un mese, è tra i personaggi coinvolti, insieme a Riad Salameh (cristiano maronita), da 28 anni a capo della Banca centrale libanese, all’ex primo ministro Hassane Diab e al banchiere Marwan Kheireddine. La società libanese è segnata più di altre da forti diseguaglianze: lo conferma un rapporto dell’Onu, secondo cui i miliardari detengono la stessa ricchezza del 62 per cento della popolazione. I primi ministri degli ultimi anni hanno fatto tutti parte di questa élite e l’immagine della classe dirigente del Paese dei cedri, già del tutto screditata, appare così ancora di più a pezzi. (f.p.)

https://www.terrasanta.net/2021/10/escono-nomi-mediorientali-dal-vaso-di-pandora/

venerdì 14 maggio 2021

Veglia di Pentecoste in preghiera per la pace in Terra Santa

 

Di fronte agli scontri tra Gaza e lo stato ebraico, e alla violenza tra ebrei e arabi in Israele, il Patriarcato latino di Gerusalemme invita a una preghiera di "intercessione urgente per la giustizia e la pace" il 22 maggio.

di Christophe Lafontaine

Dal 10 maggio, 122 palestinesi sono stati uccisi, tra cui almeno 31 bambini, e sette israeliani sono stati uccisi, tra cui un bambino. Cioè, dall'inizio dei raid di ritorsione israeliani sui razzi che Hamas ha lanciato in risposta alle violenze a Gerusalemme nelle ultime settimane. 

In questo contesto, dimostrazioni e rivolte si sono diffuse e intensificate negli ultimi giorni in tutto Israele, in particolare nelle città con forte popolazione palestinese. La minoranza dei palestinesi cittadini di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione israeliana, sono principalmente i discendenti dei palestinesi rimasti in Israele dopo la creazione dello stato ebraico nel 1948. La maggior parte di loro si sente vicina ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. Negli ultimi tre giorni, manifestanti palestinesi in Israele sono stati attaccati da ebrei nazionalisti e persone ebree sono state aggredite da rivoltosi palestinesi che sono cittadini israeliani, e le loro proprietà vandalizzate. 

Nei territori palestinesi, negli ultimi giorni ci sono stati scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i palestinesi all'ingresso della città cisgiordana di Ramallah, vicino all'insediamento ebraico di Beit El, e al checkpoint di Qalandia vicino alla stessa città. Scontri sono scoppiati anche tra l'esercito israeliano e i palestinesi nella città di Hebron. 

"In questo momento di disordini a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa", il Patriarcato latino di Gerusalemme, in collaborazione con il Comitato episcopale dei religiosi e l'Unione delle religiose, ha deciso di invitare "tutti i fedeli, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici a pregare insieme alla vigilia della festa di Pentecoste", il 22 maggio, nella Basilica di Santo Stefano dei Padri Domenicani a Gerusalemme. Sarà "una preghiera per i doni dello Spirito Santo, un'intercessione urgente per la giustizia e la pace", ha precisato la massima autorità cattolica in Terra Santa.

Città miste in Israele fratturate

Lod, 45 km a nord-ovest di Gerusalemme e sede dell'aeroporto internazionale Ben Gurion, (tutti i voli sono attualmente dirottati) è stata una delle città più colpite dalle violenze comunitarie in Israele. Più di un terzo dei suoi 80.000 residenti sono palestinesi che sono cittadini di Israele. La violenza è scoppiata martedì sera. Secondo il Times of Israel, tre sinagoghe, numerose imprese e decine di automobili sono state bruciate.  Il sindaco della città ha detto che anche il municipio e un museo locale sono stati attaccati. "Siamo sull'orlo della guerra civile", ha lamentato sul Times of Israel sulla scia dei disordini notturni, lamentando che "decenni di coesistenza tra ebrei e palestinesi cittadini di Israele in questa città mista sono crollati". Anche un cimitero musulmano è stato dato alle fiamme durante la notte. La situazione ha cominciato a deteriorarsi tra giovani palestinesi cittadini d'Israele e gruppi di ebrei estremisti nella città dopo che un cittadino palestinese d'Israele è stato colpito e ucciso da un residente ebreo lunedì a margine di una violenta protesta. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha condannato i disordini di Lod, definendoli un pogrom. L'11 maggio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato lo stato di emergenza a Lod.

Ieri, la televisione israeliana ha pubblicato un filmato di un gruppo israeliano di estrema destra che linciava un uomo arabo - presumibilmente solo perché era arabo - dopo aver fermato la sua auto e averlo lasciato incosciente e sanguinante in una strada di Bat Yam, vicino a Tel Aviv. Poco prima dell'incidente, dei video circolati su internet mostravano decine di persone che gridavano "Morte agli arabi".

Altre violenze tra ebrei e palestinesi cittadini d'Israele sono scoppiate nei giorni scorsi anche in diverse altre città del paese, come Haifa, Jaffa, Ramle, Kafr Kassem o Jisr al Zarqa, Wadi Ara, Hadera, città vicino a Cesarea. Anche a San Giovanni d'Acri, dove cittadini palestinesi di Israele hanno passato due ore a distruggere il negozio di un ebreo e infine a bruciarlo.

Oggi, il portavoce della polizia Micky Rosenfeld ha detto all'AFP che la violenza era a un livello che non si vedeva da decenni.

Il capo rabbino sefardita d'Israele in allarme

Il rabbino capo sefardita d'Israele Yitzhak Yossef ha chiesto la fine delle aggressioni commesse da alcuni ebrei: "Cittadini innocenti vengono attaccati da organizzazioni terroristiche, il cuore è pesante e le immagini difficili, ma non possiamo permetterci di essere trascinati in provocazioni e aggressioni", ha detto.   "I rivoltosi di Lod e Acre non rappresentano i cittadini palestinesi di Israele, i rivoltosi di Bat Yam (...) non rappresentano gli ebrei israeliani, la violenza non detterà le nostre vite", ha detto il leader dell'opposizione Yair Lapid, che sta cercando di formare una coalizione di unità nazionale.

Da parte sua, il PM Netanyahu ha notato in una dichiarazione che "ciò che sta accadendo nelle città di Israele negli ultimi giorni è insopportabile... niente giustifica il linciaggio degli arabi da parte degli ebrei e niente giustifica il linciaggio degli ebrei da parte degli arabi".  Il ministro della difesa Benny Gantz ha ordinato che 10 compagnie di riserva della polizia di frontiera siano schierate per sostenere gli sforzi della polizia per porre fine agli scontri nelle città ebraico-arabe in tutto il paese.

A Lod, San Giovanni d'Acri, Haifa, Tel Aviv-Jaffa, i politici locali arabi ed ebrei hanno lanciato un appello comune alla calma.

https://www.terresainte.net/2021/05/pentecote-priere-d-intercession-urgente-pour-la-paix/

Da Gaza

la testimonianza del parroco padre Gabriel Romanelli

giovedì 22 aprile 2021

Via le sanzioni per alleviare le sofferenze dei siriani

 

Siria: la più grave catastrofe umanitaria del nostro tempo


Il primo giugno scadono le sanzioni previste dell’Unione europea contro il regime siriano. Tutto fa pensare, purtroppo, che la misura verrà riconfermata. Le sanzioni Ue contro la Siria sono la fotocopia del cosiddetto Caesar Act, il pacchetto di sanzioni firmato da Donald Trump nell’ultimo scorcio del suo mandato e destinato a restare in vigore (a meno di ripensamenti) fino al 2025. Secondo le intenzioni dell’Unione europea e dell’amministrazione americana, le sanzioni dovrebbero colpire «i membri del regime siriano, i loro sostenitori e imprenditori che lo finanziano e beneficiano dell’economia di guerra». Il Caesar Act blocca ogni tipo di transazione economico-finanziaria-commerciale con Damasco, prevede un embargo sul petrolio, il congelamento dei beni della banca centrale siriana, restrizioni all’esportazione di attrezzature e tecnologie, blocco dei capitali privati nelle banche fuori dal Paese (solo nelle banche libanesi giacciono circa 42 miliardi di dollari). In pratica le sanzioni bloccano l’industria energetica e ogni tentativo di ricostruzione.

Vista nel concreto, la realtà siriana è completamente diversa. Sappiamo infatti che le sanzioni colpiscono alla fine, soprattutto, la povera gente. E solo una buona dose d’ipocrisia può portare a dire, come ha fatto l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, che Occidente resta al fianco del popolo siriano e continua nel suo impegno «a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per cercare una soluzione politica al conflitto a beneficio di tutti i siriani e porre fine alla repressione in corso».

In Siria, denunciava a febbraio l’arcivescovo greco-melchita di Aleppo, monsignor Jean-Clément Jeanbart «la gente non ha più cibo, elettricità, carburante e gas sufficienti per riscaldare le case. Non riesce a ottenere prestiti e andare avanti». Chi vuole il bene della Siria e del suo popolo, oggi, non può non chiedere ad alta voce che vengano revocate le misure coercitive che gravano sulla vita quotidiana dei siriani. «Se vogliono aiutarci – diceva monsignor Jeanbart – ci aiutino a rimanere dove siamo e a continuare a vivere nel Paese in cui siamo nati».

Il 21 gennaio scorso i vescovi cattolici e patriarchi ortodossi della Siria avevano indirizzato al neo-eletto presidente Joe Biden un appello affinché rivedesse il regime delle sanzioni. Finora sembra che la richiesta sia caduta nel vuoto. E sempre da Aleppo arrivava, nei giorni di Pasqua, la testimonianza fra Ibrahim Alsabagh, frate minore siriano e parroco della comunità cattolica latina di Aleppo: «La sofferenza è il nostro pane quotidiano. Il costo della vita aumenta e il reddito delle famiglie diminuisce. Molte delle nostre donne sono cadute in depressione. Molti padri si sono suicidati per la disperazione».

A tutta questa sofferenza indicibile, si è aggiunta la pandemia, che sta mietendo nel silenzio e nell’impotenza migliaia di vittime. Cosa serve ancora per ascoltare il grido del popolo siriano?

https://www.terrasanta.net/2021/04/via-le-sanzioni-per-alleviare-le-sofferenze-dei-siriani/

domenica 6 dicembre 2020

Siria, il decimo Natale senza pace

Nella dimenticata Siria da dieci anni di terrorismo, di guerra e ora di fame a causa delle sanzioni imposte dagli Usa. 

L’articolo si riferisce alla zona dove prima della guerra vivevano 1200 famiglie cristiane, mentre ora ne sono rimaste solo 300: la cancellazione della presenza cristiana in Siria è uno degli obiettivi degli amici degli Usa nel Vicino Oriente. 

Maurizio Blondet , 5 dicembre 2020

Idlib, noi prigionieri nella roccaforte dell’Isis 

Si parla poco oggi della Siria, siamo lontano dai riflettori. Direi che siamo messi ai margini. Per chi come noi vive nella provincia di ldlib, la situazione è ormai la stessa da tempo: tutte le strade sono completamente chiuse, non si passa né verso la parte controllata dalle forze siriane né verso la Turchia. Siamo come naufraghi su un’isola. 
Da una parte è un male, dall’altra è un bene. È un male, perché non abbiamo letteralmente più nulla. La vita è carissima e la gente è alla fame: per vivere una famiglia avrebbe bisogno almeno di 600 dollari al mese, ma un capofamiglia arriva a guadagnarne appena 30. Così è aumentata la criminalità: moltissimi rubano per necessità e per fame. L’unica possibilità di sussistenza è legata al lavoro agricolo, ma le campagne sono insicure perché vengono bombardate o si rischiano incursioni da parte delle milizie islamiche che controllano la regione. Tutto si compra e si vende al mercato nero.
La tregua decisa da turchi e russi lo scorso 5 marzo, per favorire il ritorno degli sfollati, tiene, anche se ogni giorno ci sono violazioni, sia da parte dei combattenti jihadisti che non vogliono la pace e che boicottano la riapertura della vicina autostrada M4, sia da parte delle forze governative e russe.

Oggi nella provincia di Idlib resta a malapena un milione persone, molto meno della metà dei suoi abitanti, perché 2 milioni sono fuggiti in Turchia. Chi è rimasto vive giorno per giorno, senza pensare al futuro, perché il futuro è un’ipotesi.
Resta forte la presenza dei ribelli jihadisti anti-Assad, che, cacciati dalle altre zone del Paese riconquistate dall’esercito regolare, si sono rifugiati qui. Chi di loro lascia il territorio lo fa per andare a combattere da mercenario, ad esempio in Libia o nello Yemen, o per ingrossare le fila dei combattenti islamici nelle regioni russe del Caucaso. Altri ancora entrano in una sorta di milizia che lo Stato islamico sta formando con le risorse fornite da Qatar e Turchia. Il territorio continua a essere pattugliato dai combattenti che arrivano quando meno te lo aspetti. Non hanno basi riconoscibili, per paura di essere bombardati dall’aviazione russa. Hanno scavato rifugi sotterranei o si servono di grotte per celare la loro presenza e i loro arsenali.
Nessuno in realtà sa dove siano! 

L’aspetto sanitario, paradossalmente, è quello meno preoccupante rispetto al resto della Siria. La chiusura totale della provincia di ldlib, il blocco delle strade, ha impedito finora il propagarsi del Covid-19, se non in qualche sporadico caso subito isolato.Non abbiamo smesso di celebrare, le chiese sono aperte… Non abbiamo chiusa neanche una porta.

l cristiani della valle dell’Oronte, nelle nostre residue comunità cristiane, vivono quasi solamente degli aiuti esterni. Cerchiamo di provvedere ai più poveri soprattutto con aiuti alimentari che acquistiamo attraverso le donazioni che arrivano dalla Custodia e dai benefattori. La vera sfida oggi è tenere unite le famiglie, custodire chi è rimasto e garantire la trasmissione della fede in un contesto fortemente islamizzato.

Nei villaggi della valle dell’Oronte sono rimaste circa 300 famiglie cristiane, con una trentina di ragazzi in età scolare. La dimensione della tragedia sta tutta in questi numeri: prima della guerra la comunità cristiana delle nostre tre parrocchie contava oltre 1.200 nuclei familiari.

fra Hanna Jallouf, francescano della Custodia di Terra Santa in Siria

mercoledì 27 maggio 2020

Da Assad bacchettate agli oligarchi: un'opportunità per una Siria migliore

di Fulvio Scaglione
27 maggio 2020

All’ombra della tregua imposta a Idlib dalle pressioni internazionali e dal coronavirus, a Damasco partono i primi regolamenti di conti tra il presidente Bashar al-Assad e gli oligarchi che, negli anni tremendi della guerra, hanno accresciuto le proprie fortune e, soprattutto, hanno preteso di proiettare qualche ombra sul vertice siriano. Le due cose vanno di pari passo. L’economia della Siria è a pezzi e il contesto esterno non fa che accrescere le già enormi difficoltà. Le sanzioni americane ed europee bloccano gran parte dei commerci e degli investimenti. E la profonda crisi finanziaria del Libano, con il blocco delle attività bancarie, fa il resto, visto che almeno un terzo della liquidità in dollari dei siriani giace in quei forzieri ora inservibili. La lira siriana sprofonda: 48 lire per un dollaro prima della guerra, 700 per quasi tutti gli anni del conflitto, 1.200 adesso.
Assad ha quindi l’assoluta necessità di tenere sotto controllo le risorse del Paese. Le speculazioni personali, prima tollerate come strumento di costruzione del consenso, ora non sono più (tutte) permesse. Soprattutto se chi ha ammassato miliardi speculando sulla benevolenza del regime e sull’economia di guerra aspira a un ruolo che non gli compete.
Il caso più clamoroso è quello di Rami Makhlouf, cugino di Assad e nipote di Anisa Makhlouf, moglie di Hafez al-Assad. Makhlouf è l’uomo più ricco della Siria, tanto che prima del conflitto gli si attribuiva, forse esagerando, il controllo più o meno diretto del 60 per cento delle attività economiche del Paese. È noto come proprietario di Syriatel, una delle due compagnie telefoniche nazionali, ma i suoi interessi spaziano dall’immobiliare al petrolio, dal commercio alla televisione, in pratica ovunque ci sia da guadagnare. In Siria ma anche nel vicino Libano, dove possiede alberghi di lusso e catene di ristoranti.
Makhlouf ha goduto per lungo tempo del favore di Assad, ovviamente. Ma negli ultimi tempi, come si usa dire, si è un pò allargato. Non si tratta delle spacconate da super-ricco cui era abituato un tempo (per esempio, le foto circondato dalle Ferrari del suo parco macchine) e a cui non sanno rinunciare i suoi figli Muhammad e Alì, che si sono vantati su Facebook di avere due milioni di dollari ciascuno nel conto corrente. Sbrodolate che, in una Siria quasi alla fame, con metà della popolazione ancora sfollata o rifugiata all’estero, sono di pessimo gusto e anche poco furbe. Gli errori “pesanti” di Makhlouf sono di altro genere.
Il cugino ricco di Assad, durante la guerra, ha creato una milizia che è arrivata a contare diverse migliaia di uomini. Una formazione armata che, pagata milioni di dollari dal governo siriano, avrebbe dovuto difendere una serie di campi petroliferi e impianti per la distribuzione del gas naturale come quello di Hayyan, che riforniva un terzo della Siria. Avrebbe, perché nella realtà è passata da un fallimento all’altro, il più clamoroso proprio ad Hayyan, dove l’impianto da 300 milioni di dollari fu fatto saltare in aria dai terroristi dell’Isis. Di quella milizia, però, Makhlouf ha provato a servirsi anche per costruirsi un’influenza presso la comunità alawita, alla quale si è proposto (tra l’altro, con donazioni in denaro e in generi di prima necessità) come protettore e come leader para-religioso, in nome di un maggiore avvicinamento alla comunità sciita. Operazione sul fronte interno del tutto speculare a quella condotta sul fronte esterno, in particolare in Libano, dove Makhlouf ha stretto i rapporti con Hezbollah, anche a suon di dollari. Altro passo falso, perché Assad, alawita e laico, tutto vuole tranne che nella sua comunità d’origine venga seminato il germe della divisione e dell’integralismo.
Così Assad ha cominciato a tirare le briglie. Syriatel è stata investita da una serie di ispezioni finanziarie che hanno rivelato un sistema per caricare i bilanci di spese fasulle e quindi ridurre l’imponibile per la tassazione. Il governo ha disdetto una serie di contratti che aveva con le aziende di Makhlouf. Le scuole private che l’oligarca possedeva a Damasco sono state nazionalizzate. La sua milizia sciolta. A buon intenditor…